Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

CONCORSOPOLI

 

ED ESAMOPOLI

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

L'ITALIA DELLE RACCOMANDAZIONI, DEI FAVORITISMI,

DEGLI ESAMI E DEI CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI

MAGISTRATI, NOTAI, AVVOCATI

ED OGNI ALTRA PUBBLICA FUNZIONE:

SELEZIONE NATURALE, COL TRUCCO !!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

(* Per l’esame truccato di avvocato, qui accennato, ho scritto appositamente un libro a parte).

 

Di Antonio Giangrande

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

 

 

SOMMARIO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

INTRODUZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

DA GRANDE VOGLIO FARE IL POSTO FISSO. I MEGA CONCORSI.

LA STABILIZZAZIONE DEGLI AMICI SENZA CONCORSO PUBBLICO O CON CONCORSO FARSA.

RACCOMANDAZIONE E PRECARIATO.

IL PARADOSSO DEI CONCORSI PUBBLICI (TRUCCATI): NON ESSERE ASSUNTI.

I PRECARI DI STATO.

ABILITATI, SENZA POSTO.

IL PARADOSSO. RICERCATORI UNIVERSITARI BOCCIATI ALL’ABILITAZIONE MA COSTRETTI AD INSEGNARE.

LA FARSA DEGLI ESAMI SCOLASTICI.

L'ITALIA DEI FAVORITISMI (ANCHE IN FAMIGLIA).

CONCORSO INFINITO: CONCORSO TRUCCATO!

IL FASCINO DEL CONCORSO PUBBLICO E DEGLI ESAMI DI STATO (TRUCCATI).

LA REPUBBLICA DEI BROCCHI NEL REGNO DELL'OMERTA' E DEL PRIVILEGIO.

LA FINE DI UNA VITA FATTA DI BOCCIATURE.

VERONICA PADOAN ED IL RIBELLISMO DEI FIGLI DI PAPA’.

IL FAMILISMO AMORALE ED IL COOPTISMO AMORALE.

CERVELLI IN FUGA.

PARLIAMO DELLA PROVA DI IDONEITA’ PROFESSIONALE PER GIORNALISTI.

PURE I VIGILI DEL FUOCO CON IL CONCORSO TRUCCATO…

CONCORSI PUBBLICI: E' NORMALE CHE...?

AGENZIA DELLE DOGANE, AGENZIA DELLE ENTRATE, FORZE DELL'ORDINE, INPS: LA BEFFA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE SENZA CONCORSO PUBBLICO O CON CONCORSO TRUCCATO.

PARLIAMO DELL'ESAME TRUCCATO DI COMMERCIALISTA E FARMACISTA.

MEDICINA. IL TEST D’INGRESSO ALL’UNIVERSITA’? TRUCCATO!

ABOLITE I CONCORSI PER I MEDICI, VINCONO SEMPRE I RACCOMANDATI.

MEDICI SPECIALIZZATI ED IL CONCORSO TRUCCATO.

I MEDICI DI FAMIGLIA ED IL CONCORSO TRUCCATO.

DALL’ACCESSO A NUMERO CHIUSO ALLE UNIVERSITA’ FINO ALLE LISTE D’ATTESA. IL RACKET DEI BARONI DELLA MEDICINA.

IL NUMERO CHIUSO ALLE UNIVERSITA’.

IL RACKET DEI BARONI. LISTE D’ATTESA OD ESTORSIONE MEDICA?

LA TRUFFA DEI TEST D'AMMISSIONE. DA PARTE DI CHI: DI CHI IMPEDISCE L'ACCESSO O DI CHI CERCA LA SCORCIATOIA?

PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONI NEI CONCORSI PUBBLICI E NELLE ABILITAZIONI DI STATO.

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

LA CERTEZZA DEL DIRITTO ED IL CONCORSO DEL REATO? GLI OCCHI DI REPORT SUI MAGISTRATI E LA RAI SI SPAVENTA.

SENZA CONCORSO PUBBLICO. LA PARENTOPOLI DELL’ANTIMAFIA E GLI INCARICHI FIDUCIARI NEI TRIBUNALI.

LA MORIA DEGLI AVVOCATI.

TUTTO PER MERITO...NIENTE PER RACCOMANDAZIONE.

MAMMA RAI, SPECCHIO D’ITALIA, FONDATA SULLA SELEZIONE TRUCCATA O SULL’ALBERO GENEALOGICO?

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

LA LEGGE NON E' UGUALE PER TUTTI.

CONCORSI TRUCCATI. PATOLOGICO? NO, FISIOLOGICO!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

CHI E’ IL MAGISTRATO?

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

L’ESAME PER GUIDE TURISTICHE E L’INAFFIDABILITA’ DELLE COMMISSIONI DI ESAME.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

VUOI CANTARE? IL CONCORSO E' TRUCCATO.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

CONCORSI TRUCCATI E NOMINE AD HOC PER TROMBATI E RICICLATI. ECCO PERCHE’ I POLITICI FAN FINTA DI NIENTE.

ESAMI E CONCORSI PUBBLICI: LA VIOLAZIONE DI OGNI REGOLA MORALE E GIURIDICA.  

COME SI DIVENTA MAGISTRATI: CHIEDETELO AD ANTONIO DI PIETRO.

MAGISTRATI PEGGIO DEI POLITICI. IL CSM DEI RACCOMANDATI ED I MAGISTRATI DIVENUTI TALI COL TRUCCO.

MAGISTRATI. SI DIVENTA COL TRUCCO.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.

LA MAFIA DEI CONCORSI PUBBLICI E DEGLI ESAMI DI STATO E L’OMERTA’ DEI MEDIA.

MAGISTRATURA: COME TI INSABBIO LE DENUNCIE PER UN CONCORSO TRUCCATO.

CONCORSO TRUCCATO IN REGIONE.

CONCORSO TRUCCATO AL MINISTERO DEGLI ESTERI: PER DIPLOMATICI.

CONCORSO TRUCCATO AL MINISTERO DEGLI ESTERI: PER INSEGNARE ALL’ESTERO.

CONCORSI TRUCCATI E PARENTOPOLI ALL'AGENZIA DEL DEMANIO.

PARLIAMO DEL CONCORSO IN POLIZIA.

CONCORSO TRUCCATO PER LA POLIZIA PENITENZIARIA.

LA NOMINA DEI PRESIDENTI DI SEGGIO E DEGLI SCRUTATORI.

CONCORSI TRUCCATI ED ESAMI DI STATO: LA GARA ALL’IMPUDENZA.

CONCORSO TRUCCATO ALLE ASL.

ASL MONZA BRIANZA. CONCORSO PER OSTETRICHE: CONCORSO TRUCCATO?

ESAMOPOLI E CONCORSOPOLI. ABOGADOS ED AVOCAT, GLI AZZECCAGARBUGLI ITALIANI NON LI VOGLIONO.

DISOCCUPATO PERCHE’ SBIRRO.

CONCORSI TRUCCATI PURE IN GERMANIA.

I FURBETTI DELLE BORSE DI STUDIO.

PARLIAMO DEL CONCORSO DELLA GUARDIA DI FINANZA.

ALLA DOGANA IL CONCORSO E’ COL TRUCCO.

CHI SA, PARLI? ALLORA CONFESSINO TUTTI!!

PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.

LE TOGHE IGNORANTI.

A PROPOSITO DEI COPIONI ALL’ESAME DI AVVOCATO A LECCE.

AVVOCATI, MA ANCHE NOTAI E MAGISTRATI….COSI’ FAN TUTTI. COPIARE.

PARLIAMO DELLA POLIZIA LOCALE. CONCORSI PUBBLICI PER VIGILI URBANI.

CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI. LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.

ASSISTENTI PARLAMENTARI COL TRUCCO E L’IMPORTANZA DI AVERE UN QUESTORE IN PARLAMENTO.

CONTRORIFORMA FORENSE CONTRO I GIOVANI. AVVOCATURA: ROBA LORO IN PARLAMENTO. ALBI ED ORDINI DI STAMPO FASCISTA REITERATI DA LIBERALI E COMUNISTI.

QUANDO A FARE LE LEGGI SONO I NONNI CORPORATIVI IN PARLAMENTO. IMPEDIMENTO ALL’ACCESSO IN AVVOCATURA CON ESAME (TRUCCATO) E AGGRAVATO, CONSEGUITO IN ITALIA E RESISTENZA CONTRO L’ABILITAZIONE ESTERA.

CARABINIERI: TANGENTI PER ANDARE IN MISSIONE E LO SCANDALO DEL CONCORSO PER IL QUALE I VINCITORI RESTANO A CASA.

POCHI LUPI CON TANTE PECORE. ORDINI PROFESSIONALI E FUNZIONI PUBBLICHE, SE L’ESAME DI STATO DIVENTA UNA BEFFA O UNA TRUFFA ED I RESPONSABILI CRIMINALI IMPUNITI VANNO A PARLAR NELLE SCUOLE DI LEGALITA’.

PARLIAMO DI IMPUNITA'.

PARLIAMO DI FAVORITISMO ALLE ASSOCIAZIONI DI VOLONTARIATO. SOLITA TOLFA. LA SINISTRA NELLE SCUOLE A PARLAR DI LEGALITA’.

MAFIOSO E' CHI TI OBBLIGA OD IMPEDISCE DI ESSERE O DI FARE.

ASSOCIAZIONI DEI CONSUMATORI: 47 MILIONI DI FINANZIAMENTO DI STATO PER FARE ANTISTATO.

PARLIAMO DEI FAVORI ALLA POLITICA.

PARLIAMO DEI FAVORI AI SINDACATI.

PARLIAMO DEI FAVORI ALLA CASTA DELLE ASSOCIAZIONI DEI CONSUMATORI.

PARLIAMO DEI FAVORITISMI AL TERZO SETTORE. LE ONLUS.

PARLIAMO DI POLTRONOPOLI. AMICI E PARENTI, L’ALTRA CASTA NELLE MUNICIPALIZZATE.

PARLIAMO DI LAVORO. L’ITALIA DEGLI SFIGATI, DEI BAMBOCCIONI E DEGLI SCHIZZINOSI.

PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONE E CONCORSI TRUCCATI IMPUNITI: FAMILISMO, NEPOTISMO, CLIENTELISMO.

PARLIAMO DELLA RACCOMANDAZIONE: TUTTI LA RINNEGANO; TUTTI LA CERCANO.

UNA GENERAZIONE A PERDERE.

SIAMO UN PAESE DI FIGLI E FIGLIASTRI.

SE LA CASTA E' DENTRO DI NOI.

LA MAFIA DELLE RACCOMANDAZIONI. MARTONE, LE VITTIME, SFIGATI A PRESCINDERE.

RACCOMANDAZIONE E LUOGO COMUNE.

ITALIANI: RACCOMANDATI E PURE BUGIARDI.

PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONE: FAMILISMO, NEPOTISMO, CLIENTELISMO. LE CERTEZZE E GLI STUDI EFFETTUATI.

DEFINIAMO LA RACCOMANDAZIONE.

I PARENTI ECCELLENTI DELLA POLITICA: DALLE DINASTIE PERPETUE A CHI 'SISTEMA' I FIGLI NEGLI UFFICI O LE MOGLI IN PARLAMENTO.

RACCOMANDATO E PARENTE.

UNISALENTO: IL GIOCO DELLE PARTI.

CONCORSI ACCADEMICI TRUCCATI IN ITALIA.

CONCORSI TRUCCATI: DIMOSTRAZIONE MATEMATICA.

L'UNIVERSITA', AFFARE DI FAMIGLIA.

PARLIAMO DEL CONCORSO PUBBLICO PER DIVENTARE DOCENTI.

INSEGNANTI E DIRIGENTI SCOLASTICI (Presidi), concorso col trucco.

PARLIAMO DI INSEGNANTI DI SOSTEGNO AI DISABILI.

BIDELLOPOLI E SUPPLENTOPOLI.

PARLIAMO DEL CONCORSO PER IL CORPO FORESTALE.

PARLIAMO DEL CONCORSO AL MINISTERO DELLA DIFESA.

INCHIESTA ESCLUSIVA. PARLIAMO DELLE RIFORME CHE NESSUNO VUOLE.

ANTONIO GIANGRANDE: VI SPIEGO COME IN ITALIA SI TRUCCANO I CONCORSI PUBBLICI. IL VADEMECUM DEL CONCORSO PUBBLICO TRUCCATO.

CONCORSO TRUCCATO ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE.

LA CORTE DI CASSAZIONE E LA CORTE COSTITUZIONALE AVALLANO L'ILLEGALITA'.

CONCORSO TRUCCATO NELL'AVVOCATURA DI STATO.

CONCORSO TRUCCATO NEL NOTARIATO.

LA MAFIA DELLE RACCOMANDAZIONI. MARTONE, LE VITTIME, SFIGATI A PRESCINDERE.

PROFESSIONI: ANTITRUST CONTESTA A 12 CONSIGLI DEGLI ORDINI DEGLI AVVOCATI POSSIBILI INTESE RESTRITTIVE DELLA CONCORRENZA.

NONOSTANTE I CONCORSI TRUCCATI PER DIVENTARE AVVOCATO.

VIVIAMO NEL PAESE DELLE CASTE.

L'ORDINE NON SI TOCCA.

UNO STUDIO SUI PROBLEMI DEGLI ORDINI.

QUELLE BARRIERE PER GLI ASPIRANTI AVVOCATI. I COGNOMI DI UNA PROFESSIONE. CHI CORREGGE LE PROVE DI AMMISSIONE.

CONTI PUBBLICI E LIBERALIZZAZIONI. L’INCHIESTA: LA PREVALENZA DEL “FAMILISMO”.

PARLIAMO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA. SONO LORO A DOVER SVELARE I CONCORSI TRUCCATI. CONCORSI TRUCCATI PER I MAGISTRATI AMMINISTRATIVI.

PARLIAMO DI CHI DOVREBBE PERSEGUIRE I REATI PER I CONCORSI TRUCCATI. CONCORSI TRUCCATI IN MAGISTRATURA.

CONCORSI TRUCCATI? LO CONSTATA LA MAGISTRATURA.

COMMISSIONE: COMPONENTI NECESSARI. COPIATURE - TRACCE CONOSCIUTE - PARERI DETTATI IN AULA DAI COMMISSARI. DIFFORMITA’ DI GIUDIZIO E DISPARITA' TERRITORIALI. TEMPO DI CORREZIONE INSUFFICIENTE.

MOTIVAZIONE AL GIUDIZIO NUMERICO.

IMPEDIMENTO ALL'ACCESSO AL GRATUITO PATROCINIO PRESSO IL TAR PER LE VITTIME DI UN CONCORSO TRUCCATO.

DAL CONCORSO TRUCCATO AL RAPPORTO TEMPESTOSO TRA CITTADINI E FISCO

  

 

 

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

DA GRANDE VOGLIO FARE IL POSTO FISSO. I MEGA CONCORSI.

A chi votare?

Nell’era contemporanea non si vota per convinzione. Le ideologie sono morte e non ha senso rivangare le guerre puniche o la carboneria o la partigianeria.

Chi sa, a chi deve votare (per riconoscenza), ci dice che comunque bisogna votare e votare il meno peggio (che implicitamente è sottinteso: il suo candidato!).

A costui si deve rispondere:

Votare a chi non ci rappresenta? Votare a chi ci prende per il culo?

I disonesti parlano di onestà; gli incapaci parlano di capacità; i fannulloni parlano di lavoro; i carnefici parlano di diritti.

Nessuno parla di libertà. Libertà di scegliersi il futuro che si merita. Libertà di essere liberi, se innocenti.

La vergogna è che nessuno parla dei nostri figli a cui hanno tolto ogni speranza di onestà, capacità, lavoro e diritti.

Fanno partecipare i nostri figli forzosamente ed onerosamente a concorsi pubblici ed a Esami di Stato (con il trucco) per il sogno di un lavoro. Concorsi od esami inani o che mai supereranno. Partecipazione a concorsi pubblici al fine di diventare piccoli “Fantozzi” sottopagati ed alle dipendenze di un numero immenso di famelici incapaci cooptati dal potere e sostenuti dalle tasse dei pochi sopravvissuti lavoratori.

Ai nostri figli inibiscono l’esercizio di libere professioni per ingordigia delle lobbies.

Ai nostri figli impediscono l’esercizio delle libere imprese per colpa di una burocrazia ottusa e famelica. Ove ci riuscissero li troncherebbero con l’accusa di mafiosità.

Ai nostri figli impediscono di godere della vita, impedendo la realizzazione dei loro sogni o spezzando le loro visioni, infranti contro un’accusa ingiusta di reato.

E’ innegabile che le nostre scuole e le nostre carceri sono pieni, come sono strapieni i nostri uffici pubblici e giudiziari, che si sostengono sulle disgrazie, mentre sono vuoti i nostri campi e le nostre fabbriche che ci sostentano.

L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. E non sarei mai votato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Si deve tener presente che il voto nullo, bianco o di protesta è conteggiato come voto dato.

Quindi io non voto.

Non voto perché un popolo di coglioni votanti sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Informato da chi mette in onda le proprie opinioni, confrontandole esclusivamente con i propri amici o con i propri nemici. Ignorata rimane ogni voce fuori dal coro.

Se nessuno votasse?

In democrazia, se la maggioranza non vota, ai governanti oppressori ed incapaci sarebbe imposto di chiedersi il perché! Allora sì che si inizierebbe a parlare di libertà. Ne andrebbe della loro testa…

Da grande voglio fare il posto fisso: sei davvero chi avresti voluto essere? Scrive Maria Piacente il 6 febbraio 2018 su v-news.it. “L’ Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”, recita l’articolo 1 della nostra Costituzione. Non si è mai capito se fosse una presa per i fondelli, una promessa o una speranza. A dare uno sguardo rapido e superficiale fuori dalla finestra, sembra comunque ancora un’utopia più che una certezza. I dati Istat relativi ad agosto del 2017 registrano un tasso di disoccupazione dell’11,2% e, a dirla tutta, non è questo il vero dato negativo e allarmante. Si è tanto parlato di una presunta ripresa economica dell’Italia e dell’occupazione giovanile in crescita, ma quello su cui si discute ancora poco e che andrebbe detto con una buona dose di doverosa e legittima rabbia, è che tra disoccupazione ed occupazione c’è una varietà di sfumature che merita analisi e approfondimenti. Perché purtroppo, i fatti ci dicono che, tra gli “occupati”, ci sono prevalentemente adulti ultracinquantenni, stanchi e strutti, che tardano ad andare in pensione e giovani che stentano a costruirsi un futuro perché oberati di prestazioni a chiamata, stage, apprendistato, tirocini non pagati e che credono ad ognuno di essi ogni volta, come fosse la prima. Come fosse quella della svolta. Quella del “stavolta mi sistemo”, del “posso stare senza pensieri, ho già seminato e ora è tempo di raccogliere i frutti dei miei investimenti”. Investimenti che sono di natura economica, temporale, psicologica, affettiva. Investimenti che sono sacrifici. Quei sacrifici “a buon rendere” ma che non rendono mai. E anche se il lavoro è tale perché, per definizione, prevede uno scambio tra una prestazione di natura manuale o intellettuale e una retribuzione, è altrettanto vero che oggi, se si è fortunati a lavorare, quasi mai facciamo il lavoro che sognavamo, per cui ci sentivamo inclini. E quindi, se sei tra gli eletti e percepisci uno stipendio o qualcosa che vagamente gli somigli, devi comunque fare i conti con lo scarto che c’è tra quello che sei e quello che avresti voluto essere. E non è roba di poco conto. “Cosa vuoi fare da grande?”  – Chiede un prete insegnante di religione alla sua scolaresca. E così a turno, ecco i bambini pronunciare con orgoglio i loro sogni: “La veterinaria, il musicista, lo scienziato”. “E tu, Checco, cosa vuoi fare da grande?” “Io da grande voglio fare il posto fisso, come te”. Questa scena tratta dalla commedia “Quo Vado” recitata da Zalone ha quella drammaticità ironica, quella spudoratezza, quella sincerità che caratterizzano tutti i suoi film. In particolare questo è rivelatore, specchio del funzionamento del nostro Paese, soprattutto della realtà meridionale. Ma cos’è davvero il posto fisso, questo mito archetipico da cui ci sentiamo attratti, verso cui bramiamo? È la sicurezza della quotidianità. È la garanzia di arrivare a fine mese, ma anche alla fine dell’altro e dell’altro ancora. È il porto sicuro, la zona di comfort, quella che circoscrive il perimetro del nostro essere e del nostro saper fare e non ci chiede di più. Al posto fisso noi bastiamo così: ci facciamo una promessa, una specie di giuramento, un contratto e staremo insieme per tutta la vita. In realtà io nemmeno lo dovrei sapere cos’è il posto fisso, quando sono nata si era già estinto. Beati coloro che ne hanno goduto e che hanno anche la sfacciataggine di ostentare che i loro non erano i “tempi d’oro”, erano loro ad essere migliori. Spesso mi sono imbattuta in discussioni di questo genere e a sostegno di questa tesi la più gettonata delle argomentazioni era “Voi non capite che avete più opportunità”.  Sublime. Applausi. Ovazione del pubblico.  Ho provato ad analizzare questa frase e a scorgervi una qualche logica intrinseca, un senso qualunque. Il compromesso, per quanto forzato, che sono riuscita a trovare è stato appunto che una quotidianità che si presenta sempre uguale è rassicurante ma anche triste. Non subendo drastiche alterazioni, non ci costringe a reinventarci continuamente. E dunque non è il posto ad essere fisso, saremmo noi in quel caso ad essere fissi, bloccati in una stagnante immobilità.  Ma anche qui, nonostante la lettura romanzata di quello che voleva essere semplicemente l’ammonimento di un adulto stile “non manca il lavoro, manca la voglia di lavorare” mi viene da obiettare che abbiamo forse più opportunità di essere, magari anche di fare, ma è sufficiente per essere “accolti” nel mondo del lavoro? Il mercato del lavoro oggi è spietato. Puoi veramente inventarti mille cose ma devi sperare che una sola funzioni e ti garantisca un minimo di sostentamento. Una ne pensiamo e ne facciamo cento, come il diavolo. Studiamo per essere qualcuno, lavoricchiamo per pagarci gli studi e non gravare sulla nostra famiglia e alla fine non siamo veramente né studenti, né lavoratori. Perché l’Università la seguiamo a singhiozzi e il lavoro non è tale da farci cullare sulla convinzione di avercela fatta.  Cani che si mordono la coda. Anime alla deriva. Barche controcorrente, come diceva Fitzgerald. Andare all’Università è un privilegio o una dannazione? Non lo so più. Ho sempre sostenuto la bontà della scuola come istituzione, l’educazione di cui si fa promotrice, la collettività che istruisce e che incanala verso altre vie. Ci prende poveri e ci fa uscire ricchi: di cultura, di saperi, di conoscenze, di competenze. Ma quanto è vero? Si interessa veramente a noi? Mira davvero a promuoverci come individui, a svelare i nostri talenti e ad incoraggiarli e supportarli? Ho spesso il sentore che sia diventata un semplice distributore di saperi, nemmeno poi così validi. Perché nel sostenere il motto (giusto, per carità) della continua preparazione, giacché nella vita non si finisce mai di imparare, alla fine non fa che rimarcare il nostro senso di inadeguatezza. Non siamo ancora abbastanza. Siamo ancora inopportuni, incompleti, povere larve che stentano a diventare farfalle. L’ università non ci dà tutto quello che dovrebbe darci, ma potrebbe farlo. In questo fallisce, profondamente. La regola del “Chi fa da sé, fa per tre”, la vince ancora. Se non approfondisci per conto tuo, non compri altri libri, non fai corsi aggiuntivi, la tua preparazione è veramente sterile se paragonata ad un mercato combattivo e agguerrito, pronto ad accaparrarsi l’ultima fetta di torta. E per quell’ultima fetta, noi funzioniamo al ribasso. Siamo cioè disposti a fare il più possibile per un tornaconto anche misero perché conta la visibilità, farsi conoscere, emergere dagli abissi dell’anonimato, combattere la guerra del “homo homini lupus”. E così continui a lavorare per quattro soldi per quei libri in più, quei corsi aggiuntivi, quei master, quelle specializzazioni, sperando di approntare medaglie al valore sul tuo curriculum che nessuno considererà perché, intanto, non avrai maturato la giusta esperienza sul campo. E il tempo passa, tiranno anche lui. E se avessi cominciato a lavorare prima per quello che avrei davvero voluto fare? Ti avrebbero richiesto un pezzo di carta e delle conoscenze teoriche di base che non avresti avuto per la fretta di rimboccarti le maniche. Dottori non si nasce, ci si diventa. Ed il gioco è tutto lì: troppo presto, troppo tardi. Prima la realizzazione professionale, poi una famiglia. Ma poi sarò vecchio per farmene una. E allora prima la famiglia. E come la campo una famiglia? Questa specie di arrampicata sociale che facciamo noi contro noi stessi, visto che il tessuto sociale non è supportivo, ci allontana o avvicina al nostro futuro? “Regina, reginella, quanti passi dobbiamo fare per arrivare al tuo castello?” Fai un lavoro qualunque per pagarti le spese perché devi fare necessariamente un tirocinio per il quale però non ti pagheranno, o fingeranno abilmente di pagarti, anche se tu offrirai le tue prestazioni senza finzioni. E soprattutto non ti azzardare a lamentarti di avere un lavoro remunerato che ti risarcisce del lavoro (perché anche il tirocinio è un lavoro) per cui non vieni pagato perché, appunto, “almeno hai un lavoro”. Scusate il gioco di parole, ma i fatti stanno esattamente così. Il problema è che in Italia non c’è una linea di demarcazione definita delle risorse di cui si dispone e si possono offrire e di quelle in cui siamo manchevoli ma di cui necessitiamo. Avere prima questa consapevolezza potrebbe aiutare ad indirizzare meglio le nostre scelte, per quanto ovviamente valga sempre il monito di fare quello che si vuole fare nella vita. Ma almeno in quel caso ci si farebbe due conti approssimativi sulla possibilità di realizzarsi qui o di espatriare. Perché noi non vogliamo essere etichettati solo come quelli che hanno maggiori opportunità. Vogliamo avere anche l’opportunità di concretizzare le opportunità. Di farle nascere, farle valere. Altrimenti sono fini a loro stesse. Con rammarico mi rivolgo alla mia amica che lavora 10 ore al giorno, 6 giorni su 7, per 450 euro al mese, all’ amica che è al suo terzo “tirocinio”, a chi si accontenta delle briciole, a chi lavora per il “punteggio”, a chi lascia casa ma spera che poi verrà trasferito, a chi si è dato per vinto e ha abbandonato gli studi per il lavoro che non gli piaceva ma lo fa come se fosse ciò che aveva sempre desiderato. A chi fa tre lavori ma non “appara” uno stipendio.  A me stessa, soprattutto, per ricordarmi che puoi anche smettere di credere in qualcosa, se non l’hai elaborata ti perseguiterà, ti investirà, pretenderà considerazione. E tu gliela dovrai dare. Perché possono tenersi pure il posto fisso ma i sogni no. Quelli non ce li tocca nessuno. A noi, generazione maledetta, coraggio. Che questo è quello di cui abbiamo bisogno per invertire la rotta di questo Paese.

Ribelliamoci. Pretendiamo QUEL lavoro. Lo dice il primo articolo della Nostra Costituzione.

Concorso Inps, in 22 mila col sogno del posto fisso. Maxi prova dopo 10 anni di blocco. La protesta sui social per il mancato rinvio: "Roma bloccata dalla neve, la prima prova è riuscire ad arrivare", scrive Claudia Marin il 28 febbraio 2018 su "Il Quotidiano.net. C’è chi è venuto perfino dalla Polonia, come una ragazza plurilaureata sposata con un italiano. C’è chi ha raggiunto la Capitale già la sera prima, per non rischiare di perdere l’occasione della vita. E chi è riuscito a registrarsi al volo per partecipare ai test dopo aver viaggiato l’intera notte in treno al gelo. E, sebbene molti candidati al concorso Inps siano riusciti a raggiungere in tempo utile i padiglioni della Nuova Fiera di Roma, moltissimi altri sono stati bloccati dalla neve e, soprattutto, dal disastro ferroviario che ha mandato in tilt la Stazione di Termini e l’intero sistema italiano di trasporto su rotaia. Per tutti, per chi ce l’ha fatta e per chi ha dovuto rinunciare, era o è ancora in palio, a seconda della roulette del destino, il sogno del posto fisso all’Inps. Da ieri e fino a stasera proprio nella Capitale è in scena il maxi-concorso dell’Istituto previdenziale per 365 posti da "analisti di processo", destinati, come rassicura il presidente Tito Boeri, a crescere di altri 730, che "prenderemo a scorrimento da questo concorso". Una mega prova, alla quale si sono iscritti in oltre 22 mila, ma che, alla fine della prima giornata, ha fatto registrare una presenza effettiva di circa il 40 per cento dei candidati nei capannoni della struttura alla periferia di Roma: 2.362 su 5.600 alla prima sessione della mattinata, qualche centinaio in più sui 5 mila del pomeriggio. Un concorsone, il primo dopo dieci anni di blocco, con l’inedita novità della correzione degli elaborati in diretta streaming su uno specifico canale Youtube: una soluzione all’insegna della trasparenza, con doppia telecamera e doppia visualizzazione, che porta la firma del professore bocconiano che dal 2014 guida l’ente pensionistico.  L’emergenza neve, gelo e ritardi ferroviari non ha bloccato, dunque, lo svolgimento della prova psico-attitudinale (60 domande a risposta multipla di informatica, logica, inglese e cultura generale, in 60 minuti) di una delle selezioni più attese dell’anno da migliaia di giovani brillantemente laureati: in economia, ingegneria gestionale o giurisprudenza, con tanto di certificato B2 di inglese (corrisponde al First certificate). E, non a caso, fin dalla sera prima e per tutta la giornata di ieri, sono rimbalzati sui social gli echi dell’avventura. «Nonostante le scuole siano chiuse e i trasporti vadano a singhiozzo, ci chiedono di venire a Roma», twitta uno dei 22mila candidati. Mentre un altro ironizza: «La prima prova è riuscire ad arrivare nonostante il meteo». Perché, «dal momento che i treni non ci sono, come ci presentiamo? Con lo shuttle?». «Non ho dormito», scrive un altro, ma sono «alla stramaledetta prova». Mentre in altri post si sottolinea la «fortuna» di essere «romani» o di avere la prova al secondo turno, quello pomeridiano. Non senza proteste per il mancato rinvio. «E' una vergogna, come fanno i fuorisede? A fare i concorsi non ci sono solo i romani», si ribellano altri giovani. E una ragazza disabile denuncia: «Vivo in una zona di montagna sommersa dalla neve, come devo fare?». E sugli stessi tasti battono le testimonianze raccolte dalla viva voce dei candidati prima e dopo che il concorsone cominciasse. «Cinque ore di attesa alla stazione di Napoli ieri – racconta un ragazzo poco più che ventenne - Ma alla fine ci siamo riusciti». «Ho saputo - commenta una neolaureata - di treni cancellati e di colleghi che non sono riusciti a raggiungerci e che quindi, immagino, faranno ricorso». E proprio sul rischio «ricorsi» si levano centinaia di voci in rete. Voci che non intaccano, però, la ferrea motivazione di coloro che hanno messo piede dentro la Fiera di Roma.  «Il sogno del posto fisso statale? Ebbene sì, certo che lo vogliamo», urlano tutti. Con lo sguardo in diretta streaming all’esito del test.  

Mega concorso Inps, un giorno di ordinaria follia a Roma. Si erano candidati in 22 mila per 365 posti da funzionario. Ma la prova scritta è diventata un incubo: sessioni di 6 ore per 60 domande, ritardi, ressa, disorganizzazione e proteste. La testimonianza a L43, scrive Davide Gangale il 28 febbraio 2018. Il Burian che ha congelato mezza Italia non ha fermato il mega concorso dell'Inps, destinato a concludersi il 28 febbraio 2018. In palio ci sono 365 posti da funzionario. Ma per le migliaia di persone (22 mila candidati in tutto, divisi in quattro sessioni) che il 27 febbraio si sono effettivamente presentate alla Nuova fiera di Roma per sostenere la prima prova scritta, il vero ostacolo da superare è stata la disorganizzazione.

NEOLAUREATA RIMASTA SOTTO CHOC. Lettera43.it ha raccolto la testimonianza di Simona (il nome è di fantasia), una giovane neolaureata in Giurisprudenza ancora «sotto choc». Era il suo primo concorso pubblico e l'esperienza è stata traumatica. «Sono arrivata alla Fiera alle 14.30, orario in cui ci avevano detto di presentarci. Avevano appena finito quelli della prima sessione, che erano lì dalle 8.30 del mattino».

UN'ORA DI PROVA, CINQUE DI RITARDI. Sei ore per rispondere a 60 domande a risposta multipla? No, perché la prova «è durata soltanto un'ora». E le altre cinque? «Ritardo, giustificato dagli organizzatori con problemi ai mezzi di trasporto. Ci hanno detto solo questo». Dalle 14.30 alle 16.30 ci hanno fatto stare in un androne senza nessun controllo: né metal detector, né poliziotti, nemmeno una fila. E un solo bagno.

LA TESTIMONIANZA DI SIMONA. E meno male che alla prima sessione, quella del mattino, secondo i numeri diffusi dall'Inps si sono presentati 2.362 candidati su 5.600: «Oltre il 40%», ha precisato il presidente Tito Boeri, «sono contento, è un dato più alto rispetto a quello che si è registrato in passato per concorsi di questo tipo». Chissà cosa sarebbe successo, viene da pensare, se si fossero presentati tutti...

CAOS ANCHE NEL POMERIGGIO. D'altra parte nel pomeriggio, per la seconda sessione, le cose non sono migliorate. «Dalle 14.30 alle 16.30 ci hanno fatto stare in un androne, in un primo padiglione, senza nessun controllo: né metal detector, né poliziotti, nemmeno una fila ordinata per lasciare la borsa al guardaroba». E in ogni padiglione «una sola toilet a disposizione»: una per gli uomini e una per le donne.

POCHI ADDETTI PER I QUESTIONARI. Un'altra mezz'ora d'attesa per entrare nel secondo padiglione, dove si doveva svolgere la prova e dove finalmente i candidati sono stati fatti accomodare. Ma a questo punto «è iniziato il caos, perché c'erano pochissimi addetti per distribuire i questionari. Una decina di persone in tutto, credo, e quindi è passata un'altra ora e si sono fatte le 18». Non è finita qui. Perché nel padiglione, in assenza di controlli, hanno fatto il loro ingresso «i contestatori del B2». Cioè un gruppo di esclusi dal concorso, perché privi della necessaria certificazione relativa alla conoscenza della lingua inglese. Il Tar ha respinto definitivamente il loro ricorso, ma a quanto pare non è bastato.

PERSINO I MODULI STAMPATI MALE. Una volta usciti i contestatori, poi, «alcuni legittimi partecipanti al concorso hanno scoperto che i loro questionari erano stati stampati male». La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso: «Hanno iniziato a lamentarsi e a gridare pure loro!», racconta Simona.

«NON VI ASPETTAVAMO COSÌ IN TANTI». Il tentativo dello speaker di riportare la calma ha avuto un effetto tragicomico. «Scusateci», ha detto al microfono, «ma siete tanti. Non ci aspettavamo tutte queste persone». Al colmo dell'esasperazione, una ragazza si è alzata in piedi e gli ha risposto urlando: «Era sufficiente guardare il numero delle domande!». Nessuno ha avuto il "coraggio" di replicare, racconta ancora Simona, ma dalla platea «è partito spontaneo un applauso». Insomma: la sessione del pomeriggio, convocata per le 14.30, è iniziata alle 19. «Nel bando c'era scritto che i telefoni cellulari andavano consegnati al guardaroba. Ma poi lo speaker ha detto che se qualcuno non li aveva consegnati avrebbe dovuto prenderli, spegnerli e metterli sul tavolo. In ogni caso ha aggiunto che l'aula era "schermata", quindi i cellulari non sarebbero serviti».

LANCIARSI A TERRA PER USCIRE FUORI. Dulcis in fundo, al termine delle prove, corrette in diretta streaming in nome della trasparenza, la ressa per uscire dai locali della Fiera. Racconta ancora Simona, un po' impaurita: «Nessuna fila ordinata. Tutti che scappavano, spingevano, moltissimi dovevano correre per andare a prendere il treno per tornare a casa. Ho visto persone lanciarsi a terra per recuperare la loro borsa. Io non me la sono sentita. Prima di alzarmi ho aspettato che se ne andassero tutti. Tanto, ormai, si era già fatto fin troppo tardi».

Sanità, a Bari in 16mila al concorso per 119 infermieri della Asl: le correzioni in diretta streaming. Le prove da lunedì 25 luglio a giovedì 28 luglio nei padiglioni della Fiera del Levante. Il governatore Emiliano: "E' la prima selezione che si tiene a Bari dopo lunghi anni di blocco delle assunzioni", scrive Antonello Cassano il 22 luglio 2016 su "La Repubblica". Spazio nursery per neomamme, box di attesa, personale di vigilanza e di assistenza, rinforzi di vigili urbani e di polizia. Sembra uno di quei mega concerti che attirano le grandi folle: invece quello che si terrà tra lunedì 25 e giovedì 28 luglio a Bari sarà uno dei più grandi concorsi pubblici mai organizzati in Puglia. Lanciato dall'Asl Bari nelle scorse settimane per coprire 199 posti di infermieri a tempo indeterminato, ha raccolto adesioni da tutta Italia: alla chiamata hanno risposto in 16mila. Un numero di partecipanti impressionante che ha spinto l'Asl a mettere su un'organizzazione complessa a partire dal luogo. Per via dell'elevato numero di partecipanti sono stati scelti non a caso i padiglioni 19 e 20 della Fiera del Levante. Le prove preselettive si terranno dalle 8 del mattino alle 19,30. La prova, della durata di 30 minuti, consisterà in una serie di quiz a risposta multipla sulle materie di cultura generale e di logica, oltre che su quelle previste per le prove d'esame. Dai 16mila di partenza, soltanto in 1.500 verranno selezionati per partecipare alle fasi successive. Oltre ai 199 più bravi che si assicureranno un posto a tempo indeterminato, il concorso servirà a stilare una graduatoria finale di merito riservata a coloro i quali risulteranno idonei. Una lista che rimarrà efficace per tre anni dalla data di pubblicazione e servirà per i fabbisogni di personale successi dell'Asl Bari e di altre aziende sanitarie pugliesi. Il concorso, insomma, sarà un grande evento. Non a caso anche il presidente della Regione, Michele Emiliano, sente di dover rivolgere un saluto ufficiale ai partecipanti: "Un grande evento in tutti i sensi. E' il primo concorso per infermieri che si fa in Puglia dopo tanti anni di silenzio ed è il frutto di un lavoro, realizzato nei mesi scorsi, di confronto serrato e costruttivo con le organizzazioni sindacali del comparto sanitario". Come ogni grande evento sono previste misure di sicurezza straordinarie, a partire da vigili urbani e polizia che presidieranno gli ingressi della fiera e dei padiglioni. All'ingresso dei padiglioni ci saranno il personale di vigilanza e assistenza alle prove, la cartellonistica con le indicazioni di accesso e il personale di assistenza per i candidati. "Sarà garantita la presenza di un presidio medico e di uno spazio nursery, per garantire alle candidate neomamme di poter far sostare il proprio bambino accompagnato da un familiare e nel caso per allattare prima della prova - anticipa il direttore generale dell'Asl Bari, Vito Montanaro - Saranno a disposizione anche box di attesa dedicati a donne in gravidanza e a candidati con particolari esigenze". Straordinarie anche le misure di selezione. La correzione degli elaborati sarà effettuata, in seduta pubblica e in diretta streaming presso la sede d'esame. Nell'ultima giornata di prove, il 28 luglio 2016, al termine dell'unica sessione prevista nel corso della giornata, dopo la relativa correzione dei compiti in forma anonima, si procederà sempre in seduta pubblica e diretta streaming alla lettura dei cartellini anagrafici (fino ad allora secretati) per la produzione della graduatoria nominativa.

Boom di domande per il concorso di Bankitalia, in 85mila per 30 posti. E da Palazzo Koch hanno avviato la prima scrematura per titoli, 8.140 ammessi agli scritti, scrive il 02/07/2017 "La Stampa". Quasi tremila candidati, precisamente 2.824, per ogni posto in palio, è questa la proporzione - la sproporzione - che esce fuori mettendo a confronto le domande arrivate con le disponibilità fissate per il concorso indetto dalla Banca d’Italia per assumere 30 vice assistenti. Le domande, inviate tramite la piattaforma online di via Nazionale, sono state circa 85 mila. Troppe per potere permettere a tutti di prendere parte alla prima prova. È scattata quindi una preselezione per titoli che ha di fatto alzato il requisito dal diploma alla laurea. Alla fine gli ammessi allo scritto sono poco più di 8 mila. Insomma solo uno su dieci potrà cimentarsi con il test a risposta multipla. Esame iniziale dopo il quale resteranno in 300. Per entrare nella graduatoria bisognerà poi passare una seconda prova, un colloquio. Una strada lunga ma agognata, probabilmente perché la vittoria assicurerebbe un posto fisso, in più targato Banca d’Italia. Una garanzia che ha fatto precipitare migliaia di persone a compilare la domanda. Il bando è datato 20 aprile e per inviare la richiesta di partecipazione c’è stato poco più di un mese (l’iscrizione era possibile fino al 29 maggio). Il 27 luglio usciranno le liste di quanti hanno superato l’esame per titoli. Ma intanto la banca fa sapere «che sono pervenute 84.745 domande» e «pertanto si effettua la preselezione per titoli», in base a cui «vengono ammessi alla prova scritta 8.140 candidati, quelli in possesso di un punteggio pari a 11,40», ovvero lo score più alto che si ottiene solo se si può vantare il voto massimo di maturità e una laurea magistrale o vecchio ordinamento (la triennale non basta) in una materia tra quelle indicate nel bando. Banca d’Italia aveva già previsto tutto l’iter per la preselezione, anche nel caso fossero pervenute oltre 3 mila domande. Asticella che è stata ampiamente superata. L’attesa era alta, i sindacati inizialmente parlavano di 60mila, non essendoci neppure un limite di età (se non aver superato i 18 anni). Ma il dato effettivo ha oltrepassato ogni aspettativa, sintomo di quanto un posto a tempo indeterminato può fare gola in questo momento. Ecco che l’oggetto del desiderio, magari anche di tanti Millennials, è un posto da impiegato, primo gradino della carriera operativa, che parte da 28.300 euro lordi annui (a cui vanno però aggiunte indennità e premi). La ricerca riguarda personale di «profilo amministrativo» con «mansioni esecutive» come «classificazione, archiviazione e protocollo di documenti» (non è escluso lo sportello). Le prove dovrebbero iniziare a fine anno, l’inserimento dovrebbe avvenire a metà 2018 e con tutta probabilità le posizioni saranno raddoppiate (da 30 a 60), anche perché la graduatoria dura quattro anni. A questo punto agli 8 mila preselezionati non resta che studiare per dare il meglio, intanto nel primo test: cento domande a risposta multipla tra diritto, economia, matematica, statistica e inglese. 

Milano, in 8 mila per 10 posti da infermiere al Policlinico, scrive l'Adnkronos il 14/06/2017. In 8 mila a contendersi 10 posti fissi da infermiere. Per capire la portata della sfida che si gioca oggi a Milano, basta pensare che in ballo c'è una 'divisa' ogni 800 aspiranti. A lanciare l'avviso di concorso pubblico è stato l'Irccs Fondazione Policlinico del capoluogo lombardo a fine aprile, ed è stato subito boom di domande. Per ospitare la folla di candidati richiamata da tutta Italia e proprio in queste ore alle prese con la pre-selezione (un test a risposta multipla di circa 50 domande), si è scelta la Fiera espositiva di Novegro, vicino all'aeroporto di Linate. Ed è stato necessario prevedere 3 turni da circa 2.700 persone. A fare gola non è solo il posto fisso - e uno stipendio di categoria D fascia iniziale, cioè circa 1.500-1.600 euro netti al mese (il valore esatto dipende da turni e indennità accessorie) - ma anche un buon piazzamento nella graduatoria: questo perché un altro ospedale che volesse assumere nuovi infermieri non ha bisogno di istituire un nuovo concorso, ma può selezionare il personale direttamente dalla graduatoria stilata al termine della selezione di oggi, che resta infatti valida per 3 anni. Dall'analisi dei dati di chi ha presentato domanda per il concorso lanciato dal Policlinico di Milano emerge che 7 aspiranti 'angeli della corsia' su 10 sono donne. L'età è varia, ci sono giovanissimi al primo concorso e persone che ne hanno all'attivo già più di uno. La percentuale di presentazione alla pre-selezione è dell'85% circa, su un totale di 8.063 iscritti al concorso. Il boom di domande non ha stupito il direttore amministrativo dell'Irccs di via Sforza, Fabio Agrò. "Anzi, noi ce ne aspettavamo molte di più - spiega all'AdnKronos Salute - Certo stiamo parlando di un numero altissimo di candidati. E d'altra parte i corsi di laurea in Infermieristica, per quello che osserviamo, costituiscono una delle migliori fonti di accesso al mercato del lavoro". "Dal nostro osservatorio - aggiunge Agrò - vediamo che l'esigenza che si riscontra, oltre al bisogno conclamato dell'Irccs, è anche dovuta al fatto che tanti infermieri inizialmente si muovono da Sud a Nord e ora c'è una fase di forte richiesta di ritorno a casa, nelle loro città di provenienza. Più è alta questa richiesta di mobilità, più cresce per noi la necessità di avere un bacino dal quale attingere per rimpiazzare. Quanto all'età di chi partecipa al concorso, abbiamo visto che ci sono tanti giovani che hanno finito da poco il corso di laurea triennale". Basteranno 10 posti a coprire il fabbisogno di infermieri all'interno dell'Irccs? "Verosimilmente no, non si esaurirà con i primi 10 posti - osserva Agrò - Probabilmente la graduatoria sarà usata anche a seguire". Intanto il manager esprime soddisfazione per come sta procedendo l'operazione concorso: "Finora è andato tutto bene. Sono andato a verificare personalmente questa mattina e mi ritengo soddisfatto per la logistica e per il posto scelto per il concorso, che ha avuto un impatto favorevole. I candidati arrivano da tutta Italia, molti hanno affrontato lunghi viaggi. E ho visto tanta partecipazione affinché le cose si svolgano con serenità e giustizia. Sono molto attenti a evitare che si ripetano situazioni in cui una scorrettezza di qualcuno manda in fumo i sacrifici di tanti", spiega Agrò, ricordando il recente 'intoppo' al maxi-concorso di Torino, inizialmente sospeso dal Tar dopo il ricorso di alcuni esclusi che parlavano di domande svelate sul web tra un turno e l'altro delle preselezioni. "Noi abbiamo visto qui un'ottima collaborazione e uno spirito positivo e ho avuto modo di raccogliere giudizi positivi su come è stato organizzato il tutto", prosegue. Quello offerto "è un modo per entrare nel mercato del lavoro" e c'è la possibilità di "veder crescere la propria capacità professionale", ma anche in alcuni casi di avanzare nella carriera, con il conseguimento della laurea specialistica, fino alla dirigenza. "Quindici anni fa la professione di infermiere nasceva e si concludeva allo stesso punto. Adesso ci sono strade diverse legate alla dirigenza infermieristica che è stata definitivamente sdoganata nel mondo sanitario".

Genova, in 12 mila per 200 posti da infermiere. "Il nostro è un viaggio della speranza". Sono arrivati da tutta Italia per la preselezione: 45 domande in 45 minuti, scrive Valentina Evelli l'11 luglio 2017 su "La Repubblica".

Il viaggio della speranza di 12mila aspiranti infermieri è partito da tutta Italia per concludersi davanti ai cancelli della Fiera di Genova dove oggi è in svolgimento il concorso. Anzi una preselezione che ridurrà a un terzo i partecipanti che mirano a vincere uno dei duecento posti da infermiere, cento a Genova e cento in Liguria. Non tutti assieme perché a regime si dovrebbe arrivare nel 2018. C’è chi è partito ieri mattina dal sud, chi ha trascorso la notte su una panchina oppure in pullman. Come i 500 ragazzi provenienti dalla Campania, Napoli e Caserta soprattutto che hanno noleggiato i bus per risparmiare sulle spese. La sfida è riuscire a rispondere nel modo giusto alle 45 domande di logica e cultura generale del test. Tempo massimo 45 minuti. L’ingresso previsto per le 9 di questa mattina alle 11 non era ancora terminato. Tra gli aspiranti infermieri in coda un gruppo di ragazze di Caserta: “E’ il terzo concorso che facciamo assieme in giro per l’Italia, ormai il nostro è diventato una specie di turismo concorsuale…”

LA STABILIZZAZIONE DEGLI AMICI SENZA CONCORSO PUBBLICO O CON CONCORSO FARSA.

Maestri diplomati e il concorso farsa. Senza bocciati il merito dov’è? L’emendamento della maggioranza e quel «concorso non selettivo» pensato per stabilizzare le maestre senza laurea. Ma se vengono tutti promossi che concorso è? Scrive Orsola Riva il 26 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Chissà se il deputato grillino Luigi Gallo ha voluto davvero ispirarsi a Winston Churchill o è stato un caso. Per lui il Decreto dignità è come l’ora più buia (the “finest hour”, nelle parole dell’uomo che a un certo punto della Storia si ritrovò quasi solo a fare muro contro le potenze del Male). «Questa è l’ora delle norme giuste, equilibrate, costituzionali e che non cadano davanti al primo ricorso. Fino ad oggi i politici hanno scritto le norme in maniera oscena e hanno diviso il mondo della scuola in categorie da aizzare l’una contro l’altra. Non cascateci più». Così, il deputato cinquestelle ha perorato in Aula la causa dell’emendamento di maggioranza che prevede l’ennesima stabilizzazione di massa di docenti - in questo caso principalmente maestre senza laurea. Una grana che il governo gialloverde ha ereditato dai suoi predecessori ma la cui soluzione non appare certo improntata a quello spirito nuovo e diverso dalla «vecchia politica» di cui M5S si è fatto paladino. Come risolvere la questione di questi quasi 50 mila insegnanti di vecchio conio che si erano rivolti a un giudice per farsi assumere (e in alcuni casi avevano anche già ottenuto il posto con riserva) salvo poi essere bocciati dalla Consulta? Semplice. Prima si fa un decreto ad hoc che prevede di rinviare l’esecuzione della sentenza di 4 mesi. Poi, adesso, spunta un emendamento che, in nome della continuità didattica (quella stessa di cui il governo non si è ricordato quando ha tirato un frego sulla norma che prevedeva l’obbligo per tutti gli insegnanti di restare almeno per tre anni nella stessa scuola), garantisce loro di stare al proprio posto fino alla fine dell’anno come supplenti per poi salire in cattedra dal 2019 grazie a un «concorso straordinario» che di straordinario non ha nulla salvo il fatto di non essere un concorso. Ma che concorso è quello in cui tutti entrano e nessuno resta fuori? Mistero. L’unica condizione per passare è aver prestato almeno due anni di servizio negli ultimi 8: il che esclude dalla gara-non gara i maestri laureati di più fresco conio che non hanno al loro attivo abbastanza supplenze. E pazienza se magari sarebbero stati più qualificati loro di molti semplici diplomati magistrali per insegnare ai nostri figli a leggere scrivere e far di conto. Per loro presto sarà bandito un nuovo concorso. Perché loro sì che devono essere selezionati. Ma siccome al peggio non c’è mai fine, lo stesso emendamento prevede anche la stabilizzazione di tutti i cosiddetti idonei del concorso 2016. Maestre, maestri, ma anche professori e professoresse delle scuole medie e superiori che non hanno vinto il concorso, si sono solo «qualificati». Del resto con la norma di cui sopra entreranno alle elementari anche quelli che sono stati bocciati, quindi che problema c’è? Per il nuovo concorso per i giovani insegnanti con tanto di tirocinio ci sarà ancora molto anzi moltissimo da aspettare.

Ma ci sono altri gravi precedenti. L’INPS, il giorno 23 luglio 1999, ha pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il bando di un concorso per 1940 posti di collaboratore amministrativo, per la 7a qualifica funzionale. L' On. Michielon, da sempre in prima linea contro le truffe, il giorno 3 maggio 2000 ha presentato un'interrogazione nella quale chiede se corrisponde a verità il fatto che tutti i candidati del concorso Inps, hanno brillantemente superato le prove scritte e se corrispondono al vero le varie voci che narrano di strani episodi relativi a questo concorso “virtuale”. L'On. Michielon l’anno prima aveva presentato un'analoga interrogazione al Governo, la risposta che ricevette fu che "non esisteva alcuna addomesticatura del Concorso". L'onorevole Michielon, per nulla soddisfatto della risposta governativa emise un comunicato stampa. “La farsa continua".

"Confermate le mie accuse sul concorso truffa a 1.940 posti presso l'INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l'Ente”. “Con una replica imbarazzata - continua Michielon – il Governo, confermando un comportamento connivente, che ricorda molto i regimi totalitari con suffragi pari al 100 per 100 degli aventi diritto, ha ammesso che dei 1790 partecipanti alla selezione scritta del concorso, tutti hanno superato la prova”. “Fin dal giugno 1997 - spiega Michielon - l'INPS aveva individuato una carenza di personale quantificata in circa 3.650 unità, per la copertura della quale si riteneva necessario reperire risorse dall'esterno. Incredibilmente nel 1998 veniva bandito un concorso per soli 394 posti di collaboratore della VII qualifica funzionale, mentre l'anno successivo, nel luglio 1999, veniva indetto un "concorso" per titoli ed esami per 1940 posti nella medesima qualifica funzionale." “Già in una precedente interrogazione - prosegue il deputato del carroccio - cercavo di far luce su questo concorso-truffa, bandito ad hoc per sistemare quelle circa duemila unità di lavoratori impiegati in LSU presso l'INPS ed il cui bando richiedeva, come requisito essenziale per l'ammissione, l'aver partecipato a progetti di LSU per un periodo temporale che, guarda caso, coincideva esattamente con la durata di impiego dei LSU presso l'INPS.” “Alla luce del fatto che su 1790 partecipanti effettivi, 1790 risultano essere i candidati ammessi alle prove orali - prosegue il parlamentare leghista - ho presentato una nuova interrogazione contro questo concorso-truffa, che altro non è che la conferma di un posto di lavoro”. “Resta strabiliante il criterio di selezione - conclude Michielon - che ha fatto sì che per il concorso a 394 posti siano stati ammessi 11 mila candidati, mentre per il concorso a 1940 posti sono stati ammessi solo 1790 concorrenti, tutti risultati idonei dopo gli scritti. Ed inoltre, se i vincitori del concorso a 394 posti non sono stati ancora assunti in attesa della determinazione del Consiglio dei Ministri in relazione al numero massimo di assunzioni autorizzate per l'Istituto, il Governo deve ancora spiegare come si sia potuto bandire un concorso per ben 1.940 posti, peraltro a così breve distanza dal precedente”.

Regione Puglia, fra i 284 assunti senza concorso c'è chi è stato già promosso, scrive il 4 agosto 2018 Chiara Spagnolo su "La Repubblica". Alla base degli esposti presentati alla magistratura, all'Anac e al ministero dello Sviluppo la tesi che negli ultimi dieci anni siano stati favoriti amici e parenti di politici e dirigenti. E il precario promosso potrebbe non essere l'unico. Un precario promosso prima ancora di essere assunto: c'è anche questo caso nel dossier sulle 284 stabilizzazioni della Regione Puglia su cui indaga la Procura di Bari. Un paradosso che potrebbe essere frutto di un banale errore, e dunque facile da correggere, oppure sintomo della specifica volontà di favorire qualcuno. Se questa seconda ipotesi fosse vera, si configurerebbe un reato penale ovvero un falso ideologico di cui qualcuno potrebbe essere chiamato a rispondere. 

Regione Puglia, inchiesta su 284 stabilizzati: "Assunti senza concorso molti parenti illustri". Tra i precari che dal primo settembre saranno al lavoro ci sarebbero amici di assessori regionali in carica e parenti di componenti delle ex giunte Vendola, figli di dirigenti e amministratori locali vicini al centrosinistra, scrive il 29 luglio 2018 "La Repubblica". La Procura di Bari sta indagando sulla stabilizzazione di 284 lavoratori precari della Regione Puglia, che dal prossimo primo settembre saranno assunti a tempo indeterminato, senza avere affrontato un concorso. Tra i precari ci sarebbero amici di assessori regionali in carica e parenti di componenti delle ex Giunte guidate da Nichi Vendola, figli di dirigenti di vari uffici regionali e amministratori locali vicini al centrosinistra. L'inchiesta, secondo quanto riportato da Repubblica, è alle battute iniziali, con un fascicolo iscritto a modello 45, senza una notizia di reato ma con accertamenti delegati dal procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno. L'inchiesta è un atto dovuto alla luce degli esposti presentati alla magistratura penale e alla Corte dei Conti, con contestuale diffida della Regione a sospendere le procedure per le assunzioni. Le presunte irregolarità, secondo quanto riferisce il quotidiano, sarebbero state commesse a partire da dieci anni fa, quando, sul finire della prima legislatura Vendola, i vari dipartimenti cominciarono ad assoldare personale a chiamata, senza sottoporlo a concorso, ma attingendo a short list o segnalazioni di dirigenti e assessori. Queste persone hanno accumulato negli anni titoli ed esperienza che sarebbero stati utilizzati, secondo quanto ricostruito da Repubblica, come argine rispetto all'ingresso di esterni. All'attenzione della Procura oltre all'elenco dei precari (222 categoria D e 62 C) c'è anche una lunga lista di documenti. Tra questi ci sono la delibera con cui la Giunta in carica, guidata da Michele Emiliano, il 14 settembre dell'anno scorso approvò la programmazione triennale del fabbisogno del personale, passando per la legge regionale 47 del 2014; e la determina del 3 luglio scorso con cui il dipartimento del Personale ha dato il via libera all'assunzione dei 284 precari impegnando un ulteriore milione e mezzo di euro.

Regione Puglia, pm indagano su 284 stabilizzazioni: sospetti di parentopoli di sinistra e le promozioni preventive. Nei giorni in cui sono iniziate le procedure per la firma dei contratti per l’immissione in ruolo, la procura vuole vederci chiaro sulle modalità di assunzione e su chi ne ha beneficato. Secondo numero si esposti sul tavolo di magistrati, Corte dei conti, Anac e Mise, tra i precari assunti ci sono amici di assessori regionali attualmente in carica, familiari di componenti delle ex giunte Vendola, ma anche figli di dirigenti di diversi uffici regionali e amministratori locali vicini al centrosinistra. Top secret i nomi, scrive Luisiana Gaita il 5 agosto 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Non solo assunti dalla Regione Puglia senza aver affrontato alcun concorso, ma al vaglio della magistratura ci sarebbero situazioni paradossali, come quella di almeno un precario promosso ancora prima dell’assunzione. Come riportato dal quotidiano La Repubblica, la Procura di Bari sta indagando, infatti, sulla stabilizzazione di 284 precari dell’Ente. Proprio in questi giorni sono iniziate le procedure per la firma dei contratti per l’immissione in ruolo che, sulla carta, dovrebbe scattare dal 1 settembre 2018. Il fascicolo dell’inchiesta, iscritto a modello 45, senza notizia di reato ma con accertamenti delegati dal procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno, è stato aperto dopo diversi esposti presentati alla magistratura penale, alla Corte dei Conti, all’Anac e al ministero dello Sviluppo Economico, con contestuale diffida della Regione a sospendere le procedure di assunzione. Tra i precari stabilizzati amici di assessori regionali attualmente in carica e familiari di componenti delle ex giunte guidate da Nichi Vendola, ma anche figli di dirigenti di diversi uffici regionali e amministratori locali vicini al centrosinistra. Insomma, il sospetto è quello di una parentopoli pugliese. Nel frattempo continuano ad arrivare denunce.

L’INCHIESTA – Secondo quanto riferisce il quotidiano, le presunte irregolarità sarebbero state commesse a partire da dieci anni fa. Parliamo della fine del primo governo regionale Vendola. I vari dipartimenti, secondo quanto sostenuto in alcune denunce, hanno iniziato ad assumere personale a chiamata, con contratti a tempo determinato. Le modalità di selezione? Short list e avvisi pubblici. Nessun concorso, dunque. Negli anni, però, questi precari hanno accumulato titoli ed esperienze all’interno degli uffici regionali necessari per la stabilizzazione, riducendo al tempo stesso le possibilità di ingressi esterni. Secondo i primi accertamenti della magistratura, si tratta di un iter non in linea con quanto previsto dalla riforma Madia, che impone invece una procedura concorsuale e una verifica dei requisiti prima dell’assunzione a tempo indeterminato.

SE LA PROMOZIONE ARRIVA PRIMA DELL’ASSUNZIONE – In queste ore vengono analizzate nel dettaglio le posizioni di 284 precari, 222 di categoria D e 62 di categoria C. Al vaglio della magistratura anche diversi documenti, tra cui la delibera con cui la giunta Emiliano, il 14 settembre 2017 ha approvato la programmazione triennale del fabbisogno del personale e la determina del 3 luglio scorso con cui il dipartimento del Personale ha dato il via libera all’assunzione dei 284 precari impegnando un ulteriore milione e mezzo di euro. Ma è proprio dall’incrocio di nomi, documenti e avvisi pubblici, che la Procura di Bari ha notato qualche anomalia. Come riporta La Repubblica, tra i vari contratti già firmati dai precari sul punto di essere stabilizzati, ce n’è uno che parla di “assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato con attribuzione della categoria D” e di “posizione economica C1”. Si riferisce a un lavoratore che era inquadrato come categoria C e che non avrebbe partecipato e vinto alcun concorso, così da giustificare una promozione. Nel contratto in questione, tra l’altro, viene specificato che il dipendente “si impegna a svolgere le mansioni proprie della categoria D” non lasciando alcun dubbio sull’effettivo passaggio alla categoria superiore, anche se non è chiaro attraverso quali modalità questa sia avvenuta. Gli inquirenti stanno cercando di verificare se sia l’unico caso ‘anomalo’ tra i quasi 300 contratti al vaglio. Già in passato, in Puglia, il passaggio da una categoria all’altra aveva creato problemi alle giunte regionali.

INCHIESTA NUOVA, STORIA VECCHIA – Era accaduto alla fine degli anni Novanta, quando governatore era Raffaele Fitto. Circa 800 i promossi grazie a concorsi interni annullati poi dal Tar che impose alla Regione la retrocessione dei lavoratori. In seguito, la Corte costituzionale non lasciò dubbi, ribadendo il concetto che metà dei posti disponibili per ciascun concorso pubblico deve essere riservata agli esterni. Una lezione che, pare, non sia stata appresa. Secondo un esposto presentato alla Corte dei Conti, infatti, la Regione non ha ancora provveduto ad assumere dall’esterno un numero di persone tale da bilanciare quegli inquadramenti dichiarati incostituzionali nell’era Fitto.

Marche, denunciati 53 dirigenti della Regione. “776 assunzioni a tempo indeterminato senza concorso”. La Guardia di finanza ha ravvisato un danno all'ente di oltre 121 milioni di euro, pari agli stipendi erogati ai dipendenti, quasi tutti impiegati nel settore sanitario: "Non bandivano i concorsi oppure li predisponevano esclusivamente per assumere lavoratori predeterminati". L'accusa per tutti è di abuso di ufficio, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 23 aprile 2018. Hanno “stabilizzato” 776 persone senza concorso pubblico oppure predisponendo bandi “fotografia” scritti “esclusivamente per assumere dipendenti predeterminati”, tanto che in alcuni bandi “i requisiti sono stati ‘fotografati’ su quelli effettivamente posseduti dai lavoratori interessati”. È l’accusa rivolta dalla Guardia di finanza di Macerata, coordinata dalla procura di Ancona, a 53 dirigenti della Regione Marche al termine di un’indagine durata 18 mesi prospettando il reato di abuso d’ufficio. I dipendenti, tutti precedentemente inquadrati con contratti co.co.co., lavoratori socialmente utili o a tempo determinato, sarebbero così stati assunti a tempo indeterminato contravvenendo – secondo la Finanza – anche alla norma costituzionale che prevede l’ingresso alle dipendenze della pubblica amministrazione per concorso. Al termine dell’indagine svolta con esami testimoniali e documentali su tutto il territorio regionale, stando alla ricostruzione degli investigatori, il danno ammonterebbe a oltre 121 milioni di euro. Del quadro delineato dall’indagine è stata informata anche la Procura regionale della Corte dei Conti per valutare un eventuale danno erariale nei confronti della Regione. Dalle verifiche nell’operazione, spiega la Guardia di finanza in una nota, sarebbe emerso che tra il 2008 e il 2014 i dirigenti denunciati avrebbero “eluso la normativa di settore omettendo di predisporre i Piani triennali del fabbisogno di personale”, strumento fondamentale per preventivare la necessità di assunzioni, quasi tutte nell’ambito della sanità. L’omissione, per gli investigatori, ha determinato “una mancata verifica preventiva delle effettive esigenze” e “ha consentito la stabilizzazione indebita di 776 dipendenti già assunti a tempo determinato”. “In molti casi – spiega la Gdf – non sono state attivate le necessarie procedure di concorso pubblico mentre in altri si è proceduto alla predisposizione di bandi fotografia”. Provvedimenti che gli investigatori ritengono “illeciti” e predisposti “esclusivamente per assumere dipendenti predeterminati”. In certi bandi, concludono i finanzieri, “i requisiti previsti sono stati ‘fotografati’ su quelli effettivamente posseduti dai lavoratori interessati”. Denunciati anche 12 dipendenti– 11 per falso ideologico e uno per truffa aggravata – perché avrebbero “attestato falsamente in atti il possesso di requisiti in realtà non posseduti”.

Lavoro precario e processi di stabilizzazione del personale, scrive l'1.05.18 di Chiara Vannini su Nurse 24. Stabilizzazione di dipendenti in possesso di almeno tre anni di anzianità di servizio, anche non continuativi negli ultimi otto e procedure concorsuali riservate, in misura non superiore al cinquanta per cento dei posti disponibili, ai precari della PA. Come funziona la procedura di stabilizzazione del personale precario.

La stabilizzazione del personale precario a tempi della Legge Madia. La Legge Madia, da oggi al 2020, porterà centinaia di infermieri precari della PA a firmare il contratto a tempo indeterminato. Negli ultimi anni si è assistito sempre più all’utilizzo, da parte delle aziende sanitarie, del lavoro a tempo determinato, con un aumento esponenziale degli infermieri “precari”. Sebbene il vecchio Ccnl giustifichi i contratti a tempo determinato solamente in situazioni predefinite e limitate (come ad esempio per la sostituzione di gravidanze), i contratti a breve termine sembrano essere la misura di assunzione più utilizzata. I motivi sono da ricercare nei costi correlati ad un concorso pubblico in primis, e al fatto che, nonostante le assunzioni a tempo indeterminato, persiste un elevato turn over di infermieri che si spostano con le mobilità dalle aziende sanitarie del nord a quelle del sud. Questo comporta, alle aziende sanitarie, la necessità di assumere continuamente a tempo determinato, per far fronte alla carenza di personale. Per risolvere in parte il problema del precariato e per poter andare incontro a tutti quegli infermieri che da anni si vedono rinnovare il loro contratto ogni 6 mesi, la legge Madia, stabilendo alcuni criteri fondamentali, ha permesso o permetterà da quest’anno fino al 2020, di portare centinaia di lavoratori a firmare l’agognato contratto a tempo indeterminato. Requisito essenziale per gli infermieri è quello di essere in una graduatoria a tempo determinato o indeterminato (con chiamata a tempo determinato) e avere 3 anni di esperienza anche non continuativi negli ultimi 8. Oltre al decreto Madia, in vigore solo dallo scorso anno e applicabile dal 2018, alcune aziende sanitarie da sempre emettono bandi per la stabilizzazione del personale precario in servizio presso l’azienda che emette il bando stesso. Questo permette a chi è precario da anni di poter finalmente tirare un sospiro di sollievo, ma allo stesso tempo genera malumore fra coloro che attendono da anni un concorso per poter iniziare a lavorare. Lo stesso decreto Madia ha generato polemiche fra coloro che sono in graduatorie a tempo indeterminato e che vedono allungarsi i tempi di una chiamata, perché le aziende sanitarie devono dare la precedenza alle stabilizzazioni.

Contratto a tempo determinato, come funziona. Secondo il Ccnl della sanità le assunzioni a tempo determinato possono essere effettuate:

Per sostituire personale assente la cui assenza superi i 45 giorni consecutivi;

Per sostituire personale in gravidanza o puerperio e in astensione obbligatoria o facoltativa (aspettativa);

Per assunzioni legate a punte di attività per esigenze straordinarie per un periodo massimo di 6 mesi.

Per la copertura temporanea di posti vacanti per un periodo massimo di 8 mesi a patto che non ci sia già in atto un pubblico concorso Per svolgere progetti.

I limiti del contratto a tempo determinato. La direttiva comunitaria 1999/70/CE pone dei limiti di tempo ai contratti a tempo determinato. Se un lavoratore che non fa parte di una pubblica amministrazione dopo 36 mesi ha diritto alla conversione automatica del contratto a tempo indeterminato, per i pubblici dipendenti la legge non è applicabile, perché l’articolo 97 della Costituzione sancisce che l’accesso al pubblico impiego è vincolato al superamento di un concorso pubblico. L’unico modo quindi di passare da un contratto a tempo determinato ad un contratto a tempo indeterminato, è e resta quello di vincere un concorso pubblico.

La stabilizzazione prima del decreto Madia. La stabilizzazione del personale precario era una modalità già utilizzata prima della riforma Madia. Sebbene la riforma abbia normato in maniera dettagliata le modalità di stabilizzazione, definito i tempi e (non da ultimo) imposto alle aziende sanitarie di procedere alle misure di stabilizzazione, già con la legge 296/2006, all’art.1 comma 519 e 558, applicazione della legge finanziaria per l'anno 2007, era prevista la possibilità, per le pubbliche amministrazioni, di procedere alla stabilizzazione del personale, sulla base dei fabbisogni dell'amministrazione. I processi di stabilizzazione, secondo la legge, potevano essere effettuati nei limiti della disponibilità finanziaria stabilita nella stessa legge finanziaria. Lo stesso veniva definito anche nella legge finanziaria del 2008 (art. 3 comma 90 legge 244/2007) e in alcune leggi successive.

Procedura di stabilizzazione, come funziona. Sono numerose le aziende sanitarie che già dall’inizio del 2018 hanno dato inizio alle procedure per la stabilizzazione. In linea generale, le aziende sanitarie si sono innanzitutto trovate a fare una ricognizione di tutto il personale a tempo determinato che era in possesso dei requisiti.

I requisiti per accedere alla stabilizzazione. Ricordiamo che i requisiti per accedere alla stabilizzazione secondo il decreto Madia sono:

Essere in servizio, anche per un solo giorno dopo il 28 agosto 2015 con un contratto a tempo determinato presso l’amministrazione pubblica che deve procedere alla stabilizzazione;

Essere stati assunti a tempo determinato da una graduatoria, a tempo determinato o indeterminato, derivante da concorso/avviso pubblico per titoli e/o esami, per la figura professionale di appartenenza;

Aver maturato, al 31 dicembre 2017, nella stessa amministrazione che procede all’assunzione, almeno 3 anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi 8. Gli anni utili da conteggiare possono riferirsi anche a tipologie diverse di contratto (es. CoCoCo, libera professione, tempo determinato, ecc), ma devono riguardare la stessa attività e lo stesso inquadramento professionale.

In secondo luogo sono stati emessi bandi affinché i dipendenti potessero presentare la loro domanda; in alcune aziende sanitarie i bandi presentano anche il numero delle persone che possono essere stabilizzate subito. Tuttavia, poiché le graduatorie saranno valide per il triennio 2018–2020 per la copertura di turn over, pensionamenti, ecc. tutti coloro che non verranno subito stabilizzati, possono esserlo nel triennio di validità della graduatoria. Dopo la valutazione e il controllo dell’effettiva presenza dei requisiti (i dipendenti possono anche aver maturato esperienza presso un’azienda sanitaria diversa, purché pubblica) viene stilata una graduatoria degli aventi i requisiti, dopo aver assegnato un punteggio per ogni anno di anzianità maturata e dando la precedenza - come indicato nel decreto Madia - a tutti coloro in servizio al 22 giugno 2017 (giorno di entrata in vigore del decreto). Se in alcune aziende sanitarie la procedura di stabilizzazione si è già conclusa, altre aziende sono ancora in corso di definizione delle graduatorie. I tempi pratici, dal momento in cui termina la creazione delle graduatorie, è (o dovrebbe essere) abbastanza rapida, in quanto è stata già effettuata la valutazione dei requisiti e il dipendente può così essere chiamato in breve tempo a firmare il contratto a tempo indeterminato.

RACCOMANDAZIONE E PRECARIATO.

Assumi, assumi: qualcosa resterà. Più che la parafrasi del motto di Oscar Wilde (diffama, diffama: qualcosa resterà), a Palazzo Chigi sembra in voga la tattica, tipica della prima Repubblica, di assunzioni nel pubblico impiego. Tattica che veniva rafforzata in vista di un ciclo elettorale. All’epoca, però, non c’erano vincoli di bilancio da rispettare, e il debito volava rapido fino alle vette attuali. Con la legge finanziaria 2007 il governo Prodi sembra aver provato nostalgia per quelle pratiche. Tant’è che per il triennio successivo ha previsto di spendere un miliardo e 161 milioni di euro per ampliare gli organici della pubblica amministrazione (Forze di sicurezza, ma non solo). Risultato: potranno essere assunte più di 41mila persone. Esattamente gli abitanti di Macerata. Al tempo stesso, però, con un blitz lessicale, introduce in uno dei maxi-emendamenti approvati con la fiducia alla Camera, una profonda modifica al regime di sanatoria per i precari. Cambiando qualche avverbio, rende possibile l’assunzione di circa 50mila precari; soprattutto quelli con contratti a termine presenti nelle amministrazioni regionali. Una popolazione pari a quella di Pordenone. I costi di queste nuove assunzioni, che arrivano a un totale virtuale di 91mila (ma potrebbero essere anche di più, fino a sfiorare le 100mila unità), sono garantite dal maggior gettito fiscale.

Dai dati sulle entrate tributarie, è evidente come l’andamento del gettito sia estremamente legato alla dinamica del prodotto interno lordo. Ma se la congiuntura dovesse peggiorare (come prevede lo stesso governo), le assunzioni restano assunzioni: contabilizzate come spese certe; mentre le entrate che le garantiscono, inevitabilmente, sono destinate a scendere. E per finanziare gli aumenti di organico, dovranno essere sostituite da nuove tasse.

Lamberto Dini non ha votato per la stabilizzazione dei precari della Pubblica amministrazione, da lui definiti “amici degli amici”. Dini parla chiaro. Secondo lui la sanatoria “vuol dire che si assumono gli amici degli amici nei comuni e altrove. E poi si fa la sanatoria per passarli di ruolo. Vi sembra questa – conclude - una cosa seria?”.

Insomma, i cittadini pagheranno i raccomandati assunti a tempo determinato nella Pubblica Amministrazione, che, con falsa contrapposizione delle parti politiche, hanno visto sanare la loro posizione in tempo indeterminato senza concorso. Con una grande presa per i fondelli la sinistra e i sindacati hanno paragonato i lor signori, amici e parenti, ai veri precari del lavoro, loro sì sfruttati e malpagati.

Ma ci sono altri gravi precedenti. L’INPS, il giorno 23 luglio 1999, ha pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il bando di un concorso per 1940 posti di collaboratore amministrativo, per la 7a qualifica funzionale. L' On. Michielon, da sempre in prima linea contro le truffe, il giorno 3 maggio 2000 ha presentato un'interrogazione nella quale chiede se corrisponde a verità il fatto che tutti i candidati del concorso Inps, hanno brillantemente superato le prove scritte e se corrispondono al vero le varie voci che narrano di strani episodi relativi a questo concorso “virtuale”. L'On. Michielon l’anno prima aveva presentato un'analoga interrogazione al Governo, la risposta che ricevette fu che "non esisteva alcuna addomesticatura del Concorso".

L'onorevole Michielon, per nulla soddisfatto della risposta governativa emise un comunicato stampa. “La farsa continua" "Confermate le mie accuse sul concorso truffa a 1.940 posti presso l'INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l'Ente”. “Con una replica imbarazzata - continua Michielon – il Governo, confermando un comportamento connivente, che ricorda molto i regimi totalitari con suffragi pari al 100 per 100 degli aventi diritto, ha ammesso che dei 1790 partecipanti alla selezione scritta del concorso, tutti hanno superato la prova”. ”Fin dal giugno 1997 - spiega Michielon - l'INPS aveva individuato una carenza di personale quantificata in circa 3.650 unità, per la copertura della quale si riteneva necessario reperire risorse dall'esterno. Incredibilmente nel 1998 veniva bandito un concorso per soli 394 posti di collaboratore della VII qualifica funzionale, mentre l'anno successivo, nel luglio 1999, veniva indetto un "concorso" per titoli ed esami per 1940 posti nella medesima qualifica funzionale." “Già in una precedente interrogazione - prosegue il deputato del carroccio - cercavo di far luce su questo concorso-truffa, bandito ad hoc per sistemare quelle circa duemila unità di lavoratori impiegati in LSU presso l'INPS ed il cui bando richiedeva, come requisito essenziale per l'ammissione, l'aver partecipato a progetti di LSU per un periodo temporale che, guarda caso, coincideva esattamente con la durata di impiego dei LSU presso l'INPS.” “Alla luce del fatto che su 1790 partecipanti effettivi, 1790 risultano essere i candidati ammessi alle prove orali - prosegue il parlamentare leghista - ho presentato una nuova interrogazione contro questo concorso-truffa, che altro non è che la conferma di un posto di lavoro”. “Resta strabiliante il criterio di selezione - conclude Michielon - che ha fatto sì che per il concorso a 394 posti siano stati ammessi 11 mila candidati, mentre per il concorso a 1940 posti sono stati ammessi solo 1790 concorrenti, tutti risultati idonei dopo gli scritti. Ed inoltre, se i vincitori del concorso a 394 posti non sono stati ancora assunti in attesa della determinazione del Consiglio dei Ministri in relazione al numero massimo di assunzioni autorizzate per l'Istituto, il Governo deve ancora spiegare come si sia potuto bandire un concorso per ben 1.940 posti, peraltro a così breve distanza dal precedente”.

IL PARADOSSO DEI CONCORSI PUBBLICI (TRUCCATI): NON ESSERE ASSUNTI.

IL FATTO. Editoriale a cura del direttore del TGnorba online Enzo Magistà di giovedì 7 settembre 2017. Tema del giorno: i concorsi vinti nel settore pubblico non garantiscono più un posto di lavoro. «Il lavoro ti cambia la vita ma talvolta te la stravolge la vita. E’ la promessa o la speranza della certezza di un lavoro ad avere questo effetto. Di che cosa parliamo… In Italia esiste anche questo… Uno fa un concorso pubblico, lo vince e pensa: “Mi sono sistemato, mi sono sistemato per sempre, per la vita!”. Un po’ come accadeva nel film di Checco Zalone. Non sa, poveretto, non può sapere, che in Italia non basta vincere un concorso pubblico per trovare un lavoro. Il concorso è una promessa, una cambiale, non è una certezza. Intanto perché c’è una legge ancora in vigore, del periodo montiano, che blocca la validità dei concorsi, anche di quelli già conclusi. E poi perché la legge di riforma della Pubblica Amministrazione, la legge Madia, ha cancellato parecchie figure amministrative e professionali, rendendo inutili quelle assunzioni, anche vinte per concorso. E sono parecchi i concorsi già espletati che non servono più. Pensate un po’, in Italia c’è un sindacato dei vincitori di concorso non assunti, sapete quanti sono gli iscritti? 156.000. Ce ne sono tanti, anche pugliesi. Alla Regione, per fare un esempio, sono centinaia i vincitori di concorso tutt’oggi ancora precari da decenni. All’Inail in 400 attendono di essere assunti dopo aver vinto un concorso, 17 anni fa. C’è chi è andato in pensione senza avere mai preso in possesso del lavoro vinto per concorso. Insomma, il concorso ti salva la vita ma ti può anche uccidere. Allora sarebbe ora di cambiare. Sarebbe più facile, come avviene in altri Stati, premiare i titoli non gli esami. In quel caso, in questo caso, le assunzioni sarebbero immediate, elettroniche. Uno presenta i titoli, si fa una graduatoria, c’è chi vince e c’è chi perde in una giornata, in una settimana. Ma ancor di più sparirebbero le raccomandazioni. Vallo a spiegare però a chi dovrebbe fare questa riforma, la politica. Sarebbe come togliere pane e acqua a un affamato». 

Concorsi pubblici: non fidatevi mai delle promesse di questo Stato, scrive Stefano Feltri il 4 marzo 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Avete vinto, almeno su Twitter. Cari #idoneiinlotta, il vostro “social bombing” ha ottenuto l’effetto sperato: ignorarvi è diventato impossibile, anche per noi giornalisti troppo presi dalle analisi macroeconomiche o dalla crisi della Grecia per seguire vicende intricate come la vostra. Ma ce l’avete fatta, non c’è giornalista che – almeno per sfinimento – possa dire di non essersi accorto della vostra storia. Fine della premessa. Veniamo al riassunto per chi non usa Twitter o non è un giornalista assediato dalle segnalazioni di un’ingiustizia che si è consumata nell’indifferenza generale. I concorsi pubblici in Italia saranno pure pieni di raccomandati, viziati da mille furbizie e spintarelle, ma sono anche difficili, spesso difficilissimi, richiedono anni di preparazione e anni per attenere i risultati. Per quanto defatiganti, migliaia di persone ci provano perché sanno di affrontare una selezione dura ma basata sul merito (o su una sua misurazione approssimata) e perché se uno vince, pur coi tempi da bradipo dello Stato, prima o poi avrà un lavoro sicuro e ben retribuito. Sbagliato! La legge di Stabilità approvata a dicembre stabilisce che i 20mila dipendenti in esubero delle Province (abolite, più o meno) devono essere ricollocati in altre amministrazioni pubbliche. Per far loro spazio, si stabilisce il blocco del turnover (chi va in pensione o cambia lavoro non viene rimpiazzato da un nuovo ingresso) e il blocco delle assunzioni degli “idonei” che speravano arrivasse il loro turno. Sono 84mila persone che hanno fatto un concorso, hanno ottenuto abbastanza punti da essere promossi ma la loro posizione in graduatoria non ha garantito l’immediata assunzione. Una legge del 2013 aveva prorogato le graduatorie fino al 2016, secondo lo spirito che prima di bandire nuovi concorsi lo Stato dovesse assumere le persone che aveva già giudicato idonee per le posizioni da coprire (anche per risparmiare, visto che un concorso per 10-15mila persone costa parecchio tra logistica e correzione). L’unica obiezione al “diritto acquisito” è che certe competenze invecchiano e quindi non ha molto senso assumere qualcuno che ha passato una prova selettiva vecchia di anni. Ma questo argomento meritocratico cade subito, visto che gli idonei non assunti vengono scavalcati da altri dipendenti statali che come unico merito hanno quello di aver lavorato negli ultimi anni in enti così inutili, le Province, che il Parlamento ha deciso di abolirle. È difficile risolvere il dilemma: licenziamo i 20mila delle Province per far spazio ai meritevoli? Diciamo a chi ha vinto un concorso di mettersi l’animo in pace, dando così il messaggio ai laureati di oggi che è meglio non fidarsi dello Stato? La politica ha combinato il guaio e tocca alla politica risolverlo. Ancora una volta, però, si conferma la percezione che nessun datore di lavoro è così iniquo, scorretto e inaffidabile quanto lo Stato.

P.A., l’esercito dei vincitori di concorso ma disoccupati da anni. Sono 100mila i vincitori di concorsi nella Pubblica amministrazione che, negli ultimi 10 anni, attendono ancora di essere chiamati in servizio. Alcuni in ruoli chiave, come le decine di psicologi che hanno vinto un impiego per lavorare nelle carceri. E poi i casi beffa, come i 107 funzionari ancora non assunti dall'Ice (Istituto per il commercio estero) e appena soppresso da Tremonti, scrive Patrizia De Rubertis il 12 luglio 2011 su "Il Fatto Quotidiano". In Italia c’è una macchina che funziona benissimo: è quella dei concorsifici. Muove un giro d’affari da 3 miliardi di euro l’anno, tutto a carico delle amministrazioni pubbliche che devono pagare commissioni, società esterne di consulenza e affitti per le sedi di esame. Funziona così bene che solo nel 2010 sono stati banditi da ministeri, enti locali, previdenziali e di ricerca, e amministrazioni provinciali e comunali oltre 7 mila concorsi. Peccato che – secondo la Cgil – ci siano già circa 100mila tra vincitori e idonei a concorsi nella P.A. pubblicati negli ultimi 10 anni che attendono di essere chiamati in servizio. Insomma, persone che hanno festeggiato un’assunzione mai arrivata, perché ogni anno nella manovra finanziaria viene inserito il blocco del turnover. Anche la legge varata l’altro ieri ha stoppato le assunzioni fino al 2014. Così, se da un lato, il ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, annuncia l’esubero di 300mila lavoratori nel comparto pubblico, dall’altro, però, non ferma la stessa Funzione Pubblica che continua a concedere l’autorizzazione a concorsi che sfornano nuovi vincitori precari. Storie paradossali che andranno ad aggiungersi a quelle che già popolano il Comitato XXVII ottobre che riunisce vincitori e idonei di pubblico concorso ancora in attesa di assunzione.

Come quella che ci ha raccontato Maria Cristina Tomaselli. “A maggio del 2004 – dice – il ministero di Grazia e Giustizia bandisce un concorso per 39 psicologi da assegnare negli istituti penitenziari”. Maria Cristina supera la prova preselettiva nella quale si presentano in 3mila, poi altri due scritti e infine l’orale. “Nel 2006 – continua – arriva la notizia che ti cambia la vita: ‘ho vinto’. Una gioia immensa che, purtroppo, svanisce poco dopo, quando noi vincitori scopriamo di non poter essere assunti per carenza di fondi”. Nel 2008 la beffa: la responsabilità delle assunzioni passa tutta al ministero della Salute, quindi alle Asl che, tuttavia per legge, non sono obbligate a chiamarli. “Lo sconforto – spiega Maria Cristina – diventa tale da pensare che il futuro sia solo nero”. I 39 vincitori decidono, quindi, di ricorrere al Tribunale del Lavoro di Roma che a maggio 2010 gli dà ragione, obbligando il ministero ad assumerli. Ma non c’è tempo per esultare, perché, dice la psicologa, “assurdo dell’assurdo, il ministero ricorre in appello e come unico contentino, dall’anno scorso, ci fa svolgere lo stesso lavoro con un contratto a progetto, di 45 ore mensili per 650 euro lordi”. Così mentre in Italia si muore di carcere, con le strutture vicine al collasso, lungo lo Stivale ci sono solamente 16 psicologi di ruolo e appena 450 che collaborano come consulenti esterni.

Altra situazione inverosimile è quella dei vincitori dell’Ice, l’Istituto del commercio estero che – nonostante fosse già nell’aria la sua soppressione, nel 2008 pubblica un bando per 107 posti. Si presentano in 15mila, tra cui Cinzia Nannipieri, trentenne laureata in Scienze Politiche e Master in Relazioni Internazionali. “Abbiamo svolto tre prove, ci ha raccontato. Lo scritto nel 2009 e l’orale agli inizi del 2010. Uscita la graduatoria, a stento credo ai miei occhi: sono arrivata 65°. Sono tra le vincitrici”. Ma anche in questa storia, i vincitori non fanno in tempo a stappare lo spumante, perché il ministro Tremonti all’inizio del 2010 prevede il taglio degli enti ritenuti inutili, tra cui quello proprio sull’attività di promozione delle imprese italiane all’estero. Ed anche se lo scorso anno l’istituto continua, comunque, a rimanere a galla, l’avvertimento del responsabile del personale dell’Ice è chiaro: “Sarete assunti da qui a 10 anni”. Una flebile speranza che è naufragata definitivamente in queste ore, visto che la manovra economica ha soppresso l’Ice, con gli uffici all’estero inglobati nelle ambasciate e i dipendenti italiani riassorbiti al ministero dello Sviluppo. “Un sogno infranto che – ammette Cinzia – è costato sudore e tempo”. Ad aiutarli non è, quindi, bastata la lettera che i vincitori hanno scritto la scorsa settimana al presidente delle Repubblica Napolitano chiedendogli “di lottare insieme”. Ora la speranza per i 107 dell’Ice e per tutti i vincitori e idonei di concorso è riposta nelle mani del Comitato Ristretto della Commissione Lavoro che ha il compito esaminare e accorpare i tre progetti di legge presentati da tre parlamentari: Cesare Damiano(Pd), Antonio Di Pietro (Idv) e Giuliano Cazzola (Pdl) che propongono il prolungamento della scadenza dei concorsi al 2013 e l’obbligo per le amministrazioni di pescare nel bacino dei vincitori prima di indire un nuovo bando. “Proposte che, secondo Damiano – interpellato da ilfattoquotidiano.it – hanno una chance di attuazione. Ma con questo governo è impossibile sbloccare le assunzioni. Intanto la mia richiesta di conoscere le sorti dei vincitori dell’Ice non ha ancora ottenuto risposta”.

Concorsi pubblici, l’esercito degli idonei e le loro speranze lavorative a scadenza: da gennaio graduatorie non più valide. Sono oltre 150mila persone, giovani e meno giovani, hanno superato decine di concorsi pubblici ma non hanno mai trovato lavoro stabile. Eppure un decreto legge del 2013 aveva disposto che prima di bandire nuove, costose e lunghe procedure selettive le assunzioni dovessero avvenire tramite lo scorrimento delle graduatorie. Che scadono il 31 dicembre prossimo. I movimenti: "Vogliamo una proroga. Esclusi dal clientelismo". Dalla giustizia alla sanità fino all'amministrazione pubblica, storia di un controsenso tutto italiano, scrive Luisiana Gaita il 2 novembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Hanno alle spalle anni di sacrifici e studi. Soprattutto di speranze. A scadenza: 31 dicembre 2016. Sono gli idonei ai concorsi pubblici, quelli che hanno partecipato e superato le selezioni indette dagli enti statali, ma non sono stati mai assunti perché le graduatorie ci sono, ma spesso si è fatto finta di non vederle. Si tratta di un esercito di giovani e meno giovani: stando ai dati del ministero, oltre 151mila sono le idoneità, ma molte si riferiscono alla stessa persona che ha partecipato a più selezioni. Eppure secondo comitati e movimenti che raggruppano gli idonei, si tratta di almeno di 150mila persone dato che il monitoraggio ministeriale ha censito le graduatorie di oltre 4mila enti sui più di 23mila conteggiati dall’Ipa (Indice delle pubbliche amministrazioni). Per tutti il limbo ha una fine: 1 gennaio 2017, giorno in cui le graduatorie saranno di fatto scadute e loro rimarranno con un pugno di mosche in mano. E pensare che tra di loro c’è anche chi ha superato fino a 18 concorsi. A questo si è arrivati perché le cose sono andate diversamente rispetto al decreto legge 101 del 2013: in piena austerity la norma aveva disposto che le assunzioni dovessero avvenire tramite lo scorrimento delle graduatorie prima di bandire costose e lunghe procedure selettive. Ed ora, a poco più di due mesi dalla scadenza, se non si interverrà con una proroga, i vari Enti dovranno bandire nuovi concorsi. Oppure procedere a esternalizzazioni e ‘chiamate dirette’. “Chiediamo la proroga dell’efficacia delle graduatorie in scadenza per altri due anni” ha detto a ilfattoquotidiano.it Alessio Mercanti, presidente del Comitato nazionale XXVII ottobre, che ha programmato per il 15 novembre una manifestazione davanti al ministero della Pubblica amministrazione. Nei giorni scorsi ha affrontato la questione anche il sindaco di Napoli De Magistris, mentre il Movimento unico nazionale vincitori idonei e concorsisti (Munvic, presieduto da Valeria Mancini) ha avviato un esposto alla Commissione europea con la collaborazione dello studio legale Leone-Fell, denunciando “un sistema che favorisce i clientelismi”. Il tutto mentre il premier Matteo Renzi annuncia il via libera a nuovi concorsi pubblici. E c’è chi, a più di 40 anni (e una lista di concorsi superati alle spalle), potrebbe anche dover ripartire daccapo.

VINCITORI, IDONEI E PRECARI. Inchiesta di Luisiana Gaita del 2 novembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". In ogni graduatoria di merito stilata in seguito a un concorso pubblico ci sono i vincitori (che hanno un immediato diritto all’assunzione) e gli idonei, inseriti nell’elenco in vista di future assunzioni per lo stesso profilo. Questi ultimi spesso lamentano di essere stati esclusi pur avendo superato diverse procedure mentre ci sono precari che lavorano negli enti pubblici spesso senza aver neppure partecipato ai concorsi. La responsabilità di tutto ciò per il Comitato nazionale XXVII “è del sistema, non certo dei precari che ad oggi sarebbe anche impossibile (oltre che illogico) mandare a casa”. Ma cosa dovrebbe accadere ottenendo la proroga della validità delle graduatorie? “Questo ci darebbe il tempo di metterci attorno a un tavolo – spiega Mercanti – e stabilire una priorità: vincitori, idonei e precari. Ci vuole la volontà politica. Il problema l’hanno creato tutti e tutti devono concorrere alla soluzione, anche perché è una questione seria che sta creando frustrazione, senso di impotenza e, in alcuni casi, tutto ciò ha portato anche a conseguenze sulla salute di questi ragazzi”. Il rischio è che il governo scelga di garantire l’assunzione solo ai vincitori oppure “che si proceda con una proroga differenziata – continua il presidente del comitato – magari facendo valere solo le graduatorie con la scadenza da una certa data in poi”.

LE GRADUATORIE E LA LEGGE – Ma cosa dice la legge a riguardo? Con l’obiettivo di contenere la spesa pubblica il cosiddetto decreto D’Alia (101/2013), convertito con la legge 125/2013 e la circolare 5/2013 del Ministero della Funzione Pubblica hanno disposto che, in caso la pubblica amministrazione avesse previsto nuove assunzioni, si sarebbe dovuto procedere in via prioritaria a far scorrere le graduatorie vigenti, la cui durata è stata appositamente prorogata fino al 31 dicembre 2016 e, comunque, per un periodo non inferiore a 3 anni dalla data di approvazione della graduatoria in questione. “Rifare ogni anno i concorsi significa spendere milioni di euro, un’enorme mangiatoia che ha creato clientelismi” spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Francesco Leone che, insieme al Munvic, ha avviato un esposto alla Commissione europea. “Secondo le segnalazioni che ci arrivano dal movimento – racconta – sono oltre 200mila gli idonei che si trovano in questa situazione ed è un paradosso visto che lo Stato ha speso denaro per selezionare la stessa persona in alcuni casi anche diciotto volte”.

LE RAGIONI DELLO STALLO – L’attuazione del decreto D’Alia è stata resa difficile sia dalla ricollocazione del personale delle Province, sia dalle limitazioni del turn over che i Governi hanno adottato. Secondo l’avvocato Leone una responsabilità importante ce l’hanno anche le amministrazioni. “Sono solite prescindere da quanto previsto dal nostro legislatore in materia di utilizzo delle graduatorie – spiega – preferendo, nella maggior parte dei casi, procedere all’indizione di nuovi concorsi”. Eppure già nel programma elettorale del Pd di Pier Luigi Bersani ‘Italia giusta’, nel 2013, era previsto il “divieto assoluto di ricorrere a somministrazione del personale e di attivare contratti ‘precari’ prima dell’esaurimento delle assunzioni di idonei in concorsi”. Senza parlare delle parole del ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia che l’anno dopo, nell’ottobre del 2014, prometteva: “Prima di nuovi concorsi esaurire graduatorie”.

LE GRADUATORIE SETTORE PER SETTORE. Inchiesta di Luisiana Gaita del 2 novembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Da circa due anni sul sito del Dipartimento della Funzione pubblica continua il monitoraggio delle graduatorie. Al 23 ottobre sono 4.092 gli enti registrati che hanno fornito i propri dati, per un totale di 16.335 graduatorie censite, la maggior parte delle quali scadrà a dicembre. Si tratta di 39.019 posti banditi, 33.860 vincitori assunti, 39.399 idonei assunti, 4.471 vincitori da assumere e, appunto, 151.378 idonei, anche loro in coda per un posto di lavoro. Nello specifico, per quanto riguarda gli idonei da assumere, il 38,7% compare negli elenchi delle graduatorie dei concorsi dei Comuni (55.581 persone per 7.243 graduatorie), il 33,2% ha superato concorsi banditi da Unità sanitarie locali (47.636 unità), il 6,2% dall’Università (8.969), il 3,8% dalle Province(5.475). Nei primi due settori, sono state censite rispettivamente 7243 graduatorie per i Comuni e 3291 per le Usl. Seguono gli istituti di ricerca e sperimentazione (4.704 gli idonei in attesa), gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (3.022 idonei da assumere) e il settore Ripam (Riqualificazione pubblica amministrazione), con una registrazione di 31 graduatorie (da assumere 187 vincitori e 2502 idonei). Secondo gli addetti ai lavori, però, non c’è troppo da affezionarsi a questi dati. “La circolare ministeriale n. 5/2013 – spiega l’avvocato Leone – prevede che tutte le graduatorie debbano essere trasmesse e pubblicate sul sito Monitoraggio Funzione Pubblica, ma molte amministrazioni non hanno provveduto a trasmetterle violando gli obblighi di trasparenza e il Dipartimento non ha così provveduto alla pubblicazione”. Anche il Munvic ha creato un proprio sito autonomo (munvic.it) all’interno del quale raccoglie le graduatorie attualmente vigenti.

DAL CONCORSO RIPAM ALLA GIUSTIZIA – Nei giorni scorsi anche il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, in una nota al ministro Madia, ha sottolineato la necessità di poter procedere ad ulteriori scorrimenti delle graduatorie del concorso RIPAM svoltosi nel 2010 per assumere giovani professionalità senza dover attendere i tempi lunghi di nuove ed onerose procedure concorsuali e far fronte “ai tanti pensionamenti che stanno falcidiando prestazioni fondamentali per i cittadini”. E il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo ha lanciato l’allarme sullo stallo della Giustizia italiana, con la carenza di organico che rende difficile “convocare le udienze”, piuttosto che “aprire gli uffici” ai cittadini. Queste le cifre: mancano 9mila unità di personale amministrativo per una scopertura media degli organici del 21%, con punte del 50%. Nel frattempo i ministri della Giustizia e della Pubblica amministrazione, Andrea Orlando e Marianna Madia, hanno firmato il decreto che determina i criteri per l’avvio di mille nuove assunzioni di personale amministrativo non dirigenziale che potrà trovare immediato ingresso nel ruolo dell’amministrazione giudiziaria: 800 posti saranno riservati ai vincitori di concorso pubblico e 200 all’assunzione degli idonei delle graduatorie.

LA SANITÀ – Secondo l’avvocato Leone, uno dei settori dove maggiormente le amministrazioni hanno mostrato “la costante intenzione di procedere con l’indizione di nuovi concorsi” è quello della sanità. “In occasione dell’apertura dell’Anno Santo per il Giubileo – spiega – sono state disposte oltre 500 assunzioni, per lo più a tempo determinato e, in quell’occasione il Governo e il commissario ad acta per la Regione Lazio hanno completamente trascurato l’esistenza delle molteplici graduatorie di idonei e vincitori detenute dalle varie aziende ospedaliere regionali”. Tra le strutture interessate dal piano straordinario di assunzioni i policlinici ‘Umberto I’ e ‘Sant’Andrea’, “aziende che per prime sono state obbligate dai giudici amministrativi del Tar del Lazio ad applicare le disposizioni vigenti e quindi a far scorrere le graduatorie”.

LA CAMPAGNA E L’ESPOSTO. Inchiesta di Luisiana Gaita del 2 novembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Il Munvic e lo studio legale Leone-Fell hanno messo in piedi la campagna #Iomerito per tutelare la posizione dei vincitori e degli idonei dei concorsi pubblici. “Il nostro obiettivo – spiega Leone – è quello di trasformare le attuali graduatorie vigenti in graduatorie ‘ad esaurimento’, ossia prive di una scadenza predeterminata e dalle quali, finché vi saranno idonei, l’Amministrazione dovrà attingere per soddisfare il fabbisogno d’organico”. Invece, tanto per fare un esempio, negli ultimi mesi del 2015 lo studio legale ha presentato diffide per oltre 900 idonei e vincitori di concorso pubblico, invitando varie Pubbliche Amministrazioni ad utilizzare le proprie graduatorie, così come previsto dalla legge. Si è aperta una battaglia su più fronti. Da un lato i ricorsi davanti alle autorità competenti, dall’altro “un esposto alla Commissione Europea con il quale chiediamo l’apertura di una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia”. Al centro la situazione di oltre 500 tra vincitori ed idonei, appartenenti ad oltre 200 graduatorie (Polizia Municipale, Infermieri, Istruttori Amministrativi, Operatori Contabili, Operatori Amministrativi). “Ci sono anche i vincitori – spiega Leone – perché è bene ricordare che ad oggi circa 5mila di loro non sono ancora assunti”.

L’aspirante poliziotto, il funzionario, il disoccupato. Venti storie degli idonei che scendono in piazza. La beffa degli 80 mila che hanno superato il concorso pubblico. Il racconto delle vittime. Mercoledì la mobilitazione generale a Roma. Lo slogan: «Bisogna difendere il merito». «Il merito scende in piazza», è uno degli slogan che accompagneranno la manifestazione l’11 febbraio, scrive "La Stampa" il 09/02/2015.  Stop al turnover in ogni tipo di amministrazione, sia centrale che periferica, forze di polizia comprese, sino a tutto il 2016, ha sancito l’ultima legge di Stabilità che dei tanti concorsi banditi ha salvaguardato solo i vincitori. E gli 80 mila beffati si sono organizzati in coordinamenti, aperto pagine Facebook e lanciato una serie di hashtag su Twitter, da #idoneiinpiazza2015 a #piùsicurezza a #nobloccoassunzioneidonei per lanciare la mobilitazione. Dopodomani mattina saranno a Roma, davanti a Montecitorio. Ecco venti storie degli idonei che scendono in piazza: dall’aspirante poliziotto, al funzionario e alla disoccupata.  

“Il nostro sogno è una divisa”. Maximiliano Massa, Napoli, disoccupato. Concorso allievi agenti della Polizia di Stato del 2012. «Come è possibile in un periodo delicato come questo dopo gli ultimi eventi che hanno visto come protagonisti gruppi terroristici e come vittima l’unione europea compreso il nostro “bel paese”, non assumere personale nelle forze di polizia e armate idoneo e pronti a partire a costo zero, eliminando grandi sprechi in un periodo di grave crisi e deflazione in cui sta affondando la nostra nazione. Dopo vari ricorsi al Tar Lazio e manifestazioni a Roma spero di potar voce alle speranze di centinaia di ragazzi che vogliono come me di incoronare il sogno di indossare la divisa e rendersi totalmente al servizio dei cittadini onesti». 

Laura D’Ambrosio, 25 anni, provincia di Roma. Concorso allievo polizia penitenziaria 2011. «Attualmente lavoro come commessa, ma aspiro ad arruolarmi. Appena diplomata ho preso servizio nell’Esercito, quindi nel 2011 ho partecipato al concorso per diventare Allievo agente Polizia penitenziaria. Ho superato tutte le prove previste dal bando e mi hanno ritenuta idonea non vincitrice. In questi momenti, dove il terrorismo minaccia la nostra Italia e la delinquenza è in continuo aumento, è necessario investire nella sicurezza dei cittadini e allora perché non sbloccare il turn over e far scorrere le graduatorie degli ultimi cinque anni?».

E come lei anche Claudio S., 26 anni, di Aversa (CE), disoccupato che nel 2012, come Giuseppe Grande, ha partecipato al concorso per diventare Allievo Agente per la polizia penitenziaria, Ambra Saponangelo ed Eleonora Acacia, che nel 2013 hanno partecipato al concorso per diventare allievo finanziere, Salvatore Dara che nel 2008 ha partecipato al concorso per diventare allievo carabiniere, Stefano Montalto e Anna Viola che ha fatto lo stesso nel 2010, Alessio Gueccia, che nel 2014 ha partecipato al concorso per diventare allievo agente polizia di Stato e Claudio Catanzaro, 28 anni, che l’ha fatto due anni prima, e Nicola Russo che l’ha fatto nel 2011, Antonio La Mura, che nel 2014 ha partecipato al concorso 4Ist per diventare Allievo Maresciallo Carabiniere, Gianluca Buccolieri, 30 anni di Torre Santa Susanna (Brindisi), attualmente disoccupato.  

“Noi 250, immediatamente arruolabili”. Francesco F., 26 anni. Concorso per 650 Allievi Agenti della Polizia di Stato anno 2014. «Sono il portavoce di tutti gli idonei, ovvero circa 900 ma ad oggi, siamo rimasti esclusi e quindi fuori graduatoria, 250 unità! Anche in virtù dei drammatici eventi accaduti nella vicina Francia ed a seguito delle minacce che il nostro stato ha ricevuto dai terroristi islamici, tutti i Prefetti d’Italia vogliono e devono alzare la sicurezza nel nostro Paese. Manca il personale? Vorrei fare presente che noi 250 siamo le uniche unità a poter essere immediatamente arruolabili in quanto abbiamo tutti l’idoneità fresca (luglio/settembre 2014) e siamo gli unici a non avere il problema ostativo della seconda aliquota interforze. L’ assunzione di tutti gli idonei del nostro concorso, sarebbe un gesto doveroso da parte del governo, che faccia capire che effettivamente ha a cuore la sicurezza dei cittadini italiani”. 

“Sono emigrato in Svizzera, vorrei tornare». V.A., 31 anni, emigrato a Berna. Concorso polizia penitenziaria. «La mia storia e come tanti miei coetanei che io ritengo già miei colleghi in questo viaggio. Durante il concorso io seguivo anche corsi all’università e contemporaneamente seguivo la malattia di mio padre che a breve termine me lo avrebbe portato via. Ho lasciato l’università per andare all’estero a lavorare, cosa che ho fatto a malincuore ma purtroppo la situazione in famiglia non è la più rosea: mia madre ancora oggi prende 500 euro di pensione con un mutuo da pagare. Si parla tanto di collasso nelle carceri mentre ci sono carceri nuove completate ma non aperte perché manca personale, sono 8000 sotto organico la polizia penitenziaria ma al tempo stesso dal 2013 ci sono 1400 ragazzi in graduatoria lasciati a casa solo perché ora lo Stato ha deciso di risparmiare. Ma perché gli onesti cittadini che non è in grado di garantire la sicurezza?». 

“Applicare la legge D’Alia”. Nicola Rossi, concorso allievo finanziere del 2010. «Di questo concorso per 952 posti siamo circa 120 fuori graduatoria, di cui una buona parte è già entrata nelle forze di polizia in concorsi banditi dal 2010 ad oggi. Vi prego di parlarne, c’è la legge125/13 (D’Alia) che potrebbe essere applicata risparmiando così tanti soldi invece di bandire altri concorsi, soprattutto in questo periodo difficile».

“Combatto per i sogni dei nostri figli”. Rocco Antonucci. «Sono un papà di uno dei tanti ragazzi idonei non in graduatoria dei concorsi nelle Forze di Polizia ed Armate, nonché rappresentante di tutti i ragazzi idonei non in graduatoria della pagina Facebook “Idonei delle Forze Armate e di Polizia”. Stiamo parlando di giovani ormai delusi e frustrati per la vicenda e l’ingiustizia che stanno subendo dopo aver affrontato sacrifici insieme alle loro famiglie per superare un concorso per le forze di polizia. È dal 2011 che cerco di far realizzare il sogno di mio figlio ma inutilmente. Il sentimento che si prova in questi casi e le parlo da genitore è quello di impotenza, di rabbia e delusione verso le istituzioni. Dopo l’approvazione della legge D’ Alia e le speranze di vedere i sogni e le aspettative dei nostri ragazzi realizzati erano a mille ma purtroppo dopo varie interpellanze parlamentari sulla non applicazione della legge D’Alia sullo scorrimento delle graduatorie e ricorsi alla giustizia amministrativa i sogni di vedere i propri figli realizzarsi sono andati in frantumi e con essi tutte le speranze riposte. I nostri sono tutti ragazzi che vorrebbero indossare una divisa della Repubblica Italiana e salvaguardare la sicurezza dei cittadini che ne fanno parte». 

“Noi vittime dei tagli di spesa”. Candida Pignatiello, 39 anni, Napoli, disoccupata. Concorso 50 amministrativi B1 Inps del 2007. “E’ davvero frustrante essere idoneo di concorso in questo Paese, perché si deve assistere al fatto che mentre ti si blocca l’assunzione “per ridurre la spesa” devi vedere che poi si spendono “molti soldi” per far lavorare altri al posto tuo. Sono consapevole della necessità di ridurre la spesa, ma questo è il modo più sbagliato. Mi si consenta di ricordare che i dipendenti giustamente sono tutelati e ai precari è stata prorogata al 2018 la normativa speciale per la stabilizzazione. Mentre agli idonei che scadono nel 2016 è stata bloccata l’assunzione fino al 2016. Chiara volontà di farci fuori. E disparità di trattamento con i precari”.

“Ma davvero qualcuno attingerà dall’Inail?”. Giovanni, Catanzaro, professione avvocato. «Ho partecipato al concorso Inail 404, per il quale a tutt’oggi non sono stati assorbiti neanche la gran parte dei vincitori oltre agli idonei. A tal proposito segnalo il testo dell’interrogazione parlamentare dei sen. D’Alia e Dellai a cui ha risposto il sottosegretario al Lavoro, on. Cassano, il quale ha assicurato che in caso di richieste, la nostra graduatoria sarebbe stata ceduta al ministero della Giustizia o al ministero del Lavoro il quale ultimo aveva già chiesto l’autorizzazione ad assumere 131 funzionari eventualmente da altra amministrazione. L’Inail, dal canto suo, ha finito di assorbire gli esuberi nel mese di dicembre 2014 per cui dovrebbe ricominciare ad assumere già da quest’anno, ma di questo non vi è alcuna certezza. Si viaggia nell’incertezza più assoluta mentre basterebbe un po’ di buona volontà per chiarire la nostra, come tutte le altre vicende dei vincitori e degli idonei di tutti i concorsi e premiare il merito». 

“Spending review? Con gli idonei si risparmia”. Agostino Lo Piccolo. “Sono uno degli amministratori del gruppo idonei enti locali, presente su Fb e Twitter. Il gruppo è composto da migliaia di idonei come il sottoscritto, che dopo aver superato un concorso si sono visti negare il diritto al lavoro, per svariate ingiustizie messe in atto da Comuni, Regioni ecc. Il nostro scopo è quello di far applicare dagli enti locali la legge D’Alia, che prevede l’assorbimento delle graduatorie anche di altri enti locali limitrofi, prima dell’approvazione di nuovi concorsi. Quanto sopra darebbe il giusto merito a noi idonei, e in un periodo di spending review, farebbe risparmiare soldi pubblici per un nuovo bando di concorso”.

Fiorenzo Lipoli. Vari concorsi nella Pa. «La mia storia è uguale a quella di tanti altri. Dopo qualche anno come funzionario presso una Pa ho tentato la scalata alla dirigenza, e, mi si consenta, con un buono score concorsuale: 9 concorsi tentati, se non ricordo male, e 6 idoneità di cui 5 ancora attive. Molto bene pare...non proprio, ci sono 2 ostacoli, uno dei quali è costituito dalla limitazione delle assunzioni e paradossalmente non é quello più ostico. Il problema di fondo, a mio avviso, è la mancanza di certezze dal punto di vista del ruolo che la dirigenza deve assumere nel caso delle strutture tecniche. A mio avviso è troppo discrezionale l’accezione “personale specificamente qualificato nello svolgimento di attività relative ai sistemi informativi automatizzati” e per chi come me viene da una formazione scientifica spesso rimangono le briciole: a questo punto uno si chiede se non ha sbagliato i propri studi». 

“Ho provato a diventare dirigente, inutile”. Dario M. 46 anni, Cuneo, funzionario amministrativo. Concorso dirigenti ministero del Lavoro del 2006. «Sono funzionario del ministero del Lavoro e nel mio piccolo cerco di darmi da fare per uscire dallo schema del burocrate rassegnato e nullafacente, mi sono sempre dato da fare, per migliorare le mie performance e per non ingrigirmi. All’inizio molto contento per l’esito favorevole ho capito piano piano che il ministero non aveva alcuna intenzione di assumermi non solo perché aveva assunto nel frattempo dirigenti attraverso la mobilità oppure a contratto, ma perché nonostante i pensionamenti ha continuato a sostituire i posti vacanti tramite altri dirigenti nominati ad interim o deleghe di firma. Io intanto ho perso chance di assunzione ed il mio curriculum è rimasto bloccato senza speranza alcuna». 

“Così si sacrifica una generazione di ragazzi”. Mario Mascellino, 39 anni, di Petralia Sottana (Pa), laureato in architettura, disoccupato. Concorsi Ripam Abruzzo e Iacp Napoli. «Sono idoneo a 2 concorsi, entrambi fatti con il Formez, secondo la metodologia Ripam, che si avvale per la selezione di una commissione interministeriale e di un metodo molto trasparente. I concorsi sono il Ripam Abruzzo e Ripam Iacp Napoli. Sembra che la politica sia impermeabile alle nostre istanze. Sembra che si voglia in qualche modo ripartire azzerando tutto…a partire proprio dalle nostre aspettative, legittime, sacrificando una generazione di ragazzi, di uomini e donne, che credendo nello Stato, hanno partecipato ad una selezione pubblica e in queste circostanze vedono che il merito non è solamente sottovalutato, ma viene quasi sbeffeggiato».

“Non voglio morire di fame e frustrazione”. Antonella Catrambone, provincia di Catanzaro, collaboratrice giornale on line a titolo gratuito. Vari concorsi. «Non è semplice poter superare un concorso, ci vogliono molte ore di studio perché la materie sono tante e bisogna stare attenti ai continui aggiornamenti che caratterizzano le materie, soprattutto quelle giuridiche, quasi tutte. Non ho mai fatto concorsi nella mia regione, la Calabria, perché non c’ho mai creduto e dopo aver sostenuto versamenti per partecipazione ai bandi del comune di Catanzaro e della provincia non ho mai assistito all’espletamento del concorso. Ho speso molto tempo e danaro per partecipare ai concorsi su Roma, Milano, Bari, ho scelto la via legale per entrare a far parte della pubblica Amministrazione, non sono mai stata la precaria di alcun politico, de poi anche per questo ci vuole fortunati. Ho dato il mio tempo, la mia vita sociale annullata, i sacrifici dei miei genitori per cosa? Non accetto di sentirmi dire che alcuni (precari) vengono stabilizzati ed altri (idonei) non sono nulla. Che tipo di studio hanno fatto i precari rispetto a noi? Io non ce l’ho con loro ma con chi ha creato questa situazione, la politica».

“Ma che fine ha fatto la staffetta generazionale?”. Giovanna Esposito, 40 anni, S.Sebastiano Vesuviano (Na), impiegata/contabile ente formazione. «Ho partecipato al concorso al Comune di Napoli nel 2010 per il profilo di funzionario economico finanziario D3 (richiesta laurea in economia e commercio e l’abilitazione come dottore commercialista). Mi sono classificata 40°, i posti a concorso erano 23. Oltre al profilo per il quale ho concorso, ne erano previsti altri 9. I vincitori sono stati tutti assunti. Con l’approvazione nella legge di Stabilità del maxiemendamento che ricolloca i dipendenti in esubero dalle province negli enti locali e nelle altre amministrazioni dello Stato, il governo Renzi ha chiuso la possibilità di far scorrere le nostre graduatorie e di conseguenza la “Staffetta generazionale”, più volte sbandierata dal ministro Madia e dal governo Renzi, nobile intento volto all’ammodernamento della Pa rimane solamente uno slogan elettorale». 

“A Roma se non hai santi in paradiso…”. Maria Barile, Roma. Concorso Dap e Comune di Roma. «Io di idoneità ne ho conseguite 2: una al concorso per 110 funzionari contabili bandito dal Dap (Dipartimento Amministrazione penitenziaria) nel lontano 2004 e l’altra al concorso per 300 istruttori amministrativi al Comune di Roma. Quanto all’idoneità conseguita presso l’amministrazione capitolina, diciamo che ho messo quasi sin dall’inizio “una pietra sopra” dal momento che sono molto distante dall’ultimo candidato dichiarato vincitore e che date le “priorità...” del Comune di Roma, molto probabilmente impiegheranno 2 lustri per l’assunzione dei soli vincitori. Nel 2014 ne hanno infatti assunti 21 e tanti più o meno ne assumeranno nel prossimo triennio, purtroppo questa è la situazione. E per chi non ha “santi in paradiso” in Italia non sono rimaste più nemmeno le briciole».

“Vanno avanti solo i raccomandati”. Anna C., 46 anni di Torino. Concorso istruttore amministrativo. «Sono prima in graduatoria, nel 2010 sono stata chiamata per l’assunzione, colloquio effettuato con il segretario comunale e la responsabile ragioneria, confermata verbalmente assunzione per l’ufficio segreteria, dopo mesi di attesa, e solo a seguito di un mio sollecito, mi viene detto che la direzione ha deciso di procedere diversamente. L’ente procederà ad aumentare il monte ore a dei part-time per sopperire alla non assunzione. La discrezionalità esistente in materia, e la normativa che va sempre più contraddicendosi, porta gli enti a fare quel che più preferiscono, inserire personale precario (che non ha superato un concorso); raccomandati, che grazie ai contratti flessibili più disparati rubano letteralmente il posto ai vincitori e idonei di concorso, contratti di somministrazione, di cooperativa, tirocini, ecc». 

“Il mio slalom tra i tanti concorsi”. Maria Marsi. «Negli ultimi 5-6 anni ho partecipato vari concorsi banditi da comuni: sono riuscita ad ottenere l’idoneità solo in uno. In due concorsi, la cui commissione era presieduta dal famoso professor Pisapia, non ho superato la prova scritta per 1 punto: 100 domande, punteggio 69/70. Un concorso appena scaduto il bando è stato revocato. Un altro concorso è stato revocato 2-3 giorni dopo la prova scritta, di cui non si è saputo nulla. In un altro concorso ho superato i test, ma non la seconda prova scritta. Da segnalare che una volta giunto a conclusione, il comune ha ricevuto 5 ricorsi, una sospensiva dal Tar, ma nonostante ciò ha assunto subito la vincitrice, pagando persino un legale per costituirsi in giudizio davanti al Tar».

“Posto perso per un disguido”. Marcello Todde, 41 anni, Cagliari, disoccupato. Concorso 110 posti nell’area “C”, profilo professionale di contabile del 2003. «Dopo aver sostenuto una preselezione, due prove scritte ed una prova orale sono risultato idoneo al concorso alla posizione 197. Il 23 marzo 2012 sono stato contattato anch’io per dare la mia disponibilità ad assumere servizio, presso la Casa Circondariale di Tolmezzo il 30 marzo 2012. Passate 2 ore dalla mia accettazione, mi viene comunicato che l’idonea posizionata meglio di me in graduatoria aveva anch’ella accettato e mi si ringraziava comunque per la disponibilità...In realtà il posto non è stato ricoperto, n quanto, l’idonea (numero 196) che aveva accettato non si è poi presentata. La data di presa di servizio era fissata per venerdì 30 marzo ed il primo aprile è scattato il nuovo blocco delle assunzioni ed è da allora che attendo lo sblocco. In sostanza, ad oggi sono un “idoneo/vincitore” a spasso per colpa di una idonea indecisa ma soprattutto di un ufficio assunzioni che ha mal gestito la chiamata, forse a causa della solita burocrazia».

Il bluff dei concorsi inutili. 100mila vincitori senza posto. In un anno 7mila gare. Speranze deluse, denaro sperperato: per le commissioni lo Stato spende 3 miliardi l'anno, ma le prove sono una beffa ai candidati che riescono a superarle. Il compenso di esaminatore può arrivare a 7.500 euro. Ma per Brunetta ci sono 300mila esuberi, scrive Antonio Fraschilla il 19 novembre 19 novembre 2010 su “La Repubblica”. Simona Polselli da cinque anni attende che arrivi la raccomandata che potrebbe -  e che anzi avrebbe dovuto -  cambiarle la vita. Era certa di riceverla, tanto che con mamma, papà e fidanzato ha già festeggiato. Mittente atteso, il Comune di Roma. Una bella lettera di assunzione come vincitrice di concorso per educatrice di asili nido. Ogni giorno Simona guarda la casella della posta, ma dal Comune riceve solo multe. Un caso isolato? Non proprio. In Italia altre 100 mila persone sono nel limbo di Simona: hanno vinto un concorso e festeggiato un'assunzione mai arrivata. Un'attesa infinita. Spesso l'ente locale ha preferito nel frattempo rivolgersi a precari (per chiamata diretta). Oppure il ministero di turno ha puntato sulle consulenze esterne. E poi ogni anno, puntuale come un orologio, nelle leggi finanziarie è arrivato il blocco del turnover con il taglio delle piante organiche. L'ultima finanziaria, per esempio, ha stoppato le assunzioni fino al 2013. Peccato però che la macchina dei concorsi e delle illusioni continui ad andare avanti imperterrita. Perché? Per produrre cosa? Con quali speranze per i concorrenti? E infine: quanto costa alla collettività questo continuo promuovere ed eseguire concorsi che alla fine non creano occupazione? 

La macchina delle illusioni. Magari prima o poi, a patto di resistere tanti anni, l'assunzione arriverà. Tuttavia le spese della fabbrica dei concorsi sono esorbitanti. Il "giro d'affari" è pari a 3 miliardi di euro all'anno, tutto a carico delle amministrazioni costrette a pagare commissioni e a volte società esterne per la correzione dei compiti. Nel 2010 sono stati banditi dalle amministrazioni pubbliche oltre 7 mila concorsi. Che rischiano di non approdare a nulla, con il ministro Renato Brunetta che addirittura stima in 300 mila gli esuberi nel comparto pubblico e minaccia altri blocchi alle assunzioni. Secondo la Funzione pubblica Cgil oggi in Italia ci sono appunto 100 mila tra vincitori e idonei a concorsi banditi negli ultimi dieci anni che attendono di essere chiamati in servizio. "È una stima che abbiamo fatto raccogliendo le graduatorie pubblicate da diversi enti dal 2000 a oggi", dice il segretario nazionale della Fp Cgil, Fabrizio Fratini. Istituto commercio estero, ministero dell'Interno, ministero dei Beni culturali, ministero di Grazia e giustizia, e poi Inps e Inail, per non parlare di grandi Comuni, da Roma a Palermo, passando per Regioni come la Campania: non c'è amministrazione pubblica che non abbia persone da assumere con regolare concorso già concluso. 

Le storie sono le più disparate. E alcune vale la pena di raccontarle. Per esempio quella di Maria Cristina Tomaselli. Una storia che inizia a maggio del 2004, quando il ministero di Grazia e giustizia bandisce il concorso per 39 psicologi da assegnare agli istituti penitenziari, visto il tasso crescente di suicidi in carcere che si registrava fin dal 2001. "Ho pensato che per me, psicologa precaria, era arrivata finalmente l'occasione giusta", dice Tomaselli che, allora trentenne, si mette a studiare giorno e notte. Supera una prova selettiva nella quale si presentano in 3 mila, poi altri due scritti e infine l'orale. Nel 2006 il ministero pubblica la graduatoria definitiva: "Quando ho chiamato al ministero è ho chiesto di sapere a che posto mi ero classificata, non credevo alle mie orecchie: "Tomaselli? Lei è nelle prime trenta". Ho riattaccato il telefono. Ho richiamato, perché non ci credevo. E invece era vero, finalmente avevo un posto di lavoro fisso. Da Milano, dove vivevo allora, ho chiamato i miei genitori e il mio fidanzato, ero al settimo cielo. La sera stessa ho festeggiato in pizzeria con i miei amici più cari". Da allora, più di quattro anni, non una comunicazione ufficiale né un avviso sul sito Internet. "Non abbiamo più saputo nulla, nonostante ricorsi al Tar e sentenze del giudice del lavoro che ci riconoscono il diritto a essere assunti. Nel frattempo molti miei colleghi che hanno vinto quel concorso sono entrati in depressione, perché la delusione è stata troppo forte dopo i sacrifici immani per vincere quel concorso".

Simona Polselli, l'educatrice mancata di asili nido, ha un'altra storia: "Ho vinto un concorso bandito nel 2005 per 150 insegnanti. Ci siamo presentate in 4.500". Nel 2009 dopo tre prove d'esame è stata pubblicata la graduatoria: cento assunte dal Comune tra il novembre 2009 e settembre scorso. "Le altre 50, tra cui ci sono io, non saranno assunte. Ci hanno detto che i posti non sono più disponibili perché nel frattempo l'amministrazione ha stabilizzato 1.200 precarie. E dire che quando ho saputo di aver vinto quel concorso ho comprato, con un prestito, il posto auto sotto casa. Il prestito l'ho fatto, l'assunzione non è più arrivata". Vicende come quelle di Simona le hanno vissute i 150 vincitori del concorso per ispettori di vigilanza bandito dall'Inps, i 500 funzionari che nel 2008 hanno vinto il concorso del ministero dei Beni culturali, altri 230 amministrativi del ministero della Pubblica istruzione, o i 100 del concorso per categoria B del Miur. O, ancora, i promossi del concorso bandito dall'Inail nel maggio del 2007: prima prova al Palalottomatica di Roma con 15 mila concorrenti, seconda prova a Castelnuovo di Porto, terza prova orale nella sede dell'Inail all'Eur. Dopo la proclamazione dei vincitori, a febbraio di quest'anno, l'ente si è scordato del concorso. "Per vie informali - spiegano i vincitori - abbiamo saputo che a causa del blocco del turnover solo 25 saranno assunti entro l'anno e altri 25 nel 2011".

Concorsi per l'ente che non esiste. Uno dei casi più eclatanti riguarda il ministero della Difesa: "Qui ci sono 2 mila vincitori del concorsone per figure che vanno dagli elettricisti agli assistenti amministrativi, e solo 23 sono stati assunti. Non ha fatto meglio però il ministero dell'Interno che deve assumere ancora 115 assistenti amministrativi contabili e 80 collaboratori che nel 2008 hanno vinto delle prove di selezione", dice Alessio Mercanti, che guida il comitato "dei vincitori di concorso non assunti", che il mese scorso ha manifestato davanti a Palazzo Montecitorio. "Da Palermo ad Avellino, da Ragusa a Palagonia, passando per la Regione Campania e quella siciliana, sono decine gli enti che hanno bandito concorsi-bluff per chi li ha fatti e per giunta vinti, demolendo l'ultima certezza in questi tempi di lavoro precario: e cioè che chi vince un concorso ottiene un posto di lavoro". Mercanti, da quando è a capo del comitato, riceve ogni giorno segnalazioni da tutta la Penisola.

Ci sono addirittura casi in cui l'amministrazione appare schizofrenica. C'è da chiedersi: come è possibile? Come può accadere che da una parte stabilisca che un ente deve scomparire o ridurre la pianta organica e dall'altra approvi concorsi per nuove assunzioni che poi rimarranno solo sulla carta? Un caso esemplare è quello dell'Istituto del commercio estero, che nel 2008 ha messo a bando 107 posti in categoria C1. Alle prove si sono presentati in 15 mila. A questo concorso ha partecipato anche Giulia Nicchia, 31 anni, laureata Scienze internazionali, dottoranda e conoscenza di tre lingue, inglese, francese e russo: "Abbiamo svolto tre prove molto dure, e questo era il quinto concorso che provavo - dice Nicchia - Nell'aprile 2010 viene pubblicata la graduatoria definitiva. Ero a New York per studi e non credevo ai miei occhi: tra le prime 60 dell'elenco". Giulia torna in Italia a maggio: "Appena arrivata scopro che Tremonti ha previsto il taglio degli enti inutili, e tra questi c'è l'Ice. Ho capito subito che il mio sogno si sarebbe infranto". In Parlamento il testo della legge cambia e l'Ice rimane a galla. Ma arriva l'obbligo di ridurre l'organico del 10 per cento e avviare il blocco del turn over fino al 2013. "Siamo andati a parlare con il responsabile del personale: ci ha detto che ci avrebbero assunti da qui a 10 anni". Al Senato 30 deputati del Pd hanno presentato un'interrogazione. La domanda era semplice: perché l'Ice ha bandito un concorso da cento posti e non ha assunto nessuno? La riposta è stata laconica: "L'Ice ha calcolato male il suo fabbisogno in organico". Insomma, per l'istituto il concorso era inutile. I vincitori hanno chiesto l'accesso agli atti, scoprendo che nella pianta organica, nonostante il taglio, ci sono 107 posti da occupare. Intanto l'Ice vanta oltre 80 milioni di crediti dal ministero dell'Economia, che ne ha riconosciuti soltanto 40 e anche nel 2011 punta ad accorpare l'ente o riproporne la cancellazione. 

Chi ci guadagna con gli esami. Nonostante il blocco del turnover, il taglio dei finanziamenti agli enti locali e gli annunci del ministro Brunetta che stima in 300 mila gli esuberi nel comparto pubblico, la macchina dei concorsi in Comuni, Regioni, Province e ministeri vari è perennemente in moto. Soltanto a novembre scadono i bandi di 659 concorsi banditi dalla Lombardia alla Sicilia. Nel 2010 si stimano in circa 7 mila i concorsi in enti pubblici. Con costi a dir poco elevati. 

Ma chi ci guadagna? Chi mette in tasca questo enorme flusso di denaro pubblico che spesso viene speso inutilmente? I compensi per i componenti di commissione variano da ente a ente. In media un commissario per un concorso riceve un gettone che varia da 123 a 309 euro, più un ulteriore bonus per ogni compito esaminato che varia da 0,1 a 0,5 euro: per concorsi con 15 mila partecipanti si può arrivare a ricevere come commissario anche 7.500 euro, anche se a volte le amministrazioni fissano dei paletti, come il Comune di Treviso che non dà ai singoli commissari più di 3 mila euro. Ma Treviso è un'eccezione. L'Agenzia delle entrate ha calcolato, per un concorso bandito recentemente, il costo di 1.500 euro per ognuno dei 500 posti messi a gara: totale, 750 mila euro. Il Comune di Napoli ha bandito un concorsone per 534 posti da amministrativo (112 mila i candidati): stimando un costo di 3,2 milioni di euro e affidando al Formez l'incarico di correggere le prove scritte. Conti alla mano, facendo la media dei 7 mila concorso banditi, il giro d'affari per società del settore e componenti delle commissioni, che vengono scelti tra professionisti, giudici del Tar e dirigenti di altre amministrazioni interni o esterni, è di circa 3 miliardi di euro: tutti a carico delle casse pubbliche. Uno spreco? Sì, se si pensa al blocco delle assunzioni, fino al 20 per cento di chi va in pensione, stabilito per legge in tutti gli enti e le amministrazioni pubbliche. Allo stesso tempo, non mancano però i casi i cui a pagare sono i concorrenti. Il Comune di Roma ha pubblicato 22 bandi di concorso per 1.995 posti: i disoccupati che hanno fatto domanda sono 10 mila e hanno pagato 10 euro a testa per presentare la documentazione. 

Comunque a fronte dei concorsi con vincitori non assunti, non mancano i casi di assunzioni e incarichi affidati per compiti uguali a quelli messi a bando dalla stessa amministrazione. Qualche esempio? Il Comune di Palermo ha bandito nel 2001 un concorso per 400 posti da vigile urbano: un centinaio dei vincitori a oggi attende la chiamata ma la pianta organica dei caschi bianchi palermitani è stata riempita lo stesso, con la stabilizzazione dei cosiddetti "lavoratori socialmente utili", che non hanno mai affrontato alcuna selezione. Stesso discorso per 300 vincitori del concorso all'assessorato ai Beni culturali della Regione siciliana: dopo dieci anni non sono stati chiamati in servizio, nel frattempo è nata la Beni culturali spa, società solo formalmente privata dove sono state assunte per chiamata diretta 700 persone. Il ministero di Grazia e giustizia, che non assume nelle carceri 39 psicologi che hanno vinto il concorso nel 2006, continua a dare incarichi all'esterno per lo stesso impiego, per una spesa che supera il milione di euro all'anno: e in pianta organica nelle carceri ci sono solo 14 psicologi per 60 mila detenuti.

A volte invece accade che la stessa amministrazione freni alcuni concorsi e acceleri su altri, magari perché tra i vincitori ci sono parenti di politici e dirigenti dell'ente. Una commissione interna del ministero della Difesa ha scoperto, a esempio, che tra il 2005 e il 2008 in diversi concorsi banditi dall'amministrazione sono stati assunti mogli, figli e cognati di alti dirigenti del ministero che, puntualmente, sedevano nelle commissioni d'esame, scambiandosi favori. Altre amministrazioni invece, se hanno posti vacanti in pianta organica non chiamano gli idonei dell'ultimo concorso bandito, ma provano a farne altri: così i 2 mila idonei del concorso per vigili del fuoco eseguito nel 2000 rimangono a casa, mentre il comando dei vigili affronta altre spese per altri concorsi. E c'è chi non si pone nemmeno il problema di fare concorsi, volando alto sopra blocchi del turn over e stop alle assunzioni: la Protezione civile, con il placet di Guido Bertolaso, ha assunto 171 impiegati e dirigenti nel maggio scorso, trasformando contratti diretti di co. co. co in contratti a tempo indeterminato. I vincitori di concorso degli altri rami dell'amministrazione intanto attendono sempre meno fiduciosi. 

Polizia di Stato: il caso degli “idonei non vincitori”. Nonostante abbiano superato tutte le prove gli idonei non sono mai stati chiamati, scrive Giulia Galletta su “Stretto Web”. Giovani ragazzi che studiano, viaggiano, vanno in trasferta e soprattutto che superano prove. Questa è la realtà per tutti coloro che decidono di provare a superare un concorso pubblico. Questo avviene anche per i ragazzi che provano ad arruolarsi tra le file della Polizia di Stato. In questo caso però molti di loro, a causa delle graduatorie che non scorrono, non sono mai stati chiamati. Con la richiesta del Prefetto Giuseppe Pecoraro di incrementare l’organico della polizia a Roma, causa minaccia terroristica, ecco che il problema potrebbe essere risolto e perciò potrebbero essere chiamate ad arruolarsi delle unità in più, ma ciò non accade. Spinti da questa motivazione i partecipanti del sit in che si è tenuto ieri a Montecitorio hanno manifestato insieme a Gianni Tonelli segretario generale del Sap, fanno sapere che: “La nuova legge di stabilità prevede il blocco delle assunzioni per tutto il 2015 anche per le forze dell’ordine”. A sostenere questa causa anche il presidente della Lega Nord Matteo Salvini che si è interessato alla faccenda dichiarandolo anche in Parlamento.

La mail. «Il Governo non arruola 900 idonei al concorso in Polizia: come si combatte il terrorismo?»

Gentile Redazione del Mattino, siamo 900 giovani idonei al concorso per 650 allievi Agenti della Polizia di Stato indetto nel 2014 e a oggi non ancora concluso. Siamo tutti con il massimo del punteggio, e la stragrande maggioranza di noi provenienti dal meridione. Il nostro arruolamento sarebbe dovuto avvenire entro il 2014 ma il Governo lo ha posticipato per il 2015. Un concorso durato un anno e ancora non concluso…Il Governo prende tempo sulla pelle dei cittadini e temporeggia per assumerci! Dopo aver sostenuto importanti spese di natura economica e aver investito tanto tempo ed energie per arrivare ad ottenere la idoneità da parte del Ministero dell’Interno, siamo ancora parcheggiati a casa. Siamo giovani, capaci e volenterosi e vogliamo difendere con orgoglio il nostro martoriato Paese! E’ noto a tutti quello che è successo in questi giorni nella vicina Francia ed è noto a tutti che gli stessi autori della tragedia hanno indicato a chiare lettere che l’Italia potrebbe essere il loro prossimo obiettivo, soprattutto i grossi centri come, ad esempio, la città di Roma e perché no la nostra amata Napoli. E’ noto a tutti che la criminalità organizzata continua a produrre danni in tutto il nostro Paese ed è noto a tutti che la Polizia di Stato non ha più gli uomini ed i mezzi tali da poter garantire livelli elevati di sicurezza. Noi, qui a Napoli, siamo l’esempio lampante di come la Polizia di Stato sia sotto organico e quindi, non riesce più a fronteggiare i diversi atti criminosi alimentati anche dalla grave crisi economica in cui versa la nostra città. Il lavoro scarseggia ed anche la “brava gente” è costretta a darsi da fare in maniera non lecita per “tirare a campare”. Bene! Considerando il bisogno di garantire maggiore sicurezza che vi è nel nostro paese il Governo dovrebbe assumerci tutti e 900 subito e farci partire immediatamente per il corso da Allievi Agenti della Polizia di Stato. Basterebbe un ampliamento dei posti, per assorbire in toto la nostra graduatoria e poter avere a disposizione 250 unità in più del previsto che considerando il periodo in cui siamo sarebbero “oro colato”. Il nostro concorso usufruisce dei residui fondi anno 2014 (perché parte di essi sono stati utilizzati per assumere idonei non vincitori del precedente concorso anno 2013) e di quelli anno 2015. Per cui il Governo ha a disposizione le risorse tali da poterci assumere tutti! A fronte dei 3.000 circa poliziotti che andranno in pensione nel 2015 ed a fronte del turn over al 55% (ma che dal 2015 potrebbe essere elevato al 70%), considerando che fino al 1 Dicembre le assunzioni sono bloccate, tranne per il nostro concorso, come pensano di garantire gli adeguati servizi di prevenzione e controllo senza uomini e come fanno a non arruolarci tutti? Combattiamo il terrorismo islamico, la criminalità organizzata e ci prepariamo a fronteggiare i diversi impegni a cui è chiamato il nostro paese facendo tagli lineari sulla sicurezza e sugli organici della Polizia di Stato! Questa è la segnalazione che parte dai giovani idonei al concorso per 650 Allievi Agenti della Polizia di Stato indetto nell’anno 2014 tramite il Decreto Ministeriale del 7 Marzo e, ad oggi, non ancora concluso! Diciottomila uomini in meno nella sola Polizia di Stato e quarantamila in tutte le Forze dell’Ordine, 251 presidi pronti ad essere chiusi: questi sono i numeri, drammatici, che noi da idonei ad indossare la divisa della Polizia di Stato e da cittadini Italiani vogliamo segnalarvi. Questi sono i numeri drammatici a cui il nostro Governo pare non voglia trovare soluzioni. Noi 900 idonei al concorso per 650 Allievi Agenti della Polizia di Stato anno 2014 (ultimo concorso bandito dalla Polizia di Stato) ci appelliamo al buon senso del Ministro dell’interno Alfano e del Presidente del Consiglio Renzi e di tutti i politici di maggioranza e di opposizione, affinchè trovino rapidamente una soluzione per colmare questa carenza, inammissibile, di organico nelle Forze dell’Ordine e chiediamo, per il bene del nostro amato Paese, di ASSUMERCI TUTTI! Il Governo ha investito e speso dei soldi per la nostra selezione e sarebbe un peccato, considerando anche il bisogno di maggiore sicurezza che vi è nel nostro Paese, se non ci assumesse tutti e se non ci immettesse subito al corso per Allievi Agenti della Polizia di Stato! Circa 250 ragazzi del nostro concorso rischiano di restare esclusi e non essere assunti! Come può il Governo fare una cosa del genere avendo, la Polizia di Stato, una carenza di organico che ammonta a 18.000 unità ed essendo, l’età media dei Poliziotti, di 45 anni? Ci uniamo alle diverse segnalazioni fatte da tutti i maggiori sindacati di polizia, nella persona dei loro Segretari Generali che hanno richiesto URGENTEMENTE l’assunzione di più personale e chiediamo a questi ultimi, di proporre soluzioni concrete e fattibili al Ministero dell’interno ed una delle tante potrebbe essere sicuramente l’assunzione di tutti gli idonei del nostro concorso. Sarebbe impensabile e quasi ridicolo se a fronte di quello che sta succedendo e che potrebbe succedere nel nostro Paese, il Governo non assumesse tutto il personale immediatamente disponibile, senza dover spendere ulteriore soldi per bandire nuovi concorsi ed aspettare almeno un anno, affinchè si concluda un eventuale iter concorsuale. Noi siamo tutti pronti e arruolabili immediatamente. Francesco Filippone.

A proposito di sprechi e di concorsi pubblici truccati. Mai dire poliziotto. «Non solo non si può vincere un concorso pubblico, se non si ha la fortuna o la conoscenza giusta, ma quando si partecipa con oneri non indifferenti e lo si vince, spesso, esso rimane una chimera irraggiungibile, in quanto non si sarà mai chiamati a coprire quella funzione o quell’impiego pubblico al quale si ha diritto - spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , e scrittore dissidente che proprio sul tema dei concorsi pubblici truccati ha scritto un libro. Uno tra i tanti libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Inoltre egli ha aperto un gruppo Facebook “Abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazioni delle professioni” al fine di sensibilizzare sul problema ed aggregare tutte le vittime di un sistema marcio di cooptazione - Io stesso ho partecipato al concorso per entrare in Polizia. Primo tra gli idonei agli scritti, paracadutista, disoccupato con moglie e figli, ma nelle fasi di selezione psico-fisiche e attitudinale qualcosa di avverso è intervenuto. La stessa cosa mi è successa al concorso per diventare autista degli automezzi speciali dedicati ai magistrati. Negli scritti (test a quiz) tra i primi, nella fase successiva qualcosa di avverso è successa. Potrei farmene una ragione e dire che è colpa mia, ma non posso tacere quanto capita ad altri poveretti. Esempio è la testimonianza, una delle tantissime, di una ragazza vincitrice di un concorso truffa in Polizia. Testimonianza di cui si rende pubblico conto. "Gentile Presidente, con la presente vorrei sensibilizzare la sua Attenzione per una questione che mi sta particolarmente a cuore. Il 17 Novembre del 1997 ho partecipato con tanto entusiasmo al Concorso di cui sopra riportando un punteggio di 7.14, risultando quindi idonea alle successive fasi di selezione psico-fisiche e attitudinale. E' stato denominato anche "Il Concorso delle BEFFE": Siamo stati abbandonati e mai arruolati nel ‘96 pur essendo idonei, al Concorso di 780 Allievi Agenti Polizia di Stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, IV Serie Speciale “Concorso ed Esami” nr.101 del 20.12.1996. Oggi anziché avvalersi di quella che è la nostra graduatoria, il Ministero dell'Interno continua a indire concorsi riservati solo ai VFP, SPERPERANDO ancora una volta DENARO PUBBLICO, rifacendosi all'articolo 16, comma 1 della Legge n. 226/2004 la quale cita testualmente: Dal 1° gennaio 2006 e fino al 31 dicembre 2020 i posti messi a concorso sono riservati esclusivamente ai Volontari in Ferma Prefissata (VFP) in servizio o in congedo. Ma che senso ha tutto questo? Esiste anche un gruppo su Facebook il quale è stato fondato al fine di raggruppare tutti quelli che come me, hanno visto violati i propri diritti e le proprie attese. Tale gruppo si chiama “780 Allievi Agenti Polizia di Stato”. Vogliamo dare voce a quest'ingiustizia. Vogliamo essere ARRUOLATI. Con L’occasione è gradito porgerle Cordiali Saluti. Giuseppina Currieri"».

Statali, beffati gli 80 mila che hanno superato il concorso. Sono idonei e in attesa del posto (anche da anni) ma non potranno mai averlo. La Legge di Stabilità ha bloccato il turnover e le graduatorie saranno cancellate, scrive Paolo Barone su “La stampa”. Speranze tradite. In molti hanno passato il concorso pubblico, sono stati considerati idonei ma poi il governo ha bloccato le assunzioni. Pensavano di avere in mano un biglietto della lotteria di quelli «buoni»: avevano passato il concorso pubblico, non l’avevano vinto, ma era stati comunque dichiarati «idonei» e prima o poi quel posto, stabile e garantito, tanto sognato (e sudato) l’avrebbero magari ottenuto ugualmente. Poi il governo ha deciso di abolire le province, si è ritrovato con 20mila persone da ricollocare e per questo ha bloccato tutte le nuove assunzioni. Stop al turnover in ogni tipo di amministrazione, sia centrale che periferica, forze di polizia comprese, sino a tutto il 2016, ha sancito l’ultima legge di Stabilità che dei tanti concorsi banditi ha salvaguardato solo i vincitori. E così per 80mila idonei, alcuni in attesa della «chiamata» ormai da anni, il «posto» si è volatilizzato. Forse per sempre, perché le graduatorie non solo in questo modo non scorreranno più, ma scadranno alla fine del 2016. Scade il blocco, scadono gli elenchi, insomma, e chi si è visto s’è visto. Per questo ora gli «idonei» hanno deciso di scendere in piazza a protestare. Si sono organizzati in coordinamenti, aperto pagine Facebook e lanciato una serie di hashtag su Twitter, da #idoneiinpiazza2015 a #piùsicurezza a #nobloccoassunzioneidonei per lanciare la mobilitazione. Dopodomani mattina saranno a Roma, davanti a Montecitorio. Ci saranno quelli del Comitato 22 procedure per la giustizia di Roma e i vincitori e idonei per 300 posti per la ricostruzione in Abruzzo, il Comitato idonei al concorso del Comune di Napoli e quelli dell’Iacp, e poi gli amministrativi B1-Inps, gli operatori dei centri di formazione di Roma e quelli Giunta della Regione Campania, della Difesa, dell’Interno, gli allievi marescialli carabinieri e chi ha partecipato al concorso per 650 allievi agenti di polizia nel 2014. In tutto, secondo le ultime stime del Formez, oggi gli idonei sono «ufficialmente» 84.040 (36.127 stanno nelle graduatorie degli enti locali e 31.277 nella sanità), presenti in 9225 differenti graduatorie, ma secondo alcune stime potrebbe essere anche il doppio. «Abbiamo deciso di scendere in piazza per far valere le nostre ragioni, per chiedere allo Stato di restituirci quei diritti che, non più tardi di un anno fa, ci aveva riconosciuto attraverso la legge promossa dal ministro D’Alia che prorogava tutte le graduatorie fino a fine 2016», spiega il presidente del Comitato XXVII Ottobre, Alessio Mercanti. In assenza di risposte si annuncia già un boom di ricorsi alla magistratura, sino ad arrivare alla Corte di giustizia europea per contestare la violazione del principio di non discriminazione, visto che il governo ha previsto una deroga per i Beni culturali. Per i comitati, infatti, «è cristallino l’intento dell’esecutivo: arrivare alla scadenza delle graduatorie senza poterci dare la possibilità (non l’assunzione certa) di subentrare “naturalmente” alle cessazioni del personale dipendente, altrimenti avrebbero previsto un’ulteriore proroga come peraltro è stato fatto per i contratti a termine. E magari, dopo il 2017, si ricomincerà a bandire concorsi che costeranno milioni di euro quando invece si può assumere fin da subito dalle graduatorie ad oggi valide». E il governo cosa risponde? Il ministro della Funzione pubblica Madia lo scorso dicembre, prima che scattasse il blocco, durante un question time, aveva assicurato che era «intenzione del governo tutelare le aspettative degli idonei prima di procedere a nuove assunzioni». Poi però è arrivata la legge di Stabilità, il quadro è cambiato completamente, ed ora si trova alle prese con una vera e propria bomba sociale innescata.  

Vinci il concorso ma lo Stato non ti assume. In Italia ci sono 87 mila persone che hanno superato le selezioni pubbliche ma non sono mai state ingaggiate. Adesso rischiano di veder svanire per sempre la speranza di quel posto cui hanno diritto. E scendono in piazza per far sentire la loro voce, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. C’è un esercito di invisibili che avrebbe diritto di entrare a far parte della macchina statale. Migliaia di persone che hanno regolarmente superato il concorso pubblico al quale hanno preso parte ma che sono rimaste fuori dalla porta. In gergo si chiamano “idonei non vincitori”: hanno tutti i requisiti per essere assunti ma sono risultati in eccesso rispetto ai posti a disposizione. Fino a qualche mese fa, come si conviene a degli invisibili, lo Stato non sapeva nemmeno quanti fossero. Poi è nata l’idea di dare vita a una ricognizione su scala nazionale e i numeri hanno confermato la dimensione abnorme di questo fenomeno: 84.080 persone, grosso modo quanti gli abitanti di una città di medie dimensioni come Como. Numeri ai quali aggiungere i 3.061 vincitori che invece al posto di lavoro avrebbero diritto da subito. In teoria. Tutti in fila, tutti in attesa di essere assunti dall’ente che ha bandito il concorso e che li ha riconosciuti adatti a ricoprire il ruolo ricercato. Si va dai 2 mila in attesa di essere assunti nei ministeri fino al comparto sanitario e agli enti locali, dove nelle graduatorie ci sono rispettivamente 31 mila e 36 mila idonei. E si tratta di numeri da considerare per difetto, visto che non tutte le amministrazioni hanno partecipato alla rilevazione, condotta dal Formez per conto del dipartimento della Funzione pubblica. Per ovviare a questa situazione, nel 2013 la riforma D’Alia aveva introdotto un principio improntato al risparmio e al buon senso: niente concorsi fino a quando non fossero stati assorbiti tutti gli idonei, in modo da riconoscere i diritti degli esclusi ed evitare di spendere soldi con nuove selezioni. La scorsa estate, in linea col suo principio di ricambio generazionale, il ministro Marianna Madia si era spinta ancora più in là, eliminando il cosiddetto vincolo capitario: ovvero non considerare più, ai fini delle nuove assunzioni, il numero dei pensionamenti ma solo i soldi che si risparmiano, in modo da liberare fino a tre posti con un semplice dirigente mandato a riposo. Solo che con l’ultima legge di stabilità, varata a fine anno, è arrivata la doccia gelata. A causa dei 20 mila esuberi causati dalla cancellazione delle Province, infatti, il governo ha deciso di interrompere fino al 31 dicembre 2016 le assunzioni degli idonei. Peccato che proprio quel giorno scadrà la proroga delle graduatorie stabilita dalla legge D’Alia. Risultato: chi ha i requisiti per essere assunto sarà congelato per due anni e, quando verrà tirato fuori dal freezer, risulterà essere “scaduto”. Di conseguenza l’idoneità diventerà carta straccia, senza più alcuna speranza di essere ingaggiati. «In pratica dei morti viventi» sintetizza Alessio Mercanti, presidente del comitato 27 ottobre, che per mercoledì 11 febbraio ha organizzato in piazza Montecitorio una manifestazione a difesa dei diritti degli idonei. «Il rischio serio è che si apra una guerra fra poveri tra dipendenti delle ex Province e vincitori dei concorsi. Ma noi non vogliamo questo, in fin dei conti siamo tutti sulla stessa barca». Salomonica la proposta: «Si potrebbe prevedere che i nuovi reclutamenti riguardino per metà gli ex provinciali e per metà gli idonei, in modo da contemperare le esigenze di tutti. Del resto la discrezionalità nelle assunzioni è sempre stata considerata la bibbia della Pubblica amministrazione, non si vede perché ora dovrebbe andare diversamente». Basta dare un’occhiata alle adesioni per rendersi conto che non ci sia concorso che abbia provocato le sue “vittime” e quanto vasto sia il fenomeno. Ci sono i comitati idonei del ministero dell’Interno e della Difesa, quelli per il concorso al comune di Napoli, alla Giunta campana, alla Regione Sardegna. E ancora: per i 300 posti per la ricostruzione in Abruzzo, gli aspiranti ambasciatori risultati idonei al concorso per segretari di legazione ma mai “riassorbiti”, per marescialli carabinieri e allievi di polizia, gli amministrativi dell’Inps, i centri di formazione della Provincia di Roma. Tutti in piazza, per chiedere rispetto.

Nella jungla dei concorsi pubblici. Quando non basta vincere per essere assunti. Inchieste Lavoro statale uguale posto fisso? Un’equazione che spesso, di incognite, ne contiene troppe. Non basta studiare per mesi o anni, sgomitare con altre migliaia di candidati affollando aule piene zeppe, per superare un concorso pubblico. Ma non è sufficiente neppure vincerlo per ottenere l’agognato posto di lavoro, quando a metterci lo zampino sono leggi, tagli, e misteri burocratici. Lavoro statale uguale posto fisso? Un’equazione che spesso, di incognite, ne contiene troppe. Non basta studiare per mesi o anni, sgomitare con altre migliaia di candidati affollando aule piene zeppe, per superare un concorso pubblico. Ma non è sufficiente neppure vincerlo per ottenere l’agognato posto di lavoro, quando a metterci lo zampino sono leggi, tagli, e misteri burocratici. E allora ci si trova ad aspettare per anni e anni il posto che si merita di diritto, rimanendo in un limbo fumoso senza sapere se e quando arriverà l’assunzione. In Italia sono più di 100mila, stando alle stime della Cgil, le persone coinvolte nella truffa dei concorsi pubblici. Il Sole24Ore ne ha stimate, invece, 70mila. Comunque sia, troppe. A lavorare nel pubblico sono, nel nostro Paese, più di 3 milioni (dati Conto annuale della Ragioneria dello Stato aggiornati al 2010). Di questi, oltre 174mila sono atipici (di cui oltre 91mila con contratti flessibili, più di 31mila interinali e socialmente utili, e 51mila in Polizia ed Esercito. Tra chi è a tempo indeterminato, il 32,1% è impiegato nella scuola (tranne l’università), il 21,2% nel Servizio Sanitario Nazionale, il 15,8% nelle Regioni e autonomie locali, seguiti da Polizia (9,8%), ministeri (5,4%), Forze Armate (4,5%). Un costo, quello dei dipendenti pubblici, che si aggira sui 165 miliardi di euro (ci scusiamo coi lettori per aver erroneamente scritto, sul cartaceo, ‘milioni’, ndr.). E, come dicevamo, lavorare nella Pubblica Amministrazione spesso comporta il superamento di un concorso: prima si scova il bando sulla Gazzetta Ufficiale, si cercano manuali per prepararsi alle prove, spesso molto dilazionate nel tempo. Infine, ecco la graduatoria, con il suo elenco dei vincitori, destinati ad essere assunti, e di idonei, che non hanno diritto subito al posto e rimangono in attesa per eventuali futuri inserimenti. Ma non sempre le cose vanno come dovrebbero andare. Per quanto riguarda le graduatorie dei concorsi ancora in vigore (ossia ancora aperte), approvate dopo il 30 settembre 2003, si parla di ben 7164 posti (escluso il settore sicurezza) banditi da 68 enti tra organi centrali, ministeri, agenzie, enti previdenziali, enti di ricerca ed enti pubblici non economici. Di questi, è stato assunto il 69% dei vincitori e appena l’11% degli idonei (dati del Dipartimento Funzione Pubblica del Ministero per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione). Ma quanti sono i concorsi pubblicati in Gazzetta ogni anno? Stando alle stime di Concorsi.it, possono arrivare fino a 10mila. Non esistono invece dei numeri ufficiali resi disponibili da fonti pubbliche, «anche se», come spiega Maria Barilà, direttore dell’Ufficio per l’organizzazione, il reclutamento, le condizioni di lavoro ed il contenzioso nelle pubbliche amministrazioni (UORCC) del Ministero per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione, «si sta lavorando su una banca dati che raccoglierà le informazioni sui concorsi banditi da tutte le amministrazioni pubbliche». Se e quando sarà, meglio tardi che mai. Tra vincitori e idonei c’è, però, qualcuno che rimane fuori. E aspetta. Nel frattempo trova altri lavori, si barcamena, si arrabbia, invecchia. Come sta succedendo a circa 300 concorsisti Inail. Il concorso dell’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro era stato bandito nel 2007 per 404 posti da amministrativo (c1) e le prove terminate 3 anni dopo. Graduatoria pubblicata nel 2010, a oggi gli assunti sono appena 95. Gli altri? Restano in attesa. Come nel caso di Francesco (nome di fantasia: i vincitori non assunti preferiscono non rendersi riconoscibili), 35 anni, di Salerno: «Ho sempre creduto nella Pubblica Amministrazione e desiderato lavorarci per ambizione personale. Ho sempre partecipato a concorsi, pensavo di avere il futuro assicurato, invece ora mi ritrovo con nulla di certo». Ed è proprio dal caso di questi 404 che è nato il Comitato XVII Ottobre, fondato da Alessio Mercanti che, pur non coinvolto dalla vicenda in prima persona, da lavoratore Inail ne ha sentito parlare e ha deciso così di mobilitarsi. Il 27 ottobre 2010 è sceso in piazza, a Montecitorio, insieme a oltre 200 idonei in attesa di assunzione. E da allora segue le tortuose vicende di vincitori e idonei non assunti, sia attraverso il sito che il gruppo su Facebook. «Il principale ostacolo alle assunzioni non solo per l’Inail ma per tutta la P.A.», spiega, «è il blocco del turn over, che stabilisce un tetto del 20%. Questo vuol dire che per 100 persone che vanno in pensione, un ente pubblico ne può assumere solo 20». A stabilirlo è stato l’art. 66, comma 7, del d.l. 112/2008 (convertito nella legge 133 del 6 agosto 2008), che ha previsto sia per il 2010 che per il 2011 il tetto di assunzioni (riducendo dal 60% al 20% il numero di assunzioni già previsto dalla precedente Finanziaria 2008, art. 3, comma 102, legge 244/2007). Ma il blocco non si è fermato là: il successivo d.l. 78 del 2010 (art.6, comma 5) lo ha esteso, sempre al 20%, al 2012 e 2013, e di recente il d.l. 98/2011 ha applicato il tetto anche al 2014 (art.16). Insomma, l’attuale normativa prevede il blocco ancora per altri 3 anni. A questo si è aggiunto il decreto di ferragosto del 2011, che obbliga gli enti pubblici a tagliare ulteriormente gli organici entro il 31 marzo 2012 di un numero non inferiore al 10% della spesa complessiva relativa al numero dei posti di organico (art. 1 del d.l. 138/2011 del 13 agosto). «Quando sono stati banditi i concorsi, il regime delle assunzioni si fondava su vincoli meno stringenti», precisa Maria Barilà direttore UORCC. «Le misure per contenere spesa pubblica e livelli occupazionali contenute nelle manovre che si sono susseguite negli ultimi 3 anni hanno di fatto impedito le assunzioni programmate». «Il Comitato», spiega ancora Mercanti, «sostenuto dai partiti dell’attuale maggioranza (Pd-Pdl-Terzo Polo) presenti in Commissione Lavoro della Camera, ha collaborato a stendere una proposta di legge che prevede: il blocco dei concorsi fino al 2014 per consentire l’assorbimento di vincitori e idonei già inseriti in graduatoria; una proroga fino al 2014 della validità delle graduatorie, con un balzo in avanti di 2 anni rispetto al Milleproroghe; la richiesta di “pescare” dalle graduatorie, e non dalle agenzie interinali, anche quando bisogna assumere lavoratori a tempo determinato. Siamo fiduciosi e speriamo di avere l’ok delle altre Commissioni». Attualmente si è detta favorevole la Commissione Affari Costituzionali, mentre si attendono i pareri della Commissione Giustizia e della Commissione Finanze. Un altro passo avanti è invece l’emendamento 1.30 al decreto Milleproroghe, a firma dell’On. Cesare Damiano (Pd), approvato il 18 gennaio 2012, che prevede la proroga fino al 31 dicembre 2012 delle graduatorie approvate dopo il 30 settembre 2003. «Con questo emendamento», ha commentato Mercanti, «abbiamo “salvato” 400 persone le cui graduatorie sarebbero scadute il 31 dicembre 2011, relative a Regione Campania, ASL di Foggia e altri enti». Ad avere subito le imposizioni del d.l. 78/2010 sono stati i partecipanti al concorso per funzionario c1 dell’Istituto Nazionale per il Commercio Estero (ICE), ente che è stato poi addirittura eliminato. La graduatoria del concorso, che si è svolto tra il 2009 e il 2010, era composta da 300 persone: 107 vincitori, gli altri idonei. A maggio 2011 erano stati assunti solo i primi 4 vincitori in graduatoria, ma a luglio la legge 111/2011 voluta dall’allora ministro delle Finanze Giulio Tremonti ha soppresso l’ICE. «Il blocco del turn over», commenta Carla (nome di fantasia), 36 anni, vincitrice non assunta, «è una limitazione forte soprattutto per una P.A. piccola come l’ICE, che contava poco più di 600 dipendenti. Io ci ho messo un anno e mezzo per prepararmi al concorso e come gli altri vorrei il posto di lavoro che ci siamo guadagnati. Abbiamo anche presentato un’interpellanza e un’interrogazione al Senato e 2 interrogazioni alla Camera. La risposta? L’ente avrebbe bandito un concorso per troppi posti e ora non può assumere. Evidentemente per il centrodestra l’ICE era inutile e costava troppo». Intanto, fino a dicembre 2011 i 600 dipendenti dell’ex ICE sono stati inquadrati sotto il Ministero dello Sviluppo Economico (pur rimanendo a “lavorare” nei locali delle sedi originarie), mentre con il decreto SalvaItalia del governo Monti l’ente è diventato Agenzia per la promozione all’estero e internazionalizzazione delle imprese italiane e, mentre andiamo in stampa, si attende un decreto per la sua riorganizzazione. E i vincitori del concorso? «Siamo 103 e non abbiamo idea di che fine faremo», racconta Carla, «per questo ci stiamo muovendo per vie legali». Ma c’è anche un paradosso: «Il giorno dopo la soppressione dell’ICE, il 7 luglio scorso», prosegue, «è stato pubblicato un decreto che autorizzava alcuni enti pubblici ad assumere, e tra questi persino l’ICE, appena soppresso». Un’autorizzazione che, naturalmente, era ed è solo sulla carta. E Carla, che è laureata in Scienze Politiche, nell’attesa lavora a chiamata per una società di ricerche di mercato. «Quando ho vinto il concorso», racconta amareggiata, «ero contentissima: prima inviavo il cv ovunque e non ricevevo risposta. Mi dicevo: “Faccio il concorso e sono a posto”. E invece ho “beccato” il concorso sbagliato». Stanno aspettando di essere assunti da 6 anni, invece, i 39 psicologi penitenziari vincitori di concorso al Ministero di Giustizia pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale nel 2004 e durato, con un iter complesso, ben 2 anni. Prima il blocco delle assunzioni ha impedito il loro inserimento per 3 anni, poi è subentrato un decreto a negare il posto di lavoro conquistato di diritto. Il decreto dell’1 aprile 2008 ha infatti sancito il passaggio della Medicina Penitenziaria alle ASL. «Questo», spiega Silvia (nome di fantasia), giovane psicologa vincitrice di concorso, «prevede che le ASL possano avvalersi, per assumere, delle graduatorie dei concorsi, ma non hanno l’obbligo di farlo, e di fatto stanno trattando i vincitori di un concorso pubblico come fossero degli idonei. La nostra assunzione, così, non è più un diritto ma una facoltà». Silvia sottolinea poi un’altra assurdità: il trasferimento della Medicina Penitenziaria al SSN era già previsto con il decreto legislativo 230 del 1999, ossia 4 anni prima che fosse bandito il concorso. Insomma, hanno dovuto studiare per un posto che una legge precedente già non garantiva. Inoltre, la medicina penitenziaria attualmente, invece di avvalersi dei 39 psicologi che hanno vinto il concorso, ricorre alla consulenza di 450 psicologi esterni. Le ASL, dal canto loro, stanno bandendo nuovi concorsi per psicologi, senza utilizzare la graduatoria dei 39 vincitori e spendendo altri soldi pubblici. «In tutta Italia», fa notare Silvia, «ci sono solo 16 psicologi assunti per 200 carceri e circa 60mila detenuti. Gli oltre 400 psicologi che lavorano nelle carceri sono consulenti esterni senza prospettiva di stabilizzazione, e adesso rischiano persino il posto precario. Noi siamo esausti di questa situazione: quello che doveva essere l’inizio di una carriera professionale nella P.A., di un lavoro utile socialmente e appagante, si è rivelato un calvario senza fine». Al momento, questi professionisti, in seguito all’intervento dell’ex ministro alla Salute Ferruccio Fazio e a una ventina di interrogazioni parlamentari, stanno lavorando al progetto Mare aperto. «Non abbiamo un vero contratto», spiega Mariacristina Tomaselli, coordinatrice del gruppo dei 39 psicologi, «ma collaboriamo per un tot di ore a settimana, pagati 14 euro l’ora e senza tutele e i contributi dobbiamo pagarceli da soli. Insomma, ci aspettavamo un posto a tempo indeterminato, invece abbiamo avuto un progetto precario e mal pagato. Il 31 marzo la collaborazione scade e non sappiamo nemmeno se sarà rinnovata». Intanto, nel 2012 ci sarà la discussione del secondo grado di giudizio perché il gruppo coordinato dalla psicologa Tomaselli aveva avviato nel 2008 una causa contro il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, che è ricorsa in appello dopo la sentenza emessa dal giudice del lavoro che dichiarava il diritto dei vincitori all’assunzione immediata. Tra ingiustizie concorsuali e grovigli normativi, si scopre una realtà nemmeno troppo sommersa, una nuova “fucina” di disoccupati, illusi e poi lasciati a se stessi, che coltivavano il sogno di un posto fisso che si è infranto ancor prima di realizzarsi. Inchiesta pubblicata sul n. 9 di Walk on Job – febbraio-marzo 2012 -

Ma perché tutto quanto è taciuto dai giornalisti. Perché?

Questa scuola non è “buona”: i vincitori del concorso restano senza cattedra. L’anno scolastico si prospetta tutt’altro che buono. Dopo la concessione della mobilità e il ritorno dei prof nelle regioni di residenza, i vincitori del concorso – soprattutto al Sud – sono rimasti con la corona e senza assunzione, scrive Lidia Baratta il 10 Settembre 2016 su “L’Inkiesta". Da quest’anno, in teoria, si sarebbe dovuta tirare una riga, andare verso la “Buona scuola” e lasciarsi alle spalle quella “cattiva”. Con il concorsone per gli insegnanti e l’addio alla “supplentite” annunciato da presidente del Consiglio e ministra Giannini, sembrava che l’ordine potesse tornare nel caotico mondo della scuola italiana, fatto di fasce, graduatorie, punteggi, abilitazioni. Invece anche quest’anno tra docenti e studenti regnerà il caos. Con la beffa che molti vincitori del concorso resteranno con la corona e senza cattedra, vedendo sfumare – almeno per il momento – il sogno dell’assunzione. Perché, a quanto pare, qualcuno al ministero ha fatto male i conti. Così, con molta probabilità, promossi e bocciati torneranno ancora a fare i supplenti.

Precari nonostante il concorso. L’anno scolastico si prospetta tutt’altro che buono. La previsione è che il tanto atteso concorsone per 64mila cattedre, con circa il 50% dei candidati bocciati, non riuscirà a coprire tutti i posti messi a bando. Anche perché le prove per la selezione dei docenti non saranno concluse entro settembre come era stato annunciato. Secondo il contatore di TuttoScuola.com, a una settimana dal 15 settembre, termine ultimo per le nomine in ruolo, era stato approvato poco meno di un terzo di quelle previste. Quindi, con molta probabilità, la metà delle cattedre resterà vuota. E anche i pochi che già sanno di aver superato il concorso non hanno affatto trovato la tanto attesa immissione in ruolo ad aspettarli. Anzi. «Ho vinto il concorso, ma non ho gioito neanche un attimo», racconta una giovane aspirante prof calabrese. Il perché si trova nei numeri: al momento non ci sono posti disponibili per assumere i docenti vincitori. O meglio, c’erano. Poi il ministero dell’Istruzione ha disposto la cosiddetta mobilità straordinaria, permettendo ai docenti fuori sede di avvicinarsi nella propria città o regione. Le domande di trasferimento sono state più di 200mila. E tanti hanno fatto richiesta di conciliazione contro l’algoritmo usato dal Miur per assegnare i posti di ruolo. Così tante cattedre sono state occupate, senza che i posti riservati al concorso venissero accantonati. Il risultato è che i posti ci sono anche, ma si sono spostati in altre regioni. Ma se la mobilità è nazionale, il concorso invece è regionale. E soprattutto nelle regioni del Centro Sud, con il ritorno di molti insegnanti prima dislocati provvisoriamente al Nord, i posti disponibili si sono ridotti al lumicino. Il 7 settembre è arrivata la comunicazione: il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha firmato il decreto che dà il via libera alle immissioni in ruolo. Al netto della mobilità, i posti disponibili sono 29.720, di cui 7.221 per il sostegno. Di questi, quasi 19mila posti andranno nelle regioni settentrionali, meno di tremila nel Mezzogiorno e il resto nel Centro Italia. Senza dimenticare che i posti disponibili, poi, vanno divisi con gli iscritti nelle Graduatorie a esaurimento (Gae), che il governo vuole far scomparire del tutto e che comprendono anche persone che non hanno mai svolto un giorno di supplenza. «Ci sono classi di concorso in alcune regioni che hanno zero disponibilità. Allora perché bandire lo stesso il concorso?», si chiedono i vincitori. Prendiamo ad esempio la classe per matematica e scienze in Calabria: 101 posti messi a concorso, 52 persone hanno superato la selezione, ma i posti disponibili ora sono solo due. La classe di tecnologia per le medie, con 86 posti banditi e 28 vincitori, risulta con soli tre posti disponibili. Fino al paradosso per cui la classe di filosofia e storia rischia di non avere nessun posto disponibile in tutta Italia. Se la mobilità è nazionale, il concorso invece è regionale. E soprattutto nelle regioni del Centro Sud, con il ritorno di molti insegnanti prima dislocati provvisoriamente al Nord, i posti disponibili si sono ridotti al lumicino.

Per la scuola giovane e digitale possiamo aspettare. «Renzi e la Giannini sostenevano di voler svecchiare la scuola assumendo giovani insegnanti con grandi competenze digitali e linguistiche», racconta una delle vincitrici del concorsone, che ha alle spalle anche un dottorato negli Stati Uniti. «Questa cosa almeno per quest’anno non avverrà e forse solo per pochissimi di noi succederà nei prossimi anni, visto che gli assunti con le Graduatorie a esaurimento e quelli che hanno goduto della mobilità sono soprattutto insegnanti ultra50enni o che non hanno mai insegnato». La sentenza della Corte di giustizia europea del 2014 diceva che hanno diritto all’assunzione i precari italiani della scuola con almeno 36 mesi di servizio. «Non tutti quelli delle Gae!», sottolineano gli aspiranti prof. «Noi vincitori del concorso abbiamo già fatto tra l’altro un concorso pubblico, quello del Tfa, passando una selezione, pagando 2.500 euro per l’iscrizione, seguendo corsi e facendo esami. E alla fine l’insegnamento è che più fai e peggio è». È vero che la graduatoria del concorso ha una durata di tre anni, e che i vincitori potrebbero venire assunti nei prossimi anni. Ma il rischio è che i posti in alcune regioni non torneranno più, facendo sfumare l’assunzione. Ecco perché molti, al Sud, stanno chiedendo di sapere almeno quanti andranno in pensione quest’anno per fare due calcoli e capire quante cattedre si libereranno. Il punto è che nel momento in cui verrà stilata la graduatoria del prossimo concorso a cattedra del 2019, le attuali graduatorie decadranno. E addio concorsone. Senza dimenticare che, passi per l’estate trascorsa a studiare, molti aspiranti prof per partecipare alle prove del concorso hanno rinunciato ad altre occasioni o posti di lavoro. «Lavoravo in una scuola in Piemonte e mi sono licenziata per studiare e partecipare al concorso, continuando a sostenere le spese d'affitto», racconta una ragazza. «Ho partecipato e vinto in cinque classi di concorso, ma al momento non ci sono posti disponibili». Renzi e la Giannini sostenevano di voler svecchiare la scuola assumendo giovani insegnanti con grandi competenze digitali e linguistiche. Questa cosa almeno per quest’anno non avverrà e forse solo per pochissimi di noi succederà nei prossimi anni, visto che gli assunti con le Graduatorie a esaurimento e quelli che hanno goduto della mobilità sono soprattutto insegnanti ultra50enni o che non hanno mai insegnato​.

Il gioco delle tre carte. Mentre al Sud – dove in tanti vogliono fare l’insegnante anche perché altri lavori non ce ne sono – le cattedre sono scomparse, in molte regioni del Nord ora c’è invece un surplus di cattedre libere perché molti insegnanti durante l’estate si sono spostati. Il sindacato Anief ha già annunciato che impugnerà al Tar il decreto del ministero sulle immissioni in ruolo con le disponibilità ridotte. Chiedendo, come extrema ratio, la possibilità di assunzione anche al di fuori della regione in cui il concorso è stato vinto. E con i posti vuoti, liberati dai docenti in mobilità, l’avvio regolare della scuola al Nord sembra un miraggio. Vanno assegnate ancora migliaia di cattedre, mentre in molte regioni settentrionali si torna in classe il 12 settembre. Ed entro il 15 tutti gli studenti italiani saranno seduti ai banchi. Una volta suonata la campanella quindi, riprenderà il valzer delle supplenze. Che sono tutt’altro che scomparse. Dopo l'approvazione della riforma della “Buona scuola” a luglio 2015, delle 103mila assunzioni annunciate, per l’anno 2015/2016 il Miur è riuscito a piazzarne soltanto 87mila e 600. In tanti si sono rifiutati di spostarsi fuori dalla regione di residenza e i posti sono rimasti vacanti. E «anche quest’anno, secondo le nostre previsioni, le supplenze saranno più di 80mila», spiega Corrado Colangelo, della Flc Cgil. «Rispetto all’anno scorso, la famosa “supplentite” diminuirà sì e no di uno zero virgola qualcosa, non di più». E così pure i tanti bocciati del concorsone, spalmati nelle fasce di aspiranti prof, serviranno ancora a mandare ancora avanti la macchina della scuola. «Resto in seconda fascia. Intanto aspetto che mi chiamino di nuovo per una supplenza», racconta uno dei bocciati. «Difficile che mi chiameranno per la mia classe di concorso. Potrei essere chiamato per il potenziamento, o più probabilmente andrò a fare di nuovo l’insegnante di sostegno». Perché, tra parentesi, il numero di specializzati per il sostegno resta ancora insufficiente. La “Buona scuola”, anche per quest’anno, può aspettare.

PUBBLICHIAMO UN TESTO DI RETTIFICA ALL’ARTICOLO PRECEDENTE INVIATOCI DA TIZIANA DE CHIARA, AMMINISTRATORE DEL GRUPPO FACEBOOK “DOCENTI GAE COORDINAMENTO NAZIONALE”. Purtroppo quest’anno non è, come lei sostiene nel suo articolo, uno spartiacque tra il prima della “Buona Scuola” e il dopo la “Buona Scuola”: la Legge 107 non ha risolto i problemi atavici della scuola, primo fra tutti la “supplentite”, termine tanto caro al nostro premier, perché le cattedre del nord erano e sono scoperte, mentre al sud continua ad esserci un surplus di docenti che non si riesce a collocare, il tutto provocato sia dall’emendamento Puglisi, che derogando il vincolo triennale di permanenza dei neo assunti nelle loro sedi di appartenenza, ha gettato nella disperazione ben 45000 docenti iscritti nelle GaE, che si sono visti rubare il tanto agognato ruolo per via delle assegnazioni provvisorie, che hanno fagocitato tutte le cattedre autorizzate dal MEF, che dal concorso-truffa, che ha immesso nel mondo della scuola nuovi docenti, che non trovano collocamento a fronte di un concorso superato. · In merito all'osservazione riportata nel suo articolo del 10/09/2016 su "LINKIESTA" Le Graduatorie ad Esaurimento non saranno mai cancellate: la legge 107 recita:” per l'assunzione del personale docente ed educativo, continua ad applicarsi l'articolo 399, comma 1, del testo unico di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, fino a totale scorrimento delle relative graduatorie ad esaurimento; i soggetti iscritti nelle graduatorie ad esaurimento del personale docente sono assunti, ai sensi delle ordinarie facoltà assunzionali, nei ruoli di cui al comma 66, sono destinatari della proposta di incarico di cui ai commi da 79 a 82 ed esprimono, secondo l'ordine delle rispettive graduatorie, la preferenza per l'ambito territoriale di assunzione, ricompreso fra quelli della provincia in cui sono iscritti. Continua ad applicarsi, per le graduatorie ad esaurimento, l'articolo 1, comma 4-quinquies, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 134, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2009, n. 167” comma 109 lettera c. A sostenere tutto ciò il ministro Giannini, nel suo intervento a "POLITICS", programma in onda il martedì su RAI 3, del 13/09/2016, ha ribadito che le GaE saranno esaurite fino all'ultimo iscritto con la modalità assunzionale del 50% dal concorso e 50% da GaE. · Nel suo articolo lei sostiene che i docenti delle GaE non hanno svolto il loro servizio nella scuola pubblica. Mi perfetto di farle notare che la scrivente ha superato l’ultimo concorso abilitante del 1999- 2000 ed ha alle sue spalle 16 anni d’insegnamento tutti svolti nelle scuole statali e come me 45000 colleghi. Forse lei si riferisce ad alcuni casi che si sono evidenziati nella Fase C, dove “colleghi”, che svolgevano altro lavoro, ora, per magia renziana si trovano a occupare la sedia della docenza senza sapere dove mettere le mani, senza conoscere l’ABC della docimologia. · Nel suo articolo lei dice che i posti “sono stati spostati in altre regioni”. Ma le cattedre sono sempre state in altre regioni, e non in quelle del centro-sud. In una puntata di “PORTA A PORTA” il sottosegretario di Stato del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca nel Governo Renzi Davide Faraone dichiarò che visto che non si potevano spostare gli alunni da Nord a Sud, si spostavano i docenti da Sud a Nord. Il ministro Giannini, nel suo intervento nella trasmissione citata sopra, ha rimarcato una cosa nota ai docenti: il 67% delle cattedre è al centro nord, mentre l'80% dei docenti è al centro sud. Vista la mobilità di quest'anno era prevedibile che le immissioni in ruolo sarebbero state zero, sia per le GaE che per i concorsi. Per ovviare a questo problema i colleghi potevano andare a svolgere il concorso nelle regioni dove c’era la possibilità del ruolo, se questa era la loro primaria preoccupazione. · Per quanto riguarda lo svecchiamento della scuola, se si riferisce alla nostra età anagrafica, non è colpa nostra se da decenni inseguiamo il ruolo, che ci sfugge di volta in volta perché il ministro di turno, per biechi interessi di partito, favorisce il numero maggiore di docenti. Se poi lei si riferisce alle metodologie e competenze d’insegnamento, le posso dire che il progetto “Scuola 2.0” personalmente lo porto avanti già da un bel po’: si lavora col “cloud”, per scambi in tempo reale di notizie e conoscenze, dalla L.I.M. siamo passati ai proiettori interattivi multimediali e ai pennini ottici, in classe si mette in pratica la “flipped classroom”, tutto questo per motivare, stimolare e spronare gli studenti ad uno studio fattivo e innovativo. · Per quanto attiene la questione dei 36 mesi, la questione è molto complessa e va chiarita fin dagli albori. Il Miur è stato più volte sanzionato dalla UE alla stabilizzazione di tutti i precari con 36 mesi e più di servizio su posto vacante. Il governo ha pensato bene di risolvere la questione con un piano nazionale di assunzione, denominato legge 107, con la qual cosa l’illecito giuridico ora è stato cancellato. La sua osservazione che sostiene che al Sud si vuole fare l’insegnante perché non c’è altro lavoro, la trovo un luogo comune trito e ritrito e francamente non rende giustizia a tutti quei colleghi che la mattina dicono “io vado a scuola” e non “io vado a lavoro”. L’insegnamento è un lavoro dell’anima che non tutti possono svolgere: noi maneggiamo un materiale duttile e malleabile ma altamente pericoloso: la coscienza dei ragazzi. Ciò che un ragazzo apprende nell’età evolutiva lo renderà l’uomo di domani: ed è data a noi docenti questa delicata missione. Per concludere la informo che il governo vuole riconvertire tutti i docenti, che con l’emendamento Puglisi non si sono mai mossi dalle loro province e che sono in esubero, sul sostegno mediante “corsettini” di pochi giorni, se non di ore, a fronte di docenti altamente formati presenti nelle GaE. Il sostegno non può essere un escamotage per il governo per risolvere i propri pasticci.

I PRECARI DI STATO.

Così un esercito di lavoratori invisibili tiene in piedi la Pubblica amministrazione, scrive Salvo Intravaia su “La Repubblica”. Quanti sono i precari nella scuola, nella sanità, nei Ministeri e negli enti? Secondo l'agenzia governativa Aran 317mila. Ma per la Cgia di Mestre sono almeno un milione perché mette nel conto tutte le figure non stabili. A partire da i "liberi professionisti" che sono invece dei dipendenti mascherati. Il governo ha messo in cantiere nuovi concorsi con posti riservati. Ma la Consulta ha mandato ai giudici europei tutta la questione dei lavoratori atipici perché un decreto Ue, recepito dall'Italia, prevede la stabilizzazione dopo tre anni. Vittorio ha vinto il concorso della scuola bandito nel lontano 1990 e da allora aspetta di essere assunto. Già, perché la graduatoria del suo concorso è miracolosamente ancora in vigore. Ogni anno, si reca in Provveditorato sperando che sia finalmente arrivato il suo turno. Ma poi se ne torna a casa e continua ad aspettare. Nel frattempo, la sua barba si è imbiancata e i suoi capelli sono diventati più radi: ventitré anni di attesa per un posto che sembrava a portata di mano sono troppi in qualsiasi paese. Oggi, ha 54 anni e aspetta sempre. Nel 1990, alla sua età si poteva andare in pensione, Vittorio non solo non ci è andato, ma non è stato neppure assunto. E ancora aspetta. Stesso destino per Giuseppe Scaglione, anche lui di Palermo, che di anni ne ha addirittura 62 ed è in lista per essere assunto come professore di Costruzioni dal lontanissimo 1988, lo scorso millennio. Quando il suo nome comparve per la prima volta nelle graduatorie degli insegnanti precari, il muro di Berlino era ancora una ferita sul Vecchio continente, mentre adesso frotte di turisti affollano il checkpoint Charlie per le foto ricordo. Due storie, quelle di Vittorio e Giuseppe, che sembrano l'esatto paradigma del precariato lavorativo italiano: uno status che, per definizione, dovrebbe essere temporaneo si trasforma in una situazione quasi perenne. Come accade in alcuni Comuni siciliani, dove ci sono precari da 18/20 anni che reggono interi settori strategici. Oppure infermieri, personale tecnico e anche qualche medico precari nella sanità da 15 anni. O gli stagionali tra i vigili del fuoco. Ma quanti sono i precari pubblici nel nostro Paese? Secondo l'Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche amministrazioni), i precari del pubblico, sono -  dato del 2011 -  poco meno di 317mila, secondo la Cgia di Mestre, (l'associazione degli artigiani e delle piccole imprese che produce ricerche sullo stato del Paese) sono invece tre volte di più: quasi un milione. Troppi? Il fatto è che si può essere precari anche da liberi professionisti, spiegano da Mestre. L'esercito delle cosiddette partite Iva spesso nasconde una sacca di precariato involontario: se vuoi lavorare, devi farlo alle nostre condizioni. Per la Cgia di Mestre vanno considerati come precari i lavoratori dipendenti con contratto a termine involontari, quelli cioè che lavorerebbero a tempo indeterminato se venisse data loro la possibilità di farlo: i lavoratori part-time involontari, ma anche collaboratori e liberi professionisti che presentano contemporaneamente tre vincoli di subordinazione (un solo committente, imposizione dell'orario di lavoro e utilizzo dei mezzi dell'azienda).  Ed è difficile eccepire visto che le tre condizioni sono tipiche del lavoro subordinato. Analizzando i dati dell'Istat, ci si accorge che su oltre 22 milioni di lavoratori italiani -  dato del mese di luglio del 2013 -  soltanto il 53,6 per cento -  poco più di 12 milioni -  lavora stabilmente e a tempo pieno, Il resto sotto varie forme è precario. Un mondo fluido e mutevole dove è difficile distinguere tra liberi professionisti "per scelta" e involontari, come li definisce l'Istituto italiano di statistica: lavoratori che accettano di lavorare col part-time o con la partita Iva "in mancanza di occasioni di impiego a tempo pieno". Con il Pubblico impiego, lo Stato e gli enti locali, che, anziché promuovere lavoro stabile per garantire sicurezza alle famiglie, attinge a piene mani dall'enorme serbatoio del bisogno di lavoro che, all'articolo 4, la Costituzione sancisce come un "diritto". "È scandaloso", sbotta Gianni Faverin della Cisl "Se un posto di lavoro non serve più, lo Stato e gli enti locali dovrebbero abolirlo. Se invece è necessario per assicurare un servizio ai cittadini per anni, allora occorre stabilizzare il lavoratore. Non è corretto per lo stesso lavoratore e per la società mantenere un lavoratore precario per anni e anni". La Costituzione all'articolo 97 afferma che "agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge" e il decreto legislativo 368 del 2001 -  che attua una direttiva europea in materia di contratti a tempo determinato -  stabilisce che dopo tre anni di proroghe "il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato", salvo i casi previsti dalla legge. Per questa ragione, su ricorso dell'Anief (Associazione professionale e sindacale della scuola), la Corte costituzionale ha rinviato ai giudici lussemburghesi l'eventuale trasformazione di 200mila rapporti di lavoro nella Pubblica amministrazione da lavoro precario a contratti a tempo indeterminato. Trasformazione che sta alla base della stabilizzazione dei precari. I comparti del Pubblico impiego che sfruttano maggiormente l'enorme sacca di precariato esistente in Italia sono soprattutto: scuola, sanità, enti locali, università e vigili del fuoco. In alcuni casi, come quello degli enti locali, il blocco contenuto nelle ultime Finanziarie impedisce alle regioni di bandire i concorsi. E il precariato "di Stato" lievita. Secondo l'Aran tra scuola e sanità si contano 170mila precari, mentre la Cgia di Mestre ne conta quasi 515mila. Oltre 57mila per l'Aran, 118mila per la Cgia di Mestre, i precari della Pubblica amministrazione -  Stato ed enti locali -  oltre 4mila quelli dell'Università e 3mila e 600 i vigili del fuoco, lavoratori specializzati che rischiano la vita ogni giorno e non sono neppure stabili. A fare l'identikit del lavoratore sempre in bilico ci pensano a Mestre: diplomato, meridionale e con uno stipendio medio di 836 euro mensili. Ma adesso arriva il cosiddetto decreto D'Alia che dichiara guerra al precariato. L'intenzione è meritoria: "Viene rafforzato il principio in base al quale" -  si leggeva nel comunicato di Palazzo Chigi del 26 agosto "il ricorso al lavoro flessibile nella Pubblica amministrazione è consentito esclusivamente per rispondere a esigenze temporanee o eccezionali: ne deriva che nella Pubblica amministrazione non è consentito sottoscrivere contratti elusivi del reclutamento tramite concorso.  Il tutto al fine di evitare, per il futuro, la formazione di nuovo precariato". Il decreto, per ridurre il precariato nel settore pubblico, percorre due strade: nuovi concorsi riservati a coloro che nell'ultimo quinquennio hanno maturato almeno tre anni di servizio nella pubblica amministrazione; proroga fino al 31 dicembre 2015 delle graduatorie dei concorsi pubblici approvate dal primo gennaio 2008. Buoni propositi. O risposta politica in attesa che si pronuncino i giudici europei.

La beffa di Stato per 11mila docenti. Da possibile eccellenza a ultimi della fila, scrive Salvo Intravaia su “La Repubblica”. Li chiamano "tieffini", secondo la riforma Gelmini rappresentavano gli insegnanti "giovani e meritevoli", quelli che sarebbero entrati in classe solo dopo aver fatto un super corso all'università. Invece oggi si trovano dietro a tutti gli altri precari e per loro la cattedra diventa un miraggio. Sfigati o precari di serie C? C'è solo l'imbarazzo della scelta, ma la sostanza non cambia. Il variegato mondo dei precari della scuola ha anche i suoi "figli di un Dio minore". Si tratta di 11mila persone appena abilitate secondo la riforma Gelmini costrette quest'anno addirittura ad elemosinare una supplenza dai loro colleghi non abilitati: una situazione che sembra assurda, ma che rappresenta una delle tante contraddizioni della scuola italiana che ormai non meravigliano quasi più nessuno. I 183mila "precari storici" inseriti nelle Graduatorie ad esaurimento (le Gae) sono infatti in una botte di ferro: le liste provinciali di cui fanno parte sono (quasi) blindate e spetterà a loro per i prossimi anni metà dei posti concessi per le immissioni in ruolo. A seguire, nell'inferno del precariato scolastico nostrano figurano i supplenti di serie B e quelli di serie C. I primi sono i 66mila precari non abilitati che dall'anno scolastico 1999/2000 al 2011/2012 hanno racimolato tre anni di supplenza in una scuola statale o paritaria. E che adesso hanno l'occasione di acciuffare l'abilitazione all'insegnamento attraverso una corsia preferenziale: il cosiddetto Percorso abilitante speciale (Pas), che consentirà loro in un anno di ottenere l'abilitazione all'insegnamento. E dopo, in fondo al purgatorio dei precari della scuola, i cosiddetti "tieffini": coloro che hanno ottenuto l'abilitazione all'insegnamento attraverso il Tirocinio formativo attivo, il Tfa. Gli 11mila tieffini che scalpitano per sedere in cattedra nell'immaginario gelminiano dovevano rappresentare l'avanguardia degli insegnanti "giovani e meritevoli" del terzo millennio ma adesso figurano ultimi tra gli ultimi. Ecco perché. Tre anni fa, la riforma Gelmini della formazione iniziale dei docenti ha infatti previsto che per diventare insegnanti di scuola media e superiore occorre seguire corsi universitari a numero programmato quinquennali con un altro anno di appendice per seguire un Tirocinio (formativo attivo) in classe: in tutto, sei anni di studio ed esami. Ma per i primi anni di applicazione il decreto prevede che coloro che sono in possesso di una laurea del vecchio ordinamento o di una laurea triennale più una laurea magistrale, conseguita entro il 2010, potevano ottenere l'abilitazione all'insegnamento seguendo il solo tirocinio di un anno, con esame finale, riservato ad un numero limitato di candidati. Per oltre 20mila posti messi a disposizione dal ministero la selezione ha abilitato soltanto 11mila nuovi insegnanti. Che adesso rappresentano l'ultima ruota del carrozzone scolastico italiota. Il perché è presto detto. I tieffini e gli abilitati attraverso i Pas, dopo avere sborsato migliaia di euro per seguire i corsi universitari predisposti per l'occasione, potranno inserirsi soltanto nelle graduatorie d'istituto, da cui si assegnano le supplenze "brevi". Ma soltanto dal 2014. Quest'anno, sono in coda a tutti, anche ai colleghi non abilitati. Di entrare nelle graduatorie ad esaurimento -  da cui vengono reclutati gli immessi in ruolo e che consentono di acciuffare le supplenze per tutto l'anno -  non se ne discute. E tra questi, i tieffini saranno in coda perché i compagni dei Pas avranno un punteggio più alto, visto che possono vantare almeno tre anni di servizio che dà luogo a punteggio. Per i primi, la "terra promessa" doveva essere la riforma del reclutamento che l'ultimo governo Berlusconi non riuscì a portare a termine. E, adesso, si trovano in mezzo al guado dell'ennesima incompiuta italiana: la riforma dell'intero percorso per sedere in cattedra (formazione universitaria degli nuovi insegnanti e nuovo reclutamento) rimasta a metà. 

Università regno dei precari. Vietato sognare il posto fisso, scrive Valerio Mammone su “La Repubblica”. Sei su dieci hanno un contratto atipico, l'instabilità colpisce ricercatori e docenti. L'allarme dei sindacati: con la riforma Gelmini nessuna regolarizzazione e un esercito di disoccupati. Entrate in un'università italiana e puntate il dito su una persona a caso: se non è uno studente, avete sei probabilità su dieci di aver indicato un precario. Secondo i dati del Miur, nel 2012 l'università italiana ha raggiunto un traguardo notevole: fra docenti e ricercatori il 60 per cento lavora con un contratto precario. Tra chi si occupa di ricerca (dottorandi, ricercatori a tempo determinato e indeterminato e assegnisti di ricerca) la percentuale sale al 69 per cento. Mentre fra i professori quasi uno su due ha il contratto precario. Alla fine del 2012, i "contrattisti" erano 27.664 a fronte di 29.271 fra professori ordinari e associati. Sognare un posto a tempo indeterminato, in un'università italiana, è proibito per legge. Le norme della riforma Gelmini che riguardano il personale precario (assegnisti, ricercatori e professori a contratto) si concludono sempre con la stessa frase: "I contratti di cui al presente articolo non danno luogo a diritti per l'accesso ai ruoli universitari". Tradotto dal burocratese: "Scordatevi il posso fisso". Nei prossimi anni il precariato è destinato ad aumentare: "Le università", dice Domenico Pantaleo, segretario nazionale Flc Cgil "sono diventate una fabbrica di precari. La legge Gelmini ha precarizzato persino la figura del ricercatore, sostituendo quelli a tempo indeterminato, destinati a sparire, con i ricercatori a tempo determinato". Francesco Vitucci, segretario nazionale dell'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani (Adi), è dello stesso parere: "Lo Stato negli ultimi anni ha utilizzato il precariato per far fronte ai tagli e far sopravvivere l'istituzione dell'università. Se non avesse sfruttato gli assegnisti di ricerca, i professori a contratto e altre figure, le università sarebbero implose". Secondo i piani dell'ex ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, la riforma avrebbe dovuto eliminare il "precariato stabile e consentire esclusivamente ai meritevoli di proseguire l'attività di ricerca". Ma secondo l'Adi, la legge ha solo creato i presupposti per un esercito di disoccupati. Entro il 2020, il 93 per cento degli assegnisti di ricerca che alla fine del 2012 lavoravano nelle università italiane abbandonerà per sempre la carriera accademica. Il restante 7 per cento sarà reclutato come ricercatore a tempo determinato, con la possibilità di inserimento in ruolo. I disoccupati, conti alla mano, saranno 12.555 su un totale di 13.500 assegnisti. Il precariato, nelle università, non riguarda soltanto la ricerca ma anche l'attività didattica, a causa dell'impiego massiccio dei professori a contratto. Questi docenti "sono stati introdotti nel 1980 per arricchire il percorso universitario attraverso il contributo di esperti del mondo delle professioni", dice Alessandro Bellavista, ordinario di Diritto del lavoro all'Università di Palermo, "ma col passare degli anni, e con l'ampliamento dell'offerta formativa, sono stati usati anche come canale per parcheggiare giovani studiosi in attesa di una posizione migliore". Per capire il perché di questo aumento basta dare un'occhiata ai contratti, che nel migliore dei casi prevedono compensi irrisori e spesso sono gratuiti.  La riforma Gelmini ha tentato di limitare questo abuso, impedendo il rinnovo dei contratti per più di 5 anni e fissando un tetto del 5 per cento a quelli gratuiti (sul totale dei professori e ricercatori di ruolo in servizio nell'ateneo) obbligando le università a stipularli solo con "esperti di alta qualificazione" che abbiano già un reddito lordo non derivante dalla stessa università pari o superiore a 40mila euro. Le maglie imposte dalla riforma, però, erano troppo stringenti: il decreto semplificazioni varato dal governo Monti ha quindi eliminato le barriere di reddito introdotte dalla legge Gelmini per evitare lo sfruttamento di giovani precari. "Così è probabile", dice Alessandro Bellavista "che si continuerà nella prassi di assegnare contratti a titolo gratuito a quei giovani (o già attempati) studiosi disponibili a tutto pur di rimanere nel mondo universitario". Per gli altri contratti di docenza la legge ha stabilito un compenso minimo di 25 euro lordi l'ora, con cui l'università si assicura, oltre alle lezioni, anche la presenza del docente agli esami, il ricevimento studenti e l'assistenza tesi.

Quando la salute è senza contratto. Medici e infermieri con la partita Iva, scrivono Vittoria Iacoviello e Maria Elena Scandaliato su “La Repubblica”. Timbrano il cartellino, sono nei turni di ferie, ma per loro non ci sono né garanzie né tutele. Nella Sanità il ricorso a contratti atipici è diventato la regola per aggirare il blocco delle assunzioni. A Nord come a Sud. Entrano al lavoro e timbrano il cartellino, fanno turni, notti, reperibilità come fossero dipendenti, ma in realtà a fine mese emettono una fattura e pagano più contributi previdenziali dei loro colleghi a tempo indeterminato. L'assicurazione è a loro carico, non hanno ferie e le loro "consulenze" o "collaborazioni" sono perennemente appese al filo del rinnovo del loro rapporto con la Asl. Da questi camici bianchi atipici però dipendono anche la salute e la vita di molti pazienti. Questi medici, infermieri e tecnici, infatti hanno spesso alte specializzazioni, sono impiegati in reparti particolarmente delicati come la Neonatologia intensiva dell'Umberto I di Roma (in cui sono la metà del personale), il Pronto soccorso pediatrico, ma anche la Cardiochirurgia, le ambulanze, la Radiologia. I camici bianchi a partita Iva sono in tutti i settori della sanità pubblica. Sono tanti e difficili da calcolare, da Nord a Sud, il loro orizzonte di speranza si chiama "assunzione", ma ogni volta che viene promesso un nuovo concorso il concetto sembra non riuscire a emergere dalle semplici promesse elettorali dei governatori locali o dai proclami di politici di qualsiasi schieramento. Loro sono lì e portano avanti la macchina della salute assieme ai colleghi assunti, lavorando esattamente allo stesso modo ma con un gap di diritti notevole. Al Policlinico Umberto I di Roma sono più di duecento, il direttore generale Domenico Alessio con una lettera alla Regione Lazio inviata lo scorso 20 febbraio chiedeva di "indire un concorso pubblico per l'assunzione diretta degli infermieri con un punteggio che tenga conto degli anni già prestati al Policlinico" e poi "attivare procedure per l'assunzione diretta del personale ausiliario già in servizio al Policlinico, così da preservare la professionalità acquisita, il diritto di assistenza nelle strutture sanitarie pubbliche, la dignità e sicurezza dei lavoratori super sfruttati per far ingrassare i padroni di ditte e cooperative". I mesi sono passati siamo ancora allo stesso punto. Un medico che lavora in ospedale, ma è considerato lavoratore "autonomo" paga anche una percentuale più alta di contributi all'Empam (ente previdenziale della categoria) cui versa ogni anno il 12,5 per cento dello "stipendio", mentre i colleghi assunti regolarmente pagano soltanto la percentuale su quanto guadagnato effettivamente con prestazioni fuori dal settore pubblico. I falsi "liberi professionisti" di libero hanno ben poco. E la riforma Fornero ha dato il colpo di grazia. Molte Aziende sanitarie, per sopperire alla carenza degli organici, aumentata esponenzialmente a causa del blocco del turn over, si sono avvalse della disciplina contenuta nell'articolo 7 del Decreto legislativo 165 del 2001 per stipulare contratti libero professionali con medici, biologi, farmacisti e psicologi. Secondo la norma infatti: "Per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, a esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza degli" specifici "presupposti di legittimità". Un'anestesista, che preferisce rimanere anonima per evitare guai, ci racconta: "Ho lavorato anche tra un contratto e l'altro, senza sapere cosa sarebbe stato di me e senza assicurazione. L'ho fatto per senso del dovere, nel mio reparto se scioperi i pazienti non rimangono in attesa, muoiono. Se ci fosse stato qualche problema, non so cosa avrei fatto, non avrebbero neanche potuto ipotecarmi la casa, sono in affitto. Lavoriamo in condizioni di stress estremo e il precariato è la fune sulla quale cerchiamo ogni giorno di rimanere in equilibrio". E a Nord lo scenario non cambia. A Milano il Pio Albergo Trivulzio (quello dove iniziò l'inchiesta Mani Pulite) gestisce tre residenze assistenziali e due istituti di riabilitazione per anziani, oltre a diversi ambulatori specialistici, un hospice per malati incurabili e alcune comunità alloggio. Tutto all'interno di strutture pubbliche, amministrate dal Comune e dalla Regione Lombardia. Come a Roma, anche qui precari e partite Iva si mischiano ai colleghi "strutturati": basta fare un giro nei corridoi di via Trivulzio per vedere decine di "liberi professionisti" strisciare il badge in entrata, uscita e pausa pranzo, come fossero dei dipendenti. Su 1400 lavoratori, circa 200 sono "collaboratori" o partite Iva; difficile, invece, quantificare il personale di cooperativa che si incontra in tutti i reparti. Le gare cui partecipano le cooperative, infatti, prevedono solo la fornitura di un ammontare di ore assistenziali, come richiesto dalla Regione; quanti siano gli operatori sanitari necessari a garantirle non è interesse del Pio Albergo. "Semplicemente, non possiamo fare concorsi. E per assumere a tempo indeterminato è necessario bandire un concorso pubblico", spiega Giovanni Maria Soro, direttore generale del Trivulzio. "L'ultimo era stato indetto nel 2011, ma è stato subito bloccato dalla gestione commissariale. Poi è stato decretato il blocco del turn over e non abbiamo assunto più nessuno". In realtà, negli ultimi anni sono stati chiamati a lavorare decine di nuovi infermieri, medici e fisioterapisti. Il paradosso è che sono stati contrattualizzati come "collaboratori" o "liberi professionisti", nonostante siano tenuti a rispettare orari e turni, e a pianificare le ferie proprio come i loro colleghi subordinati. Inoltre, sono stati scelti non tramite concorso pubblico (come la legge impone) ma attraverso una "procedura comparativa", che cerca di salvare almeno la parvenza di una selezione trasparente del personale. Tra gli avvisi affissi nella bacheca del Pio Albergo, infatti, ecco due nuove "procedure comparative" per il conferimento di 21 "incarichi libero professionali": fisioterapisti, logopedisti e assistenti sanitari chiamati a lavorare come dipendenti, ma senza le relative garanzie. Un infermiere del Trivulzio, anche lui rigorosamente anonimo, racconta: "Lavoro tra le 150 e le 160 ore al mese, con una retribuzione lorda che va dai 2500 ai 2800 euro. Sembra una bella cifra, ma con la partita Iva pago delle tasse salatissime, e devo anche pensare da solo a pensione e assicurazione contro malattia e rischio biologico". In effetti, i lavoratori a partita Iva sono pagati solo per le ore effettivamente lavorate: chi resta a casa perché ammalato o infortunato (magari sul lavoro) non riceve nulla. Su tutto, poi, incombe l'interruzione del rapporto lavorativo, che il Trivulzio può imporre senza particolari preavvisi o spiegazioni. Basta inimicarsi un superiore o un dirigente e lo stipendio rischia di saltare da un mese all'altro. Ecco perché nessuno vuole parlare a viso aperto della propria precarietà: "C'è poco da lamentarsi. Con questi contratti ti possono licenziare quando vogliono". Giovanni Maria Soro difende comunque le scelte del Trivulzio: "Noi non costringiamo nessuno. Quando facciamo la procedura comparativa diciamo chiaramente che il rapporto è di tipo libero-professionale. Certo, le ore sono quelle e la struttura sanitaria prevede per forza di cose una turistica, ma nessuno ha mai fatto ricorso". In effetti, la tentazione di fare causa per l'assunzione a tempo indeterminato passa in fretta. Un fisioterapista, a partita Iva per anni e oggi collaboratore a progetto, racconta di essersi rivolto a un avvocato: "Mi ha sconsigliato di far causa al Pat, perché nessun giudice ha mai costretto un ente pubblico ad assumere a tempo indeterminato. Forse potrei ottenere un indennizzo economico, ma perderei sicuramente il posto di lavoro". Il bilancio del Trivulzio nel 2012 è stato chiuso con un buco di 9 milioni di euro, due in meno rispetto al 2011; un miglioramento relativo, dovuto alla vendita di immobili per un valore di 3 milioni di euro. Il Pio Albergo Trivulzio, infatti, gestisce un patrimonio mobiliare e immobiliare di 400 milioni: ciononostante, i servizi assistenziali per gli anziani - ovvero l'attività principale del Pat, che comprende anche la residenza nelle strutture e la riabilitazione -  rendono sempre meno, perché gli utenti solventi, a causa della crisi, sono in netta diminuzione, e il Comune può coprire sempre meno spese. Difficile, quindi, prevedere uno sblocco delle assunzioni attraverso nuovi concorsi. Particolare curioso, in questo contesto di austerity e sacrifici, sono le retribuzioni dei nove dirigenti del Pat: in media, ognuno di loro percepisce 105mila euro annui. Lo stesso Soro guadagna circa 123mila euro, cui si aggiunge un 20% in più in base ai risultati. Liberi professionisti anche loro, ma con qualche incentivo in più.  

Lavoro, lo Stato ignora le sue leggi. "Nel Pubblico impiego diritti negati", scrive Maria Elena Scandaliato su “La Repubblica”. Ai precari utilizzati come avessero contratti a tempo indeterminato i giudici negano l'assunzione. Al massimo possono puntare a un risarcimento, ma nessuno ha fissato dei parametri precisi così si va da 3mila euro per tre anni da abusivo a 20 mensilità. Nell'immaginario italiano lavorare per lo Stato significava sistemarsi a vita. Oggi non è più così: il Pubblico impiego è diventato un enorme serbatoio di partite Iva, cococo e contratti a termine. Con l'aggravante che il "precario di Stato" ha ben poche speranze di essere stabilizzato, rispetto a un omologo del settore privato. "I requisiti del rapporto di lavoro subordinato sono gli stessi nel privato come nel pubblico", spiega il giuslavorista Alberto Guariso, esperto di lavoro nella Pubblica Amministrazione. "Se la prestazione è continuativa, soggetta a direttive, con vincolo di orario e utilizzo di mezzi esclusivi del datore di lavoro, il rapporto professionale, che sia pubblico o privato, è di tipo subordinato". Questo significa che medici e infermieri impegnati negli ospedali pubblici come collaboratori o liberi professionisti (magari muniti di cartellino da timbrare) sono a tutti gli effetti dei lavoratori subordinati, che lo Stato dovrebbe assumere a tempo indeterminato dopo regolare concorso. "Purtroppo, le cose non vanno così", continua l'avvocato Guariso. "Ciò che cambia tra pubblico e privato sono proprio le conseguenze della violazione del vincolo di subordinazione". Lo Stato, infatti, sembra essere esente dal rispetto delle sue stesse leggi: ad esempio, se un infermiere lavora come subordinato, ma è pagato a partita Iva, nessun giudice potrà stabilizzarlo, imponendo alla struttura ospedaliera un contratto a tempo indeterminato. Ciò che avviene nel privato, dove spesso le finte collaborazioni sono trasformate per via giudiziale, nel pubblico trova un invalicabile muro di gomma. "È una situazione anomala, ma in fondo ha una sua logica", sostiene il giuslavorista. "Se introducessimo il potere del giudice di trasformare un contratto a termine a tempo indeterminato, la cosa si presterebbe ad abusi: quanti 'amici' verrebbero chiamati per qualche mese senza concorso in un ufficio pubblico, e poi assunti a vita dopo aver fatto causa?". Nella pratica, però, sbarrare la strada ad eventuali furbi produce un'immediata violazione del diritto: da un lato del lavoratore, impiegato come un dipendente, ma senza le relative garanzie; dall'altro della stessa comunità, laddove lo Stato seleziona del personale senza bandire un concorso pubblico. Il ricorso al precariato nella Pubblica Amministrazione nasce ufficialmente con il decreto legislativo 165 del 2001 (Testo unico del pubblico impiego). In realtà il problema esisteva già, come dimostrano le numerose "prestazioni d'opera" cui i Comuni hanno sempre attinto. "Già negli anni Novanta il Comune di Milano stipulava i cosiddetti 'contratti d'opera' per attività che non erano affatto occasionali. Basti pensare ai giovani impiegati negli uffici per stranieri o nell'organizzazione di eventi, che non erano iscritti a nessun albo professionale ma venivano pagati a prestazione, pur svolgendo veri e propri lavori d'ufficio". La legge del 2001 è scaturita proprio dalla necessità di sanare questa situazione. "Tra l'altro, l'articolo 36 del Testo unico da un lato specifica che i contratti impropri non possono trasformarsi in rapporti a tempo indeterminato, ma dall'altro prevede che in caso di utilizzo illegittimo della flessibilità il lavoratore abbia diritto a un risarcimento del danno subìto". La stessa Corte di Giustizia Europea, chiamata in causa dai lavoratori italiani, ha confermato che il rapporto di lavoro non può essere trasformato dal giudice; al tempo stesso ha imposto all'Italia di prevedere sanzioni effettivamente dissuasive del ricorso illegittimo al precariato. "Con l'introduzione del risarcimento è scattata una lunga serie di cause. Purtroppo il legislatore non ha indicato dei parametri economici, quindi i tribunali hanno stabilito le liquidazioni più strane", racconta il giuslavorista. "Tempo fa un giudice, per un contratto illegittimo di tre anni presso l'ospedale Sacco, ha comminato un risarcimento di appena 3mila euro. Certo, a volte sono riconosciute cifre pari a 20 mensilità, ma è tutto discrezionale". Può capitare, quindi, che lavoratori impiegati per cinque o dieci anni con contratti a termine impropri si trovino in mano un bel gruzzolo, ma senza il posto di lavoro. Una soluzione anomala, che grava sulla finanza pubblica e licenzia professionalità ormai consolidate. Discorso a parte meritano le partite Iva, ultimo gradino -  a ribasso -  della pubblica precarietà. Guariso spiega che anche laddove sussista un chiaro rapporto di subordinazione il risarcimento del danno, per loro, non è affatto scontato. "Questa sanzione è prevista per i contratti a termine e in somministrazione. Certo, si possono ottenere i contributi e l'eventuale differenza di retribuzione, ma il risarcimento non è obbligatorio". E dire che lo Stato pullula di partite Iva, soprattutto nella sanità. "Negli ospedali se ne trovano tante perché medici e infermieri appartengono a un ordine professionale. Ecco perché lavorano a partita Iva e con contratti di collaborazione coordinata e continuativa". In effetti, il cococo è rimasto in piedi solo per la pubblica amministrazione e per gli ordini professionali. "Poi c'è il problema della pensione: le partite Iva sono pagate bene e raramente fanno causa. In questo modo trascurano la loro situazione contributiva rimandandola all'ultimo momento. Quando dovranno smettere di lavorare, però, si renderanno conto che non hanno diritto a niente, e sarà un duro colpo". Il giuslavorista fa l'esempio di un gruppo di psicologi impiegati da dieci anni presso una Asl della provincia di Milano. Potrebbero lavorare come "convenzionati" -  tipologia contrattuale simile al cococo, propria di medici e psicologi -  e aver diritto almeno alle ferie. Invece no: lavorano come professionisti a partita Iva, pur essendo dei subordinati soggetti a orari precisi e destinati sempre allo stesso ambulatorio. "Pubblicano degli avvisi con cui rinnovano l'incarico sempre agli stessi, per uno o due anni. Quando abbiamo fatto causa, la Asl li aveva persino cancellati dal bando, e abbiamo dovuto fare un ulteriore ricorso perché continuassero a lavorare". Dietro questi abusi, alla fine, c'è sempre una questione di soldi: "Il convenzionato ha le ferie, il cococo o cocopro i contributi... Quando si ottiene una minima tutela da una parte, si aprono nuovi spazi a ribasso da un'altra, come quelli dell'incarico a partita Iva. Chissà dove arriveremo". L'Unione Europea è comunque contraria all'abuso dei contratti a termine. La normativa comunitaria, infatti, prevede anche il principio della non discriminazione, secondo cui il lavoratore a termine deve essere pagato nella stessa misura del suo omologo "comparabile" a tempo indeterminato. "Anche qui sono nati innumerevoli contenziosi, basti pensare agli importi collegati alla produttività", racconta l'avvocato. "La Croce Rossa, ad esempio, assume al 60% personale a termine cui non vengono pagati premi incentivanti, che sono una parte consistente della retribuzione. Di fatto questi premi sono assegnati senza un particolare collegamento a obiettivi specifici: se il traguardo sono 100 trasporti al mese, è ovvio che tutti hanno contribuito. E allora perché chi è assunto ha diritto al premio e chi è a termine no?"  Dal 2001 a oggi ci sono state almeno una decina di modifiche al Testo Unico. "Di anno in anno, i governi cercano di allargare il ricorso al precariato perché senza flessibilità nella pubblica amministrazione lo Stato non ce la fa. Puntualmente, poi, si rendono conto che si crea confusione e malcontento, e allora fanno l'ennesima riforma in cui ribadiscono il carattere eccezionale del lavoro flessibile". Una specie di fisarmonica, insomma. Nella quale, purtroppo, sono incastrate da anni migliaia di vite, in attesa di una stabilizzazione sempre più chimerica.

ABILITATI, SENZA POSTO.

Abilitati ma da anni senza posto: parte class action dei professori universitari. Sono già più di mille i ricercatori e i docenti pronti al ricorso al Tar: rischiano di dover fare una nuova certificazione perché quella conseguita per titoli è in scadenza, scrive Ilaria Venturi il 28 febbraio 2018 "La Repubblica". Abilitati, ma esclusi dalle università. E' l'esercito delle migliaia di docenti e ricercatori che hanno ottenuto l'abilitazione scientifica nazionale ma che non sono ancora stati chiamati dagli Atenei. E che ora rischiano di dover rifare la prova perché la "certificazione", conseguita attraverso un esame per titoli davanti a una commissione, è in scadenza. Dopo sei anni, infatti, non vale più, diventa carta straccia. Di qui la rabbia e la preoccupazione degli universitari pronti ora al ricorso al Tar. In poche settimane il Cipur, coordinamento dei professori di ruolo, ha raccolto 1.070 adesioni per l'azione legale. Si prefigura una vera e propria class action degli accademici con la quale dovrà fare i conti il ministero e il mondo della politica dopo le elezioni.

· LA PROTESTA. "Un assurdo, l'abilitazione non può scadere", la protesta che monta tra gli abilitati, circa 50 mila ad oggi. Quelli più coinvolti sono quelli che hanno conseguito l'abilitazione nelle prime tornate del 2012: su 7.149 abilitati per la prima fascia, risultano al Cipur (e i numeri sono per difetto) non chiamati dagli atenei in 3.512, mentre sui 14.779 abilitati per la seconda fascia i non chiamati sarebbero 2.122. Tutti potenziali interessati al ricorso. La presidente del Cipur, Rosa Daniela Grembiale, parla di "apartheid" all'interno del personale universitario: stesso lavoro, ma canali per la progressione di carriera discriminanti. Tre sono i ricorsi pronti a partire a marzo: i primi due, che hanno già raccolto 916 adesioni, riguardano i docenti associati e i ricercatori a tempo indeterminato (vecchia figura pre Gelmini) abilitati: perché per loro scade l'abilitazione, mentre questo non accade per i ricercatori di "tipo B" introdotti dalla legge Gelmini, domanda il Cipur? Sullo sfondo il fatto che tutte le abilitazioni professionali, come quelle degli insegnanti di scuola, non prevedono una scadenza. "Noi chiediamo che sia così anche per gli universitari", insiste il Cipur e non solo.

· LE PETIZIONI ONLINE. Tante le petizioni online, come quella partita dal politecnico di Bari in cui si chiede, tra l'altro, di istituire una graduatoria nazionale degli abilitati alla quale le università possono attingere secondo le loro necessità. Il dibattito è acceso nei social. C'è anche una pagina Facebook dedicata. Il Cipur promuove infine un terzo ricorso, che ha raccolto per ora 151 adesioni, per chiedere la stabilizzazione dei ricercatori di "tipo A", quelli che scadono dopo 3 anni rinnovabili di 2, in nome della legge Madia che prevede assunzioni a tempo indeterminato dopo 36 mesi di contratti a termine. "Per i centri di ricerca questa legge è stata applicata, noi chiediamo che lo sia anche per i ricercatori precari nelle università", spiega Rosa Daniela Grembiale. "Non possiamo formare professionalità e poi perderle".

· LA MANCANZA DI FONDI. Il nodo degli abilitati sta nel numero esiguo di concorsi rispetto alle necessità, in un processo di reclutamento che procede col contagocce per mancanza di fondi. Non è automatico il passaggio dall'abilitazione, necessaria, alla chiamata per concorso da parte degli atenei. Ma l'effetto che si è creato è un numero spropositato di abilitati rispetto ai posti banditi per progredire di carriera (da ricercatore a associato a ordinario). Un meccanismo che mostra ora i suoi limiti. Al 31 luglio 2015 erano stati banditi appena 1.326 concorsi per ordinari e associati su 22.717 abilitati (meno di sei concorsi ogni cento abilitati). A ricordarlo è una petizione, che alcuni mesi fa ha raccolto in poco tempo 400 firme, promossa dal professor Francesco Mancuso dell'università di Salerno, in cui si chiedeva (ma nessuna risposta è arrivata) alla ministra Valeria Fedeli di "voler prolungare la validità delle abilitazioni degli anni 2012 e 2013, evitando così di colpire ulteriormente quella 'generazione di mezzo' di docenti e ricercatori, già peraltro duramente provata da anni di blocco degli scatti di carriera", e lo stanziamento di fondi straordinari per le chiamate in ruolo anche per il 2018-19. "L'abilitazione in sé non è una assicurazione di avanzamento di carriera, ma al momento è l'unica strada" osserva il docente. Quindi, ingiusto farla scadere. La sua situazione è quella di tanti. "La mia abilitazione scadrà nel 2020, ma nel mio dipartimento dal 2012 ad oggi sono stati chiamati appena tre colleghi: non ce la farò. Mi iscriverò a quella nuova". L'ultima chiamata per la tornata 2016 è il 6 aprile. Poi chissà. Certo è che si prevedono una marea di domande.

IL PARADOSSO. RICERCATORI UNIVERSITARI BOCCIATI ALL’ABILITAZIONE MA COSTRETTI AD INSEGNARE.

PROFESSORI E RICERCATORI UNIVERSITARI. IL RECLUTAMENTO NEGLI ULTIMI 50 ANNI. Parte I: gli anni ’60. Parte II: gli anni ’70. Parte III: gli anni ’80.

Sommario delle tre parti: I docenti universitari nei primi anni sessanta. Per entrare nei ruoli di assistente o di professore bisognava superare un concorso. La sistemazione degli assistenti straordinari. Il nuovo ruolo dei professori aggregati. Il fallimento della riforma Gui. Le anticipazioni di una riforma mai avvenuta. Le “misure urgenti” del 1973. La bomba ad orologeria dei precari. I decreti Pedini e le nuove regole per i concorsi a cattedra. Gli assegni di formazione professionale per contrastare la disoccupazione giovanile. Riforma e sanatoria del 1980.  Ruolo dei ricercatori, permanente o “ad esaurimento”? I concorsi per il ruolo di ricercatore. Un nuovo canale di reclutamento universitario anomalo: i tecnici laureati.

(Fonte: A. Figà Talamanca, Roars 20 e 25-01-2014, 02-02-2014)

I docenti universitari nei primi anni sessanta

All’inizio degli anni sessanta del secolo scorso, i docenti delle università italiane si distinguevano in professori di ruolo (a loro volta distinti in professori ordinari e professori straordinari), professori incaricati, ed assistenti.

Gli assistenti secondo l’art.1 della Legge 18 marzo 1958 n. 349, facevano parte del personale insegnante e si distinguevano in: a) Assistenti ordinari, nominati dal Ministro in seguito a pubblico concorso per titoli ed esami, b) Assistenti incaricati nominati dal Ministro (dal Rettore a partire dal 1967) in temporanea sostituzione degli assistenti ordinari, c) Assistenti straordinari nominati dal Consiglio di Amministrazione dell’Università, d) Assistenti volontari nominati dal Rettore.

Professori di ruolo ed assistenti ordinari erano inquadrati nel cosiddetto “ruolo A” del pubblico impiego, che prevedeva tredici “gradi”, il primo grado essendo riservato al Presidente della Corte di Cassazione. I professori ordinari iniziavano (dopo lo straordinariato) con il grado VI, corrispondete a “colonnello” e potevano raggiungere il grado III, che corrispondeva a “generale di corpo d’armata”. L’assistente ordinario iniziava con il grado XI, corrispondente a “sottotenente”, e poteva raggiungere il grado VIII, corrispondente a “maggiore”, solo dopo aver ottenuto la Libera Docenza, e la relativa “conferma”.  Il professore straordinario che, come vedremo, era sostanzialmente un professore ordinario “in prova” apparteneva al grado VII, corrispondente a “tenente colonnello”.

I professori incaricati erano nominati dal Ministro, su proposta del Consiglio di Facoltà per un anno accademico, previo nulla osta espresso (a titolo consultivo) dalla prima sezione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. L’incarico poteva essere non rinnovato. Tuttavia la Legge 24 febbraio 1967, n. 62 introdusse una “graduatoria” nella assegnazione degli incarichi che privilegiava prima di tutto i liberi docenti già incaricati. La graduatoria, tuttavia, era suscettibile di “deroghe” nel “superiore interesse degli studi”.

Per i professori e gli assistenti di ruolo era previsto un organico nazionale ed il loro stipendio era corrisposto direttamente dal Ministero del Tesoro (attraverso i suoi uffici provinciali). Anche il compenso dei professori incaricati era corrisposto dal Tesoro, ma al posto delle limitazioni associate ad un “organico” si applicavano regole che limitavano il numero dei possibili incarichi retribuiti, in relazione al numero delle materie fondamentali e complementari previste dall’ordinamento didattico, e tenuto conto delle cattedre effettivamente ricoperte da professori di ruolo. Il Consiglio di Facoltà poteva però (fino al 1973) conferire incarichi di insegnamento “a titolo gratuito” per tutte le materie complementari previste dall’ordinamento didattico.

Gli assistenti incaricati, proposti dal titolare della cattedra cui l’assistente era assegnato, erano nominati per il periodo in cui il posto era vacante (per cessazione, o congedo del titolare). Anche lo stipendio degli assistenti incaricati veniva pagato dal Ministero del Tesoro.

Gli assistenti straordinari, sempre scelti sulla base di una proposta del titolare di un insegnamento, erano invece remunerati a carico del bilancio dell’università o dell’istituto di appartenenza. Il numero degli assistenti straordinari non tardò a gonfiarsi non appena emersero prospettive di ingresso facilitato nei ruoli degli assistenti ordinari. Il trucco utilizzato per superare le restrizioni di bilancio fu quello di chiedere agli assistenti straordinari di rinunciare al compenso, che veniva formalmente erogato dall’istituto di appartenenza, ma subito versato nelle casse dello stesso istituto. Per quanto irregolare appaia oggi questa pratica essa era molto frequente specialmente nelle discipline mediche. Stiamo parlando di un’epoca in cui la riforma fiscale del 1973 non era ancora vigente e la contabilità degli istituti era tenuta in modo molto approssimativo.

Gli assistenti volontari erano nominati dal Rettore su proposta di un professore ufficiale. C’erano delle limitazioni (piuttosto larghe) al numero di assistenti volontari che potevano essere nominati presso una cattedra, ed anche a limitazioni ai possibili rinnovi. Nel 1967 fu bloccata la possibilità di nominare nuovi assistenti volontari e fu eliminata ogni limitazione al rinnovo. Per gli assistenti volontari non era previsto alcun compenso, ma potevano essere retribuite “ad horas” le esercitazioni da loro effettivamente impartite. Una legge del 1962 fissava in lire 2.000 il compenso dovuto per ogni ora di esercitazione.

La “Relazione della Commissione di Indagine sullo Stato e sullo Sviluppo della Pubblica Istruzione in Italia”, all’Allegato 1 III, così quantifica il personale insegnante delle università in servizio nel 1963: 2.067 professori di ruolo, 3.208 professori incaricati (esclusi i professori incaricati che erano anche professori o assistenti di ruolo), 3.583 assistenti di ruolo, 669 assistenti incaricati, 4.245 assistenti straordinari, e infine 12.675 assistenti volontari. Da notare che mentre alle Facoltà di Medicina apparteneva il 21% dei professori di ruolo, le stesse Facoltà raccoglievano oltre il 38% degli assistenti di ruolo, il 50% degli assistenti straordinari ed il 43% degli assistenti volontari.

Per entrare nei ruoli di assistente o di professore bisognava superare un concorso. Il concorso per assistente di ruolo era bandito dall’Università che, su proposta del Consiglio di Facoltà, nominava la Commissione che era presieduta dal professore titolare della cattedra alla quale il posto di assistente era assegnato. Di regola il titolare della cattedra era un professore di ruolo, ma poteva succedere, ed in effetti succedeva talvolta, che la cattedra risultasse scoperta e che il titolare della cattedra fosse un professore incaricato.

L’esito del concorso di assistente prevedeva la designazione di tre “idonei” (in ordine alfabetico) tra i quali il titolare della cattedra cui il posto era assegnato poteva scegliere il vincitore. Gli altri due “ternati” conservavano per due anni l’ “idoneità” che consentiva loro di essere nominati assistenti di ruolo per un posto vacante della stessa disciplina senza un ulteriore concorso, naturalmente su proposta del titolare della cattedra cui il posto era assegnato.

Il concorso per professore di ruolo era bandito dal Ministro su proposta dell’università che disponeva della relativa cattedra scoperta. E’ opportuno chiarire che ad ogni facoltà universitaria era assegnato, direttamente dal Ministero (e senza l’intervento del Senato Accademico o del Consiglio di Amministrazione) un certo numero di cattedre, che ne costituivano l’organico. Il Consiglio di Facoltà, a sua discrezione, assegnava le cattedre scoperte all’una o all’altra disciplina, purché prevista (anche come materia complementare) dall’ordinamento didattico dei corsi di laurea afferenti alla facoltà. Una volta assegnata una cattedra ad una disciplina il Consiglio di Facoltà poteva chiedere che fosse bandito un concorso per ricoprirla. La richiesta non era automaticamente soddisfatta. Bisognava prima acquisire il parere della prima sezione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, un “corpo consultivo” del Ministero costituito da 24 professori ordinari eletti dai professori di ruolo delle diverse facoltà, e da tre rappresentanti eletti, rispettivamente, dagli assistenti ordinari, dai “liberi docenti”, e dai professori incaricati.  Prima di dare parere favorevole ad un concorso, il Consiglio Superiore accertava, a sua discrezione, che vi fossero esperti della relativa disciplina, e che non vi fossero “ternati”, cioè vincitori di concorso, per la stessa disciplina che non erano stati “chiamati” da una facoltà.

La Commissione, composta da cinque professori ordinari, era eletta da tutti i professori di ruolo della stessa disciplina (o di disciplina strettamente affine, come deliberato dal Consiglio Superiore) e dai professori di ruolo delle facoltà coincidenti con la facoltà cui apparteneva la cattedra a concorso. Per fare un esempio se la cattedra a concorso era quella di Economia Politica presso una facoltà di Giurisprudenza, votavano tutti i professori di tutte le facoltà di Giurisprudenza e tutti i professori di Economia Politica o Politica Economica delle altre Facoltà. La commissione, nominata dal Ministro, sulla base dei risultati delle elezioni, poteva designare una terna di vincitori secondo una graduatoria precisa. I vincitori potevano essere chiamati da qualsiasi facoltà avesse un posto scoperto, tuttavia nessun “ternato” poteva prendere servizio prima di chi lo precedeva nella graduatoria, ed il primo in graduatoria, se chiamato dalla facoltà che aveva messo il posto a concorso, non poteva prendere servizio altrove. Di regola infatti il primo vincitore occupava il posto messo a concorso e gli altri due andavano alla ricerca di una facoltà che li chiamasse. Ma la regola ammetteva eccezioni, e poteva darsi addirittura il caso che il posto messo a concorso non fosse ricoperto, e che tutti i ternati fossero chiamati altrove.

Il vincitore di un concorso una volta chiamato da una facoltà entrava nei ruoli come professore straordinario. Dopo tre anni il professore straordinario era sottoposto ad una verifica dell’attività svolta nel triennio, da parte di una commissione nominata dal Consiglio Superiore. Se l’esito di questa verifica era positivo il professore straordinario era promosso “ordinario” ed iniziava una carriera che si sviluppava solo per anzianità. In caso di esito negativo al professore straordinario potevano essere concessi altri due anni di prova, al termine dei quali poteva essere promosso ordinario, ovvero espulso dai ruoli. E’ possibile che questa seconda eventualità non si sia mai verificata.

Nella sostanza il reclutamento iniziale, come assistente, veniva lasciato alla discrezionalità del professore titolare dell’insegnamento, l’affidamento di compiti didattici “ufficiali”, come professore incaricato, era deciso dai consigli di facoltà, e l’entrata in ruolo come professore di un candidato, anche esterno al sistema universitario, veniva decisa da una commissione eletta dai professori a livello nazionale.

Si deve osservare che, almeno fino al 1973, l’assistente, anche se assistente ordinario, era gerarchicamente subordinato al titolare della cattedra cui era assegnato. In effetti il titolare della cattedra poteva proporre la cessazione dal servizio di un assistente ordinario per “esigenze della ricerca scientifica”. In linea di principio queste esigenze erano definite dal direttore dell’istituto o “cattedra”. Ne segue che si poteva chiedere la cessazione dal servizio di un assistente anche molto attivo nella ricerca scientifica che si occupava tuttavia di problemi diversi da quelli che interessavano il direttore. La proposta di cessazione formulata dal direttore doveva essere approvata dal Consiglio di Facoltà ed era ammesso il ricorso al Senato Accademico da parte dell’interessato. Contro la decisione del Senato Accademico era possibile ricorrere al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. Non mancarono tuttavia casi in cui tutti i ricorsi furono respinti. Comunque la possibilità di chiedere la cessazione di un assistente di ruolo rafforzava notevolmente l’autorità del titolare della cattedra. Bisogna dire che a partire dalla Legge 18 marzo 1958, n. 349, non fu più possibile chiedere la cessazione dal servizio di un assistente che avesse conseguito la libera docenza.

Ci sono altri aspetti dello stato giuridico degli assistenti, definito dalla citata legge del 1958, che meritano una menzione al fine di chiarire la loro posizione all’interno del sistema universitario. Gli assistenti di ruolo dopo cinque anni di servizio potevano chiedere di passare all’insegnamento nelle scuole secondarie. Con questo passaggio ottenevano anche una promozione (al IX grado della Pubblica Amministrazione). Cessavano dal servizio gli assistenti che entro dieci anni dall’entrata in ruolo non conseguivano la Libera Docenza. Gli assistenti che non erano in grado di conseguire la libera docenza erano incoraggiati dunque a passare alla scuola secondaria.

Dobbiamo anche ricordare che fino alla metà degli anni sessanta non esistevano forme di sostegno finanziario per chi, dopo la laurea, voleva perfezionarsi negli studi o avviarsi alla ricerca. La posizione aperta a chi voleva continuare gli studi e intraprendere la carriera accademica era quella di assistente volontario, ed eccezionalmente quella di assistente straordinario o assistente incaricato. Fu la Legge 31 ottobre 1966, n. 942 ad istituire borse di studio per i “laureati da non oltre un triennio”. Le borse erano annuali e rinnovabili. In seguito (Legge 24 febbraio 1967, n.62) furono previste “borse di studio di addestramento didattico e scientifico”, di durata biennale e rinnovabili per un ulteriore biennio. A queste borse potevano concorrere i laureati da non più di quattro anni e, senza limitazioni di anno di laurea,  gli assistenti volontari. La stessa legge stabiliva che non potevano essere nominati nuovi assistenti volontari, una indicazione chiara che i borsisti di addestramento didattico e scientifico avrebbero dovuto sostituire gli assistenti volontari.

Negli anni sessanta maturarono due importanti novità nel reclutamento dei docenti.

La sistemazione degli assistenti straordinari.

La prima fu la previsione di concorsi a posti di assistente di ruolo riservati agli assistenti straordinari con cinque anni di servizio. La riserva assieme alla istituzione di un numero di posti riservati pari al numero degli aventi diritto alla riserva, fu introdotta dalla già citata Legge 24 febbraio 1967, n. 62. In realtà una “sistemazione” degli assistenti straordinari era già prevista dal 1962. Proprio per questo una norma del 1962 vietò la nomina di assistenti straordinari che non occupassero la stessa posizione nell’anno accademico 1961-62. In pochi anni, a partire dal 1967, divennero assistenti di ruolo “ope legis”, con concorsi riservati, circa 4.000 assistenti straordinari, di cui la metà appartenenti alle Facoltà di Medicina.  Negli stessi anni aumentarono anche, di circa 3.000 unità i posti di assistente assegnati con concorso aperto a tutti i laureati.

Il nuovo ruolo dei professori aggregati.

L’altra novità nello stato giuridico e nel reclutamento dei docenti fu l’introduzione del ruolo dei professori aggregati (Legge 25 luglio 1966, n.585). Uno dei difetti, da molti lamentato, dello stato giuridico del personale docente era l’assenza di posizioni intermedie tra quella dell’assistente e quella del professore di ruolo. Nel 1958 la legge che aveva reso effettivamente stabile la posizione dell’assistente ordinario abilitato alla libera docenza, aveva parzialmente corretto questo difetto. L’assistente ordinario libero docente, specie se titolare di un incarico di insegnamento, poteva essere considerato un docente stabile a tutti gli effetti. In vista della prevedibile espansione del sistema universitario, si ritenne tuttavia opportuno creare una posizione intermedia che, a differenza della posizione di assistente, non fosse gerarchicamente subordinata al professore titolare di cattedra. La proposta di istituire un ruolo di professori aggregati era anche contenuta nella già citata Relazione della Commissione di Indagine sullo Stato e sullo Sviluppo della Pubblica Istruzione in Italia che fu presentata al Ministro della Pubblica Istruzione il 24 luglio 1963.

Nel reclutamento dei professori aggregati furono introdotte due importanti innovazioni. Prima di tutto il concorso non si riferiva ad una singola disciplina ma ad un “gruppo di discipline” affini. In secondo luogo al concorso potevano partecipare cittadini stranieri o apolidi.  La titolarità di un gruppo di discipline non significava che il professore aggregato potesse scegliere quale disciplina insegnare tra quelle del gruppo, ma piuttosto che la vincita di un concorso non conferiva automaticamente al vincitore la titolarità di una disciplina. Il compito didattico veniva assegnato dal Consiglio di Facoltà che effettuava la chiamata e poteva essere modificato successivamente alla chiamata “con il concorso dell’interessato”. Poteva anche succedere che al professore aggregato fossero assegnati solo compiti di direzione di ricerca e nessun insegnamento.

La Commissione di concorso era composta da cinque membri di cui tre sorteggiati e due eletti dai professori delle discipline appartenenti al “gruppo” per il quale era bandito il concorso. Il concorso prevedeva anche una discussione dei titoli presentati ed una lezione. La legge prevedeva anche che concorsi diversi per il medesimo gruppo di discipline fossero unificati (fino ad un massimo di tre posti a concorso) e che, in caso di più posti a concorso, la commissione fosse composta da sette membri. Tuttavia in sede di applicazione della norma il Consiglio Superiore decise di evadere questa disposizione distinguendo gruppi sostanzialmente equivalenti, con piccoli ritocchi, cioè aggiungendo o sottraendo una disciplina complementare.

Lo stato giuridico del professore aggregato era molto simile a quello dell’attuale professore associato. C’erano due importanti differenze: i professori aggregati partecipavano ai consigli di facoltà, ma il numero degli aggregati che partecipavano al consiglio non poteva superare la metà dei professori di ruolo. Nel caso di un eccesso di professori aggregati era prevista l’elezione di una rappresentanza. La seconda differenza era che un professore aggregato di materie cliniche svolgeva automaticamente il ruolo di primario, mentre, come vedremo, il professore associato non ha diritto automaticamente ad una posizione “apicale” all’interno del sistema ospedaliero.

L’organico previsto dei professori aggregati avrebbe dovuto raggiungere nel 1969 le mille unità. I primi concorsi furono però banditi solo nel 1969. Il ruolo dei professori aggregati fu tuttavia soppresso nel 1973 con il passaggio “ope legis” dei professori aggregati in servizio alla posizione di professore straordinario.

Il fallimento della riforma Gui.

Nella primavera del 1968 naufragò sugli scogli della contestazione studentesca un disegno di legge governativo che avrebbe dovuto riformare il sistema universitario recependo le proposte della citata “Commissione di Indagine sullo Stato e sullo Sviluppo della Pubblica Istruzione in Italia”. Venne meno infatti il parziale consenso delle forze politiche, anche di opposizione, e del sindacato degli assistenti (Unione Nazionale Assistenti Universitari) sui necessari provvedimenti di riforma per l’Università. Si fece strada allora l’idea “rivoluzionaria” propugnata dai sindacati in competizione tra loro e dai partiti di sinistra, di uno stato giuridico dei docenti che non prevedesse distinzioni gerarchiche o di livello nel personale docente. Le parole chiave che riassumevano questo (peraltro assai confuso) programma erano “docente unico”. Al ruolo del docente unico avrebbero dovuto accedere con percorso in qualche modo facilitato tutti gli assistenti ed i professori incaricati. Secondo la versione più estrema sarebbero stati promossi a “docente unico” anche i borsisti.

Le anticipazioni di una riforma mai avvenuta.

Questo programma non fu mai attuato, tuttavia la Legge 11 dicembre 1969, n. 910 ne introdusse alcune “anticipazioni”. Prima di tutto non veniva più richiesta la libera docenza per la conferma in ruolo degli assistenti. Tutti gli assistenti ordinari in servizio al 31 ottobre del 1969 avevano diritto di restare in ruolo fino al pensionamento, raggiungendo per anzianità i gradi del pubblico impiego precedentemente raggiungibili solo dai liberi docenti, e cioè il grado IX ed il grado VIII. Una legge successiva (Legge 10/11/1970, n. 924) abolì poi anche gli esami di libera docenza. Il titolo di libero docente, peraltro, non fu abolito per chi già lo possedeva.

La stessa Legge 910 del 1969 introdusse la prima proroga automatica degli incarichi di insegnamento universitari. La proroga fu confermata dalla Legge 22 gennaio 1971, n. 4, e poi dalla Legge 3 giugno 1971, n.360, nella previsione della definitiva “stabilizzazione” degli incarichi operata dal Decreto Legge 580 del 1 ottobre 1973, convertito in legge dalla Legge 30 novembre 1973, n. 766.

I docenti universitari nei primi anni settanta.

Le “misure urgenti” del 1973.

Quest’ultimo provvedimento legislativo, denominato “Misure urgenti per l’università”, oltre a rendere permanenti (fino all’entrata in vigore della riforma universitaria) gli incarichi universitari, estese ai professori incaricati la partecipazione ai consigli di facoltà e promosse “ope legis” tutti i professori aggregati a professore straordinario. Inoltre lo stesso decreto istituì 7.500 nuove cattedre (da distribuire in tre anni). In realtà furono distribuite subito solo 2.500 nuove cattedre, che furono, in parte, destinate a trasferimenti, e per la maggior parte destinate a concorsi disciplinati da una nuova normativa. Si prevedevano infatti concorsi per “gruppi di discipline” anziché per singole materie. Le commissioni non furono più elettive ma sorteggiate tra i titolari delle discipline appartenenti al gruppo o ad esse “affini”. Ogni commissione, composta da cinque membri, poteva attribuire al più dieci cattedre, per cui per grossi gruppi di discipline erano previste più commissioni. Ad esempio per il concorso per il gruppo di discipline di “Analisi Matematica” furono sorteggiate cinque commissioni diverse che svolsero i loro lavori una dopo l’altra in modo da escludere i candidati dichiarati vincitori dalle commissioni che le avevano precedute. Particolarmente impegnativo (per il Consiglio Superiore) fu il problema di stabilire l’ambito del sorteggio per nuove discipline con un numero di titolari molto ridotto rispetto al numero delle cattedre a concorso. Questo fu, ad esempio, il caso delle discipline informatiche già molto richieste dalle facoltà ma con pochissimi professori che ne erano titolari.

In analogia a quanto era già avvenuto per i professori aggregati il provvedimento del 1973 apriva i concorsi a cattedra ai cittadini stranieri, a condizione che nel paese di cui erano cittadini vigessero “norme o accordi di reciprocità che riconoscano uguali diritti ai cittadini italiani”.

Il decreto interveniva anche sulle borse di studio ministeriali, che, dal 1962 avevano preso il nome di “borse di addestramento didattico e scientifico” ed erano biennali e rinnovabili per un ulteriore biennio. Queste borse furono inspiegabilmente soppresse ed al loro posto furono previsti “assegni biennali di formazione scientifica e didattica”. Si trattava di un cambiamento apparentemente solo nominale, che consentiva però di promuovere i “borsisti di addestramento” a “contrattisti”. Infatti le nuove norme istituivano novemila “contratti quadriennali” , di cui tremila erano riservati agli inquadramenti “ope legis” dei “borsisti di addestramento” e seimila erano destinati a concorsi riservati a diverse categorie: ai titolari di assegno di formazione didattica e scientifica, agli ex borsisti del CNR e di altri enti di ricerca presso le università, agli assistenti volontari, ai laureati che avevano svolto esercitazioni retribuite, e ai “medici interni con compiti assistenziali”, una categoria, quest’ultima, non prevista da alcuna norma precedente ma che era stata inventata  dalle Facoltà di Medicina quando fu vietata la nomina di assistenti volontari. Aperti a tutti i laureati avrebbero dovuto essere invece i concorsi per gli “assegni di formazione didattica e scientifica”, che erano previsti nella misura di tremila assegni ogni anno. In realtà gli assegni furono banditi solo per il 1973. Nel corso del 1974 entrarono complessivamente 12.000 soggetti in posizioni destinate, come vedremo, a divenire permanenti.

Il decreto modificò anche lo stato giuridico degli assistenti. Prima di tutto si stabilì che il ruolo degli assistenti sarebbe divenuto “ad esaurimento” alla fine del 1977, o, a seconda delle interpretazioni, alla fine del 1978. In attesa della chiusura del ruolo i concorsi sarebbero stati riservati ad alcune categorie di laureati (inizialmente titolari di contratto, o di assegno, e tecnici laureati, e borsisti di addestramento). I concorsi avrebbero previsto un solo vincitore per ogni posto, anziché una terna. Venivano direttamente inquadrati, a domanda, nel ruolo degli assistenti coloro che risultavano compresi in una “terna” di vincitori di un concorso ad un posto di assistente. Veniva anche formalmente abolita la dipendenza di un assistente dal titolare della cattedra. Nella formulazione della legge, “le competenze amministrative nei loro confronti già spettanti al titolare della disciplina vengono trasferite al Consiglio di Facoltà”.

Una conseguenza del raddoppio effettivo degli organici dei professore di ruolo conseguenti alla promozione dei professori aggregati e alla distribuzione di 2.500 nuove cattedre, fu, come era prevedibile, il blocco di nuovi concorsi a cattedra, nonché la mancata distribuzione delle ulteriori 5.000 cattedre che il decreto aveva promesso di distribuire entro il 1975. Quando nel 1979, si ritenne di riaprire i concorsi, anche a seguito della bocciatura in parlamento del decreto Pedini (di cui si dirà dopo), si sentì il bisogno modificare le norme sulla formazione delle commissioni. Fu approvata allora la Legge 7 febbraio 1979.

La bomba ad orologeria dei precari.

Il decreto del 1973 conteneva una bomba ad orologeria destinata a scoppiare a distanza di quattro o cinque anni. Infatti dopo quattro anni di fruizione venivano a scadere, tutti assieme, gli assegni di studio rinnovati per un secondo biennio ed i contratti quadriennali. Alle soglie del 1978 si presentavano quindi almeno 10.000 “precari” destinati, sulla carta, a perdere la loro posizione nell’università. In realtà una parte dei contratti, quelli attribuiti direttamente “ope legis” decorrevano dal 1 novembre 1973. Bisognava quindi predisporre una soluzione prima dell’autunno del 1977. E infatti, nella primavera del 1977 fu reso pubblico un accordo tra il Ministro della Pubblica Istruzione e i sindacati CGIL, CISL e UIL, che concordata una riforma dell’assetto del personale docente universitario che prevedeva due “fasce” di docenti (professori associati e professori ordinari) rinnegando l’abolizione del ruolo dei professori aggregati deliberato per decreto quattro anni prima. Era previsto il passaggio “ope legis” degli assistenti di ruolo nella “fascia” degli associati. Si chiariva così la motivazione vera per l’abolizione del ruolo degli aggregati. L’esistenza di un ruolo intermedio raggiungibile per concorso avrebbe reso più difficile la promozione “ope legis” di tutti gli assistenti ad una posizione del tutto equivalente. L’accordo restava nebuloso sulla futura sistemazione di assegnisti e contrattisti ma ne prevedeva la proroga a tempo indeterminato.

I decreti Pedini e le nuove regole per i concorsi a cattedra.

L’unica conseguenza immediata di questo accordo fu una disposizione legislativa di proroga di assegni e contratti fino al 31 ottobre 1978, che risolveva, per il momento, il problema dei contratti in scadenza il 1° novembre 1977 (Legge 25 ottobre 1977, n. 808, art. 23). Gli accordi però furono recepiti dal Decreto Legge 21 ottobre 1978, n. 642, il cosiddetto Decreto Pedini. Questo decreto non fu convertito in legge, per decadenza dei termini. Ci fu infatti una forte opposizione del mondo accademico, guidata in gran parte da Paolo Sylos Labini, il quale attaccò violentemente il decreto sulle pagine del quotidiano “Repubblica”. L’opposizione del mondo accademico fu recepita in parlamento dal gruppo “sinistra indipendente” all’interno del quale fu molto attivo Luigi Spaventa. L’opposizione si concretò in una sorta di ostruzionismo cui prese parte anche il senatore democristiano Siro Lombardini, che fu richiamato dal capogruppo democristiano. Infine furono i radicali, presenti in Parlamento (in particolare Mauro Mellini) ad affossare la legge di conversione del decreto con un aperto ostruzionismo, che si svolse anche nelle ore notturne.

Il Decreto Pedini fu seguito da un secondo decreto che si limitava soltanto a prorogare contratti, assegni e borse in attesa di una riforma. Fu anche approvata durante il Ministero Pedini, una legge (Legge 7 febbraio 1979, n. 31) che riformava le regole per i concorsi a cattedra introducendo un sistema misto di elezioni seguite da sorteggio, e istituiva un Consiglio Universitario Nazionale provvisorio ponendo termine alla lunga proroga della prima sezione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione.  Secondo le nuove norme il numero dei commissari dipendeva dal numero dei concorrenti (cinque se il numero dei candidati non superava sessanta, sette se il numero dei candidati era superiore a sessanta ma non superava ottanta, nove se il numero dei candidati superava ottanta). Si procedeva quindi alla elezione di un numero di potenziali commissari doppio di quello necessario, per poi, tra gli eletti, sorteggiare i commissari.

Gli assegni di formazione professionale per contrastare la disoccupazione giovanile.

Una conseguenza dei decreti Pedini fu naturalmente il blocco di tutte le borse di studio presso le università, ed in particolare delle borse bandite dal Consiglio Nazionale delle Ricerche. Questo non impedì al CNR di approvare un programma di “assegni di formazione professionale” nelle discipline biologiche e mediche, che potevano essere fruiti anche negli istituti universitari e che erano riservati ai giovani iscritti alle “liste della disoccupazione giovanile”, previste dalla Legge 285 del 1977, una legge che si proponeva appunto di contrastare il fenomeno della “disoccupazione giovanile”. Proprio nel 1978 la Legge 285 del 1977 fu modificata ed integrata (dal Decreto legge 6 luglio 1978, n. 351 convertito in Legge 4 agosto 1978, n. 479) in modo da consentire agli “enti del parastato”, come era il CNR, di usufruire delle disponibilità finanziarie della Legge per programmi di “ricerca scientifica e applicata”. Il programma si presentava “senza oneri per il CNR”, in quanto per la spesa si attingeva ai fondi previsti per la Legge 285. Fu il prof. Luigi Rossi Bernardi, rappresentante degli assistenti e professori incaricati nel Comitato per le Scienze Biologiche e Mediche, e presidente dello stesso Comitato, che predispose il programma, ottenendone anche il finanziamento a carico dei fondi della legge sulla disoccupazione giovanile. Furono previsti un migliaio di assegni. La metà degli assegni erano riservati a diplomati, che furono assegnati però in massima parte a studenti universitari che una volta laureati si unirono agli altri nell’aspirare un posto da laureato. Quasi tutti gli assegni erano per la formazione nell’ambito delle scienze biomediche. L’autore del programma, Luigi Rossi Bernardi poco dopo fu promosso a professore ordinario di biochimica e fu nominato presidente del CNR al termine del mandato di Ernesto Quagliariello. Gli assegnisti della Legge 285 esauriti i tre anni di “formazione” si trasformarono, come prevedibile, in un altro gruppo di “precari” da sistemare nelle università o negli enti di ricerca. La loro “sistemazione definitiva”, disposta dalla Legge 18 gennaio 1989, n. 14, si rivelò più difficile del previsto, in quanto le norme che avevano istituito gli assegni avevano pudicamente omesso di prevederne direttamente l’assunzione nei ruoli delle università e degli enti di ricerca. Alla fine parte degli assegnisti andarono a ingrossare le file dei “tecnici laureati” universitari, dei quali si tratterà più avanti.

I docenti universitari nei primi anni ottanta.

Riforma e sanatoria del 1980.

A Pedini, che lasciò il Ministero nel marzo del 1979, succedette per pochi mesi Giovanni Spadolini che si limitò a distribuire la seconda tranche di cattedre previste dal Decreto Legge 580 del 1973 e a bandire concorsi a cattedra con le nuove norme. Fu il nuovo ministro, del primo governo Cossiga, il liberale Salvatore Valitutti, a mettere a punto un disegno di legge di riforma che ripartiva dalle disposizioni del decreto Pedini. Valitutti cercò di ottenere il consenso di quella parte del mondo accademico che si era schierata contro il decreto Pedini. Atteggiandosi ad estraneo alle forze politiche e sindacali che avevano promosso l’indiscriminato “ope legis”, si recò ripetutamente, la sera, a casa di Paolo Sylos Labini, per ottenere, se non il consenso, almeno una condizione di non belligeranza. Le condizioni dettate dalle riunioni notturne in casa Sylos Labini furono in parte recepite nel disegno di legge presentato dal Ministro, ma furono travolte dalla Commissione Cultura della Camera la cui discussione era guidata dalla forte personalità di Alberto Asor Rosa, che rappresentava l’opposizione di sinistra. Alla fine venne fuori un testo che, pur mantenendo la struttura del decreto Pedini e dei precedenti accordi sindacali, ne attenuava gli automatismi, rispondendo così alle critiche di indiscriminate assunzioni e promozioni che avevano affossato il decreto Pedini. Venne così approvata una legge delega, la Legge 21 febbraio 1980, n. 28, che, oltre a trattare del personale docente, introdusse anche nel sistema universitario italiano i “dipartimenti” ed il dottorato di ricerca. Il decreto legislativo che scaturì da questa legge delega è il Decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n.382, che fu messo a punto in gran parte dal nuovo Ministro Adolfo Sarti, che succedette a Valitutti, a partire dal 4 aprile 1980, a seguito dell’uscita del partito liberale dalla coalizione di governo.

Le nuove norme prevedevano la divisione dei docenti in tre “fasce”: professori ordinari (e straordinari), professori associati e ricercatori universitari. Prevedevano anche una sanatoria per l’accesso alla seconda e alla terza fascia.

Avevano diritto ad entrare in ruolo come professori associati sulla base di giudizi di idoneità pronunciati da commissioni nazionali elettive tutti gli assistenti di ruolo, i professori incaricati con tre anni di servizio. La sanatoria si preoccupò anche di tutelare il diritto a partecipare ai giudizi di idoneità dei professori incaricati a titolo gratuito nominati dopo l’entrata in vigore nel 1973 delle norme che vietavano il conferimento di “nuovi incarichi gratuiti”. Molte facoltà avevano infatti ritenuto che fosse lecito conferire nuovi incarichi purché non si introducessero nuove discipline.

Assieme agli assistenti e professori incaricati, che erano i principali destinatari della sanatoria, furono ammessi ai giudizi di idoneità anche i “tecnici laureati” per i quali i presidi delle facoltà avessero certificato lo svolgimento di attività didattica. Diverse sentenze della Corte Costituzionale ampliarono la platea degli aventi diritto. Alla fine, ad esempio, furono ammessi alle idoneità anche gli assistenti delle cliniche universitarie che non appartenevano ai ruoli universitari, ma appartenevano ai ruoli ospedalieri.

Erano previste due “tornate” idoneative, nel senso che chi non era giudicato idoneo poteva partecipare ad un secondo giudizio idoneativo. Una terza tornata era prevista per chi avesse maturato il diritto a partecipare dopo la scadenza della prima tornata.

Gli esiti dei giudizi di idoneità furono quelli prevedibili: solo una piccola minoranza degli “aventi diritto” risultò esclusa dalla idoneità. Fu cruciale per assicurare la promozione di tutti gli assistenti delle Facoltà di Medicina il disposto del quarto comma dell’art. 102 del DPR 382 del 1980, che prevedeva che, di regola, il professore associato non ricoprisse le funzioni di primario nelle cliniche universitarie, ma fosse inquadrato, nella gerarchia ospedaliera, a “livello intermedio”. Questa disposizione consentiva di mantenere la struttura gerarchica delle facoltà di medicina nonostante la promozione degli assistenti a “professore di ruolo”. Non c’era bisogno di aprire nuovi reparti per ospitare nuovi primari: la promozione a professore associato di un assistente non ne mutava nella realtà quotidiana lo “status”.

Le norme sui professori associati stabilivano anche le regole per i “concorsi liberi”. Era prevista una commissione formata da tre professori ordinari e due professori associati. Anche in questo caso la commissione era estendibile fino ad un massimo di nove commissari in dipendenza del numero dei concorrenti. La commissione era formata con un sistema misto di elezioni e sorteggio, invertendo però il procedimento previsto dalle norme del 1979 per i concorsi di prima fascia. Si sorteggiavano prima potenziali commissari in numero triplo di quello necessario per formare la commissione e poi si procedeva ad elezioni con l’elettorato attivo spettante ai docenti del raggruppamento ed elettorato passivo spettante ai docenti preventivamente sorteggiati. Dopo l’esame dei titoli, la commissione decideva se ammettere i candidati alle prove successive che consistevano in una lezione ed una discussione dei titoli da parte del candidato.

Il DPR 382 del 1980 prevedeva anche l’accesso, attraverso giudizi di idoneità, al ruolo di ricercatore universitario di una lunga lista di “precari” appartenenti a nove diverse “categorie”: a) titolari dei contratti istituiti nel 1973, b) titolari di assegni biennali, c) titolari di borse di studio ministeriali, d) borsisti del CNR e di altri enti di ricerca, dell’Accademia dei Lincei e della Domus Galileiana, e) perfezionandi della scuola normale e della scuola superiore di studi universitari e di perfezionamento di Pisa, f) titolari di borse o assegni di formazione o addestramento didattico e scientifico comunque denominati, istituiti su fondi destinati dal consiglio di amministrazione su bilanci universitari, g) assistenti incaricati o supplenti e professori incaricati supplenti, h) lettori assunti con pubblico concorso, i) “medici interni” assunti con delibera del Consiglio di Amministrazione (detti MIUCA).

Queste categorie furono ulteriormente ampliate da sentenze della Corte Costituzionale, che, ad esempio, ammise alle idoneità per diventare ricercatore anche i medici interni assunti con delibera di un Consiglio di Facoltà.

Il Decreto Legislativo 382 del 1980 aveva anche ampliato l’organico dei docenti fissando a 30.000 il numero dei professori, di cui la metà professori associati. Tuttavia, inizialmente, il numero dei posti di professore associato fu determinato dai posti necessari per inquadrare gli idonei, incrementato di 6.000 posti. Veniva anche fissato a 16.000 il numero dei posti di ricercatore universitario, di cui 4.000 da assegnare per concorso. Di questi 4.000 posti teorici, la metà avrebbe dovuto essere messa a concorso entro il 1980-81.

Quanto ai posti di professore furono destinati a concorsi “liberi” 2.800 posti di professore di seconda fascia e 2.000 posti di prima fascia. Ci vollero diversi anni perché questi concorsi fossero svolti. Ritardarono in particolare i concorsi di seconda fascia, perché si ritenne che non potessero essere svolti contemporaneamente ai concorsi di prima fascia, dal momento che alcuni professori associati avrebbero potuto trovarsi nella condizione di commissari di un concorso di seconda fascia e concorrenti di un concorso di prima fascia.

Ruolo dei ricercatori, permanente o “ad esaurimento”?

La Legge 28 del 1980, pur avendo distribuito 4.000 posti di ricercatore da destinare a concorso libero aveva deliberatamente rinviato ogni decisione sul futuro di questo ruolo. L’ultimo comma dell’art. 7 della Legge 28 stabiliva infatti che: “Dopo quattro anni dall’entrata in vigore della presente legge, il Ministro della Pubblica Istruzione, sentito il Consiglio Universitario Nazionale, presenta al Parlamento un disegno di legge per definire il carattere permanente o ad esaurimento della fascia dei ricercatori confermati e nella prima ipotesi il relativo stato giuridico. Con a stessa legge sono ridefiniti i compiti e gli organici del ruolo dei ricercatori, sulla base delle esperienze didattiche e di ricerca nel frattempo compiute e dei risultati dell’attuazione dei corsi per il conseguimento del dottorato di ricerca, dei movimenti del personale docente e delle esigenze di un corretto ed equilibrato rapporto tra le diverse fasce del personale stesso.”

Nel frattempo ai ricercatori universitari si applicava lo stato giuridico degli assistenti. Tuttavia nel dicembre del 1984, in ossequio alle disposizioni di legge il Ministro (Franca Falcucci) predispose una bozza di disegno di legge che confermava il mantenimento del ruolo, che fu inviata al Consiglio Universitario Nazionale (CUN) per il prescritto parere. Nonostante il parere favorevole del CUN, il disegno di legge fu ritirato e sostituito da un altro disegno di legge che prevedeva invece la “messa ad esaurimento” del ruolo dei ricercatori. La Ministra si era infatti uniformata al parere delle organizzazioni sindacali CGIL, CISL e UIL anziché al parere del CUN. Il nuovo disegno di legge non ebbe però vita facile in Parlamento. La messa ad esaurimento dei ricercatori fu osteggiata dalla “Assemblea Nazionale dei Ricercatori Universitari” un sindacato autonomo che raccoglieva la maggioranza dei ricercatori ed era guidato da Nunzio Miraglia, un ricercatore di ingegneria di Palermo.

Ma anche i docenti delle facoltà di scienze e di ingegneria si resero presto conto che, se fosse stato confermato il mantenimento del ruolo, i concorsi in atto per le cattedre di seconda fascia avrebbero liberato migliaia di posti di ricercatori, prevalentemente nell’area delle scienze e dell’ingegneria, dove, appunto, erano più numerosi i concorsi di seconda fascia. Al contrario, la soppressione del ruolo dei ricercatori avrebbe comportato la soppressione di tutti i posti liberati dai vincitori dei concorsi di seconda fascia. Fu così che il Comitato di Coordinamento delle Associazioni Scientifiche Italiane prese posizione contro il disegno di legge. La opposizione di parte del mondo accademico era anche motivata dal timore che le posizioni “a tempo determinato” previse dal disegno di legge generassero, come era avvenuto per altre simili posizioni, una “vertenza” sulla sistemazione dei “precari”. Alla fine, nel 1987, ci fu un nuovo repentino cambiamento e, prima delle elezioni che si svolsero nella primavera fu emanato il Decreto Legge 2 marzo 1987, convertito con modificazioni dalla Legge 22 aprile 1987, n. 158. Questo provvedimento, oltre a introdurre il regime di tempo definito per i ricercatori (la ragione principale dell’urgenza) confermava la permanenza del ruolo istituendo anche 3.000 nuovi posti.

Tuttavia le nuove norme non ridefinivano lo stato giuridico dei ricercatori, che rimaneva legato a quello degli assistenti di ruolo, una figura ormai scomparsa. Bisognava aspettare la Legge 14 novembre 1990, n. 341 perché divenisse possibile affidare un insegnamento ad un ricercatore confermato.

I concorsi per il ruolo di ricercatore.

I concorsi per il ruolo dei ricercatori erano banditi localmente sulla base di una delibera della facoltà. Il consiglio di facoltà designava un membro della commissione, mentre gli altri due (un ordinario ed un associato) erano estratti a sorte da terne designate dal Consiglio Universitario Nazionale. Molto spesso era il “membro interno” a suggerire almeno una delle terne al CUN. Talvolta bastava suggerire un solo nome (sufficiente a costituire una maggioranza assieme al membro interno) perché i sorteggi, scarsamente pubblicizzati, potevano essere facilmente manipolati. Per effetto di queste norme ambigue i concorsi per ricercatore si riducevano molto spesso alla ufficializzazione della scelta che il membro interno della commissione aveva già fatto tra i propri allievi. In pratica, la facoltà, con la scelta del “membro interno” delegava ad un solo professore il diritto di conferire un posto di ruolo ad un suo allievo.

Un nuovo canale di reclutamento universitario anomalo: i tecnici laureati.

Tra le varie categorie che avevano accesso ai giudizi di idoneità per diventare professore associato, quella dei tecnici laureati era l’unica che corrispondeva ad un ruolo che non era soppresso. Ogni tecnico laureato che diveniva professore associato lasciava libero un posto che poteva essere riassegnato. Al contrario delle cattedre e dei posti di ricercatore i posti di tecnico laureato erano assegnati dal Ministero direttamente alle “cattedre” senza che sulla loro assegnazione si potessero esprimere le facoltà, i senati accademici o i consigli di amministrazione delle università. Il Ministero, o per meglio dire, l’onnipotente direttore generale per l’università che si trovò molto spesso a ricoprire anche il ruolo di Capo di Gabinetto, poteva quindi disporre di un contingente di qualche migliaio di posti di tecnico laureato con i quali gratificare a sua discrezione i cattedratici che si presentavano a chiedere favori. Come è naturale, di questi favori usufruirono prevalentemente i cattedratici della Facoltà di Medicina di Roma, che arrivò ad annoverare un migliaio di tecnici laureati. Si racconta anche (senza peraltro disporre di prove) che al professore che veniva a chiedere un posto di tecnico laureato il Direttore Generale rispondesse che era disposto a dargli due posti purché uno dei posti fosse assegnato secondo le sue indicazioni. Dobbiamo aggiungere che le procedure del concorso per diventare tecnico laureato consentivano al “direttore della cattedra” cui il posto era assegnato una totale discrezionalità. Infatti la commissione nominata dal Consiglio di Facoltà era presieduta dal cattedratico cui era stato assegnato il posto. Ciò non toglie, naturalmente, che molti tecnici laureati reclutati dopo il 1980 fossero scientificamente ben più competenti dei loro predecessori nel ruolo, i quali erano stati promossi a professore associato, questi ultimi infatti si erano formati prima dell’introduzione e del consolidamento in Italia della “evidence based medicine”.

Come era prevedibile, allo scadere dei tre anni di servizio, i nuovi tecnici laureati si affrettarono a far domanda di partecipazione alla terza tornata di idoneità per diventare professori associati. Il Ministero, in applicazione della legge, inizialmente li escluse, ma fu sufficiente che un Tribunale Amministrativo Regionale (mi sembra la sezione di Latina del TAR del Lazio) sospendesse i provvedimenti di esclusione perché tutte le domande fossero inviate alle commissioni. Molte commissioni si pronunciarono (naturalmente a favore dei candidati) prima che una sentenza definitiva del Consiglio di Stato stabilisse che i tecnici laureati assunti dopo l’entrata in vigore del DPR 382 del 1980, cioè dopo il 1° agosto 1980, non erano ammessi ai giudizi di idoneità. Non fu accolto nemmeno il ricorso di alcuni tecnici laureati alla Corte Costituzionale, nonostante si sussurrasse che il figlio di un giudice costituzionale fosse interessato al ricorso. A questo punto il Ministero dell’Università, avrebbe dovuto fermare le procedure per le idoneità dei tecnici assunti dopo il 1° agosto 1980, sulla base della “sentenza pilota” (che formalmente si applicava ad un solo ricorso) e del rigetto del ricorso da parte della Corte Costituzionale. Il Ministero decise di accelerare le procedure, insistendo anche presso il Consiglio Universitario Nazionale perché gli atti delle commissioni fossero approvati. Si creò così un gruppetto di tecnici laureati esclusi dalle idoneità a professore associato che avevano tuttavia completato le procedure idoneative. Questo gruppetto di “miracolati” riuscì infine ad ottenere una sanatoria che superava, annullandole, le sentenze del Consiglio di Stato che avevano escluso dalle idoneità i tecnici laureati assunti dopo il 1° agosto 1980. Infatti il comma 7 dell’art. 8 della Legge n. 370 del 1999 dispone che: E’ legittimamente conseguita l’idoneità di cui agli articoli 50, 51, 52 e 53 del Decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, da parte dei tecnici laureati di cui all’articolo 1, comma 10, penultimo periodo, della Legge 14 gennaio 1999, n. 4, anche se non in servizio al 1° agosto 1980 i quali, ammessi con riserva ai relativi giudizi per effetto di ordinanze di sospensione dell’efficacia di atti preclusivi alla partecipazione, emesse da i competenti organi di giurisdizione amministrativa, li abbiano superati.

Questa disposizione non si applicava ai tecnici laureati assunti troppo tardi per poter partecipare anche alla terza tornata delle idoneità ad associato. Essi alla fine dovettero accontentarsi di concorsi riservati per il ruolo di ricercatore universitario come disposto dalla citata Legge 14 gennaio 1999, n.4. Disposizioni analoghe contenute in altri disegni di legge erano state bocciate per mancanza di copertura finanziaria. La Legge n.4 del 1999 superava questo ostacolo autorizzando le università a bandire i concorsi riservati, utilizzando, anticipatamente, i fondi liberati dalla soppressione dei posti di tecnico laureato conseguente al passaggio dei tecnici al ruolo di ricercatore.  Entrarono così nei ruoli di ricercatore oltre 2.000 tecnici laureati (erano 2.196 al primo settembre 2001, secondo un servizio de IlSole24ore, quando non tutti i concorsi riservati erano stati banditi e svolti). In ogni caso, il “canale di reclutamento” costituito mediante le posizioni di tecnico laureato ha svolto un ruolo non indifferente, dopo le sanatorie del 1980, specialmente nelle facoltà di Medicina ed in particolare nelle facoltà di Medicina di Roma “La Sapienza”.

Si deve anche osservare che tra i tecnici laureati che usufruirono dei concorsi riservati c’erano anche alcuni dei titolari di assegno di formazione professionale di cui alla Legge 285 sulla disoccupazione giovanile. Infatti la Legge 18 gennaio 1989, n. 14 che sistemava definitivamente gli assegnisti stabiliva che essi non potevano essere inquadrati come ricercatori. Pertanto molti assegnisti che operavano presso istituti universitari vennero inquadrati come tecnici laureati, salvo usufruire di un secondo scivolo per diventare ricercatori.

Oggi....2014.....

Università, beffa per gli aspiranti prof: "Troppo specializzati, vi bocciamo". Decine di esclusi eccellenti in rivolta: "Favoriti i parenti dei baroni".

Mentre Matteo Renzi pensa di ricostruire l'Italia dalla scuola, qualcun altro vuol finire di distruggerla all'università, scrive Giovanni Valentini su “La Repubblica”. Una pioggia di ricorsi amministrativi s'è abbattuta sull'ultimo concorso per l'Abilitazione scientifica nazionale 2012-2013 per professori ordinari e associati che prelude poi a quella didattica con la chiamata e l'assunzione in ruolo. È una montagna di carta bollata che minaccia ora di provocare una valanga di annullamenti o di revisioni, sconvolgendo la vita già travagliata dei nostri atenei. Nell'ambito della controversa riforma Gelmini, il ministero della Pubblica istruzione aveva disposto una nuova procedura di abilitazione, introducendo la meritocrazia come principale criterio di valutazione. Questa avrebbe dovuto fondarsi su elementi trasparenti e oggettivi, definiti "bibliometrici", forniti dalla produzione scientifica di ciascun candidato nei rispettivi curricula: cioè monografie, articoli o citazioni pubblicati da riviste specializzate. Ma successivamente sono stati inseriti criteri aggiuntivi, del tutto discrezionali, in forza dei quali le commissioni di valutazione hanno ribaltato le graduatorie, suscitando anche alcune interrogazioni parlamentari.

LA FARSA DEGLI ESAMI SCOLASTICI.

Questo è l’esempio di come non si affronta il problema dell’esame scolastico truccato. Non fare informazione, ma sciorinare conati di vomito anti meridionale. Così è stato con la modifica degli esami di abilitazione forense. Il leghista ingegnere Roberto Castelli, che di cose giuridiche, come di cose meridionali, poco ne capisce, si è inventato un esame forense con la transumanza dei compiti. Perché, a suo dire, il marcio dell’esame forense era insito nelle sedi di esame dei distretti giudiziari del sud. L’abilitazione forense: truccata era, più truccata è.

Insomma si parla di fuffa e di opinabili opinioni personali e mai dell’oggettivo incontestabile. E con questo spirito fanno la politica del non capisco un cazzo, ma faccio le leggi. Purtroppo questi sono i ministri e i direttori di giornale che ci meritiamo.

L’esame di maturità ridotto a farsa, scrive il 30 gennaio 2014 il nordista Mario Giordano su "Libero Quotidiano". La maturità ha ancora un senso? Oppure va abolita? La domanda diventa obbligatoria, dal momento che numerosi ragazzi dell’ultimo anno delle superiori, in questi giorni, stanno lasciando da parte volutamente la preparazione all’esame. Dovranno infatti concentrarsi sui testi di ammissione all’università (...) (...) (medicina, veterinaria, architettura), che per la prima volta in Italia sono stati anticipati ad aprile, dopo l’indecoroso balletto della scorsa estate. Dunque nelle prossime settimane chi sogna di diventare medico, veterinario o architetto non ha scelta: o si prepara per il test o si prepara per la maturità. E per molti studenti essere messi di fronte a questa scelta, già di per sé, è un’ingiustizia. Da sempre ci raccontiamo, magari anche con eccessi di enfasi, che quello della maturità è un «passaggio fondamentale della vita». Sulle «notti prima degli esami» c’è un’epopea romantica, fatta di canzoni, film, emozioni, ricordi, palpitazioni: non c’è cena di ex compagni di scuola che non rievochi quel momento che per molti è stato il più importante della vita scolastica. E allora: come mai adesso passa in secondo piano? Com’è che molti saranno costretti a considerarlo solo un’appendice secondaria rispetto alla prova per entrare in università? E com’è che il voto di maturità, che è stata la medaglia al valore per intere generazioni di studenti, all’improvviso si trasforma in un dettaglio quasi irrilevante? Al ministero spiegano che i test ad aprile fanno parte degli «standard europei». A settembre, dicono, è troppo tardi, a luglio s’è provato a fare l’anno scorso ma è stato un patatrac. Dunque non restano, dal loro punto di vista, altre soluzioni, anche se questa produce effetti evidentemente devastanti. Il primo effetto è che il voto di maturità viene, per l’appunto, svuotato di ogni valore ai fini dell’ammissione all’università. Prenderai 100? O 62? Sei stato un bravo studente per cinque anni? O hai fatto il minimo indispensabile per essere promosso, passando i tuoi giorni in sala giochi o nelle vie dello shopping? Per chi vuol diventare medico (o veterinario o architetto) non fa differenza. Quello che conta è il test. Il quiz d’ingresso. La grande roulette dell’ammissione all’università. Per l’amor del cielo: non staremo certo qui a difendere il valore legale dell’esame di maturità. Fra i pilastri del pensiero liberale (almeno da Einaudi in poi) c’è proprio l’idea che ciascuno dev’essere valutato per quel che sa fare e non per il pezzo di carta che porta in tasca. È noto, per altro, che i voti di maturità sono spesso distorti dalla selezione geografica: prendere 100 in un liceo a Crotone è da sempre leggermente più semplice che prenderlo al Berchet di Milano, i voti alti negli istituti della Puglia sono decisamente superiori a quelli registrati in Lombardia. Quest’anomalia dura da sempre, lo sappiamo, non è mai stata risolta. E non vorremmo che proprio l’incapacità di trovare una soluzione a questo problema avesse spinto il ministero a scegliere la via più breve: siccome il voto di maturità non è attendibile, lo si archivia come una inutile formalità. Ma se fosse così, allora, bisognerebbe avere il coraggio di andare fino in fondo e abolire del tutto quell’esame, che invece viene ancora investito della massima retorica nazionale. Che senso ha accendere i fari di tutti (scuola, famiglie, informazione…) sulla maturità, se non la si considera attendibile? Che senso ha spingere i ragazzi per cinque anni a impegnarsi in vista di una prova fondamentale se poi quella prova non è affatto fondamentale, ma anzi non vale nulla? Delle due l’una: o la maturità è importante e allora deve essere considerata a tutti gli effetti anche per entrare in università, oppure non lo è. E allora può essere eliminata. Ovviamente esistono anche soluzioni alternative, come quella adottata in Francia dove tutti vengono ammessi al primo anno di università e la selezione viene effettuata al secondo anno. Ma quello che assolutamente è sbagliato è quello che sta succedendo, in modo frettoloso e improvvisato, oggi in Italia: i test ad aprile (senza nemmeno adeguato annuncio) e la maturità a giugno, come se nulla fosse cambiato. Al netto di possibili incidenti di percorso (che cosa succede se uno studente passa il test e viene poi bocciato alla maturità?), questo determina incertezza, confusione e conseguenze pericolose. Una su tutte: i ragazzi che sognano di fare i medici o gli architetti, quelli magari più coscienziosi e ambiziosi, quelli che tengono molto alla loro preparazione e al loro futuro, sono messi nella condizione di dover rinunciare a qualcosa. O rinunciano al loro sogno professionale o rinunciano a concludere bene il loro ciclo di studi. In ogni caso, vengono mortificati nelle loro migliori intenzioni. E un Paese che mortifica i giovani nelle loro migliori intenzioni è inevitabilmente destinato a finire male

Questo invece è il modo di affrontare il tema, facendo informazione.

L'inutile rito della maturità. Il solo esame che conta è quello del lavoro. Il resto è fuffa. Spreco, scrive Vittorio Feltri, Venerdì 20/06/2014, su "Il Giornale". Quando una cosa è totalmente inutile, tutti ne parlano con foga. Pagine e pagine di giornale. Servizi televisivi a iosa. Perfino dibattiti. Il superfluo appassiona. Pensate che ogni anno, in questa stagione, puntuali come il destino arrivano gli esami di maturità. E nelle riunioni noiose e ripetitive di redazione c'è sempre un tizio con le lenti da miope che salta su e dice: chi fa il pezzo sulla maturità? Il direttore alza gli occhi al soffitto e sbuffa: già, me n'ero dimenticato. Si capisce lontano un chilometro che non è seccato perché colto in fallo di memoria: figuriamoci. Il problema è che non ne può più di occuparsi degli studenti che per la prima volta nella vita affrontano una prova seria, presentandosi davanti a una commissione di professori (esterni) che li giudicheranno degni o no di essere considerati adulti e preparati. Preparati a che? In redazione non manca mai uno spiritoso rompiballe che sghignazzando risponde: preparati all'adulterio. Che battuta! Quando si parla di esami di maturità emerge in ciascuno di noi, inevitabilmente, il liceale di terza B che fu e che non perde occasione per divertire i compagni (i colleghi). Quando, ai tempi, eravamo in aula e qualcuno diceva una qualsivoglia sciocchezza, la classe si sbellicava. L'insegnante sopportava dieci secondi poi, scocciato, con un pugno sulla cattedra, invitava a smetterla di fare i fessi. Tornava il silenzio. Ma durava poco. Bastava che cadesse sul pavimento un astuccio da un banco e la ridarella - notoriamente contagiosa - esplodeva di nuovo. Il docente sconfitto sorrideva e scuoteva la testa. La scena che ho appena descritto - suppergiù - si ripete ogni 12 mesi, in giugno, nelle nostre riunioni allorché all'ordine del giorno si presenta la necessità di vergare un articolo (preferibilmente due o tre) sulla maturità. Non c'è giornalista che abbia il coraggio di dire apertamente di fottersene di questo rito in cui sono coinvolti milioni di ragazzi, tra i quali ormai i nostri figli. E allora si attacca a snocciolare qualche idea per trattare il tema in modo originale. Potremmo intervistare uno psicologo che spieghi lo stato d'animo dell'esaminando, oppure un esperto che suggerisca come superare l'ansia, oppure consultare un dietologo in grado di elencare una serie di alimenti da consumarsi alla vigilia degli scritti e che aiuti il povero studente stressato a rendere al massimo. Qualsiasi banalità è accolta, magari senza entusiasmo, ma non scartata. Un minimo di eccitazione si avverte allorché un capo della sezione culturale, aggrottando la fronte per dimostrare che è un intellettuale, consiglia di fare un'inchiestina per sondare i cosiddetti Vip (politici, scrittori, registi, attori e bischeri vari) affinché raccontino le loro esperienze di studenti. Questa proposta - lo dico perché ho una pratica semisecolare - ottiene unanimi consensi. Sempre. Il Vip è sacro e merita di essere ascoltato. Il dì appresso, apri il giornale e leggi una collezione di luoghi comuni - i medesimi pubblicati l'anno precedente - da far accapponare la pelle. Gli intervistati, dandosi un sacco di arie, rammentano i voti rimediati come per dire - in puro stile marchese del Grillo - io ero io e voi non eravate e continuate a non essere un cazzo. La stragrande maggioranza degli intervistati è costituita da fenomeni. Ce ne fosse uno capace di affermare: cari signori, gli esami di maturità sono una farsa pazzesca. Perché se un ragazzo ha completato con successo le elementari (basilari) e le medie, e ha esaurito il ciclo delle superiori, arrivando fino alla quinta, significa che il suo corso scolastico è terminato e può spalancare le porte dell'università. Se quel ragazzo fosse un cretino o un lazzarone irrecuperabile sarebbe stato bloccato prima del traguardo, non sul filo di lana. Non fosse così, sarebbero da respingere i professori, non gli studenti. Insomma non ha senso che un giovane abbia studiato 13 anni, giungendo - più o meno a fatica - a fine corsa, e che poi debba pure sostenere un esame-burla teso a scoprire se egli sia idoneo o no a diplomarsi. Se è idoneo, il corpo insegnante deve saperlo. Se non è idoneo, c'è da domandarsi per quale motivo sia arrivato in fondo. Basta per favore con questa pantomima. La prova di italiano uguale per tutti è un'idiozia. Un conto è il liceo classico e un conto è l'istituto per geometri. Le tracce il più delle volte fanno inorridire. Non tracciano nulla se non i limiti di un sistema che si è rinnovato nei contenitori ma non nel contenuto. Siamo ancora qui a discettare di Salvatore Quasimodo: eppure, quando il poeta ricevette il Nobel, qualcuno - non dirò chi, indovinatelo - dichiarò: a caval donato non si guarda in bocca. Poveri maturandi. In quest'ultima tornata di balordaggini spacciate per test esplorativi sono stati chiamati a commentare una genialata di Renzo Piano, l'architetto e senatore a vita: le periferie meritano di essere manutenute come Dio comanda altrimenti vanno in vacca. Anzi, le periferie saranno le belle città di domani se opportunamente «rammendate». Chi non è d'accordo? Ma che c'entrano simili concetti con la maturità di un perito chimico? Qui i soli che non meritano la maturità sono i governanti che si ostinano a spendere miliardi per finanziare un assetto scolastico privo di logica e che produce soltanto disoccupati. Il solo esame che conta è quello del lavoro. Il resto è fuffa. Spreco.

Esami Stato I grado? Una farsa, vanno aboliti. Lettera di Mario Bocola del 18 giugno 2017 su "Orizzontescuola.it". Gli esami di terza media sono una vera e propria farsa, un teatrino del nulla dove si promuove il nulla. Andrebbero aboliti e lasciati nel curriculum scolastico dello studente soltanto gli esami di maturità, anche se a modesto avviso andrebbero aboliti anche quelli perché stanno diventando anch’essi una presa in giro. Ormai gli studenti sanno che, anche se non studiano, verranno comunque promossi. A che serve mantenere in vita gli esami di licenza media dove campeggiano tesine multidisciplinari prelevate ex abrupto da motore di ricerca Wikipedia e incollate lì solo per far vedere alla commissione e al Presidente (esterno) che funge da semplice notaio il quale certifica che le carte sono a posto, consapevole del lavoro svolto a monte dei docenti che per un triennio hanno seguito i propri alunni. Non serve alcunchè scrivere infinite pagine di certificazione delle competenze se poi al termine del ciclo di studi si andranno a valutare le incompetenze più che le competenze finali. Tanto vale abolire completamente gli esami di licenza media tanto gli studenti che non hanno appreso durante un triennio non potranno acquisire conoscenze tali agli esami da certificare di aver raggiunto delle competenze da spendere nel corso della vita. Altro che curricolo verticale o orizzontale e Indicazioni per il curricolo predisposte dal Ministero dell’Istruzione. Se andiamo ancora più su nel corso degli studi, cioè all’Università anche lì sarebbe da rivedere tutto: l’unica cosa seria che è rimasta nelle Università è la tesi di laurea perchè anche in quel segmento d’istruzione le cose devono cambiare per farla diventare una cosa seria. Ormai lo studio serio ed impegnato è diventato una chimera. Ecco perché la scuola sta cadendo così in basso e sarà difficile risalire la china nel rivedere studenti seri ed impegnati dove lo studio è una cosa seria!

Quella farsa tragicomica chiamata Esame di Stato. Non la definiscono più maturità forse perché di maturo c'è solo il degrado della scuola italiana e di gran parte dei suoi attori diretti e indiretti, scrive Domenico Del Nero su "Totalità". Maturità? Ma di chi? Viene da chiedersi se l’esame di maturità, oltre e più che gli studenti (per i quali ora si usa la più asettica formula di “esami di stato”) non dovrebbero farlo in diversi, prima di riversare la propria carica distruttiva sui ragazzi.

A partire dai “saggi” (!!!???)  del ministero: queste entità strane e non meglio identificate, che ogni anno  si mettono a “cucinare” le prove da somministrare a docenti  e candidati.  Sarebbe opportuno fare a costoro un bell’esame, giusto per capire se capiscono qualcosa di dinamiche scolastiche, di programmi, di lezioni. Possiamo disquisire sino alla nausea – e alla noia mortale – se, come e quanto la scuola italiana sia invecchiata. Tutto quel che si può dire è che sino ad adesso tutti o quasi i tentativi di riforma dal secondo dopoguerra a oggi non hanno fatto che peggiorare la situazione (riforma Gelmini compresa, anzi in prima posizione), tanto che se mai c’è da chiedersi con stupore come faccia il malato a esser ancora vivo.  Ma è un malato di cui, dichiarazioni demagogiche a parte, non importa nulla a nessuno: non produce moneta sonante, anzi costa.  C’è un piccolo particolare: dovrebbe produrre cervelli e garantire il futuro della nazione.  Ma un cervello pensante, specie per la classe politica odierna a tutte le latitudini, è peggio di una pantegana.  Quindi: si derattizzi e si elimini la scuola, tanto più cretini ci sono in giro e più possibilità ha questa democrazia fasulla di tenersi in piedi e mantenere nel lusso i propri grotteschi boiardi. Ma per tornare agli autori della tracce: quelle della prima prova di quest’anno hanno brillato per una grande assente: la letteratura italiana. Forse i “saggi” del ministero non sanno che fra le istituzioni scolastiche sopravvivono ancora i licei, nei quali si fa appunto,  quella “ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura” , come la definì in un momento di sconforto Italo Svevo ( salvo poi ripensarci, per sfortuna di chi non ama la Coscienza di Zeno)  ma che in fondo è una delle poche cose che ancora ci impediscono di trasformarci del tutto in un gregge di pecore informatiche dedite esclusivamente al consumo di nozioni e informazioni globalizzate, indigeste e soprattutto non digerite.  Ed è veramente curioso un “ambito artistico letterario” in cui si parla molto di individuo e società di massa ma in chiave molto più sociologica che letteraria, mentre poi per il resto si naufraga (tanto per cambiare) tra stato mercato e democrazia, un cocktail di omicidi politici male assortito e peggio assemblato, e per l’ambito tecnico scientifico quello che nel ministero della Pubblica Istruzione (e non solo) sembra essere il grande assente: il cervello.

I genitori: mamme, babbi, nonne, zie e pure il gatto di casa sull’orlo di una crisi di nervi. Il mammismo, altra piaga quanto mai purulenta dell’italico orbe, scatena i suoi tentacoli.  Sembra che i “bambini” e le “bambine” che sono tutti o quasi ormai con patente e diritto di voto (difficile dire quale delle due sia la iattura maggiore) debbano partire per il fronte e negli zaini invece di libri e vocabolari vi siano tende, moschetti e bombe a mano.   Vero è che certe stupidaggini che si sentono agli esami sono peggio di mine anti uomo, ma in quel caso le vittime sono piuttosto gli esaminatori …   E non è questione di ordine di scuola, istruzione, ceto sociale etc.: anzi, a volte i peggiori sono proprio professionisti, dirigenti e docenti di vari ordini e gradi, magari implacabili con i figli altrui, ma pronti a difendere la propria prole anche a colpi di avvocato se necessario …. E soprattutto quando del tutto superfluo, assurdo e indecoroso. Non è un atteggiamento generalizzato, ovviamente, ma sin troppo diffuso sì.

Docenti: galassia quanto mai variegata e variopinta. Ovviamente ci sono professionisti seri, convinti che l’esame sia tante volte il primo impegno importante per un giovane e cercano di abbinare serietà ed equilibrio, mettendo lo studente a proprio agio ma senza fargli le coccole da un lato o mostrargli le tenaglie dall’altro. Né tate né aguzzini, insomma, e cercando soprattutto di capire quanto è stato proficuo per il giovane il corso di studi: non solo in termini di conoscenze ma anche di sicurezza di sé, capacità di muoversi, proprietà di linguaggio. Questo è, o dovrebbe essere, “maturità”. Per fortuna è una categoria meno scarna di quel che si possa pensare, compresi tanti giovani precari guardati magari con assurdo “nonnismo” e sprezzante superiorità da parte di qualche collega che confonde il ruolo e l’anzianità di servizio con la qualità dell’insegnamento.  Purtroppo però, come in tutte le categorie, professionali e non, c’è anche “altro”.

Frustrati: gente che magari ha collezionato un anno di pernacchie e sberleffi nella propria scuola e non sarebbe capace di tenere la disciplina neppure in una classe di educande monache di clausura. Di solito forniti di preparazione superficiale, si sentono in dovere di mettere sotto processo studenti, docenti, dirigenti scolastici e già che ci sono pure i custodi delle scuole che hanno la disgrazia di averli come commissari esterni.

Massaie: categoria altrettanto esiziale, frequente (in modo unisex) soprattutto tra i docenti di materie letterarie. E’ gente che dopo la tesi di Laurea, per solito, non ha scritto niente di più della lista della spesa e al massimo ha pubblicato il necrologio di qualche parente. Eppure, gente siffatta, per un triennio e poi come commissari d’esame, dovrebbe tanto per dirne una insegnare agli studenti il “saggio breve” e “l’articolo di giornale”, per poi giudicarlo anche in sede d’esame.  Un po’, insomma, come chiedere a un radiologo di effettuare un’operazione chirurgica, tanto sempre di medicina si tratta. Darebbero a tutti il massimo dei voti, perché si sa, ogni scarafone è bello a mamma sua e ogni somaro è un’aquila per la sua fattoressa. 

Sessantottini in servizio permanente effettivo: sono quelli/e per cui non il sei politico è ampiamente superato: ora bisogna passare al sei e mezzo, meglio ancora se al sette e già che ci siamo anche all’otto. Come la sciagurata categoria precedente (ma per motivi diversi) vorrebbero dare tutti voti “agli estrogeni”, con il risultato che poi, quando i giovani geni sono davvero messi alla prova, si sgonfiano clamorosamente e spesso indecorosamente.  E’ incredibile la fantasia con cui cercano cavilli per” fertilizzanti”: quello più comune è che il candidato è un bravo ragazzo/a, quasi l’esame debba essere un certificato di buone maniere. Senza contare che la valutazione del percorso scolastico è data dal cosiddetto “credito” e dai voti di ammissione: il voto d’esame dovrebbe riguardare l’atto finale e basta. Certo, un minimo di considerazione alla persona e alla storia dello studente è legittima e pure auspicabile, ma non può diventare il fattore determinante: anche perché queste figure/i di solito non brillano per imparzialità e il loro criterio è spesso la simpatia o la tonalità di “rosso” che lo studente professa ….

E per chiudere in positivo, c’è poi una categoria particolarmente sfortunata, che potremmo definire “dei carrozzieri”. Sono quei disgraziati insegnanti che si trovano con classi il cui livello medio è decisamente sotto quello del mare e che un disgraziato si trova a “ereditare” magari proprio all’ultimo anno da qualche collega fedifrago, emigrato verso lidi più fortunati.  Le cause della condizione di diffuso semianalfabetismo cronico possono essere di vario genere e non è detto che siano sempre attribuibili ai ragazzi (anzi), anche se qualche “tonno” (per seguitar la metafora marina) avrebbe fatto meglio a farsi inscatolare in qualche altro ordine di scuola: inutile insistere con il liceo classico se non si riesce distinguere l’italiano dal cinese mandarino. In ogni modo in fondo ormai ci sono e bisogna cercare di fargli fare un esame almeno decoroso e senza…sprofondare dalla vergogna. A volte, soprattutto quando non la colpa non è dei ragazzi, si hanno però risultati (e soddisfazioni) insperate.

Resterebbero gli studenti, ma qui all’alta fantasia manca la possa …. O ci vorrebbe un capitolo a parte.

Maturità 2017, così ho aiutato mio nipote a copiare. Ma i docenti non sorvegliano? Scrive Andrea Carlino, Lunedì, 26 Giugno 2017 su "Tecnica della scuola". Alla maturità non si può copiare. Il Miur, nel corso degli anni, ha dato sempre regole più severe per vigilare su smartphone, tablet e calcolatrici. Anche i docenti devono stare attenti a sorvegliare. Però c'è sempre qualcuno che la fa franca, come testimonia una lettera inviata al Corriere della Sera. "Mercoledì mattina, ore 9 del mattino, sono appena uscita dalla doccia. Mi arriva una telefonata, è mio nipote. Mi urla quasi nelle orecchie, mi chiede di guardare WhatsApp. Apro l’app, terrorizzata, e mi ritrovo di fronte pagine e pagine fotografate di tracce con il timbro del Miur. A quel punto realizzo, confusa, che mi stava chiamando da un’aula del suo liceo classico, dove si sta svolgendo la prova di italiano, la prima prova del suo esame di maturità. E poi, più lucida e terrorizzata, capisco che mi sta chiedendo aiuto, è disperato, vuole che io gli faccia un tema". Non posso, non voglio, lo trovo eticamente sbagliato e poi so benissimo che lui è in grado di farlo senza alcun aiuto esterno, studia costantemente, scrive benissimo, non ha bisogno di me. Spero che gli sequestrino il telefono, che inizino le ronde, che tutto si risolva in un nulla di fatto. E invece, mentre mi vesto velocemente, il telefono continua a lampeggiare. Ha individuato la traccia giusta, provo una trattativa, gli dico che al massimo posso metterlo sulla buona strada, che gli darò qualche indicazione per iniziare. Niente, non ascolta ragioni, è in preda al panico, e non so come dal suo banchetto di maturando continui a mandarmi messaggi insistenti. Cedo, mio malgrado. Siedo al computer, munita di I-Pad, per ingrandire la traccia e fare qualche ricerca veloce. Il tema mi appassiona, si parla di progresso e di come quello materiale non vada sempre di pari passo a quello civile. Pesco dalla memoria labile una reminescenza di Leopardi, mi chiedo se potrei citare Verga per contrasto, alla fine cito Kant e Platone come è suggerito dalla traccia. E poi inizio a parlare delle conquiste del secolo, e delle storture individuali che ci offre la cronaca. Ho l’ansia, il cuore in gola, non voglio fare quello che sto facendo e in più comincio a sentirmi anch’io una maturanda. “Allora? A che punto sei?”, scrive come se mi stesse ascoltando. Sono le 10.45 quando mi decido a fotografare le due paginette scritte al computer e a mandarle via whatsApp. Aspetto che le legga, sono spaventata, non ho riletto una sola parola e vorrei non assumermi la responsabilità di questa operazione truffaldina. Ma lui è finalmente felice, comincia evidentemente a copiare, e si placa. Io provo a uscire, ho una giornata intensa, voglio dimenticare quell’esame di maturità forzato, a 50 anni passati. Quando mi scrive di nuovo sono le 11.30: “Grazie, va benissimo, potresti cambiarmi solo un po’ il finale?”. E’ troppo, gli dico che sono fuori, non posso. Entro in macchina, provo a calmarmi, ma continuo a chiedermi arrabbiata dove sono i professori, perché gli hanno permesso di scrivermi, di copiare, di eludere i controlli: se potessi ora li affronterei di persona per capire cosa è andato storto. Ma parte il radiogiornale, c’è Affinati che commenta le tracce, tira fuori la citazione di Leopardi....fiuuu, anche stavolta, forse, me la sono cavata".

Furbizia, sveltezza, caparbietà, possono eludere qualsiasi strategia di controllo.

"Qualcosa sfugge sempre - ammette Federica Valentuni, commissaria esterna per fisica al liceo scientifico Peano di Monterotondo. Su 46 alunni, noi eravamo 5-6, basta che ti avvicini a qualcuno che ti chiede un chiarimento e uno studente alle tue spalle può passare un foglio o copiare. Purtroppo per loro è una prassi: lo fanno quasi tutto l’anno, in quasi tutti i compiti, sono allenatissimi".

Sempre al Corriere della Sera parlano alcuni docenti impegnanti negli Esami di Stato: "Noi controlliamo che tutti consegnino all’ingresso il telefonino o qualsiasi dispositivo, come l’Apple watch, che possa permettergli di comunicare con l’esterno - precisa Chiara Fornaro, vicepreside del liceo classico D’Azeglio di Torino e commissario interno per latino - Il problema però può sorgere se qualcuno ha un secondo cellulare. Anche se copiare un compito di italiano è complicato, e poi noi ci schieriamo: ci sono sempre due professori davanti, due dietro, e qualcuno che gira tra i banchi. E’ impossibile tirare fuori un cellulare senza che nessuno se ne accorga".

Questi signori di Torino sono gli incorruttibili? Sono la fonte del dr. Mario Giordano, sopracitato?

Il prof. Angelo Scassa, insegnante in un istituto tecnico di Torino ed ex commissario d’esame spiega il 22 giugno 2017 su Rete 7 perchè – secondo lui – la maturità sia, in realtà un esame semplice. “Spesso - ricorda l’insegnante - viene pilotato dalla commissione stessa”.

«L’esame di maturità è quasi una farsa. Ho partecipato 14 volte come commissario d’esame di Stato e posso garantire che gli studenti hanno ben poco da temere. D’altra parte basterebbe vedere un dato ufficiale: il 99,5% degli studenti viene promosso. Io parlo della mia esperienza, avendo solo insegnato negli istituti tecnici e in studi professionali. In istituti in cui le materie fondamentali sono appunto quelli appartenenti alla meccanica, all’elettronica, all’informatica. E via dicendo. Ho visto di tutto e di più. Quando ero commissario interno all’istituto Beccari di Torino, ho visto il taroccamento sistematico degli esami di maturità, mediante crediti rigonfiati e quelle cose che sto dicendo mi son costate anche una sospensione all’insegnamento per 40 giorni contro la quale ho fatto ricorso al giudice del lavoro che mi ha dato ragione 3 volte in 3 diverse cause del lavoro e contemporaneamente ho subito anche un processo penale per diffamazione e anche questo processo penale ha accertato che era vero quello che io avevo affermato. Si tarocca perché si vuol far vedere che l’Istruzione in Italia va bene. Soprattutto l’istruzione professionale e tecnica. In Germania va effettivamente molto bene. In Italia va molto male. Il taroccamento ha lo scopo di far vedere che ci stiamo allineando agli Stati europei più evoluti. Il problema è, per l’appunto, che non si vuol ammettere lo stato di degrado assoluto della scuola secondaria superiore per quanto riguarda l’istruzione tecnica e l’istruzione professionale. Ci sono tre modalità per taroccare gli esami di Stato.

La modalità numero uno è quella di presentare (questo accade ancora recentemente), di presentare i ragazzi con crediti scolastici gonfiati. Come si gonfiano i crediti scolastici? Una delle vie più veloci è quella di calcolare in modo anomalo i crediti degli anni precedenti, oppure di fare un’altra cosa: di presentare gli allievi con dei crediti che non corrispondono alla loro media reale. Questa è una modalità per facilitare gli esami di Stato. Attualmente i punti che concorrono su 100 all’esame di Stato dovuti alla formazione di 3 anni, gli ultimi 3 anni, sono 25, e quindi questi crediti vengono gonfiati in questo modo.

La seconda modalità è quella di fare una seconda prova. La prova molto temuta dagli studenti in maniera tale che non sia risolvibile. In questo modo, spesso e volentieri, i commissari cosa fanno: assegnano agli allievi il massimo della votazione. Quindi 15/15 perché la prova non è risolvibile. Quando io ho fatto una denuncia al Tribunale di Torino, perchè la prova non era risolvibile, il Tribunale di Torino l’ha archiviata dicendo che in fin dei conti era soltanto un errore del ministero. La Procura l’ha archiviata, sì il tribunale, poi il Gip l’ha archiviata. Non si capisce come si possono giudicare gli allievi su una prova che non è risolvibile. Ad esempio la maturità del 2007 per i T.I.M. presentava un esercizio sulle pompe centrifughe che non era risolvibile. La maturità 2013 sempre per i Temi per l’Industria Meccanica presentava un esercizio che non era risolvibile in quanto richiedeva l’ausilio di un diagramma di Moliere: il diagramma per il vapore acqueo. Una tavola di circa un metro quadro, con varie linee: isobari, isocore e via dicendo, che gli allievi non possedevano e quindi non potevano risolvere l’esercizio. Quindi quasi tutti gli allievi in quel tipo di scuole avevano 15/15 come punteggio assegnato in quanto il problema non era risolvibile. Nel 2011 l’esame di Stato era addirittura incentrato su un esercizio banale che riguardava il teorema di Bernulli. Il teorema di Bernulli che nulla ha a che fare con quelli che in realtà erano i problemi di macchine a fluido. Quindi questa è la seconda modalità con la quale gli studenti vengono aiutati.

La terza modalità, la più sconcia ancora, sconcia, è quella che i commissari si fanno il calcolo di quanti punti servono ai ragazzi per passare l’esame. E quindi spesso e volentieri il punteggio all’orale coincide con i punti necessari ad avere la sufficienza.  

Maturità 2013: "E' una farsa". Il racconto di un professore, scrive Tommaso Caldarelli il 2 Luglio 2013 su "Studenti". Ancora testimonianze sugli esami-farsa: una studentessa fa praticamente scena muta sul programma di Filosofia ma per la commissione è da 100. Maturità 2013, ancora testimonianze e racconti di esami che diventano vere e proprie farse: ecco un racconto di un professore commissario esterno di Filosofia alle prese con il programma di un istituto Psico-Pedadogico sperimentale, in cui le materie esterne risultano essere Filosofia e Scienze sociali. Ebbene, siccome durante l'anno il programma di Filosofia è stato svolto poco e male, il professore si trova a poter interrogare su pochissime materie. Dal documento didattico firmato dai professori e dalla classe, infatti, risulta che il programma svolto si limita a pochissimi autori dell'ultimo anno. Il programma di Filosofia comprende solo 6 autori (Hegel, Schopenhauer, Kierkegaard, Marx, Nietzsche e Freud) perchè un'ora di Filosofia viene svolta in compresenza con Scienze sociali. Infatti, nel documento del 15 maggio vi è una parte di programma di Filosofia svolto in compresenza con Scienze sociali (firmato da insegnante ed alunni) ma che NON può essere oggetto di interrogazioni orali "perchè i ragazzi non l'hanno studiato". Fino a qui, il tutto avrebbe potuto anche verificarsi in una qualsiasi altra scuola d'Italia. Il problema è che i membri interni della commissione premono affinché alunni poco preparati persino su questi pochi autori vengano premiati con il massimo dei voti alla maturità. Il che, spiega il professore, rende inutile l'intero esame. Ecco cosa è capitato durante l'interrogazione di una candidata. "A una ragazza che ha totalizzato il punteggio di 62 agli scritti era già stato aumentato il punteggio di tre punti per darle la possibilità, con un buon orale, di totalizzare 100", spiega il prof.. Oggi c'è stato il colloquio orale e in Filosofia è andata proprio male (scena muta alle domande: il concetto di alienazione in Hegel, apollineo e dionisiaco in Nietzsche), in Scienze sociali e Matematica (le altre due materie esterne) l'allieva ha dimostrato una preparazione più che sufficiente ma non buona e tanto meno ottima. Eppure la commissione vuole comunque premiarla con un bel 100 perché il percorso scolastico dell'alunna è stato "ottimo". E allora, si chiede il professore, "a che serve fare gli esami se i voti sono già decisi?" E voi che ne pensate: deve contare di più l'esame o il percorso scolastico?

Maturità? Inutile e costosa. Da abolire, scrive Alex Corlazzoli il 27 giugno 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Alex Corlazzoli, Maestro e giornalista. “La maturità in Italia valorizza ancora le conoscenze; è indubbio che, però, abbia bisogno di un tagliando. Lo stiamo facendo; l’anno prossimo ci saranno delle sorprese. Per dare agli studenti un esame sempre più aggiornato, che apra verso il futuro; sia esso all’università o nel mondo del lavoro”. Sono le parole del ministro dell’istruzione Stefania Giannini. L’inquilina di viale Trastevere parla di tagliando ma a lei che fa parte del governo del rottamatore vale la pena porre una domanda: non è arrivata l’ora di abolire questo inutile esame? Ci sono almeno quattro buoni motivi per provare a rispondere a questa domanda.

Il primo: in molti si affannano ancora a spiegare che questo è un esame serve per crescere, per cambiare, per chiudere un cerchio. La scrittrice Antonella Landi sul “Corriere Fiorentino” di ieri scriveva: “La maturità è come una dichiarazione d’amore: sai che te la giocherai tutta lì, in quel luogo e in quel momento e che dovrai farlo bene o perderai qualcosa che per te conta. Non a caso, quando la maturità finisce, nessuno è mai uguale a prima che le prove iniziassero”. Forse dovremmo mettere la parola fine a questa visione romantica dell’esame di Stato e lasciare ad Antonello Venditti il compito di farci ancora sognare “La notte prima degli esami”. Lo spiega bene dalle stesse colonne del “Corriere Fiorentino”, Mario Lancisi: “E’ la vita di tutti i giorni un susseguirsi di esami”. La vera prova di maturità è la preoccupazione di un lavoro da trovare in questo Paese o quella di quale ateneo frequentare.

Il secondo: quel “voto” serve a nulla, ha solo, purtroppo, un “valore legale” che andrebbe abolito. Quando ci si presenta dal datore di lavoro non viene più chiesto il voto della maturità ma cosa sai fare. Inoltre come ha spiegato Giorgio Abravanel, “gli atenei non credono più ai voti di maturità così organizzano i loro test di ingresso”.

Il terzo: la nostra maturità è una farsa. Al nostro esame di Stato sono ammessi il 96% dei ragazzi e lo superano il 99% (secondo i dati del Miur): “Non è selettivo; dà esiti diversi a seconda della discrezionalità di ciascuna commissione; non fornisce un vero quadro delle competenze acquisite; non orienta né per l’Università né per il lavoro. Una soluzione sarebbe abolirla (la maturità, ndr) tout court lasciando che siano le università a selezionare gli studenti in ingresso”, ha spiegato in questi giorni il direttore della Fondazione “Giovanni Agnelli”. Non solo. Oggi il nostro esame di Stato è composto da tre prove più il colloquio finale: il vecchio tema (sempre più scontato), la prova per indirizzo e il cosiddetto “quizzone” dove i ragazzi devono prepararsi su tutte le materie per essere pronti a rispondere alle domande scelte dalla commissione che opterà solo per alcune discipline. Una prova “tarocca” visto che il 38% dei ragazzi (secondo un’indagine di Skuola.net) conosce prima le materie grazie alla bontà dei professori.

Il quarto: il nostro esame ha un costo non indifferente per le tasche degli italiani. Solo per i commissari esterni si valuta una spesa di 150 milioni di euro. Più circa trenta milioni per i presidenti. Senza contare il costo sulle famiglie per ripetizioni, materiale. Dall’altro canto basterebbe guardare alla Finlandia dove alla fine degli studi obbligatori non c’è alcun esame ma viene rilasciato un certificato con i risultati ottenuti in test svolti durante il percorso. Così in Svezia e in Islanda non c’è alcuna prova di maturità.

Un’ultima questione: se proprio non si vuole abolire forse è il caso di iniziare a pensare ad una maturità europea, una prova che certifichi le medesime competenze in ogni Stato, dando ad essa un valore da spendere ben oltre i propri confini.

L'ITALIA DEI FAVORITISMI (ANCHE IN FAMIGLIA).

Il figlio preferito: non lo si ammette, eppure esiste. Una ricerca dice perché. Un libro, The favourite child e varie ricerche affermano il 75% delle mamme ha un prediletto. E lo stesso è per i padri. L’importante è confessarlo a sé stessi e cambiare, scrive Maria Luisa Agnese il 3 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Il figlio preferito c’è, ma non si dice. Nessun genitore confesserebbe chi è il cocco fra la sua prole: è questo il segreto dei segreti, gran tabù indicibile, inconfessabile, anche se ben presente in una zona indefinita fra mente e cuore di madri e padri. Ma la domanda non va fatta, è sconveniente per qualsiasi genitore. A meno che non ci sia garanzia di anonimato. Le ricerche parlano chiaro. Il 75% delle mamme ammette di avere un prediletto (ricerca 2016 del Journal of Marriage Psicology), mentre in un’indagine dello stesso giornale di qualche anno prima confessavano lo stesso sentimento anche i padri, al 70%. Quindi, assodato che i favoritismi ci sono — e nella speranza di non essere mai messi nella condizione di Meryl Streep che nel film La Scelta di Sophie è costretta dai nazisti a scegliere chi sacrificare fra figlia e figlio — prenderne consapevolezza deve essere, oggi, la soluzione migliore. È quanto sostiene la psicologa americana Ellen Weber Libby nel suo ultimo libro The favorite Child, il figlio prediletto: non rimanere vittima di sensi di colpa, ma guardare la realtà dentro di noi per neutralizzare gli effetti negativi che i favoritismi possono scatenare, sia nei figli prescelti, caricati di troppo aspettative, che in quelli negletti, colpiti nell’autostima. «Il favoritismo esiste, ma non deve più essere un tabù o una vergogna: va affrontato, per migliorare i rapporti familiari», scrive Libby. Perché nel grande caleidoscopio dei sentimenti la percezione che ogni figlio ha di sé è importante, ma può anche essere fuorviante in quanto è legata a periodi della vita dei genitori o dei figli: «Spesso si dice che sono i primogeniti i favoriti», aggiunge lo psicologo Alberto Pellai. «Ma bisogna tener conto che i figli nascono in zone diverse della vita dei genitori, e ogni figlio intercetta un pezzetto della loro storia. Il primogenito spesso riceve più cure, ma questo non vuol dire che riceva anche più amore; significa solo che i genitori, inesperti e più ansiosi, fanno il rodaggio con lui». Libby poi dà anche alcuni suggerimenti per una politica più sana di equilibrio familiare. Primo non fare paragoni, non dire mai «Perché non fai come tuo fratello?», ogni figlio è unico e diverso. Secondo: non fare quel che un tempo si diceva figli e figliastri. Se in casa c’è un Maradona in erba che vuol giocare tutti i week end a calcetto, non dimenticarsi di onorare anche le passioni sportive della piccola, più portata per la pallavolo. Un tempo studiava solo il primogenito, oggi si cerca di onorare i talenti di ognuno, perché non succeda come in casa Pennacchi, dove negli anni Sessanta il piccolo e talentuoso Accio non poteva andare al classico perché «basta un figlio che andrà all’università», come poi raccontato da Antonio Pennacchi nel Fasciocomunista, diventato film dal titolo Mio fratello è figlio unico (rubando l’idea al mitologico brano di Rino Gaetano). Terzo: Cercare un feedback, mettersi alla prova, chiedendo ad amici e parenti un parere su se stessi come genitori: insomma non stancarsi di confrontarsi. E infine, quarto: Saper ascoltare i loro lamenti, le loro recriminazioni. «Se vi accusano di favoritismi, resistete alla tentazione di negare o di giustificarvi, ma state a sentire e cogliete l’opportunità di dialogo». Ma soprattutto, aggiunge Pellai «fate domande, è un modo per scoprire le diverse esigenze di ogni figlio». Alberto Pellai e sua moglie Barbara Tamborini, psicopedagogista a sua volta, hanno due maschi e due femmine. Capita mai che qualcuno vi venga a dire di sentirsi trascurato, figlio negletto? «Tutti i giorni, ognuno viene a dirci che pensa che favoriamo gli altri. E questa è la garanzia che abbiamo fatto un ottimo lavoro».

I genitori hanno il figlio preferito? Più del 70% ammette di sì. Uno studio americano ha confermato che c'è quasi sempre un trattamento preferenziale. Spesso riguarda i primogeniti. Sicuro invece che la «contesa» sulla primazia e il senso di disparità influiscano negativamente sull'autostima, scrive Simona Marchetti il 12 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera". Gli amici uno se li cerca, ma i fratelli (o le sorelle) se li trova e fin dal primo vagito del nuovo arrivato è una lotta senza esclusione di colpi per conquistarsi il favore dei genitori e diventare così il figlio “prediletto”. Perché anche se i genitori giurano il contrario, un favorito c'è sempre. L’ennesima conferma arriva da uno studio trasversale iniziato nel 1989 dalla sociologa Katherine Conger dell'Università della California, Davis, e condotto su un campione di 384 coppie di fratelli adolescenti (divisi da non più di 4 anni di differenza) e sui rispettivi genitori, seguiti per tre anni, con due incontri annuali. Risultati alla mano, pubblicati sul Journal of Family Psychology, il 70% dei padri e il 74% delle madri hanno confessato di avere un trattamento preferenziale nei confronti di uno dei figli, senza però specificare quale. «È giusto che i genitori riconoscano finalmente di trattare i figli in maniera diversa - spiega la dottoressa Silvia Vegetti Finzi, che ha appena pubblicato il libro "Una bambina senza stella". Le risorse segrete dell'infanzia per superare le difficoltà della vita" - perché tutti meritano un trattamento personalizzato. Come efficacemente spiega un detto americano, "il primogenito è più intelligente, ma il secondogenito se la cava meglio nella vita": questo perché i genitori tendono a proiettare sul primo figlio tutte le loro aspettative, mentre i fratelli minori hanno sì lo svantaggio di essere relegati nelle retrovie ma, al tempo stesso, anche il vantaggio di essere "schermati" dai primogeniti e di potersi quindi muovere più liberamente e senza condizionamenti». Peccato però che i secondogeniti intervistati dal team della Conger non abbiano dato affatto l'impressione di saper gestire questa "condizione di vita privilegiata" di cui parla la Vegetti Finzi ma, al contrario, abbiano ammesso come la disparità di trattamento da parte dei genitori nei loro confronti abbia poi avuto delle ripercussioni negative sulla loro autostima. Non solo. I figli minori hanno anche confessato di ritenere i fratelli maggiori i veri “cocchi” di mamma e papà, sensazione peraltro condivisa dalla maggior parte degli stessi primogeniti che, a precisa domanda, ha infatti confermato di considerarsi effettivamente il figlio preferito. «Le conclusioni alle quali siamo giunti con la nostra ricerca sono state piuttosto sorprendenti - ha detto la dottoressa Conger alla rivista Quartz - perché, fermo restando che ognuno è convinto che il fratello o la sorella goda di un trattamento migliore da parte dei genitori e si senta, di conseguenza, il figlio non prediletto, l'ipotesi di partenza era che sarebbero stati i primogeniti quelli maggiormente colpiti dalla percezione di questa disparità, proprio a causa della loro condizione di figli maggiori e, quindi, con maggiori responsabilità e aspettative da parte dei genitori e, invece, non è stato così». Come conferma al "New York Times" la dottoressa Barbara Howard, assistente pediatrica alla Johns Hopkins University School of Medicine, «la sensazione di non essere il figlio preferito è spesso causa di problemi comportamentali. Del resto, è impossibile che un genitore non abbia un figlio preferito e la percezione di questo favoritismo è uno dei motivi principali della rivalità fra fratelli».

“Il figlio prediletto esiste”. Si tende a preferire il bambino che ci assomiglia di più, che ha lo stesso carattere o gli stessi capelli, il bambino-specchio che realizza il nostro sogno di immortalità. I genitori infrangono il tabù, scrive Stefano Montefiori il 23 marzo 2014 su "Il Corriere della Sera". Il tabù famigliare più grande, perché più diffuso, è quello sul figlio preferito. Nessun genitore ammette, prima di tutto a se stesso, di averne uno, e molti sono pronti a fornire zuccherose rassicurazioni come «l’amore di una mamma non si divide come le fette di una torta, quando nasce un nuovo bambino c’è una nuova torta intera di affetto anche per lui». Non è vero. I genitori spesso non lo sanno neppure, ma mentono. Le preferenze esistono, sono sempre esistite. Solo che in passato erano chiare, evidenti e riconosciute, anche socialmente: il primogenito ereditava tutto. Dal XX secolo in poi si è fatta strada la giusta convinzione che nelle famiglie non debbano esserci figli e figliastri, nel patrimonio e nell’affetto. Tutti o quasi ci provano, ma i rapporti speciali nascono e — ignorati, negati, repressi — resistono. Per questo in Francia sta avendo successo il libro di due docenti dell’Università di Nantes, Catherine Sellenet (Psicologia e Sociologia) e Claudine Paque (Letteratura), che indagano sul più comune non detto della vita famigliare. Accanto a segreti spaventosi e per fortuna relativamente rari (violenza, incesto), c’è quello banalissimo del «cocco di mamma», che molti hanno sperimentato in almeno una delle versioni, in qualità di figli o di genitori. «La preferenza esiste e la sua negazione non fa che danneggiare la relazione, talvolta pervertirla», scrivono le autrici di “L’enfant préféré, chance ou fardeau?” (edizioni Belin), che aggiungono: «Accettare la realtà della preferenza per uno dei propri figli potrebbe aiutare a ridurre i danni sia sull’eletto sia sugli altri fratelli». Le autrici hanno interrogato 55 genitori: all’inizio del colloquio neanche uno ha ammesso di avere preferenze per un figlio o una figlia in particolare. Alla fine l’80 per cento lo ha riconosciuto. Spesso è l’uso delle parole, il nomignolo, a tradire, come quel padre che cita «il primo figlio», «la più piccola», e poi racconta estasiato di «giocare a calcio con Paul», il prediletto chiamato per nome. Oppure quella madre che parla lungamente di François, Anne e infine arriva a «Josephine, la mia principessa», che unica ha diritto all’iperbole. Il libro è pieno di empatia per i genitori che cercano di fare del proprio meglio, ma la tesi è che bisogna cominciare a indagare sul perché si formano le preferenze e sugli effetti che hanno sui bambini: «una fortuna o un fardello?», si chiede il titolo. Intanto, cosa spinge un papà o una mamma ad avere una predilezione? L’unica socialmente accettata è verso il figlio svantaggiato, più debole o colpito da handicap. Le altre, inconfessabili, sono spesso generate da un riflesso narcisistico: si tende a preferire il bambino che ci assomiglia di più, che ha lo stesso carattere o gli stessi capelli, il bambino-specchio che realizza il nostro sogno di immortalità. E poi il bambino facile che va bene a scuola, non solo perché pone meno problemi, ma soprattutto perché ci risparmia la fatica di dubitare di noi stessi e ci conferma nella riuscita di genitori, grande imperativo della nostra era. Sellenet e Paque sottolineano che nell’attuale mondo di mamme e papà consapevoli e molto presi dalla loro missione, tutte le responsabilità vengono scaricate sui figli. Litigate tra voi, bambini cari? È perché siete di animo poco generoso, siete gelosi. In realtà, quando i figli trovano il coraggio di accusare un padre o una madre di fare preferenze, il più delle volte hanno ragione, hanno captato piccoli segnali molto eloquenti, un tono della voce, un’indulgenza in più, o anche solo una porzione migliore nel grande rito strutturante del pasto tutti insieme a tavola. Il libro non auspica un ritorno al passato, a Menelao che nell’Odissea preferisce serenamente Megapente o a Abramo al quale Dio chiede di sacrificare Isacco proprio perché è il preferito, senza dubbio alcuno. Ma genitori più onesti con sé stessi potrebbero agire per controllare le conseguenze dei loro sentimenti. Prevale una specie di sindrome da «La scelta di Sophie», il celebre e tremendo film nel quale i nazisti costringono la madre Meryl Streep a scegliere chi salvare tra il maschio e la femmina. In condizioni normali, ammettere con sé stessi una predilezione non dovrebbe essere così straziante.

Oltretutto preferire un figlio, proprio come discriminarlo, non equivale a fargli un favore. Il prediletto sarà probabilmente più sicuro di sé, affidabile, esperto nel sedurre le figure di responsabilità (dopo i genitori in famiglia, gli insegnanti a scuola e i superiori nel lavoro), ma pure oggetto della gelosia dei fratelli, patirà di sensi di colpa e da adulto farà forse più fatica a trovare una strada autonoma, lontana dall’amore in cerca di retribuzione di quei bene intenzionati, attenti, e bugiardi genitori.

“Figlio preferito? Inutili i sensi di colpa”. E’ normale provare attrazione verso un figlio piuttosto che verso un altro? Come gestire questo sentimento perché possa essere positivo e non frustrante per il prediletto e per gli altri fratelli? Parla l’esperto, scrive Paola Coen su "Stai Bene". Figli preferiti e figli che si sentono messi da parte. Il prediletto in casa è una realtà che molti genitori, spesso attanagliati dai sensi di colpa, rifiutano. Perché succede? E’ normale provare attrazione verso un figlio piuttosto che verso un altro? Come gestire questo sentimento perché possa essere positivo e non frustrante per il prediletto e per gli altri fratelli? Lo abbiamo chiesto a Paola Ulissi, psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva.

E’ normale che un genitore abbia un figlio preferito?

“Sì è abbastanza normale perché siamo umani. Il problema è come viene gestita questa preferenza. Nel senso che ci sono genitori smaccatamente preferenziali, quasi a rasentare una patologia o a scatenare nei figli una patologia…”.

Ci spieghi meglio.

“Pensiamo ai figli viziati, o quelli incapaci di tollerare le frustrazioni, o di cavarsela nel vita di tutti i giorni. Il fatto è, però, che ci sono figli più simpatici, più presenti, che si fanno amare di più. Queste loro caratteristiche positive, rispetto agli altri fratelli magari più musoni o capricciosi, attraggono di più il genitore che li preferisce agli altri piccoli”.

Un genitore si deve sentire in difetto se predilige un figlio piuttosto che per un altro?

“No, il senso di colpa non serve a nulla. Se un genitore ha la consapevolezza di prediligere un figlio piuttosto che un altro deve sapere di dover compensare questa maggiore attrazione. Preferire è umano e lo facciamo con tutti. L’importante è esserne consapevoli. Per quel che riguarda i figli è la consapevolezza che ci può aiutare ad essere giusti nell’affetto, nella relazione, nella stimolazione alla crescita e all’indipendenza”.

Il figlio preferito è anche quello più amato?

“Non si ama un figlio più di un altro. Si ama in maniera diversa. Magari c’è un figlio che in un determinato momento della vita ha bisogno di maggiore attenzione e va sostenuto, mentre l’altro può camminare con le sue gambe. Anche noi siamo diversi quando nascono i figli…”.

In che modo?

“Per esempio quando arriva il primo figlio, spesso, siamo impreparati. Al secondo o terzo figlio, invece, siamo più sicuri, ma meno disponibili. Quel che conta quando diventiamo genitori è di essere attenti ai bisogni del bambino”.

Il figlio preferito ha un vantaggio o uno svantaggio nello sviluppo della propria personalità?

“Dipende da come è stato preferito. Essere preferiti non vuol dire necessariamente essere avvantaggiati o avere avuto qualche cosa in più. Per fare un esempio limite. In molte patologie della schizofrenia, per esempio, il doppio legame è un legame simbiotico, dove la mamma preferisce quel figlio ma non lo spinge all’individualità, non lo spinge alla separatezza e all’individuazione di sé, ma lo spinge a rimanere quasi nella pancia”.

I genitori preferiscono i secondogeniti. Sui primi nati, più controllo, pressioni e maggiori aspettative. Chi nasce dopo incontra più permissivismo e generosità, scrive "Stai Bene". Chi nasce per primo sarà più vessato dai genitori. Che sono sempre più severi, nei confronti dei primogeniti: li controllano, li limitano, li assillano, li opprimono con le loro aspettative. Quando avranno preso confidenza con il loro ruolo di genitori, all´arrivo dei figli successivi insomma, saranno molto più rilassati e accomodanti. Conseguenza: i secondogeniti si troveranno decisamente meglio dei fratelli maggiori. E' il risultato di una ricerca pubblicata sulla rivista "The Economic Journal", realizzata per cercare di capire come la ricchezza di una famiglia possa incidere sull´educazione dei figli, sulla vita dei genitori, sul rapporto tra genitori e figli, sul ruolo che il nucleo familiare può avere nella società. I ricercatori non hanno solo fatto i conti in tasca alle famiglie, ma si sono serviti anche dell´aiuto di sociologi e psicologi che hanno immaginato dei giochi di ruolo ai quali hanno fatto partecipare genitori e figli. Questi confronti generazionali hanno dimostrato che i genitori diventano più indulgenti crescendo e che, di conseguenza, sono molto più rigidi con i figli maggiori che con i più piccoli. Dall'indagine sono emerse anche altre indicazioni. L´atteggiamento di ribellione tipico degli adolescenti nei confronti dei genitori è il risultato di una reazione all´atteggiamento degli adulti: sebbene sia normale che gli adolescenti si ribellino come passaggio necessario per affermare la propria individualità, l'entità della ribellione e la gravità delle azioni dimostrative dipendono dall´educazione ricevuta in famiglia. Una tesi che ha trovato conferma dagli sviluppi delle nuove tecnologie della diagnostica per immagini. Lo psichiatra Giorgio Bressa, per esempio, cita nel suo libro "Reduci dall’adolescenza" che gran parte dei comportamenti, positivi ma anche patologici, che ognuno di noi acquisisce nella fase della crescita dipendono dal modo in cui la fisiologica ribellione degli adolescenti verso i genitori e in generale verso il mondo delle regole, viene affrontata con i metodi educativi adottati dai genitori. Bressa ricorda che è nella fase dell’adolescenza, tra gli 11 ed i 15 anni che si forma nella parte frontale del cervello quella componente cerebrale che presiede al giudizio critico. Cosa che emerge chiaramente dall’evoluzione dell’immagine di quella parte del cervello evidente dalle Tac effettuate ad età diverse.

Il figlio trascurato non è sempre svantaggiato. Il senso di colpa dei genitori è, certamente, verso il figlio svantaggiato, quello che riceve meno attenzioni. E le conseguenze, in effetti, possono esserci. Ecco che fare, scrive "Stai Bene". Il senso di colpa dei genitori è, certamente, verso il figlio svantaggiato, quello che riceve meno attenzioni. E le conseguenze, in effetti, possono esserci. Gli inglesi chiamano questa particolare condizione “Lfs” (less favoured sindrome), la sindrome del meno favorito). Sono spesso i genitori dar fuoco alle polveri e far scatenare una carica di esplosività, rivalità tra fratelli. Non sempre gli interventi di mamma e papà sono giusti, equilibrati e sereni.

Ma siamo sicuri che essere svantaggiati è sempre negativo per chi vive questa condizione? No, dicono gli esperti. Questo bambino può essere più forte del fratello o sorella preferiti. Perché colui a cui tutto è concesso, potrebbe essere impreparato ad affrontare le difficoltà della crescita per il solo fatto che la sua strada non è mai stata in salita. Cosa deve fare dunque un genitore? Inutile cercare l’uguaglianza tra i figli, ma i genitori dovrebbero cercare di valorizzare ciascun individuo e il sentimento che li lega a loro, convincendoli che ciò che si prova per uno non sarà mai uguale a quello per gli altri. Questo rappresenta il primo passo per una crescita sana, perché rafforza la loro autostima e risponde all’esigenza di sentirsi amati per quel che sono. L’unica cosa cui dobbiamo prestare molta attenzione è che l’altro o gli altri figli “non preferiti” costruiscano su questa delusione o gelosia dei comportamenti reattivi e impropri come il rancore verso i genitori o i fratelli. Ma un genitore si deve sentire in difetto se predilige un figlio piuttosto che per un altro? “Figlio preferito? Inutili i sensi di colpa”. Parla lo psicologo, scrive Staibene.it. Paola Ulissi, psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva ha idee chiare: “No, il senso di colpa non serve a nulla. Se un genitore ha la consapevolezza di prediligere un figlio piuttosto che un altro deve sapere di dover compensare questa maggiore attrazione. Preferire è umano e lo facciamo con tutti. L’importante è esserne consapevoli. Per quel che riguarda i figli è la consapevolezza che ci può aiutare ad essere giusti nell’affetto, nella relazione, nella stimolazione alla crescita e all’indipendenza”.

Università, Italia prima per nepotismo (ma i dati dicono che sta migliorando). Lo studio su «Pnas»: sono stati contati i docenti con lo stesso cognome. É record rispetto a Francia e Usa. In Campania, Puglia e Sicilia i casi più ricorrenti. Ma la legge del 2010 funziona, diminuiscono le percentuali nel resto d’Italia. Troppi i prof insegnano nella città dove sono nati, scrivono Gianna Fregonara e Alessio Ribaudo il 3 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Una mappa, non proprio edificante, che mostra come nelle università italiane il nepotismo sia un fenomeno più marcato rispetto ai nostri dirimpettai francesi o agli Stati Uniti. Per quanto riguarda le disparità di genere invece non c’è alcuna differenza: a tutte le latitudini sono marcate. È questa la fotografia scattata dalla ricerca pubblicata sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences(Pnas) dell’Accademia delle scienze degli Stati Uniti. Gli autori sono Stefano Allesina e Jacopo Grilli che lavorano nell’ateneo di Chicago. «Abbiamo analizzato i cognomi di 133 mila ricercatori italiani, francesi e delle migliori università pubbliche Usa — spiega Allesina, carpigiano di 41 anni, docente di Ecologia e Biologia evoluta nell’ateneo dell’Illinois —. Poi, con metodi statistici elementari, abbiamo dimostrato similarità e differenze tra i vari sistemi». Per esempio: gli accademici italiani, specialmente al Sud, tendono a lavorare dove sono nati e cresciuti mentre gli americani si spostano molto di più e hanno una forte immigrazione nelle discipline scientifiche. Il lavoro di analisi è stato lungo. «Abbiamo contato il numero di ricercatori con lo stesso cognome, in ogni dipartimento — dice Allesina — e l’abbiamo confrontato con quello che ci si aspetterebbe se le assunzioni fossero casuali secondo diverse ipotesi. L’abbondanza di ricercatori con lo stesso cognome nello stesso dipartimento potrebbe essere dovuta a effetti geografici (alcuni cognomi sono tipici di una zona) o da una immigrazione specifica (molti ricercatori in informatica negli Stati Uniti provengono dall’Asia). Se la ridondanza non si spiega così, allora potrebbe essere dovuta a professori che fanno assumere parenti stretti». In Italia, si può vedere il bicchiere anche mezzo pieno. «Abbiamo analizzato i dati dal 2000 al 2015 — racconta il docente — e il fenomeno è in calo. Nel 2015 ci sono anomalie solo in Campania, Puglia e Sicilia e i settori disciplinari con segni di nepotismo più evidenti sono Chimica e Medicina. Però, nel 2000 erano sette su 14». I motivi della diminuzione sono vari. «La riforma universitaria del 2010 ha proibito di assumere parenti dei docenti ma, soprattutto, la diminuzione è data dai pensionamenti e dalla riduzione delle assunzioni». «Non misconosco e non nego il fenomeno che è lo specchio della nostra società — avverte Gianni Puglisi, decano della conferenza dei rettori delle università — e questo malcostume va combattuto prima con l’etica e poi con il codice penale. L’università italiana, però, ha ancora grande dignità e lo dimostra il fatto che molti nostri laureati sono assunti pure da atenei stranieri. Non sia una scusa, ma le ricorrenze non sempre significano nepotismo. Ci sono altri docenti con il mio cognome ma nessuno è mio parente o affine. Neanche alla lontana».

Università italiane, nepotismo in calo ma resiste in alcune facoltà. Due ricercatori hanno dimostrato somiglianze e differenze tra i sistemi universitari italiano, francese e statunitense. Concludendo che nei nostri atenei il fenomeno dei dipartimenti passati di padre in figlio si è ridotto negli ultimi 15 anni. Grazie a un articolo della legge Gelmini e al mancato turn over, scrive Corrado Zunino il 3 luglio 2017 su "La Repubblica". C'è un nuovo lavoro del biologo Stefano Allesina, 41 anni, di Carpi, da otto stagioni professore al Dipartimento di Ecologia e Biologia evolutiva dell'Università di Chicago. Nel 2011 aveva pubblicato un rumoroso studio sul tema del nepotismo accademico che certificava come alcune discipline nelle università italiane, Legge, Medicina e Ingegneria su tutte, mostravano una grave scarsità di cognomi suggerendo che il nepotismo fosse la causa dei cognomi mancanti: su 60.288 docenti italiani c'erano settemila casi di omonimia, più della metà di quanto ci si potesse attendere. Il nuovo lavoro - "Nepotismo nei sistemi accademici" - ora sostiene che la Legge Gelmini è riuscita davvero ad abbassare le aliquote dei dipartimenti passati da padre in figlio negli atenei d'Italia. Questa volta - per Last name analysis of mobility, gender imbalance and nepotism across academic systems pubblicato oggi dalla prestigiosa rivista Pnas, organo dell'Accademia delle scienze statunitense - il professor Allesina, laureato a Parma e volato presto negli States "per mancanza di spazio nel mio Paese", ha collaborato con un altro migrant italiano, Jacopo Grilli, lui fisico di trent'anni, laureato alla Statale di Milano e ora arruolato nell'"Allesina Lab" di Chicago, laboratorio privato che mette il calcolo al servizio delle scienze ambientali. Insieme, analizzando liste di nomi ricavate da siti web pubblici, i due ricercatori hanno dimostrato somiglianze e differenze tra il sistema accademico italiano, francese e statunitense. Il professor Allesina e il postdoc Grilli hanno raccolto le generalità dei docenti italiani che nel 2000 (erano 52.004), nel 2005 (cresciuti a 60.288), nel 2010 (scesi a 58.692) e nel 2015 (crollati a 54.102) lavoravano nello stesso dipartimento e hanno ipotizzato che, se il numero dei "cognomi uguali" era superiore alle attese e la sorpresa non era spiegabile con ragioni geografiche o di immigrazione specifica, allora l'abbondanza delle ripetizioni nominali poteva dipendere "dall'abbondanza di professori che fanno assumere parenti stretti". Grilli e Allesina hanno analizzato l'impatto della Legge Gelmini, la "240", che contiene una norma - articolo 18 - che dal 2010 proibisce l'assunzione di parenti fino al quarto grado all'interno dello stesso dipartimento. I risultati ottenuti mostrano che il nepotismo in quindici anni è calato. Nel 2000 sette settori disciplinari su quattordici (la metà) mostravano i segni dell'assunzione familiare. Nel 2015 questo numero si è ridotto a due (Chimica e Medicina). La Legge Gelmini, dicono i ricercatori, non è l'unico fattore che ha portato al decremento del nepotismo: "Il declino era in parte visibile precedentemente ed è dovuto anche ai professori che sono andati in pensione e non sono stati rimpiazzati". L'università italiana è stata "sostanzialmente macellata negli ultimi dieci anni", sostiene Grilli, "con il 10 per cento dei posti persi complessivamente e alcune discipline in cui il personale è stato ridotto di un terzo". Ancora Allesina: "Il nepotismo segnala un problema più generale nel reclutamento. Se un professore può mettere in cattedra il figlio, allora potrà mettere in cattedra chiunque". Sottolinea il ricercatore, ora a Chicago: "Risolvere il problema del reclutamento proibendo l'assunzione di parenti è come risolvere la minaccia delle fughe di gas nella miniera uccidendo il canarino messo come cavia". Significa, ovvero, che l'abbassamento dei conflitti di interesse parentali dovuto a una legge ad hoc ancora non segnala un'inversione di metodo - l'assunzione basata sul merito - nelle università d'Italia. "La famiglia è la croce e delizia della società italiana, il sistema universitario riflette questa situazione", conclude Stefano Allesina. Ancora oggi i ricercatori nel nostro Paese tendono a lavorare dove sono nati e cresciuti mentre gli accademici americani sono caratterizzati da una grande mobilità e da una forte immigrazione, soprattutto dall'Asia, nelle discipline tecniche. In Italia il nepotismo sembra concentrarsi nel dieci per cento dei dipartimenti e in alcune regioni come Campania, Puglia e Sicilia. Con questo lavoro abbiamo risposto alle critiche avanzate sul primo lavoro da alcuni gruppi di divulgazione universitaria: oggi dimostriamo senza ombra di dubbio che i casi di omonimia in eccesso sono dovuti a parentele".

CONCORSO INFINITO: CONCORSO TRUCCATO!

Concorso con irregolarità: come si impugna? Lo sai che? Scrive il 3 luglio 2017 “Legge per Tutti. Come contestare un bando di concorso e lo svolgimento delle selezioni se si verificano irregolarità; i termini per procedere davanti al Tar. Quando si parla di concorsi pubblici c’è sempre, da un lato, la speranza di cambiare vita con un posto fisso nella pubblica amministrazione, ma dall’altro lato la consapevolezza di quanto difficile sia ormai diventato il raggiungimento di questo obiettivo. Le prove selettive sono sempre più rigorose e, a questo, spesso si aggiungono domande equivoche e procedure poco trasparenti. Alcuni poi, dopo l’esclusione dal concorso, hanno la certezza che non tutto si è svolto correttamente. Non capita poche volte, ad esempio, che nella preventiva fase di pubblicazione delle domande e delle risposte ci siano degli errori; così come la stessa aggiudicazione dei posti, successiva alla selezione, avvenga in modo non del tutto corretto. I ricorsi, insomma, sono sempre dietro l’angolo. Ebbene, come si difende il candidato? Come si impugna un concorso con irregolarità? Di tanto cercheremo di dare le linee guida principali in questo articolo. Prima però di spiegare come si contesta un concorso pubblico ricordiamo che è la stessa Costituzione [1] a stabilire che, a tutti gli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede dopo aver superato un apposito pubblico concorso, il quale viene disciplinato da un precedente bando. Il concorso è necessario anche per i successivi avanzamenti di carriera dentro la PA. Lo scopo del concorso pubblico è quello di accertare – previo esame dei titoli (titoli di studio, esperienze lavorative, corsi di formazione, ecc.) o prove di selezione – l’attitudine del candidato a ricoprire il posto bandito dallo Stato o da un ente pubblico. Il regolamento del concorso è contenuto nel bando, il quale non può violare le norme di legge, diversamente sarebbe illegittimo e potrebbe essere impugnato davanti al Tribunale Amministrativo Regionale (TAR). Ad esempio sarebbe illegittimo un bando che vieti la partecipazione ai cittadini non italiani benché appartenenti alla Comunità Europea o il bando che imponga determinati limiti di età.

Come contestare il concorso illegittimo. Vediamo ora come fare se non viene rispettata la normativa che disciplina lo svolgimento del concorso o vi sono irregolarità nello svolgimento del concorso stesso. Se il candidato ha il sospetto fondato di essere stato escluso da un concorso irregolare, può impugnare il provvedimento di “bocciatura” con ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale (TAR). Si tratta del giudice competente tutte le volte in cui una delle due parti è una pubblica amministrazione e il cittadino interviene in una posizione di “subordinazione”. Difatti, quando si parla di assegnazione di posti tramite concorsi, il diritto non tutela l’interesse del candidato, ma quello della collettività (ossia l’interesse pubblico) alla selezione del soggetto più preparato. Dunque, il candidato non vanta un diritto soggettivo, ma un diritto più affievolito che si chiama «interesse legittimo». Tale interesse viene cioè tutelato solo nella misura in cui esso corrisponda a quello pubblico della scelta del più bravo. Di conseguenza, può impugnare il concorso illegittimo solo chi è stato escluso o ha avuto una posizione in graduatoria inferiore a quella sperata.

Entro quanto tempo si può impugnare un concorso illegittimo? Il ricorso contro un concorso illegittimo deve essere proposto entro 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento che si vuole impugnare. Per il ricorso – che come abbiamo detto va presentato al Tar – bisogna dare mandato a un avvocato il quale potrebbe ridurre il costo della parcella nel momento in cui a difendere non è solo un candidato ma diversi. Entro tali 60 giorni, il ricorso deve essere notificato sua all’ente pubblico che ha bandito il concorso che agli altri candidati che sarebbero danneggiati qualora il ricorso venisse accolto dal TAR (perché, ad esempio, potrebbero ottenere una collocazione in graduatoria inferiore a quella loro attribuita dall’ente pubblico prima del ricorso al TAR). La mancata notifica del ricorso entro tale termine non consente di contestare più in futuro il concorso. Ad esempio: la legge consente di richiedere un’altezza minima per accedere al pubblico impiego solo in casi tassativamente elencati [2]: in particolare nelle selezioni per entrare a far parte delle Forze Armate, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, ecc. Qualora un bando di concorso prevedesse un requisito minimo di altezza anche in un caso non previsto dalla legge, chi non avesse il suddetto requisito potrebbe far ricorso al giudice amministrativo regionale per impugnare il bando o il provvedimento che lo esclude dal concorso.

Se si vince un concorso pubblico si è già assunti? No, è necessario che l’ente pubblico approvi la graduatoria e richieda i documenti necessari (casellario giudiziario e certificato di cittadinanza). A questo punto, se si è dimostrato di avere tutti i requisiti, l’ente pubblico deve necessariamente provvedere alla nomina. Non mancano sentenze di condanna alla pubblica amministrazione per non aver provveduto ad assegnare i posti ai vincitori del concorso benché lo stesso sia stato regolarmente espletato e sia stato emesso il provvedimento di aggiudicazione. Se pertanto la PA non dovesse provvedere all’assunzione del vincitore del concorso quest’ultimo potrebbe far ricorso al TAR.

Concorsi pubblici: 100 milioni di costi al mese, e poi ci sono i ricorsi. L'Italia è il Paese dei concorsi, spesso ribaltati dai ricorsi presentati al Tribunale amministrativo. E i costi lievitano: 1 miliardo e 400 milioni nel 2014, scrive Alessandro Pignatelli il 4 Luglio 2017 su "Nano press". Per soli due concorsi pubblici, 393.413 candidature. Posti a disposizione: appena 800, da cancelliere, 30 da vice assistente della Banca d’Italia. Per il primo concorso, sono arrivate 308.468 domande, per il secondo 84.745. Del resto, in un Paese come l’Italia con la disoccupazione giovanile al 40 per cento, ogni occasione è buona per tentare di fare un vero e proprio terno al Lotto. Tante le domande, tanta la necessità di scremare. E così, Bankitalia ha dovuto escludere 76mila diplomati che, puntualmente, stanno mettendo a punto i ricorsi. I sindacati ringhiano contro via Nazionale: escludere i non laureati è discriminatorio. Il Tar potrebbe riammetterli, anzi con tutta probabilità li farà. Aveva già annullato una delle regole del bando: per essere ammessi alla prova scritta, bisognava aver preso almeno 105 come voto di laurea. L’Italia dei concorsi fa rima sempre con l’Italia dei ricorsi. A luglio del 2016 il primo concorso regionale per 40 infermieri negli ultimi nove anni era stato annullato dal Tar del Lazio. Sei mesi dopo, sempre il Tribunale amministrativo aveva fermato il concorso per 150 infermieri a Torino, dopo che in 2.500 avevano già superato le selezioni. E vogliamo parlare del concorsone del Comune di Roma? Bandito nel 2010, è stato sospeso per sette anni. Ma non per colpa del Tar, questa volta. Prima la defenestrazione del presidente di commissione, il capo dei vigili urbani. Poi la scoperta che le buste lasciano intravedere il contenuto. Infine, la seconda e la terza commissione dimissionarie. Un pasticciaccio non brutto, orribile. A giorni, se tutto andrà bene, ci saranno gli orali. Si entrerà in graduatoria senza la certezza dell’assunzione. C’è chi l’esame lo passa molto bene, ma poi riceve una busta che non conteneva la lettera d’incarico, ma l’annullamento delle prove. “Le prove non rispettano, in termini di eccessiva complessità, le indicazioni del bando per quanto attiene alle prove d’idoneità in esso contenute, con conseguenze violazione della lex specialis che il bando stesso costituisce”. Ci sono anche i costi, naturalmente: il 45% di chi affronta un concorso, studia almeno cinque mesi senza lavorare. “Costi così elevati possono scoraggiare i candidati più capaci e con migliori prospettive di mercato”. Il costo opportunità per il Paese, sopportato nel 2014 per 280mila partecipanti ai concorsi pubblici, ha superato il miliardo e 400 milioni. Vale a dire più di cento milioni al mese. E poi, spesso, i concorsi vengono ribaltati dai tribunali.

Il Paese dei concorsi infiniti: 100 milioni al mese di spesa e ricorsi sempre in agguato. Il concorso della Banca d'Italia per 30 posti di vice assistente. La corsa al posto fisso alimenta la fabbrica delle selezioni, che durano anni o finiscono al Tar come per Bankitalia, scrive Sergio Rizzo il 4 luglio 2017 su “La Repubblica”. Quanto grande sia la fame del posto fisso, nell'Italia dove la disoccupazione giovanile non si schioda dal 40 per cento o giù di lì, lo dice un numero: 393.413. Come se l'intera città di Bologna si fosse presentata in blocco per partecipare a soli due concorsi pubblici. Per la miseria di appena 830 stipendi: 800 da cancelliere, tanto da scatenare gli appetiti di 308.468 persone, e 30 vice-assistenti della Banca d'Italia, con 84.745 concorrenti. Ma la cifra sarebbe stata ancora più sorprendente se al concorso per quei posticini a via Nazionale non fossero stati esclusi in 76 mila diplomati. Ragion per cui sono già pronti i ricorsi per bloccare tutto. I sindacati sono sul piede di guerra perché sostengono che tagliar fuori chi non è laureato sarebbe discriminatorio. E su come potrebbe andare a finire non si possono nutrire particolari dubbi, se è vero che il Tar aveva già bocciato la regola del bando che poneva come limite minimo per l'ammissione un voto di laurea non inferiore a 105. Se c'è una regola, in questo Paese nel quale un articolo della Costituzione (97) prescrive che "agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede tramite concorso" è che non ce n'è uno nel quale fili tutto liscio. Prendete quello per i cancellieri. Per un mese la Fiera di Roma si è trasformata in un girone dantesco, finché il giudice del Lavoro di Firenze Stefania Carlucci ha intimato al ministero della Giustizia di riammettere la signora Mehillaj Orkida, un'albanese esclusa perché non in possesso della cittadinanza italiana. Ha fatto ricorso e il tribunale le ha dato ragione, considerando che la clausola dell'italianità in un concorso per cancellieri "non pare compatibile con la giurisprudenza comunitaria". Sospendendo, di conseguenza, la procedura degli esami "sino alla conclusione del giudizio di merito in modo da permettere ai cittadini comunitari e agli stranieri (...) di essere rimessi in termini per la presentazione delle domanda e partecipare con riserva al concorso". A luglio dello scorso anno era toccato invece al Tar del Lazio, come ha raccontato Marco Ruffolo sulle pagine del nostro Affari & Finanza, annullare il primo concorso regionale per 40 infermieri bandito negli ultimi nove anni. Sei mesi dopo gli esami per l'assunzione di 34 impiegati sono finiti sotto la mannaia del Tar dell'Umbria, mentre il Tar del Piemonte bloccava il concorso per 150 infermieri a Torino, dopo che in 2.500 avevano già superato le selezioni. Ma questo è niente rispetto a quello che è successo per il concorsone del Comune di Roma, con il quale si sarebbe dovuto fra l'altro rimpinguare di 300 unità il corpo dei vigili urbani della Capitale. Bandito nel 2010, è stato sospeso per sette anni. E qui, per una volta tanto, quella magistratura amministrativa che spesso e volentieri imprigiona il Paese con le sue decisioni (al punto che Romano Prodi si è schierato a un certo punto per la sua abolizione) non c'entra nulla. Prima la defenestrazione del presidente di commissione, il capo dei vigili urbani. Quindi la scoperta che le buste lasciavano intravedere il contenuto. Infine una seconda e una terza commissione dimissionarie. Insomma un pasticcio incredibile, che solo adesso pare avviato all'esito finale: a giorni, sembra, ecco gli orali. Per le assunzioni, poi, si vedrà. Perché una cosa è superare il concorso, un'altra è avere la certezza di essere assunti. A una signora di Pavia che l'esame l'aveva superato, e brillantemente, per l'assunzione alla locale Asl, è per esempio capitato di ricevere anziché la lettera d'incarico una comunicazione in cui si annunciava l'annullamento delle prove. Il motivo l'ha spiegato Luigi Ferrarella sul Corriere: le prove "non rispettano, in termini di eccessiva complessità, le indicazioni del bando per quanto attiene alle prove di idoneità in esso contenute, con conseguente violazione della lex specialis che il bando medesimo costituisce ". Le domande sono troppo difficili, quindi non vale: ci credereste? Per contro, procede invece senza intoppi il concorso per laureati in beni culturali bandito nell'estate del 2016 con un quesito sul materiale di cui sono composti i Bronzi di Riace con tre possibili soluzioni: a) legno; b) marmo); c) bronzo. Il fatto è, hanno spiegato gli studiosi Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucio Rizzica in un “Occasional paper” della Banca d'Italia, che il sistema dei concorsi italiani fa acqua da tutte le parti, fornendo un contributo fondamentale allo scadente livello della nostra burocrazia. Intanto "le caratteristiche strutturali del sistema di reclutamento non sembrano adeguatamente favorire l'ingresso dei candidati migliori". E poi i costi, non trascurabili. Il 45% di chi affronta un concorso studia almeno cinque mesi senza lavorare. Per poi finire magari invischiato in un groviglio inestricabile di ricorsi. Costi così elevati possono scoraggiare "i candidati più capaci e con migliori prospettive di mercato". Con il risultato di avvantaggiare "coloro che hanno più tempo da dedicare alla preparazione della prova, generalmente i non occupati. Nostre analisi", argomenta il dossier, "mostrano che la probabilità di superare un concorso dipende in maniera sostanziale da quest'ultima variabile piuttosto che dall'abilità del candidato". Non bastasse, le prove sono basate su quesiti nozionistici, facendo passare in secondo piano altre valutazioni importanti, quali per esempio le motivazioni personali. Si è calcolato che il "costo opportunità" per il Paese sopportato nel 2014 per 280 mila partecipanti ai concorsi pubblici abbia superato il miliardo e 400 milioni. Più di cento milioni al mese, e per trovarsi spesso e volentieri con un pugno di mosche in mano.

Miglioriamo i concorsi, non abbandoniamoli. Innanzitutto, bisogna fare, come nel Regno Unito, un calcolo annuale delle uscite per figure professionali e per territorio, nonché una verifica dei posti da coprire, in relazione agli obiettivi, scrive Sabino Cassese il 4 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Per 800 posti di cancelliere, 308.468 domande. Per 30 posti di vice assistente alla Banca d’Italia, 84.745 domande. Appena le procedure di concorso vengono avviate, decisioni di sospensione o di annullamento dei Tribunali amministrativi regionali. Costi amministrativi molto alti per lo svolgimento delle prove, una grande quantità di ore destinate dai concorrenti a memorizzare nozioni. Il sistema dei concorsi pubblici non funziona e va abbandonato? Dobbiamo modificare la norma costituzionale secondo la quale «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso»? Provo a spiegare perché il sistema dei concorsi vada conservato, mentre ne vanno modificate le regole di svolgimento. Nel 1946, i nostri costituenti erano preoccupati della imparzialità e della competenza degli impiegati pubblici. Avevano sotto gli occhi le nomine per meriti fascisti e una pubblica amministrazione spesso composta di personale poco qualificato, scelto privilegiando compagni di cordata, commilitoni, camerati. Si ispirarono, quindi, a due criteri. Il primo era quello della eguaglianza delle opportunità: se c’è un posto libero, questo non deve essere riservato a qualche privilegiato; si deve dare a tutti la opportunità di accedervi. Il secondo era quello della competenza: nella scelta, da fare in concorrenza, bisognava premiare i «capaci e meritevoli» (come dice un altro articolo della Costituzione). L’esigenza di evitare nepotismo e patronato politico, e quella di escludere gli incompetenti confluirono nel meccanismo del concorso, che assurse all’onore di principio costituzionale. Dopo la Costituzione, molte cose sono accadute. Si è cercato in ogni modo di aggirare il principio costituzionale, creando enti privati, assumendo precari poi stabilizzati (un’altra infornata è in corso), inventando l’ircocervo dei concorsi riservati (se sono riservati, non sono aperti a tutti, quindi non sono concorsi). Per evitare mezzucci diretti a favorire qualche concorrente, sono state ingessate le procedure di concorso, in modo che le commissioni debbono seguire binari rigidamente prefissati. Per assenza di intelligenza, le prove di concorso hanno seguito l’andazzo della peggiore scuola, richiedendo sforzi mnemonici, imponendo una preparazione sui manuali, glorificando il nozionismo, senza misurare invece la capacità di affrontare problemi, le doti morali, la tenacia e la perseveranza, le qualità nei rapporti con gli altri. A tutto questo si aggiunge ora la disoccupazione giovanile, specialmente quella dei laureati, e la scarsità di offerte di nuovi posti: di qui valanghe di domande. Se l’attuale modo di svolgimento dei concorsi fa acqua, si deve abbandonare il sistema di reclutamento mediante concorsi, dimenticare che tutti i cittadini sono eguali e debbono poter competere in condizioni di eguaglianza, rinunciare al sistema del merito? O non si deve, piuttosto, conservare il sistema, modificandone lo svolgimento? Faccio qualche esempio dei modi in cui si potrebbe migliorare lo svolgimento dei concorsi. Innanzitutto, fare, come nel Regno Unito, un calcolo annuale delle uscite per figure professionali e per territorio, nonché una verifica dei posti da coprire, in relazione agli obiettivi. In questo modo, non si fanno maxi-concorsi ogni decennio, ma concorsi mirati con cadenze regolari. Poi, come in Germania e in America, unificare le procedure con una specie di centrale per la provvista di personale. In terzo luogo, orientare e preparare al concorso: lo fanno, in Francia, Istituti e Centri di preparazione, dislocati in tutte le regioni, con classi preparatorie e anche con formazione a distanza. Quarto: prendere esempio dal sistema inglese di reclutamento per il «civil service», dove, come prova preliminare e selettiva, si forniscono «test» (e relative risposte) che consentono un «self assessment» o una «on line selection»: ci si mette alla prova da soli e, se non si è capaci, non ci si presenta alle prove. Quinto: non fare prove che copiano malamente esami universitari, ma valutare la formazione, l’esperienza, la capacità di risolvere problemi, le attitudini. Conseguentemente, nominare nelle commissioni di concorso psicologi e esperti di risorse umane. Da ultimo, moltiplicare i programmi di «internship», che consentono di fare «stages», mettono alla prova quotidianamente, facilitano una valutazione più ponderata nei concorsi. Questi sono solo alcuni esempi dei molti modi in cui il sistema della competizione aperta, fondata sul merito (questo vuol dire concorso) può essere svolta. Miglioriamo, dunque, i concorsi, non abbandoniamoli.

Ospedali senza medici, ma i giovani laureati sono costretti alla fuga. Anche quest‘anno quasi diecimila giovani medici resteranno fuori dalle scuole di specializzazione, costretti ad andare all’estero o a cambiare mestiere. Mentre nei nostri ospedali i pochi specialisti sono costretti a turni massacranti, scrive Lidia Baratta il 5 Luglio 2017 su "L'Inkiesta". I pronto soccorso sono allo stremo. I tempi di attesa massimi non vengono rispettati per mancanza di personale. Gli ospedali lamentano la carenza di specialisti. Eppure anche quest’anno circa diecimila giovani laureati in medicina verranno esclusi dalla formazione specialistica e non potranno lavorare. E più di un migliaio faranno le valigie e andranno a lavorare all’estero. Con uno spreco enorme di denaro, visto che per formare un medico spendiamo circa 150mila euro di soldi pubblici. Il ministero dell’Istruzione a metà maggio ha fatto sapere che il bando del concorso di ammissione alle specializzazioni per il 2017/2018 è stato rinviato. Con buona pace di chi aveva rinunciato già a un lavoro estivo. Bisognerà quindi aspettare la fine del mese di luglio o l’inizio di agosto per vedere qualcosa. E le prove saranno rimandate a ottobre. Con la conseguenza che aumenterà il numero dei candidati, che potrebbe arrivare – secondo il sindacato sanitario Anaao – anche a 16-17mila unità, per una stima di circa 7.700 posti disponibili, di cui circa 1.100 borse regionali destinate alla medicina generale. A conti fatti, oltre 9mila giovani medici, cioè quasi due su tre, saranno tagliati fuori da qualsiasi possibilità di formazione post laurea, bloccati in un “imbuto formativo”. E nelle scuole di specializzazione più ambite, dove il numero di partecipanti è maggiore, questo rapporto è destinato a essere ancora più alto. Mentre dalle regioni si chiede maggiore personale e gli ospedali soffrono la carenza di professionisti. Il fenomeno peggiora di anno in anno. Oltre ai neolaureati in medicina e chirurgia, 7.882 nel 2016 secondo i dati di Almalaurea, al concorso accedono i laureati di diverse sessioni a cavallo di due anni accademici diversi e anche tutti i medici abilitati che negli ultimi due o tre anni sono rimasti fuori dai concorsi. Nel 2016, per 6.133 posti per la specializzazione e circa 300 contratti regionali, i candidati erano 12mila, il doppio. Gli attuali 64mila studenti di medicina come media avranno a disposizione 38.178 posti in specialità in sei anni a partire dal 2016. Secondo una stima dell’Anaao, quindi oltre 28mila medici senza specializzazione saranno costretti a espatriare o a cambiare mestiere nei prossimi anni. Con casi limite come quello di Matera, dove nonostante 14 posti vuoti, ai concorsi non si presenta nessuno. Dopo aver passato il test di ingresso al corso di laurea, fatto una sessantina d’esami e l’esame di Stato, arrivi alla specializzazione e ti dicono: “C’è posto solo per la metà di voi, gli altri possono emigrare”. Tra chi esce dal sistema per ragioni d’età e chi si specializza c’è una differenza di 7-800 medici l’anno. «È assurdo che ci siano migliaia di medici che non possono proseguire la formazione e quindi non possono lavorare», dice Giorgio Raho, giovane medico pugliese, animatore della pagina Facebook “Riforma la medicina”, che nel 2015 propose all’allora ministro Maria Chiara Carrozza una proposta di riforma della laurea e del percorso post laurea. Poi il governo cadde e non se ne fece più niente. «Dopo aver passato il test di ingresso al corso di laurea, fatto una sessantina d’esami e l’esame di Stato, arrivi alla specializzazione e ti dicono: “C’è posto solo per la metà di voi, gli altri possono emigrare”». La pagina Facebook “Doctors in fuga” conta oltre 28.500 membri. Le richieste di consigli e aiuto dei giovani medici italini per trasferirsi altrove sono all’ordine del giorno. Tutto questo mentre nei nostri ospedali, tra blocco del turn over e i bilanci regionali contingentati, l’età media cresce ben oltre i 50 anni. E soprattutto nei reparti chirurgici e di medicina interna, si arriva a casi di 15 giorni di lavoro consecutivo, senza straordinari e notti pagate. Con conseguenze devastanti, come abbiamo più volte raccontato, sullo stato psicofisico degli operatori sanitari. L’ex ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha ridotto di un anno il percorso della formazione specialistica, aumentando di circa mille unità il numero delle borse di studio a disposizione nelle scuole di specializzazione tagliato in precedenza. Eppure i posti non bastano a coprire il fabbisogno regionale. E le cose andranno peggiorando. Secondo le previsioni dell’Anaao, nei prossimi dieci anni 47.248 medici dipendenti andranno in pensione senza essere del tutto rimpiazzati. Ed entro il 2023, 21.700 medici di medicina generale si ritireranno. Già oggi, tra chi esce dal sistema per ragioni d’età e chi si specializza c’è una differenza di 7-800 medici l’anno. Per fare un esempio, ogni anno vanno in pensione circa 650 pediatri, ma dalle scuole di specializzazione ne escono circa 300. Tra gli anestesisti, 800-900 vanno in pensione ogni anno, ma solo 550 si specializzano. Lasciando posti scoperti negli ospedali e nelle Asl. E non perché in Italia non ci siano medici. Le stime sulla disoccupazione tra i camici bianchi si aggirano tra le 10mila e le 16mila unità. Molti neolaureati restano alla porta, senza potersi specializzare, dividendosi tra i turni in guardia medica e le case di riposo. L’alternativa è andare all’estero. Nel 2014, 2.363 medici hanno fatto domanda per fuori dall’Italia, con un aumento del 600% in soli cinque anni. Circa un migliaio alla fine parte, andando a occupare le corsie di ospedali stranieri. Mentre da noi i reparti si svuotano. E i nostri medici, per coprire le carenze d’organico, fanno i doppi turni e si ammalano di burnout.

IL FASCINO DEL CONCORSO PUBBLICO E DEGLI ESAMI DI STATO (TRUCCATI).

L’eterno fascino del concorso. Palasport, sale da cinema, hangar, hotel, palestre, saloni delle fiere. Così migliaia di giovani inseguono il sogno di un impiego. Diecimila giovani per 14 posti da poliziotto a Milano, 1099 ragazze per un posto da infermiera a Cremona, scrive Dario Di Vico il 25 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Un giovane fotografo, Michele Borzoni, ha investito una buona quota del suo tempo per girare e ritrarre l’Italia dei concorsi. Le sue istantanee sono state pubblicate a Parigi nell’ambito del Festival de Circulation(s), una manifestazione che ospita il meglio della giovane fotografia europea. Dobbiamo essergli grati perché ci ha regalato uno spaccato di quell’Italia che, volente o nolente, insegue l’impiego nella funzione pubblica. Borzoni ci dice che in qualche maniera quello che era il sogno dei padri oggi si ripropone anche per i figli. Gli hotel, i palasport, i saloni delle fiere, le palestre, le sale spettacoli e persino gli hangar che Michele ha fotografato sono gremiti di ragazzi e ragazze — rigorosamente distanziati per evitare che possano copiare — che aspettano di staccare il loro biglietto della lotteria. Diecimila giovani per 14 posti da poliziotto a Milano, 2.813 concorrenti per 12 posti nelle scuole materne a Firenze, 238 ragazzi per un posto in un laboratorio medicale a Palermo. Con una calcolatrice si può stilare una classifica delle (scarse) probabilità di farcela e in testa nella graduatoria del miraggio c’è il posto da infermiera a Cremona per il quale si sono mobilitate 1.099 ragazze. Borzoni sostiene che questi esami sono «il tempio della burocrazia italiana» ed è difficile dargli torto. Non solo assomigliano alla più classica delle lotterie ma iscriversi non è nemmeno facile, e capita anche che chi va a sostenere la prova d’esame in realtà sia solo una quota parte di quanti, fiduciosi, prima si erano iscritti e poi hanno lasciato perdere. Si potrà obiettare che le foto di Borzoni non ci rivelano niente che già non sapessimo ma oggi non deve essere il tempo del cinismo. Lo zoccolo duro della disuguaglianza italiana sta lì, nei numeri di una disoccupazione giovanile tra le più alte d’Europa. Si tenta di aggredirla ma purtroppo la sproporzione tra i posti che si generano e quelli che sarebbero necessari è clamorosa. Le istantanee di Borzoni, dunque, ci invitano a non desistere. È una battaglia che dobbiamo continuare a combattere e non è concesso di arrendersi.

LA REPUBBLICA DEI BROCCHI NEL REGNO DELL'OMERTA' E DEL PRIVILEGIO.

Una buona parola per tutti. Da Andreotti a Giolitti le suppliche per posti e case, scrive Matteo Pucciareli il 20 marzo 2017 su "La Repubblica". "Il signor Paolo M., da Latina, ha in corso presso codesto ente una domanda di assunzione. È possibile accontentarlo?". Firmato, Giulio Andreotti. Oppure: "Mi consenta di segnalarle, per quanto riguarda le Istituzioni di diritto romano, il professor Emilio B.". Firmato, Aldo Moro. Ancora: "Ti unisco l'appunto relativo al signor Ignazio S. e ti prego di un particolare interessamento in suo favore". Firmato, Oscar Luigi Scalfaro. Linguaggio semplice, asciutto, diretto: le lettere su carta intestata e protocollate sono decine, alcune scritte a mano, tutte datate fra i primi anni '50 e metà degli anni '60. I mittenti sono deputati della Democrazia cristiana, dirigenti della Cisl, monsignori; i destinatari sono ministri, sottosegretari e dirigenti di aziende parastatali. Un ufficio di collocamento parallelo, la Prima Repubblica in tutta la sua "ingenuità", per certi versi: si chiedeva un alloggio popolare per tal famiglia, un aumento di stipendio per l'invalido di guerra, la revoca di un trasferimento per un padre di famiglia e così via. Tutti scrivono, chiedono "ogni possibile benevolenza" e i "possibili consentiti riguardi" ai propri interlocutori, affinché intercedano: Emilio Colombo, Francesco Cossiga, Ciriaco De Mita, Arnaldo Forlani, Antonio Gava, Giorgio La Pira, Giovanni Leone, Antonio Segni, don Luigi Sturzo, Paolo Emilio Taviani, Benigno Zaccagnini. Dc in maggioranza assoluta, come si vede. Tra i documenti una sola firma extra-scudocrociato: quella del socialista Antonio Giolitti. Le missive erano tutte tra i faldoni dell'Archivio di Stato e come siano arrivate fin qui, su queste pagine, è una storia nella storia: l'impiegato Dante S. venne dislocato agli uffici archivistici dell'Eur a inizio anni '80. Persona mite, politicamente moderata - figlio di emigranti emiliani che prima si trasferirono in Inghilterra, poi in Libia e solo dopo la guerra rientrarono in Italia, a Roma - e senza particolari fervori rivoluzionari, alla visione di quelle centinaia e centinaia di lettere di raccomandazione non la prese bene. Le trafugò, una dopo l'altra, con l'idea di farne dono al figlio, allora militante della sinistra extraparlamentare. Sperando che fosse lui, in qualche modo, a "vendicare" quell'ingiustizia. Quello spaccato di storia contemporanea è rimasto per 35 anni dentro uno sgabuzzino, gelosamente custodito.

Ogni comunicazione è una storia a sé. Il deputato fiorentino della sinistra dc Renato Cappugi scrive al collega Pietro Germani: "Ti unisco un promemoria riguardante un nostro carissimo amico dell'Azione cattolica, Dc, Acli, Sindacati liberi. Desidera essere riassunto presso l'Intendenza di Finanza di Firenze. Ti prego, con eccezionale interesse, di voler fare tutto quanto è in tuo potere a tal fine". Ma le cose evidentemente vanno male e due mesi dopo Cappugi riscrive a Germani, gli spiega che il suo elettore è amareggiato: "Rileva la fortuna, diciamo così, che purtroppo hanno quasi sempre i "compagni" ogni qual volta si trovano a competere con i nostri". Cappugi continua: "Si tratta di uno dei nostri a prova di bomba e, credi, fa male al cuore pensare che non sia possibile trovare il modo di metterlo a posto. Vedi, caro Germani, se mi dai un buon consiglio e se mi aiuti...".

La Cisl nel 1954 chiede a un deputato della Dc, commissario governativo all'Ente economico zootecnia, di non far pagare al sindacato le spese processuali di una causa intentata in passato (e persa) contro lo stesso ente: "Fu intentata a nostra insaputa dal vecchio segretario provinciale di Perugia. Sono certo che non mancherà il tuo interessamento", scrive il segretario generale aggiunto Bruno Storti. Un altro onorevole ancora, prega lo stesso destinatario che venga pagata con celerità la liquidazione "di un nostro bravo attivista che si è tanto adoperato nella campagna elettorale. Mi faresti cosa gradita se potessi assecondare il suo desiderio".

Nel 1962 il sottosegretario sardo Salvatore Mannironi scrive al presidente delle case degli impiegati statali Umberto Ortolani (poi diventano uomo della P2): "L'appuntato dei carabinieri Sebastiano R., domiciliato a Tempio Pausania, deve eseguire alcuni lavori indispensabili ai servizi igienici per una spesa prevista di 77mila lire. Le sarò grato se vorrà esaminare la possibilità di autorizzare detti lavori con spese a carico dell'istituto, trattandosi di una somma molto elevata per le limitate possibilità economiche del R.". Un altro ras della Dc calabrese, Riccardo Misasi, sottosegretario anche lui, comunica che "Francesco Z. ha avanzato domanda per ottenere in affitto un locale, possibilmente nel lotto II° delle scuole elementari, nella borgata di Torrespaccata, da adibire a bar".

Ci si interessa anche per motivazioni in apparenza minori. Il ministro Bernardo Mattarella, padre dell'attuale presidente della Repubblica, interpella Heros Cuzari, presidente dell'Ente zolfi italiani: "Con la tua cortese lettera mi hai comunicato la concessione di un sussidio straordinario di 15mila lire a favore del signor Ignazio A. ma l'Ufficio regionale di Palermo trasmetteva un vaglia cambiario di 10mila lire. Ti sarò grato se vorrai gentilmente chiarirmi i motivi della discordanza ". Talvolta le richieste sono pressanti. L'arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro si rivolge all'"illustrissimo commendatore" commissario dell'Ente zootecnia: perora la causa di Giorgio G., che vorrebbe essere assunto. Viene descritto come una persona di "ineccepibile moralità, di fini sentimenti, attivo, capace e laborioso, da me ben conosciuto perché da un anno dà la sua opera, animata di spirito caritatevole, volontariamente, presso la mia segreteria. Il poter vedere sistemato questo giovane sarebbe per me causa di molto contento". Il monsignore viene accontentato, ma con un impiego di soli tre mesi. Allora Lercaro riscrive: "Abuso della sua gentilezza se le chiedo che il G. sia trattenuto e riconfermato?". La sponsorizzazione non sortisce effetto, allora insiste con una ulteriore lettera: "Le sarò grato se vorrà benevolmente accogliere questa mia ulteriore umile richiesta e dar consistenza alle aspirazioni del G.". Allora finalmente G. viene assunto a tempo indeterminato alla Gestione centri latti di Bologna: "La prego di gradire il mio più devoto e profondo ossequio", ringrazia il cardinale.

Non è facile fare contenti tutti. Nel 1958 il senatore liberale Edoardo Battaglia quasi si sfoga con il principe Franco Lanza di Scalea, presidente dell'Ente zolfi: "Tu sai che io di richieste ne ho infinitamente assai e sono in grado di fornirti dall'usciere al segretario particolare più abile. Allora gradirei sapere quali dovrebbero essere le qualità della persona (almeno una) che potresti assumere".

La piaggeria trasuda dalle formule di saluto: "carissimo", "devoti saluti", "distintamente ossequio", "vivi ringraziamenti", "devotissimo", "obbligatissimo". Una tra tante suona perlomeno più originale: "tante affettuosità".

Il regno dell’omertà e del privilegio. Perché in Italia vincono i mediocri. Il nuovo libro di Sergio Rizzo, «La Repubblica dei Brocchi», denuncia i comportamenti senza vergogna della classe dirigente pubblica e privata, scrive Ferruccio De Bortoli l'1 novembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Il dominio esercitato dal ceto dirigente burocratico su un’Italia bendata che non è in grado di controllarlo. La Repubblica dei Brocchi di Sergio Rizzo (Feltrinelli) è un tagliente atto d’accusa nei confronti della classe dirigente italiana. Spietato. Non risparmia nessuno. Nemmeno i giornalisti. Nel leggerlo mi è venuto in mente, non solo per assonanza, un pamphlet pubblicato nella Francia d’inizio secolo scorso. La République des Camarades, ovvero dei compari, di Robert de Jouvenel, riproposto in Italia, qualche anno fa, a cura di Emanuele Bruzzone. Quando la democrazia deperisce nella ragnatela delle amicizie compiacenti, gli interessi particolari e le relazioni oscure. Ma il racconto giornalistico di Rizzo è così ricco di episodi di malcostume o di semplice incoerenza o stupidità da ridurre, nel confronto, lo scritto sui mali della Terza Repubblica francese alla mera fisiologia del potere. Nel caso italiano di normale c’è molto, troppo. La furbizia elevata a dote ostentata della vita sociale, la facilità con cui si violano le norme senza pagarne mai un dazio in termini di minore reputazione, la tendenza a sentirsi sempre vittime, imputando agli altri i mali del Paese. Al punto che lo straordinario saggio di Rizzo sul declino della classe dirigente (pubblica e privata, sia ben chiaro) italiana, poteva benissimo avere un altro titolo. I brocchi hanno talento. Sono inaffondabili. Sono esempi di successo. E a volte abbiamo la netta sensazione che, alla fine, vincano loro. Rizzo ha la freddezza del giornalista e commentatore d’inchiesta, attento al dettaglio, che non fa sconti, ma non è privo di speranza. Riconosce le tante qualità del Paese, le molte eccellenze, il capitale sociale della solidarietà e termina il suo libro con quelli che lui chiama piccoli consigli. Codici etici, per esempio, che non siano solo foglie di fico stese sul miope corporativismo italiano. Quello che fa dire ai tanti che si comportano bene: siamo tutti colleghi, dunque diamoci una mano. E chiudiamo un occhio, non si sa mai, prima o poi potrebbe accadere anche a noi. Un impegno autentico nel moralizzare la politica, magari attuando quell’articolo 49 della Costituzione sulla trasparenza e la democraticità della vita dei partiti. Oppure accogliendo, quando si formano le liste per le elezioni di qualsiasi natura, il «piccolo consiglio» di Gustavo Ghidini, storico fondatore del Movimento consumatori: dichiarare pendenze penali, situazione patrimoniale, interessi in conflitto. Proposta tanto semplice da essere caduta sempre nel vuoto. Del resto l’articolo 54 della Costituzione recita: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore». Sia l’articolo 49 sia il 54 della Costituzione del 1948 sono rimasti largamente inattuati. È giusto riformare, ma forse è anche doveroso attuare. Senza vergogna. Ecco il filo conduttore delle tante storie raccontate da Rizzo. A volte si rimane senza parole, potremmo persino dire ammirati, nel costatare l’immensa fantasia giuridica degli italiani. Che cosa non si fa per mantenere un vitalizio, per giustificare un privilegio, e persino per aggirare i risultati di un concorso. Come quello della Asl (oggi si chiamano Ats) di Pavia, vinto da un’unica candidata, evidentemente sgradita, e annullato perché le domande sono state ritenute «troppo difficili». Un’eccezione si trova sempre. Per far sì, ad esempio, che i dirigenti statali chiamati a ricoprire incarichi negli organi collegiali delle società pubbliche, siano pagati a dispetto della gratuità inizialmente prevista per legge. O consentire a un prefetto di assumere la carica di sindaco della sua città. La burocrazia è refrattaria ad essere giudicata (le resistenze alla pur lieve riforma Madia ne sono una prova). Rizzo ricorda un’indagine del 2014, secondo la quale tutti i dirigenti pubblici di prima fascia hanno avuto una valutazione non inferiore a nove su dieci. Tutti geni o tutti, in qualche modo, complici. Il sindacato non è da meno, specie quello nel pubblico impiego e nelle municipalizzate. All’Azienda trasporti di Roma è prevista la concessione, nel 2016, di 131 mila ore di agibilità sindacale, corrispondenti al lavoro di 82 persone, per un costo di 4,3 milioni. Il dopolavoro, cioè il sindacato, gestisce mense ed altri servizi. A costi d’affezione. Chi ha proposto di sostituire la mensa, costosa come un ristorante stellato, con i buoni pasto si è visto tagliare le gomme della sua auto. A proposito di gomme, quelle dei mezzi circolanti in città sono fornite da una società esterna gestita da un funzionario Atac in aspettativa. C’è posto per tutti, parenti e amici, meglio se di sindacalisti importanti. Il servizio, o quello che resta, per gli utenti, può aspettare. Non stupisce nessuno che un ex giudice della Corte costituzionale difenda contro lo Stato un condannato per truffa. Né che membri dell’Avvocatura si rivolgano al Tar contro la decisione del governo di mandarli in pensione a 70 (settanta!) anni, o che magistrati si rivolgano alla Corte costituzionale per contestare un taglio in busta paga. Certo, sono cittadini come gli altri. L’esempio, come servitori dello Stato, censurabile. La classe dirigente privata non è migliore di quella pubblica. Spesso persino peggiore. «Burocrazia, concorrenza inesistente, incarichi affidati sulla base di relazioni personali. Eccole qui — scrive Rizzo — le cause del degrado generale di certe professioni». Le vicende dei dopo terremoto sono assai significative per giudicare il ruolo, non sempre professionale, dei tecnici chiamati a fare le perizie. Rizzo ricorda che il cratere del sisma che colpì, nel 2002, il Molise riguardava 14 comuni. Aumentati in seguito a 83, ovvero tutti quelli della provincia di Campobasso. Tranne uno. Guardiaregia, il cui sindaco non aveva denunciato danni. E probabilmente non è passato come un custode della legalità. I troppi scandali bancari pongono un interrogativo sulla qualità e la moralità di diversi manager, consiglieri d’amministrazione, sindaci, revisori e sulla loro incapacità di vedere o denunciare pratiche sospette. E aprono uno squarcio — che Rizzo indaga in profondità — su una certa omertà territoriale, sull’orgoglio delle appartenenze che sconfina spesso in complicità. Anche la Confindustria, nel suo gigantismo rappresentativo, fa parte della Repubblica dei Brocchi. Emergono le figure dei professionisti delle associazioni, collezionisti d’incarichi. Un mondo che riproduce al proprio interno difetti che denuncia come inaccettabili per la politica e per il resto della società.

LA FINE DI UNA VITA FATTA DI BOCCIATURE.

La lettera di Michele che si è ucciso a trent'anni perchè stanco del precariato e di una vita fatta di rifiuti. La denuncia dei genitori: "Nostro figlio ucciso dal precariato, il suo grido simile ad altri che migliaia di giovani probabilmente pensano ogni giorno di fronte a una realtà che distrugge i sogni". Michele ha scritto: "Non posso passare il tempo a cercare di sopravvivere". Ecco il suo scritto-denuncia, scrive il 7 febbraio 2017 "Il Messaggero Veneto". Con questa lettera un trentenne friulano ha detto addio alla vita. Si è ucciso stanco del precariato professionale e accusa chi ha tradito la sua generazione, lasciandola senza prospettive. La lettera viene pubblicata per volontà dei genitori, perché questa denuncia non cada nel vuoto: «Di Michele - dice la madre - ricorderemo il suo gesto di ribellione estrema e il suo grido, simile ad altri che migliaia di altri giovani probabilmente pensano ogni giorno di fronte ad una realtà che distrugge i sogni».

“Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi. Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte. Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità. Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia. Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile. A quest’ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo. Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive. Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione. Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare. Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno. Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie. Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, io modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri. Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino. Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene. Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento. P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi. Ho resistito finché ho potuto”. Michele

VERONICA PADOAN ED IL RIBELLISMO DEI FIGLI DI PAPA’.

Il bamboccione antifascista di Giampaolo Rossi su “Il Giornale” il 9 febbraio 2017.

“Mamma, io esco a fare la rivoluzione!!” “Va bene, ma hai messo la maglia di lana?” Pensate sia un dialogo surreale? Non lo è. Nei giorni in cui in Italia scoppia la polemica per la figlia del ministro Padoan a capo dei cortei di clandestini e in America i nipotini di Soros mettono a ferro e fuoco Università e quartieri, picchiando, distruggendo e impedendo ai “fascisti trumpisti” di parlare “per difendere la democrazia” da un Presidente eletto democraticamente, in Germania il settimanale Bild pubblica i dati di una ricerca realizzata dal BfV (l’Ufficio Federale per la Protezione della Costituzione) uno degli organi dell’intelligence tedesca. La ricerca riguarda i reati a sfondo politico commessi a Berlino nel periodo 2009-2013, città dove la violenza politica negli ultimi anni è salita vertiginosamente; in tutto 1523 reati, la maggior parte dei quali compiuti dall’estrema sinistra.

“Papà scusa, mi dai la paghetta che devo comprarmi una molotov?” “Tieni ma non spenderti tutto come tuo solito!”. La ricerca del BfV traccia un identikit socio-antropologico dell’estremista di sinistra colpevole di reati politici; e il dato più eclatante (e più divertente) è che il 92% di loro vive ancora con mamma e papà. Si, avete capito bene: i campioni della rivoluzione, gli eroici antifascisti, i nuovi partigiani rimangono inguaribili mammoni. Sembrano cattivi, spietati, ideologicamente motivati, ma sotto le loro tute nere, i cappucci e la kefiah, batte “nu piezz’ ‘e core”; perché loro, tra un sampietrino e una spranga, uno slogan e una bandiera rossa, non schiodano dall’uscio domestico e si divertono a fare la rivoluzione con i soldi di papà. Predicano di abbattere le frontiere delle nazioni (retaggi borghesi e imperialisti) per accogliere immigrati e clandestini ma si tengono bene alzate quelle di casa propria. Secondo la ricerca, l’identikit del bamboccione antifascista germanico colpevole di reati politici è questo: maschio (84%), di età compresa tra i 18 e 29 anni (72%), studente o disoccupato (uno su tre), con istruzione bassa (34% scuola media, 29% diploma). I reati commessi dal bamboccione antifascista sono violenza, aggressione, incendio doloso, resistenza a Pubblico ufficiale; più raro il tentato omicidio. Il suo obiettivo sono per lo più persone fisiche (60%), prevalentemente poliziotti ma anche un 15% di avversari di destra.

“Mamma esco, vado a spaccare la testa ad un nemico del proletariato”. “Va bene, ma ricordati di prendere il latte quando rientri, sennò domani niente colazione!” Il bamboccione antifascista è una figura ancora più ridicola del radical-chic; è la sua involuzione antropologica. È il prodotto narrativo di una società che trasferisce la noia nella politica. Il bamboccione è carico di odio per il mondo perché incolpa il mondo del proprio fallimento; è un walking dead che si muove in gruppo perché da solo non ha alcuna consapevolezza di sé: in pratica è solo un nickname. Se il fighetto radical chic è un dandy ideologico, ricco e ipocrita e cattivo che copre con l’odio ideologico il senso di colpa per il suo benessere (di cui spesso non ha alcun merito), il bamboccione antifascista è il sottoprodotto di una modernità neanche liquida ma liquefatta. Mamma e papà non rappresentano il valore della famiglia, il legame fondante di un ordine naturale, ma solo l’area di parcheggio tra la Play Station e la rivoluzione. Tra il bamboccione di Berlino, lo studentello intollerante dell’Università liberal americana, il “rivoluzionario al cachemire” del Mamiani e la figlia di un ministro che guida i cortei di clandestini, si trova le stesse ridicola contraddizione: “Ci chiamano banditi, ci chiamano teppisti, ieri partigiani, oggi antifascisti”. E figli di papà…

La Veronica di Padoan, scrive il 24/08/2016 Massimo Gramellini su "La Stampa”. Tra gli indignati di professione c’è chi si è molto stupito che la figlia del ministro Padoan sia scesa in piazza armata di megafono contro la pigrizia del governo nella lotta al caporalato. Dove andremo a finire con questi ragazzi ribelli, signora mia. Che se poi hai il privilegio di avere un padre ministro, non faresti prima a protestargli addosso mentre addenta il cornetto della colazione? Senza contare che è tipico dei bambocci viziati della borghesia di sinistra abbracciare la causa esotica dei migranti sfruttati nelle campagne anziché solidarizzare con la nonnina di razza bianca che non arriva a fine mese. Queste le gocce di saggezza che grondavano dal web e da certe prime pagine vergate da campioni della coerenza intellettuale sempre pronti a eccitarsi appena scorgono un sospetto di contraddizione. A noi del reparto Ingenui ha invece colpito che come luogo di villeggiatura ferragostana la figlia di un ministro abbia preferito il cortile della prefettura di Foggia alle spiagge di Ibiza (o di Capalbio, dai). E che ci sia ancora qualcuno disposto a battersi per difendere relitti di un’antica civiltà come il rispetto dei contratti di lavoro. Se fossi Padoan, sarei orgoglioso di averle trasmesso certi valori. Qualcuno si scandalizzerà che la figlia di un ministro sia di sinistra. Ma a vent’anni succede e nel caso di Padoan pare lo sia stato persino lui, addirittura fino a non molto tempo fa.

La figlia di Padoan in piazza per i profughi con i centri sociali. L'agitatrice di immigrati è Veronica, pupilla di quel ministro dell'Economia che ha sempre difeso a spada tratta quei circa 4 miliardi di spesa pubblica che l'Italia dedica all'accoglienza dei richiedenti asilo, scrive l'8/02/2017 "Diario del web". Sembra assurdo, ma c'è una figlia di un ministro che è scesa in piazza a fianco dei centri sociali per manifestare contro le politiche sull'immigrazione del governo Gentiloni, considerate troppo restrittive. La cosa si fa ancora più assurda quando si scopre che l'agitatrice di profughi è Veronica Padoan, pupilla di quel Pier Carlo che ha sempre difeso a spada tratta quei circa 4 miliardi di spesa pubblica che l'Italia dedica all'accoglienza dei richiedenti asilo. Veronica è stata immortalata in un video che documenta la protesta dei clandestini che vivono nella tendopoli abusiva di San Ferdinando a Rosarno: lei è lì fra i promotori di quel corteo organizzato senza preavvisi fra le vie del paese, che con Rosarno, ospita il maggior numero di immigrati della provincia di Reggio Calabria. E' stata proprio la figlia di Padoan a guidare una delegazione che ha incontrato le istituzioni locali per avanzare le solite richieste retoriche: «Documenti subito», «Una casa e un lavoro per tutti», «Via le frontiere». Schiaffi in faccia ai residenti di quella sfortunata provincia che devono affrontare oltre a una cronica mancanza di lavoro anche servizi allo sbando, dalla sanità ai trasporti passando per l'assistenza sociale. La tendopoli di San Fernandino poi ha aggravato la situazione, portando in quel lembo di Calabria spaccio, prostituzione, degrado, il campo è un ammasso di baracche di fortuna dove l'immondizia viene smaltita con roghi in mezzo ai giacigli, e ha abbassato i diritti dei lavoratori più umili, con il racket del caporalato che si è sempre più ingrassato.

La figlia di Padoan guida la rivolta dei clandestini (insieme ai centri sociali). Le condizioni delle tendopoli sono al limite del disumano. E monta la rabbia degli italiani, scrive Michel Dessì, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". È Veronica Padoan, figlia del Ministro dell'Economia, che guida il corteo di protesta organizzato assieme agli immigrati «sans papier» della tendopoli abusiva di San Ferdinando, il Comune della provincia di Reggio Calabria che, con Rosarno, ospita il maggior numero di africani e mediorientali, quasi tutti clandestini e senza documenti, fra quelli arrivati in gommone fino alle scalette delle navi della nostra Marina Militare. In molti si sono chiesti cosa ci facesse, fra tanti irregolari, la rampolla di un rappresentante del governo italiano, ma la domanda è rimasta senza risposta. Veronica Padoan, la giovane accanita manifestante, protetta dai suoi commilitoni del collettivo «Campagna in Lotta», era quasi irriconoscibile, nascosta dal cappuccio del suo giaccone. Una cosa è certa: è assieme a lei che un gruppo di immigrati è entrato a Palazzo per incontrare le istituzioni. Il tutto è accaduto nelle prime ore del giorno: i cittadini del piccolo comune pianigiano, usciti di casa per le quotidiane necessità, si sono trovati davanti un corteo di protesta organizzato, come spesso accade, senza alcun preavviso, dai centri sociali e dai più facinorosi tra gli ospiti della tendopoli. A preoccupare i sanferdinandesi, i toni sostenuti delle ormai arcinote richieste: «Documenti subito», «migliori trattamenti», «case e lavoro». Considerando le condizioni precarie di vita (sanità al collasso, trasporti scadenti, servizi sociali inesistenti) e la mancanza di lavoro anche per i lavoratori calabresi (non bisogna dimenticare che San Ferdinando è, assieme a Gioia Tauro e Rosarno, uno dei tre Comuni sul cui territorio insiste il porto. Così come non si deve dimenticare che proprio in quel porto si potrebbe consumare, a breve, una delle più gravi tragedie del lavoro degli ultimi anni: il licenziamento di oltre 400 lavoratori, paventato già parecchie volte negli ultimi mesi, le richieste degli stranieri risultano essere quasi fuori luogo. In realtà, la condizione di vita degli immigrati nelle tendopoli di San Ferdinando, è al limite del disumano. Capanne costruite con pali e legni di fortuna, coperte con teli di plastica, cartoni e cartelloni stradali, senza servizi igienici, immerse in dune di spazzatura che viene, ciclicamente, bruciata, sprigionando gas mefitici e dannosi alla salute di tutti. Promiscuità, uso e spaccio di sostanze stupefacenti, prostituzione e sfruttamento, caporalato e continui atti di violenza. A volte sedati dall'intervento delle Forze dell'Ordine, invitate ad intervenire dagli stessi immigrati; ma, molto spesso, finiti male, perché risolti senza l'intervento della Legge e regolamentati da patti tribali incomprensibili dalla Società Civile. La convivenza coi locali sta diventando, di giorno in giorno, sempre più difficile. E non solo per i problemi legati all'igiene e al malaffare: la rabbia delle famiglie italiane poggia su critiche pesanti anche alle istituzioni che non sono riuscite, in questi anni di immigrazione incontrollata, a difendere decenni di lotte sociali a tutela dei diritti dei lavoratori. In queste contrade, c'è chi, come Giuseppe Lavorato, è morto nel difendere i braccianti e le loro fatiche. E, dunque, sembra un ritorno ad un medioevo economico, la paga quotidiana a 25 euro per tutti, bianchi e neri, considerando l'eccessiva richiesta di lavoro anche sottopagato. La polveriera Piana di Gioia Tauro potrebbe esplodere da un momento all'altro. Come avvenne nel 2010. Anche per colpa di qualche «studentello» fricchettone che pensa di poter raccattare qualche minuto di celebrità a danno di tanti, italiani e non, che combattono ogni giorno contro il mostro della sopravvivenza.

La polizia contro la figlia di Padoan: "Il ministro prenda le distanze da questa vergogna". "E’ dannosissimo cavalcare l'emergenza immigrazione con il populismo di piazza. La figlia del ministro dovrebbe saperlo bene", scrive Michel Dessì, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". Dopo le immagini da noi pubblicate, che ritraggono la figlia del Ministro dell’Economia al fianco degli extracomunitari in protesta, scoppia la polemica. “Sarebbe bello vedere una donna così vicina al mondo istituzionale e partitico fare un corteo pro forze dell'ordine. Soprattutto in una regione come la Calabria, dove lo Stato è in guerra contro l'anti stato.” Dichiara al Giornale.it Giuseppe Brugnano, segretario regionale del Coisp Calabria. Mentre i carabinieri e la polizia sono impegnati quotidianamente a mantenere l’ordine e, soprattutto, la calma all’interno della grande tendopoli c’è chi fomenta l’odio organizzando manifestazioni di piazza. “E’ inaccettabile che i corrispondenti di Radio Onda Rossa, “fratelli” del collettivo “Campagna in lotta”, di cui fa parte proprio Veronica Padoan, apostrofino in diretta radiofonica gli agenti di polizia in servizio per mantenere l’ordine pubblico come “sbirri”. E’ dannosissimo cavalcare l'emergenza immigrazione con il populismo di piazza. La figlia del ministro dovrebbe saperlo bene. Ogni volta che gli agenti entrano in quel campo abusivo rischiano la vita. Le risse sono all’ordine del giorno. Come dimenticare i tragici fatti di qualche mese fa dove, un carabiniere, intervenuto per sedare una rissa fra immigrati, è stato ferito al viso e, per legittima difesa, ha sparato uccidendo un migrante. Dobbiamo evitare che si ripeta una tragedia del genere. Veronica Padoan si vergogni! Auspichiamo che il padre, il ministro Padoan, prenda ufficialmente le distanze da questo mondo in cui gravita la figlia.” Conclude Brugnano. Gli oltre duemila immigrati che vivono nel ghetto di San Ferdinando chiedono documenti e, soprattutto, una nuova tendopoli. Già promessa mesi fa dalla regione Calabria, la quale ha stanziato 300 mila euro. Ma tutto è fermo.

Veronica Padoan: "Questa non è giustizia". E la figlia del ministro attacca: "Se il governo non ci ascolta porteremo la nostra protesta fino a Roma. La nuova legge aiuta l'illegalità", scrive Giuliano Foschini su "La Repubblica" il 23 agosto 2016. Scusi, ma davvero lei è la figlia del ministro Padoan? "Se permettete, non dovrebbe essere importante chi sono, ma quello che dico". Fuori dalla Prefettura di Foggia una decina di ragazzi e ragazze, italiani e migranti, protestano contro il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, i parlamentari, i rappresentanti della Prefettura e dei sindacati, che stanno discutendo della nuova legge sul caporalato. Con il megafono in mano c'è Veronica Padoan, figlia del ministro dell'Economia, Piercarlo. "Caro ministro dell'ingiustizia... ", comincia così, megafono in mano, uno dei messaggi che lancia a Orlando mentre, insieme ai compagni, grida: "Assassini in giacca e cravatta, assassini con la divisa".

Sono anni che chiedete una nuova legge sui braccianti. Ora quella legge è pronta, voluta da questo governo. Perché siete qui a protestare?

"Perché non è certo quello che serve. L'unico strumento reale per cambiare le cose sono i contratti nazionali di lavoro e gli accordi provinciali: sono l'unica maniera, seppur minima, per eliminare lo sfruttamento o parte di esso".

Che significa?

"Non inserire la questione del trasporto e dell'abitazione all'interno dei contratti significa regalare l'illegalità ai caporali. E questi signori lo sanno bene. Sanno che gli strumenti per cambiare le cose sono proprio quei contratti che loro hanno firmato. Sanno che la legalità del territorio e del lavoro in agricoltura passa attraverso la legalità di chi ci lavora. È una storia così banale, così triste, così vera".

Ma davvero lei è la figlia del ministro dell'Economia? Ne ha parlato con suo padre?

Veronica prende in mano il megafono. "Ministro Orlando, ci vediamo a Roma, perché se non ci ascoltate dobbiamo andare da un'altra parte". Poi, mano verso la Prefettura, il coro: "Questo palazzo non serve a un ca...".

Veronica Padoan e gli eredi ribelli dei politici, scrive Francesca Buonfiglioli il 23 agosto 2016. Da Marco Donat-Cattin fino alla figlia di Padoan. Passando per Delrio junior. Quando l'erede del politico è scomodo. O si schiera contro le istituzioni. «Se permettete, non dovrebbe essere importante chi sono ma quello che dico», ha detto secca Veronica Padoan, figlia del ministro dell'Economia, intercettata durante una manifestazione contro il caporalato e le condizioni subumane dei lavoratori del ghetto di Rignano garganico. Megafono alla mano ha minacciato: «Ministro Orlando, ci vediamo a Roma, perché se non ci ascoltate dobbiamo andare da un’altra parte». E poi, indicando il Palazzo della Prefettura, si è unita al coro in rima baciata: «Questo palazzo non serve a un ca...». Veronica Padoan è ricercatrice presso l'Ires, l'istituto di ricerche economico-sociali della Cgil, e da anni si occupa di tematiche legate all'immigrazione e al mercato del lavoro. «Ha collaborato con numerosi istituti di ricerca e istituzioni», si legge in un suo stringatissimo cv pubblicato anni fa da Social Europe, una casa editrice digitale londinese, «tra cui l'Anci, l'ufficio statistico del Comune di Roma, l'Iprs (Istituto psicoanalitico per le ricerche sociali) e l'Osservatorio sull'immigrazione dell'Ires».

Decisamente una strada diversa da quella intrapresa dalla sorella Eleonora che dal primo luglio 2015 è dipendente a tempo indeterminato di Cassa depositi e prestiti. Contratto arrivato senza concorso perché la Cdp non rientra nella Pa, ma «a seguito di una procedura di job posting iniziata nel novembre del 2014» e «volta a valorizzare professionalità interne al gruppo». E infatti Eleonora lavorava come economista alla Sace, controllata dalla Cassa depositi e prestiti.

Veronica Padoan, però, non è certo la prima né l'unica figlia ribelle di un politico o di un rappresentante delle istituzioni.

Donat-Cattin e Prima Linea. A metà degli Anni 70 Marco Donat-Cattin, figlio del noto Carlo esponente della sinistra sociale della Dc, tra i fondatori della Cisl e pluriministro, prese parte alla costituzione di Prima Linea. Con il nome di Comandante Alberto divenne uno dei leader dell'organizzazione terroristica. Identificato dalla polizia nel 1980 grazie alla testimonianza dell'ex compagno Roberto Sandalo, riuscì a riparare in Francia, ma venne estradato in Italia l'anno dopo. Lo scandalo travolse il padre che si dimise da ogni incarico di partito prendendosi una pausa dalla vita politica e pure l'allora presidente del Consiglio Francesco Cossiga accusato in un primo momento di aver agevolato la fuga del terrorista avvertendo il padre Carlo che il figlio era ricercato. Dissociatosi da Prima Linea, Donat-Cattin jr beneficiò della riduzione della pena ottenendo gli arresti domiciliari nel 1985. Tre anni dopo morì in un incidente stradale.

Tommaso Cacciari. Tra le calli di Venezia, invece, si consuma da anni la querelle dei Cacciari. A dare grattacapi a Massimo, ex sindaco della Serenissima, è stato il nipote Tommaso no global e tra i leader dei centri sociali veneziani e figlio di Paolo, fratello del filosofo ed ex deputato di Rifondazione. I sabotaggi al Mose e alcuni atti dimostrativi tra Venezia e Milano sono costati a «Cacciari il Giovane» (copyright Giancarlo Galan) grane giudiziarie. Nonché le reprimende dello zio che a più riprese aveva condannato le modalità di lotta del nipote. Ex «portiere di notte», su Twitter oggi si definisce «attivista del laboratorio occupato Morion e del Comitato NoGrandiNavi - NoMose, antifascista».  Insomma, le barricate, nonostante gli anni che passano, stanno ancora in piedi.

Michele Delrio. Tornando ai figli di ministri, pure in quel di Reggio Emilia Michele Delrio, detto Billo, uno dei nove figli dell'ex sindaco e ministro, decise di abbandonare il politically correct e attaccare su Facebook il governo Letta di cui suo padre era stato responsabile delle Autonomie regionali. «Sfido chiunque a dirmi un provvedimento a lungo termine che abbia approvato questo governo», aveva tuonato il giovane arbitro di calcio nel febbraio 2014, pochi giorni prima della caduta dell'esecutivo. «In 10 mesi nulla è stato fatto in tema di lavoro, oltre a rifinanziamento a cassa integrati. Pasticcio sull’Imu, pasticcio su Bankitalia, pasticcio su decreto carceri. Al Paese non serve un eroe ma un governo, che possibilmente governi e non punti a sopravvivere». Un'uscita da cartellino giallo per alcuni, ma che Michele non rinnegò: «Dico quel che penso indipendentemente da mio padre», commentò chiudendo la questione. A dirla tutta, però, Delrio jr un suo eroe lo aveva già e da tempo visto che nel 2012, appena 20enne, aveva creato un coordinamento cittadino per appoggiare Matteo Renzi alla primarie. Annunciando la nascita del gruppo, spiegò sempre sul social con entusiasmo: «Siamo un gruppo di amici, di ragazzi che non si rassegnano all’idea di dover consegnare la politica ai disonesti. Il nostro gruppo si chiama “Adesso!! Kairos” e vogliamo dare voce a chi non ha più la forza di alzarla e dare dignità a coloro che l'hanno persa. Matteo Renzi rappresenta una ventata di cambiamento, di politica fatta dal basso, di quella politica che si sporca le mani lavorando e sudando la fiducia del popolo. Abbiamo voglia prima di tutto di ricominciare a sognare, di tornare ad impegnarci, a credere in qualcosa e non in qualcuno». Endorsement che anticipò addirittura quello del padre. 

Figli ribelli, contro il sistema, contro lo Stato o contro il governo. Ma nulla in confronto a chi il parricidio lo organizzò per davvero. O almeno così racconta la storia.  Nel 2 a.C., Giulia Maggiore, unica figlia naturale di Augusto e moglie di Tiberio, fu arrestata con l'accusa di adulterio e tradimento per aver congiurato contro suo padre. Dopo l'esilio a Ventotene, morì forse di stenti a Reggio Calabria. Il rimorso non abbandonò mai Augusto, che parlando della figlia si narra prendesse a prestito le parole dell'Iliade: «Vorrei essere senza moglie, o essere morto senza figli».

La politica sfasciafamiglie. Dalla figlia di Padoan, occhiali da sole e megafono, che protesta contro i "giochini del governo", al figlio diciottenne di Yoram Gutgeld (consigliere economico di Matteo Renzi) in piazza contro il Jobs Act mentre suo padre elogia le riforme in un’intervista sul Financial Times. Il privato è dibattito, scrive Annalena Benini il 24 Agosto 2016 su “Il Foglio”. Veronica Padoan, figlia del ministro dell’Economia, ha protestato contro “i giochini” del governo. Occhiali da sole, capelli sciolti e megafono, ha manifestato pacificamente con il suo gruppo di attivisti davanti alla prefettura di Foggia, in occasione della visita del ministro della Giustizia Andrea Orlando (“bene, abbiamo l’interlocutore adatto”, ha detto con sarcasmo al megafono Veronica Padoan quando il ministro è arrivato). La questione è quella del lavoro nelle campagne dei braccianti stagionali, non solo extracomunitari, con le baraccopoli fatiscenti e abusive, il caporalato, migliaia di persone sfruttate e sottopagate, niente docce, niente tutele. E’ una battaglia che Veronica Padoan combatte da molto prima che suo padre diventasse ministro del governo Renzi, è qualcosa che attraversa la famiglia, i legami personali, il sangue, e ha bisogno di affermarsi anche controvento, come (ma in modo più evidente e serio) nei pranzi della domenica in cui non siamo mai d’accordo con nostra madre, nostro padre, i figli, sui destini del mondo, sui modi per salvarlo, e anche su chi è meglio votare. Veronica Padoan parla, accesa e severa, dei “signori del palazzo” e dei giochini del governo, anche se in questo governo c’è suo padre, e rivela l’umanissima, vitale tradizione del dissidio politico famigliare, anche doloroso, anche difficile da sopportare, che non viene pacificato da un ruolo importante né dalla fiducia personale. Si diventa adulti anche per contrarietà, si cerca la differenza, il conflitto, l’autonomia. Mai come mio padre, penserà forse il figlio di Yoram Gutgeld (consigliere economico di Matteo Renzi) che a diciotto anni, da presidente del Movimento studentesco milanese, ha protestato in piazza contro il Jobs Act e contro l’ingresso dei privati nella scuola pubblica, mentre suo padre elogiava le riforme in un’intervista al Financial Times. Padri e figli, mariti e mogli, litigano per la politica da sempre (la compagna di Matteo Orfini, madre dei suoi figli, ha raccontato lui stesso, “dà ragione a chi fa opposizione a noi, lei è oltre il Pd”) e in queste discussioni, in questi contrasti, in questo darsi torto, c’è anche il gusto di non essere mai d’accordo, di cercare di convincere l’altro, senza riuscirci quasi mai, perfino divertendosi a battere i pugni sul tavolo, a rincorrersi in bagno per continuare a litigare agitando fogli di giornale, citando a memoria stralci di talk-show notturni, anche negando il like all’ultimo severissimo giudizio politico postato su Facebook. Ci sono storie più dolorose: Giovanni Amendola e suo figlio Giorgio discutevano perché il padre era antifascista ma liberale e il figlio antifascista ma attratto dal comunismo (aderì al Pci dopo la morte del padre), ma non è immaginabile una riunione di famiglia, una cena di Natale in cui, al primo accenno alla politica, alla Costituzione, alle riforme, alla scuola, nessun parente cominci ad agitarsi sulla sedia, a sbuffare, a diventare rosso per la rabbia, a scuotere la testa con aria sarcastica. Ci si calma, di solito, quando qualcuno di molto saggio grida, dalla cucina: chi vuole un caffè?

Quella lunga lista di figli di papà che giocano a rinnegare i genitori. Veronica Padoan non è sola, scrive il 24 Agosto 2016 “Il Tempo”. Dall’altro ieri Veronica Padoan ha aggiunto un’altra pagina all’eterno diario dello scontro figli-genitori. Ordinario e fisiologico in tutte le famiglie, diventa suggestivo, e vagamente retorico, quando tra le parti opposte della barricata si piazzano uomini politici - e di governo- con la relativa progenie. Così la rampolla di Piercarlo, ministro dell’economia, è scesa in piazza a Foggia con tanto di megafono manifestando contro la visita di un collega di suo padre, il Guardasigilli Andrea Orlando, perorando la causa dei braccianti extracomunitari stagionali. Non vi è traccia, al momento, di reazioni pubbliche dell’augusto genitore. Al contrario di quanto fece, nel 2014, l’allora vice ministro agli Esteri Lapo Pistelli, quando il figlio liceale scese in piazza in una di quelle tradizionali manifestazioni contro le politiche del governo (tocca un po’ a tutti) sulla scuola. Pistelli senior la prese con ironia: «La prossima volta parliamone a cena a casa», scrisse sul suo profilo Facebook. Crisi familiare sventata dunque. Più complessa fu invece l’esperienza di Paolo Guzzanti, quando oltre ad essere editorialista del Giornale, nel 2001 fu eletto senatore con Forza Italia. Erano gli anni di girotondi, dell’«editto bulgaro», del mondo della cultura di sinistra lancia in resta contro Berlusconi. In prima linea si distingueva Sabina Guzzanti, regista e attrice figlia di Paolo. Suo padre le scrisse una lettera aperta, cercando di spiegarle la vera natura del berlusconismo. Lei le rispose con una mail privata in cui lo accusava, rivelò lui con comprensibile amarezza, di far parte «di un’accolita di delinquenti», perchè «Forza Italia e la Casa delle Libertà sono sinonimo di mafia, razzismo, fascismo, antidemocrazia». Può capitare, poi, che tra il padre politico e il figlio si incunei un certo ribellismo tipico dell’età, foriero di imbarazzi per il ruolo del genitore. Pare che, negli ultimi tempi, Barack Obama sia alle prese con le intemperanze festaiole della figlia Malia, ormai maggiorenne, paparazzata a fumare quel che ha tutta l’idea di essere uno spinello. Agli annali sono anche i rapporti burrascosi che ci furono tra George H. Bush e suo figlio, il discolo George W. Entrambi sarebbero diventati rispettivamente il 41esimo e il 43 esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Ma nel 1973 non lo sapevano e così ecco un adirato George senior, allora presidente del Partito Repubblicano, accogliere sulla porta di casa il figlio ubriaco dopo una notte brava che lo voleva prendere a pugni. Ben più drammatiche furono alcune vicende di casa nostra. Carlo Donatt Cattin, esponente e uomo di governo diccì a cavallo tra i ’70 e gli anni ’80, ebbe la propria carriera politica compromessa dalla scelta compiuta da suo figlio Marco di abbracciare la lotta armata, nella schiera di Prima Linea, il gruppo guidato da Sergio Segio. Marco, negli anni, si dissociò dal percorso terroristico, ma poco dopo la vita gli presentò il conto più amaro, e morì investito dopo che si era fermato a soccorrere alcuni automobilisti coinvolti in un tamponamento. Prima di Donatt Cattin, anche Attilio Piccioni, ministro democristiano negli anni ’50, ebbe guai per via del figlio. Piero, compositore, fu infatti coinvolto nello scandalo Wilma Montesi, una ragazza trovata morta sul litorale di Tor Vajanica; dietro quel cadavere si delineava uno scenario di scandali nella Roma post bellica, in una mondanità sfrenata ribollente di orge e droga a fiumi. Piccioni Jr alla fine fu scagionato, ma suo padre nel frattempo si era dovuto dimettere da ministro degli Esteri. Ai giorni nostri, poi, ci sono alcuni casi più o meno noti di ribellismi elettorali. Due anni fa, a San Giorgio di Piano, in provincia di Bologna, il figlio del locale segretario Pd si è candidato al Comune con i Cinque Stelle, risultando eletto. Poi c’è anche il caso contrario, quando è il padre a ribellarsi al figlio. È il caso di Giambattista Borgonzoni, padre di Lucia, candidata leghista a sindaco di Bologna che è riuscita ad arrivare al secondo turno. Lui, moderato di sinistra, tessé pubblicamente le lodi alla figlia ma annunciò che no, la Lega non l’avrebbe mai votata. Perché i figli, quando ci si mettono sono spietati. Ma anche i genitori…

Di padre in figlia: italiani ultimo pensiero. Veronica Padoan, ricercatrice Cgil e pargola del ministro, alla testa di una protesta dei migranti, scrive “Il Giornale d’Italia” il 23/08/2016. C’era una pasionaria, ad attendere il ministro Andrea Orlando ieri a Foggia. Arrabbiata, per dire un eufemismo, nera: nera come gli occhiali da sole e come la quindicina di manifestanti dietro alle sue spalle. Capeggia la rivolta di “Campagna in lotta”, vorrebbe veder chiuso il “ghetto” di Rignano Garganico dove migranti economici (quelli che una volta sarebbero stati definiti semplicemente clandestini: ma si ha la sensazione che dirlo oggi siamo ormai vietato) vivono nelle baracche in attesa di lavorare nei campi e si chiama Veronica Padoan. Già, come il ministro dell’Economia. Di cui è, d’altronde, figlia. “È dal 2014 che la Giunta Vendola aveva millantato di smantellare il ghetto. Il problema non sono queste micro-comunità – il suo grido – il problema è che non si organizza effettivamente il lavoro nei campi”. E sfoggia, nelle interviste sotto la Prefettura, grande cognizione del tema. D’altronde è una ricercatrice dell’Ires, l’istituto di ricerca sociale fondato dalla Cgil e oggi sotto l’egida della Fondazione Di Vittorio. È anche convincente, quanto meno per chi ancora è succube di certe suggestioni assistenzialistiche che nell’Italia di oggi hanno ben poco senso. Per accorgersi di questa verità, la pasionaria Veronica, dovrebbe semplicemente cercare nella rubrica del suo smartphone il nome “papà”, e chiedere soldi. Oppure, potrebbe rivolgersi alla voce “Eleonora”. È sua sorella, anch’ella Padoan, da poco assunta alla Cassa Depositi e Prestiti con contratto a tempo indeterminato. La Cdp è considerata il bancomat preferito dal governo: chissà che non si trovi qualche “risorsa” per abbattere il ghetto e dare casa, diritti e lavoro alla quindicina di cui Veronica s’è messa a capo. D’altronde, da poche settimane, Eleonora Padoan si occupa all’interno della Cassa (ossia il gruppo pubblico che gestisce il risparmio postale degli italiani ed è controllato proprio dal Tesoro, cioè da papà…) del settore cooperazione e sviluppo internazionale. Che con la Cgil da un lato e i migranti nei campi dall’altro, guarda un po’, pare avere una competenza diretta.  Li troverà, la protettrice dei migranti, i soldi, per un progettino già pronto e firmato Cgil? C’è da ritenersene certi. Poi ci penserà Pier Carlo, a spiegare agli italiani che per loro risorse non ce ne sono, per il patto di stabilità, la richiesta di flessibilità, il Pil col fiato corto e i segnali di ripresa.

Dall'asilo nido ai posti di prestigio Cosa fanno gli eredi dei ministri. Eleonora Padoan assunta alla Cassa depositi e prestiti, la sorella è alla Cgil, Delrio jr fa l'arbitro di calcio. Molti bimbi e under 18, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 22/12/2016, su "Il Giornale". Se Manuel Poletti ha una carriera già brillante nel mondo coop coi fondi pubblici di Palazzo Chigi, altri rampolli di governo non sono ancora sistemati a dovere. Sarà che avendo meno di 10 anni, alcuni ancora neonati, è un po' prestino per fare i dirigenti o i dipendenti di una coop rossa. Si faranno, bisogna avere pazienza. C'è poi che diversi ministri non hanno proprio figli (condizione che, in politica, può risparmiare svariate occasioni di imbarazzo), a iniziare dal primo ministro, Paolo Gentiloni, sposato senza eredi, come pure il Guardasigilli Andrea Orlando («45 anni ma eterno Peter Pan» dicono di lui gli amici), o la ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli, che non ha la laurea ma un marito sì (e pure lui sindacalista e senatore Pd, Achille Passoni), e non risulta avere figli. Senza contare la sottosegretaria Maria Elena Boschi, che è addirittura single. Mentre altri giovani titolari di ministeri hanno pargoli in età da asilo nido (il renziano Luca Lotti, Marianna Madia, Beatrice Lorenzin), o under 18 (come i ministri Angelino Alfano e Carlo Calenda, quarantenne già padre di quattro figli, o il trentenne Maurizio Martina). Con i ministri più anziani però, tipo il titolare del Tesoro Pier Carlo Padoan, si rintracciano curriculum di rampolli già in carriera. La figlia Eleonora Padoan, dopo aver ricoperto il ruolo di senior economist alla Sace, società pubblica di prodotti assicurativi e finanziari, nel 2015, cioè quando il padre era già da oltre un anno ministro dell'Economia, è stata assunta dalla Cassa depositi e prestiti, società controllata all'82% proprio dal ministero del padre. Posto di lavoro ottenuto dalla figlia di Padoan «a seguito di una procedura di job posting iniziata nel novembre del 2014», spiegò la Cdp proprio al Giornale. Non un concorso vero e proprio, ma «una procedura volta a valorizzare professionalità interne al gruppo». Anche l'altra figlia, Veronica Padoan, ricercatrice all'Inca-Cgil, si può incontrare nei pressi di qualche ministero. Fuori, però, a protestare contro il governo in qualche corteo. Questa estate era a Foggia, megafono in mano, insieme ad una quindicina di attivisti e lavoratori africani della rete «Campagna in lotta» a contestare il ministro della Giustizia sulle condizioni di lavoro dei braccianti extracomunitari. Il ministro Graziano Delrio (Infrastrutture) di figli ne ha nove, cinque femmine e quattro maschi («Dopo il nono, abbiamo detto basta»). Anche solo per il calcolo della probabilità, qualche Delrio jr attivo in politica c'è. Renziano, ovviamente, ma senza incarichi di prestigio per ora. Trattasi di Michele Delrio, ventenne, talmente renziano che su Facebook stroncò il governo Letta («Non ha fatto nulla») di cui il padre era ministro. Le cronache locali riportano poi l'hobby di arbitro di calcio di Michele Delrio. Con côté di polemiche incluse, come quando arbitrò un Barletta-Casarano, e fu accusato di faziosità: «Non vorrei che il risultato maturato ieri, sia il frutto di una macchinazione politica a nostro danno...» si infuriò il presidente del Casarano, eliminato dal Barletta calcio. Il ministro all'Ambiente Gian Luca Galletti (Udc), da cattolico, tiene molto all'educazione, e vieta ai figli la visione di cartoni animati volgari, e non solo quelli. «Ho vietato ai miei figli più piccoli di vedere i Simpson e Beppe Grillo - twittò Galletti - Violenza e parolacce non fanno bene ai piccoli. E neanche ai grandi». Mentre Angelino Alfano, da ministro dell'Interno, assicurò che il rischio terrorismo non avrebbe modificato le sue scelte da padre: «Io sono papà di due bambini di 14 e 9 anni, anche loro andranno in gita scolastica e io li autorizzerò. E segnalo che loro non godono della tutela di cui gode suo padre». Per la ministra della Difesa Roberta Pinotti, si era vociferato di un importante destinato alle figlie dopo una missione in Kuwait, oltre ad un Rolex. Ma la Pinotti ha smentito: «Non mi occupo dei regali, c'è una stanza al ministero dove sono custoditi». Poi c'è la neoministra, ma con lunga esperienza politica, Anna Finocchiaro, sposata con Melchiorre Fidelbo. La Finocchiaro ha due figlie, Miranda e Costanza. E su Linkedin c'è il profilo di una Miranda Fidelbo, giovane avvocatessa che dopo un tirocinio al Parlamento Europeo, ora lavora nello studio Severino di Roma. Quello dell'ex ministro Paola Severino.

Poletti jr e gli altri figli dei ministri col lavoro assicurato. Dai banchi del governo hanno attaccato precari, bamboccioni, choosy. E ora pure gli expat. Ma a casa loro..., scrive "Lettera 43” il 21 dicembre 2016. Prima furono i bamboccioni, poi i choosy, gli sfigati e, ancora, i nostalgici della «monotonia» del posto fisso. Poteva Giuliano Poletti non dare il suo contributo alla lista di offese governative ai giovani disoccupati, non ancora laureati o desiderosi di un tempo indeterminato che non arriva mai? Certo che no. E così il ministro del Lavoro davanti alla fuga di 100 mila giovani all'estero ha commentato in modo sprezzante che «questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi». Inutili le scuse per l'espressione un po' troppo colorita, soprattutto davanti a una disoccupazione giovanile al 36,4% (anche se è il valore più basso degli ultimi quattro anni, sic), al neo schiavismo dei voucheristi e all'aumento della precarietà effetto del Jobs Act. Il primogenito di Poletti, invece, è uno di quei giovani (nel senso italico del termine visto che di anni ne ha 42) «non pistola» che hanno deciso di restare in patria. E dire che l'ex sottosegretario Michel Martone lo avrebbe definito uno «sfigato» visto che è sensibilmente fuoricorso («Se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato», a essere precisi). Chissà poi cosa ne pensa il padre, visto che nel 2015 il ministro cadde in un'altra boutade impopolare sui fuori corso. «Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21», disse agli studenti all'inaugurazione di Job&Orienta. Una giustificazione, però, Poletti jr ce l'ha: in questi anni si è dedicato al lavoro e alla famiglia, ha raccontato al Fatto quotidiano. Già il lavoro. Manuel dirige il settimanale Sette Sere Qui diffuso tra Faenza, Lugo Ravenna e Cervia. L'editore è la Coop Media Romagna di cui il figlio del ministro è presidente. Il giornale nel 2015 ha ottenuto 190 mila euro di contributi pubblici, 521.598 in tre anni. Ma lui, ha assicurato, guadagna 1.800 euro al mese. Il solito welfare cooperativo. Come si diceva, Poletti non è certo il solo ad avere preso di mira i giovani, salvo poi poter vantare prole sistemata, stipendiata e soddisfatta. E molto probabilmente pure meritevole e talentuosa, ma questo è un altro discorso. Si prenda per esempio l'ex premier Mario Monti che definì monotono il posto fisso. «I giovani devono abituarsi all'idea di non avere più il posto fisso a vita: che monotonia», disse a febbraio 2012. «È bello cambiare e accettare delle sfide». E, infatti, suo figlio Giovanni Monti di lavori ne ha cambiati parecchi, sempre fissi però. L'enfant prodige bocconiano, classe '73, dopo un po' di "gavetta" come consulente alla Bain and Co, è passato dalla vicepresidenza di Citigroup a quella di Morgan Stanley. Nel 2009 entrò in Parmalat chiamato dall'allora commissario straordinario Enrico Bondi per occuparsi di business development. Esperienza che finì con dimissioni ctinte di giallo. Presso quali lidi sia approdato Monti jr difficile dirlo oggi, anche perché ai tempi della bufera cancellò il suo profilo da Linkedin. Invece, come ha ricordato Il Giornale, qualcosa in più si sa di Federica Monti, la secondogenita, che ha lavorato presso lo studio Ambrosetti, quelli dell'omonimo forum di Cernobbio. Alla faccia della monotonia, Federica ha pure sposato Antonio Ambrosetti: tutta casa e lavoro, insomma. Dai monotoni ai choosy, il passo è breve. Anche Elsa Fornero, che di Monti era ministro del Lavoro, invitò a smettere di cercare un posto a tempo indeterminato. «Il lavoro fisso?», disse, «Un'illusione». Insomma, aggiunse materna, «non bisogna mai essere troppo "choosy" (schizzinosi, ndr), meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro e non aspettare il posto ideale». Sua figlia Silvia Deagliodeve essere stata fortunata. Nata nel 1974, sposata con un dirigente Unicredit, Deaglio è professore associato alla facoltà di Medicina e chirurgia dell'Università di Torino, lo stesso in cui insegnano i genitori. Per sconfiggere la monotonia montiana, la professoressa ricoprì anche un ruolo come «responsabile dell'unità di ricerca» della fondazione HuGeF, attiva nel campo della genetica. Un cervello non in fuga il suo. Anche perché, come scrisse il Fq, la fondazione riuscì a ottenere dai ministeri della Salute e della Ricerca «quasi 1 milione di euro in due anni, 500 mila nel 2008, 373.400 e 69 mila nel 2009». Ma i tecnici non sono stati gli unici ad aver dispensato consigli (non richiesti) alla popolazione di giovani precari italiani. Nel 2008 pure Silvio Berlusconi propose la sua ricetta. Durante la trasmissione Tg2 Punto di vista, a una ragazza che chiedeva come fosse possibile mettere su famiglia senza un'occupazione stabile rispose: «Da padre il consiglio che le do è quello di ricercarsi il figlio di Berlusconi o di qualcun altro che non avesse di questi problemi. Con il sorriso che ha potrebbe anche permetterselo». Dopo nove anni, quello del Cav resta - purtroppo e al netto delle comprensibili polemiche - l'unico bagliore di realtà. A sua insaputa.

IL FAMILISMO AMORALE ED IL COOPTISMO AMORALE.

Ripubblichiamo un pezzo di Bruno Trentin intitolato "A proposito del merito" uscito sull’Unità nel 2006. "La meritocrazia come criterio di selezione degli individui al lavoro ritorna alla moda nel linguaggio della sinistra e del centrosinistra, dopo il 1989; ma prima ancora con la scoperta fatta da Claudio Martelli a un Congresso del Psi sulla validità di una società «dei meriti e dei bisogni». In realtà, sin dall’illuminismo, la meritocrazia che presupponeva la legittimazione della decisione discrezionale di un «governante», sia esso un caporeparto, un capo ufficio, un barone universitario o, naturalmente un politico inserito nella macchina di governo, era stata respinta. Era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del «valore» della persona e lo riconoscevano come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio. Ma da allora, con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al «merito» (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante; e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il «sapere fare», valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale. Nella mia storia di sindacalista ho dovuto fare ogni giorno i conti la meritocrazia, e cioè con il ricorso al concetto di «merito», utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori. E, soprattutto negli anni 60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho scoperto la funzione antisindacale degli «assegni» o «premi» di merito; quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni 70 la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all’impresa. Un sistema di inquadramento e di organizzazione del lavoro apertamente alternativo alla qualifica definita dalla contrattazione nazionale e aziendale. Ma molto presto questa utilizzazione dei premi di merito o dei premi tout court giunse alla penalizzazione degli scioperi e delle assenze individuali (anche per malattia), quando di fronte a poche ore di sciopero o alla conseguenza di un infortunio sul lavoro (mi ricordo bene una vertenza all’Italcementi a questo proposito), le imprese sopprimevano anche 6 mesi di premio. È questa concezione del merito, della meritocrazia, della promozione sulla base di una decisione inappellabile di un’autorità «superiore» che è stato cancellato con la lotta dei metalmeccanici nel ‘69 e con lo Statuto dei diritti del lavoro che nel 1970 dava corpo alla grande idea di Di Vittorio di dieci anni prima. Purtroppo una parte della sinistra, i parlamentari del Pci, si astennero al momento della sua approvazione, solo perché esclusa dalla partecipazione al Governo. Ma quello che è più interessante osservare è come, alla crisi successiva del Fordismo e alla trasformazione della filosofia dell’impresa, con la flessibilità ma anche con la responsabilità che incombe sul lavoratore sui risultati quantitativi e qualitativi delle sue opere, si sia accompagnato in Italia a una risorgenza delle forme più autoritarie del Taylorismo, particolarmente nei servizi, santificata non solo dal mito del manager che si fa strada con le gomitate e le stock options, ma dalla ideologia del liberismo autoritario. Con gli «yuppies» che privilegiano l’investimento finanziario a breve termine, ritorna così per gli strati più fragili (in termini di conoscenza) l’impero della meritocrazia.

A questa nuova trasformazione (e qualche volta degrado) del sistema industriale italiano ha però contribuito, bisogna riconoscerlo, l’egualitarismo salariale di una parte del movimento sindacale, a partire dall’accordo sul punto unico di scala mobile, che ha offerto, in un mercato del lavoro in cui prevale la diversità (anche di conoscenze) e nel quale diventa necessario ricostruire una solidarietà fra persone e fra diversi, una sostanziale legittimazione alle imprese che hanno saputo ricostruire un rapporto diverso (autoritario ma compassionevole) con la persona sulla base di una incomprensibile meritocrazia. Non è casuale, del resto, che, di questi tempi, il concetto di merito, sinonimo di obbedienza e di dovere, abbia ritrovato un punto di riferimento nel sistema di promozione e di riconoscimento delle organizzazioni militari nel confronto del comportamento dei loro sottoposti. Le stesse osservazioni si possono fare per i «bisogni», contrapposti negli anni 60 del secolo scorso, alle domande che prevalgono nel vissuto dei cittadini nella società dei consumi. Era questa anche la convinzione di un grande studioso marxista come Paul Sweezy. Sweezy opponeva i «needs» (i bisogni reali, le necessità) ai «wants» (le domande, i desideri), attribuendo implicitamente ad uno stato illuminato e autoritario la selezione, «nell’interesse dei cittadini» fra gli uni e gli altri. Come se non fossero giunti i tempi in cui le domande e i desideri, pur influenzati dalla pubblicità, di fronte alle dure scelte e alle priorità imposte dalla condizione del lavoro e dalle lotte dei lavoratori si trasformano gradualmente in diritti universali, attraverso i quali, i cittadini, i lavoratori (non un padrone o uno stato illuminato), con il conflitto sociale, riuscirono a far progredire la stessa nazione di democrazia. Meriti e bisogni o capacità e diritti? Può sembrare una questione di vocabolario ma in realtà la meritocrazia nasconde il grande problema dell’affermazione dei diritti individuali di una società moderna. E quello che sorprende è che la cultura della meritocrazia (magari come antidoto alla burocrazia, quando la meritocrazia è il pilastro della burocrazia) sia riapparsa nel linguaggio corrente del centrosinistra e della stessa sinistra, e con il predominio culturale del liberismo neoconservatore e autoritario, come un valore da riscoprire. Mentre in Europa e nel mondo oltre che nel nostro paese, i più noti giuristi, i più noti studiosi di economia e di sociologia, da Bertrand Swartz a Amartya Sen, a Alain Supiot si sono affannati ad individuare e a riscoprire dei criteri di selezione e di opportunità del lavoro qualificato, capaci di riconciliare – non per pochi ma per tutti- libertà e conoscenza; di immaginare una crescita dei saperi come un fattore essenziale, da incoraggiare e da prescrivere, introducendo così un elemento dinamico nella stessa crescita culturale della società contemporanea. La «capability» di Amartya Sen non comporta soltanto la garanzia di una incessante mobilità professionale e sociale che deve ispirare un governo della flessibilità che non si traduca in precarietà e regressione. Ma essa rappresenta anche l’unica opportunità (solo questo, ma non è poco) di ricostruire sempre nella persona le condizioni di realizzare se stessa, «governando» il proprio lavoro. Perché questa sordità? Forse perché con una scelta acritica per la «modernizzazione», ci pieghiamo alla riesumazione – in piena rivoluzione della tecnologia e dei saperi – dei più vecchi dettami di una ideologia autoritaria. Forse qui si trova la spiegazione (ma mi auguro di sbagliare) della ragione per cui malgrado importanti scelte programmatiche del centrosinistra in Italia, per affermare una società della conoscenza come condizione non solo di «dare occupazione» ma anche per affermare nuovi spazi di libertà alle giovani generazioni, la classe dirigente, anche di sinistra, finisce per fermarsi, in definitiva, di fronte alla scelta, certo molto costosa, di praticare nella scuola e nell’Università ma anche nelle imprese e nei territori, un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita, aperto, per tutta la durata della vita lavorativa, come sosteneva il patto di Lisbona, a tutti i cittadini di ogni sesso di ogni età e di ogni origine etnica (e non solo per una ristretta elite di tecnici o di ricercatori, dalla quale è pur giusto partire). Speriamo che Romano Prodi che così bene ha iniziato questo mandato, sia capace di superare questa confusione di linguaggi, e di rompere questo handicap della cultura meritocratica del centro sinistra. Anche un auspicabile convegno sui valori, le scelte di civiltà di un nuovo partito aperto alle varie identità e alla storia dei partiti come della società civile, dovrebbe, a mio parere, assumere il governo e la socializzazione della conoscenza come insostituibile fattore di inclusione sociale.

Psicologia sociale: il familismo amorale nell’Italia di oggi, scrive Andrea Bellelli il 4 marzo 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Andrea Bellelli Professore Ordinario di Biochimica, Università di Roma La Sapienza. La qualità dei servizi pubblici in Italia, soprattutto nel meridione, è da sempre oggetto di lamentele e proteste. Se in alcuni casi gli italiani hanno piena ragione (la giustizia italiana è stata spesso condannata per la sua lentezza nelle sedi internazionali), in altri casi il loro giudizio è ingeneroso e contrasta con le valutazioni internazionali (questo accade ad esempio per la ricerca o per la sanità). Una marcata discrepanza tra il giudizio popolare e quello oggettivo costituisce un problema di studio per la psicologia sociale. Molti spunti di riflessione possono essere tratti da un’importante ricerca di Edward C. Banfield pubblicata nel libro The moral basis of a backward society (Free Press, Usa). Lo studio fu condotto sessant’anni fa in un paese della Basilicata, nascosto sotto il nome fittizio di Montegrano, usando metodiche avanzate (per l’epoca) che includevano il test di appercezione tematica (TAT), e interviste strutturate e non strutturate. Banfield, con la moglie (italiana) e i due figli, rimase a Montegrano per quasi un anno. Lo studio di Banfield costituisce certamente uno dei più interessanti e originali contributi alla questione meridionale, almeno pari, se non superiore, a quelli di Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci e Carlo Levi (autori che Banfield conosceva bene). La tesi centrale dello studio è che, accanto alle problematiche precedentemente individuate, ne esiste una socio-culturale, non individuata in precedenza, che Banfield chiama familismo amorale: “… i montegranesi si comportano come se seguissero la seguente regola: massimizza il guadagno materiale, a breve termine, della tua famiglia ristretta; assumi che tutti gli altri facciano lo stesso” (p. 83). Le regole del familismo amorale, come si vede, sono in effetti due: la prima indica all’individuo cosa fare; la seconda gli offre un facile modo per interpretare il comportamento altrui e relazionarsi con la società. Sebbene entrambe siano deleterie per il progresso socio-economico a medio o lungo termine, la seconda è particolarmente dannosa, perché inquina i rapporti sociali ed impedisce che si formi un rapporto di collaborazione e fiducia con il governo e le istituzioni locali o nazionali: “… la dichiarazione di una persona o di una istituzione, di essere ispirata dall’interesse per la cosa pubblica, anziché per il proprio, è vista come una frode” (p. 95); “in una società di familisti amorali sarà opinione comune che chi esercita il potere sia egoista e corrotto… il votante userà il voto … per punire” (p. 99). Non è in discussione, evidentemente, l’esistenza di funzionari pubblici corrotti e di servizi inefficienti (ampiamente analizzati da Banfield), ma l’idea che tutti i funzionari siano necessariamente corrotti e tutti i servizi necessariamente inefficienti e meritevoli di punizione; e non di rado i paesani intervistati da Banfield esprimevano ammirazione per il regime fascista (al potere fino a dieci anni prima dello studio) ritenuto capace di controllare e punire i suoi funzionari. In effetti, la collaborazione tra gli operatori e gli utenti del servizio è essenziale ai fini della qualità del risultato e nessun servizio può funzionare correttamente se è disprezzato dagli utenti. Banfield riteneva che due fattori causali fossero specialmente importanti nel determinare questo atteggiamento: la povertà e l’elevato tasso di mortalità, che cooperano nel produrre una condizione psicologica di perenne apprensione e inducono l’individuo a privilegiare scelte a breve termine. Poiché oggi le condizioni economiche sono migliorate, e l’aspettativa di vita è aumentata, la forma culturale del familismo amorale dovrebbe pian piano scomparire. Ma la cultura popolare cambia lentamente e non è difficile riconoscere i modi di pensare descritti nel libro di Banfield nella società contemporanea. Non si può non notare, ad esempio il desiderio di punizione nei confronti dei dipendenti pubblici che anima tanti cittadini, al punto di fargli apprezzare dei nemici dei lavoratori come gli ex ministri Brunetta e Gelmini; o la diffusa opinione che, se esistono realtà di eccellenza in questo paese, esse siano tutte concentrate in pochissime istituzioni tutte rigorosamente localizzate a nord del Po.

Il familismo amorale e il potere degli stupidi. L'intera società italiana ha adottato da tempo quello che nel 1958 il sociologico Edward C. Banfield definì “familismo amorale” che, unito alla cooptazione, porta gli "stupidi" ai posti di comando. Ne deriva una profonda arretratezza culturale evidente nel settore della ricerca dove sempre di più i buoni risultati si ottengono all’estero, scrive Rodolfo Guzzi il 24 gennaio 2015 su “La Voce di New York". Negli ultimi vent'anni la società italiana è regredita non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto dal punto di vista culturale. La mancanza di un programma culturale e di un programma economico conseguente hanno portato la società italiana al livello in cui è: fanalino di coda di ogni classifica. Anzi no, qualche primato lo detiene, ma tutti in negativo: la libertà di stampa, la corruzione e via dicendo. Ma da dove viene questo degrado? In un controverso saggio sociologico Edward C. Banfield nel suo libro The Moral Basis of a Backward Society del 1958 (in traduzione italiana Le basi morali di una società arretrata, 1976, Il Mulino) studiando il Borgo di Chiaromonte, un paese della Basilicata, e comparando i dati in suo possesso con quelli delle comunità rurali della provincia di Rovigo e del Kansas giunse alla conclusione che “massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo" porta inevitabilmente all’arretratezza. Egli chiamò questo comportamento: familismo amorale. Altri autori hanno ripreso in tempi recenti questo concetto e basta guardare alla società italiana per capire che essa è fortemente permeata di familismo amorale. È di pochi giorni fa un articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della Sera che fa un elenco dei figli e parenti che stanno in Parlamento, non come parlamentari ma con cariche operative. Basta guardare ai figli e parenti dei baroni universitari e in particolar modo di quelli di Medicina per rendersi conto che tutta la nostra società ha adottato da tempo il metodo del familismo amorale: lo sguardo si può estendere all'intero sistema fino ai più piccoli anfratti della struttura pubblica italiana. Finanche il primo ministro oramai viene cooptato, non eletto: ne abbiamo avuti tre negli ultimi anni, alla faccia del popolo sovrano. Nel 1976 Carlo M. Cipolla scrisse The Basic Laws of Human Stupidity (poi pubblicato in italiano nel 1988 come Allegro ma non troppo, Il Mulino) in cui si divertì ad approfondire il tema della stupidità umana. Cipolla vede negli stupidi un gruppo che riesce ad operare con incredibile coordinazione ed efficacia, di gran lunga più potente delle maggiori organizzazioni siano esse mafie o lobby industriali. Chi è lo stupido? È uno che danneggia se stesso e gli altri. Gli altri non se ne accorgono subito, ma nel frattempo il danno è fatto irrimediabilmente. Insomma l’aver adottato il metodo del familismo amorale unito alla forma di cooptazione alla fine porta inevitabilmente ad assurgere ai posti di comando degli “stupidi” con le conseguenze che abbiamo detto: l’arretratezza culturale da cui non si riesce ad uscire e i danni che diventano sempre più profondi. Questo vale per ogni settore ed in particolare per il settore della ricerca dove sempre di più i buoni risultati si ottengono stando all’estero. Basti pensare ai nostri ultimi premi Nobel: tutti hanno ottenuto all’estero i risultati che hanno portato all’onorificenza. Non proprio tutti: uno di questi è stato Daniele Bouvet, uno svizzero naturalizzato italiano, che vinse il premio Nobel per la Medicina. Tuttavia il suo nome è caduto nell’oblio e pochi lo ricordano. E poi i recenti assegni di ricerca dell’European Research Council (ERC), vinti per lo più da italiani che operano all’estero. Il 2014 è stato l’anno in cui c’è stata la più alta emigrazione degli ultimi anni, complice la crisi economica, la discriminazione per aree di interesse funzionali al potere, ma anche per mancanza di un progetto culturale a largo spettro che coinvolga la nostra società verso una sua rinascita in primo luogo del miglior vivere utilizzando le potenzialità della ricerca, dell’impresa, del turismo e dei beni culturali. Nel frattempo speriamo che chi è emigrato utilizzi il potenziale di conoscenza che ha acquisito per rinnovare profondamente questo paese, uscendo finalmente dal familismo amorale che permea la società italiana.

Dal familismo amorale al familismo immorale. Famiglie italiane e società civile, scrive Francesco Benigno l'1 Luglio 2010 su “Italiani Europei”. In un’Italia in cui abbondano i “bamboccioni” e in cui emerge una tendenza ad “ereditare” anche gli incarichi pubblici tornano in auge le riflessioni sull’eccessivo potere assegnato alla famiglia nella sfe­ra pubblica. Ad un familismo che avrebbe ormai as­sunto i caratteri dell’amoralità – se non dell’immo­ralità – viene imputato il mancato radicamento dell’etica pubblica nel nostro paese. Quanta realtà e quanta mistificazione vi sono nel delineare questa presunta antitesi fra familismo e civismo? Periodicamente la famiglia torna sotto i riflettori dell’opinione pubblica, indagata come possibile matrice dei mali del “bel Paese”, scrutata come depositaria e riproduttrice delle virtù e, più spesso, dei vizi del carattere nazionale. In una recente intervista a “La Repubblica”, in cui vengono sintetizzati i risultati di una ricerca storica collettiva dedicata alle famiglie italiane nel Novecento, Paul Ginsborg ha riproposto nuovamente il tema del familismo come una possibile chiave di lettura della realtà italiana contemporanea. In un’Italia ripiegata su se stessa, in cui le giovani generazioni faticano a staccarsi dalle mura domestiche per progettare un futuro autonomo (i bamboccioni del ministro Brunetta), in cui ruoli politici e candidature passano disinvoltamente di generazione in generazione come fossero ereditarie (il figlio del ministro Bossi), e in cui recenti scandali coinvolgono responsabilità genitoriali (la «casa per la figlia» del ministro Scajola), conviene interrogarsi ancora – sostiene lo storico inglese naturalizzato italiano – sul concetto di familismo. Familismo è un’espressione famosa nel lessico delle scienze sociali, soprattutto dopo che nel 1958 lo studioso statunitense Edward Banfield ebbe coniato il concetto di «familismo amorale» per designare i comportamenti, descritti come angustamente individualistici, della gente di Montegrano (in realtà Chiaromonte, un isolato villaggio lucano). Lo studio di Banfield ha avuto una larga eco nel dibattito pubblico sulla questione meridionale, divenendo per alcuni (ma in modo assai contestato) una delle possibili spiegazioni delle carenze dello spirito pubblico nel Sud del paese. Successivamente, da Carlo Tullio Altan a Robert Putnam, è stato una ricorrente fonte di ispirazione per tutti coloro che si sono impegnati in schemi dualistici di raffigurazione della storia italiana. Ora Ginsborg lo recupera e, pur criticandolo, ne allarga la portata, fino ad usarlo per descrivere l’intero atteggiamento del “paese Italia”: anzi, richiamando il ben noto detto del «tengo famiglia» – e definito sorprendentemente non uno stereotipo ma la sintesi di «una filosofia antica e tipicamente italiana» – egli attribuisce al familismo, non più solo amorale ma ormai scopertamente immorale, il mancato radicamento di un’etica pubblica, di quel senso della collettività che è invalso nelle scienze sociali chiamare civicness. La tesi di Ginsborg, modellata sugli schemi dicotomici cari a tanta sociologia classica, è a prima vista suadente, e sembra anzi farsi forza di una sorta di riconoscimento immediato, un asseverarsi intuitivo che si nutre di evidenze: in Italia oggi saremmo di fronte alla ricorrente tendenza al tradimento della fedeltà allo Stato per arricchire parenti e consanguinei. Il familismo amorale, tracimando, si mescolerebbe così con l’uso delle risorse pubbliche per interessi privati, con il clientelismo. Può essere interessante rilevare – osserva Ginsborg – come nell’Europa mediterranea «questi fenomeni antichi non muoiano mai, ma si reinventino continuamente in forme nuove. Quel che fa impressione nell’Italia di oggi è il prevalere dell’organizzazione verticale tra patrono e cliente su quella orizzontale tra cittadini. Nella precarietà del mercato del lavoro diventa fondamentale la relazione con il potente che garantisce determinati accessi per te e per i tuoi figli, da qui un legame di gratitudine e asservimento. Tutto questo non ha niente a che vedere con cittadinanza, diritti e democrazia». Al fondo starebbe dunque una verità nascosta: insieme alla tardiva formazione dello Stato democratico, la chiave di volta dell’eccezione italiana, quel qualcosa che impedisce alla nazione di essere un paese normale, sarebbe il familismo, e cioè l’eccessivo potere assegnato alla famiglia nella società e nella sfera pubblica italiane. Il familismo svolge così nella visione di Ginsborg quel ruolo che un tempo era assegnato dalla retorica nazionalista al «particolarismo», un principio distruttivo e disgregatore di più ampie e morali solidarietà. La contrapposizione non potrebbe essere più netta: da una parte l’individualismo egoista nutrito nella culla familista e dall’altra l’etica pubblica solidaristica, cresciuta nell’alveo della società civile; da un lato una ricorrente tentazione alla gretta chiusura familistica e dall’altro una società civile colta, indipendente, reattiva, pronta ad organizzarsi e ad esprimere valori universalistici di partecipazione e di associazione; e ancora, per un verso un assetto sociale in cui il rapporto dominante è quello tra l’individuo e la famiglia, per l’altro compagini in cui al centro della vita individuale sta la relazione, variamente disposta, con lo Stato. A questa contrapposizione idealtipica corrisponde puntualmente una distribuzione geografica, o meglio una geopolitica dei valori. Secondo Ginsborg sarebbe familista l’Europa mediterranea: un insieme variegato e composito formato in buona sostanza dall’area dei cosiddetti PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) più i paesi mediorientali di tradizione islamica, descritti – questi ultimi – come comunità endogamiche, use al frequente matrimonio tra cugini primi e alla coabitazione delle coppie sposate coi genitori del maschio: tratti familiari che, uniti alla strutturazione clanica, avrebbe condizionato in senso negativo la crescita della società civile. In buona sostanza, l’accostamento di regioni così diverse funziona solo in negativo: esse sarebbero tutte segnate da una debole civicness a causa di strutture familiari troppo forti; sorta di controprova del successo del core nordeuropeo dello sviluppo economico (e insieme morale). In questa parte privilegiata del mondo (Inghilterra, Olanda e Scandinavia, più alcune aree della Germania e degli Stati Uniti) l’esistenza di famiglie più deboli e meno gerarchiche avrebbe permesso agli individui la libertà, gli spazi e i tempi per la partecipazione alla vita pubblica, da Ginsborg identificata con «la possibilità di sperimentare ed esplorare liberamente il variopinto mondo dell’associazionismo». La tesi della contrapposizione tra famiglie forti e famiglie deboli si può dimostrare, sostiene Ginsborg – che riprende qui tesi avanzate dal demografo David Reher – grazie all’analisi di tre piani distinti: quello delle strutture di coresidenza, dei sistemi demografici familiari e dei valori casalinghi. L’analisi comparativa delle strutture familiari di coresidenza è stata introdotta nel dibattito delle scienze sociali da Peter Laslett, uno dei padri della moderna storia della famiglia. Nella sua visione le famiglie inglesi (ma non irlandesi o scozzesi) e più in generale nordeuropeo-occidentali sarebbero state caratterizzate dal Cinquecento in poi da alcune caratteristiche specifiche: struttura nucleare, età tardiva della sposa, residenza neolocale. Grazie a queste caratteristiche, la famiglia inglese, portatrice di comportamenti virtuosi secondo l’etica maltusiana (con un’età tardiva al matrimonio cui corrispondeva un minor numero di figli) sarebbe stata il vero motore occulto della marxiana «accumulazione originaria», prodromo della rivoluzione industriale. A questo idealtipo dello sviluppo corrisponde, nella tipologia di Laslett, un idealtipo dell’arretratezza, costituito da famiglie variamente allargate, patriarcali, conviventi per più generazioni sotto lo stesso tetto, ordinate da strutture gerarchiche e costrittive, modellate sulle descrizioni fornite da antropologi anglosassoni dell’Europa meridionale e orientale: famiglie di pastori berberi o balcanici, di mezzadri toscani, di contadini calabri, di pescatori cantabrici. Va da sé che questi due modelli risultano – in quella visione – inscritti in un percorso evolutivo, un processo che prevede il passaggio da forme ritenute tradizionali o primitive ad altre reputate moderne. Questo schema semplificato e riduttivo è stato da tempo criticato e in gran parte abbandonato, ma la sua influenza continua ad avvertirsi nel discorso delle scienze sociali e nel dibattito pubblico. Malgrado l’evidenza, ad esempio, che in gran parte del Mezzogiorno la famiglia nucleare sia stata storicamente prevalente e le strutture di famiglie estese e complesse siano state invece minoritarie, l’idea che si possa trovare nella composizione familiare la chiave dell’arretratezza, il santo Graal della backwardness, non è stata mai abbandonata. È accaduto così che, scoperta negli anni Ottanta la cosiddetta Terza Italia, l’area valligiana centrosettentrionale a piccola impresa industriale diffusa, ci si è chiesti se non fosse da cercare nella struttura complessa, gerarchica e patriarcale della famiglia estesa mezzadrile, nella sua abitudine alla cooperazione nell’uso delle risorse comuni (il podere) il segreto del successo economico di questa parte del paese; laddove alla famiglia nucleare meridionale, descritta “alla Banfield” sarebbe venuta a mancare questa fondamentale risorsa cooperativa. In breve, patriarcale o nucleare che sia la famiglia, il risultato non cambia mai, se si continua inutilmente a porre la struttura familiare come pietra filosofale nell’eterna ricerca alchemica delle ragioni del sottosviluppo economico (o civico). Il secondo piano chiamato in causa da Ginsborg è quello dei sistemi demografici familiari. Si tratta di uno schema interpretativo elaborato a suo tempo dal demografo John Hajnal, che aveva prospettato l’esistenza nell’Europa moderna (dal XVI secolo in poi) di due sistemi familiari prevalenti e opposti fra loro: il primo, quello nordoccidentale, contraddistinto da una elevata età al matrimonio (soprattutto femminile) e strutture di residenza neolocali, e caratterizzato dall’abitudine di abbandonare presto la casa paterna per andare a servizio; il secondo, mediterraneo e orientale, a bassa età al matrimonio, segnato dalla preferenza per la convivenza di più generazioni nella stessa casa e dalla riluttanza a lasciare la famiglia d’origine. Questo schema, fuso in vari modi col precedente e formulato ancora una volta per spiegare le ragioni (virtuose) del primato economico nordoccidentale, divideva l’Europa secondo un’immaginaria linea disposta tra San Pietroburgo a Trieste, sì da isolare l’Europa nordoccidentale, vincente, e separarla dalla meno corretta, attardata e perdente “altra Europa” meridionale e orientale. Anche in questo caso le critiche all’impostazione di Hajnal non sono mancate, e hanno toccato sia l’inesistenza di una correlazione tra strutture neolocali ed età al matrimonio, sia l’inefficacia di isolare l’età al matrimonio come unica variabile indipendente e cioè senza considerare il regime demografico (soprattutto i tassi di mortalità) in cui è inscritta. Ma se l’applicabilità dello schema di Hajnal all’Europa preindustriale è assai dubbia, l’opportunità di isolarne solo un tratto (come l’età di abbandono della casa dei genitori) per determinare l’esistenza di famiglie “forti” o “deboli” oggi, a “rivoluzione demografica” da tempo conclusasi (con la conseguente completa equiparazione di tutti gli indicatori demografici fondamentali), appare alquanto controversa. Il dubbio grava specialmente sull’intento di inferire dalla comparazione delle diverse età nella fuoriuscita dalla famiglia di origine non un diverso livello delle opportunità, una differente struttura delle chances di mobilità, una variabile disposizione del mercato delle abitazioni, dei servizi e così via (tutte carenze rispetto a cui le strutture familiari possono funzionare da “ammortizzatori”) ma argomenti a sostegno di una tendenza culturale, riassumibile nello stereotipo indimostrato dell’italiano “mammone”, ovvero la predisposizione italica (ma poi, a seconda dei casi, meridionale, mediterranea oppure orientale) a convivere fino all’età adulta sotto lo stesso tetto dei propri genitori, una specie di tara insita nel carattere nazionale. Viceversa, la tendenza inglese di mandare presto i figli fuori di casa, un tempo a servizio, oggi a studiare, non viene collegata ad un sistema ereditario, quello dello one sole heir, che prevede la possibilità per i genitori di concentrare l’asse ereditario su un unico figlio a scelta, con la conseguente necessità di far sì che gli altri si costruissero una propria strada fuori dalle mura domestiche; e v’è da chiedersi se tale plurisecolare tradizione giuridica, decisamente volta alla conservazione del patrimonio familiare in barba a principi di elementare equità non possa con qualche ragione essere qualificata, essa sì, come “familista”. Infine, Paul Ginsborg, sulla scorta dei suoi studi precedenti, propone di dividere le famiglie in “aperte” e “chiuse”. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una polarità. Da una parte ci sono le famiglie che «sviluppano al loro interno, nelle loro conversazioni e tradizioni, un’apertura nei confronti della società e dei suoi problemi, una disponibilità dei componenti ad impegnarsi in associazioni e movimenti, un concetto della casa come spazio domestico poroso e accogliente»; mentre dall’altra «quelle che considerano la famiglia come una fortezza e vivono la vita familiare come un bene prezioso in costante pericolo»: queste ultime famiglie sono autoreferenziali e non aperte, come è evidente dalle loro case, che rifletterebbero questi atteggiamenti «sia nell’architettura sia nei sistemi di protezione». Anche in questo caso nessuna relazione è ipotizzata tra architettura e sistemi di protezione abitativa e livelli di reddito e di criminalità (reali o percepiti) del contesto sociale. Quest’ultima polarità si affiancherebbe così alle prime due, anche se con modalità piuttosto oscure, sicché non è chiaro se sia lecito aspettarsi una relazione positiva tra una certa struttura familiare, un dato sistema familiare e determinati valori casalinghi. È interessante notare come questa ripresa della chiave interpretativa familistica avvenga tuttavia in un clima intellettuale profondamente diverso da quello in cui essa fu forgiata: durante il mezzo secolo di storia del concetto di familismo amorale il tema cardine verso cui si è indirizzata l’analisi è stato quello dello sviluppo economico – verso il quale esso finiva per svolgere in negativo più o meno lo stesso ruolo che l’etica protestante svolge nella celeberrima tesi di Max Weber relativa allo sviluppo del capitalismo. Oggi, tuttavia, tale prospettiva appare per molti aspetti usurata. È significativo che sia stato proprio Ginsborg a rigettare l’avventurosa affermazione formulata da Francis Fukuyama in un suo libro intitolato “Trust” secondo la quale il familismo andrebbe in sostanza considerato un freno al dispiegarsi della fiducia collettiva e dunque alla qualità dello sviluppo economico capitalistico, con la conseguente classificazione delle liberaldemocrazie in più moderne e sviluppate (Germania, Giappone, Stati Uniti) e meno moderne (Cina, Corea del Sud, Francia e Italia). Nello stroncare tali elucubrazioni, fondate sulla ripresa di un concetto carico di «insensato determinismo antropologico», Ginsborg ricordava giustamente come tutta l’industria più avanzata e attiva sia in Italia, e non solo in Italia, a base familiare. È interessante in questa discussione il ruolo che finiva per giocare il Meridione come antitipo della modernità. Fukuyama infatti – basandosi ancora una volta su Banfield – indicava il Sud dell’Italia come un caso estremo, come l’area limite dell’Europa progredita, quella in cui la fiducia collettiva non poteva dispiegare i suoi benefici effetti sull’economia a causa di un tratto culturale familista che egli qualificava in modo assai bizzarro come «confucianesimo»: affermazione che oggi nessuno si sentirebbe di ripetere, non perché il confucianesimo non sia stato un credo che abbia privilegiato il ruolo della famiglia, ma perché, nel frattempo, lo straordinario successo industriale cinese ha insinuato più di qualche dubbio non solo sulla veridicità ma anche sulla semplice sensatezza di queste contrapposizioni. Vi è in queste tesi un tratto evidentemente paradossale: il comportamento degli abitanti di Montegrano, così scopertamente orientato a massimizzare l’utile, diviene il prototipo di un’etica in fondo anticapitalistica; e ciò dopo che – com’è stato acutamente notato – sin dai filosofi morali scozzesi del Settecento la retorica liberista ha teorizzato l’ostinato e angusto perseguimento di fini personali come necessaria premessa al dispiegarsi del bene collettivo, secondo la celebre palingenesi dei vizi privati in pubbliche virtù. Il familismo resuscitato da Ginsborg non è più dunque quello di una volta; non costituisce più una chiave per spiegare il maggiore o minore successo economico: egli ne opera una vistosa revisione, torcendo il concetto in senso culturalista ed etico. Opponendosi a quelle concezioni del capitale sociale che da un lato puntano a sganciarlo dal sistema dei valori, e dall’altro a farne una base per nuove tassonomie economiche, questa visione tende a qualificare il capitale sociale come impegno civico, e a ribadire un nesso tra civismo e alcune pratiche associative, distinte sul piano valoriale e, verrebbe da dire, politico. La società civile viene infatti descritta come un essere fragile e in pericolo, assediata da mali antichi e nuovi, che hanno il nome di clientelismo, corruzione, familismo, nepotismo, monopolio mediatico. Si tratta, in altre parole, di un malato, per il quale Ginsborg propone la cura della democrazia partecipativa economica, citando l’esempio dei soviet ma sostituendo il soggetto portatore delle speranze di rinnovamento: non più evidentemente la classe operaia ma «la popolazione urbana istruita del Nord del mondo», solo provvisoriamente (anche se alquanto volontariamente) «assoggettata al capitalismo consumista e all’arricchimento personale». Evidentemente non tutti i modi di partecipare alla vita sociale risultano, in questa prospettiva, «civici» allo stesso modo: non lo sono i rapporti di vicinato, una partecipazione che «non equivale al vero impegno civico», non l’appartenenza alle associazioni di categoria, inficiate da evidenti interessi particolaristici, non i legami comunitari e l’affiliazione a movimenti di rivendicazione locale a base identitaria, sospetti di razzismo e xenofobia, e non (si suppone) quel vasto mondo, alquanto elitario, di club e associazioni di ex allievi, sorta di compagnonnage delle professioni liberali così diffuso in quella cultura anglosassone che affida al college una parte importante della formazione dei giovani. Ma soprattutto sembra esservi in questa concezione del civismo uno spazio limitato per la partecipazione basata su schemi ideologici o ideologico-religiosi: dovendosi in questo caso prendere in considerazione non solo i dimostranti di Teheran e di Bangkok e i partecipanti all’universo del volontariato ma evidentemente anche i membri dei movimenti del risveglio religioso cristiano, i fanatici antisionisti, gli iscritti a partiti che propugnano l’ineguaglianza sociale o l’esaltazione di figure di leader telegenici dal senso civico alquanto incerto. E dire che nella raccolta di saggi contenuti in “Famiglie del Novecento” vi erano esempi molto diversi, in grado di allargare la visione a famiglie cattoliche familiste ma disobbedienti ai precetti dell’enciclica “Humanae Vitae” del 1968 o a famiglie comuniste fortemente coese (entro quelle reti di vicinato e di comunità intessute di tradizione politica costitutive delle cosiddette Regioni rosse) ma al contempo devote al partito, controfigura e promessa dello stato socialista che verrà, e in un modo così assoluto da fare esclamare a Marina Sereni: «Il Partito si è fuso per me con la mia vita privata così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti». Solo una visione fortemente limitata della società civile permette di opporla specularmente al familismo, un’attitudine di cui non viene spiegato sulla base di quali parametri possa essere indagata. Gli studi condotti in questo senso dai sociologi mediante interviste qualitative volte a comprendere cosa la gente pensi della propria famiglia e della società che la circonda offrono migliori spunti di riflessione. Loredana Sciolla, ad esempio, ha argomentato con forza che, scomponendo il concetto di cultura civica nelle sue componenti diverse (valoriale, fiduciaria, identitaria) la supposta antitesi tra familismo (l’atteggiamento di chi ha fiducia esclusivamente nella famiglia) e civismo risulta falsa, che gli italiani non mostrano un abnorme attaccamento alla famiglia ma simile o anche inferiore a quello di popoli di radicata cultura civica, che le regioni meridionali sono meno familiste della media nazionale e più inclini ad avere fiducia nelle istituzioni. Sicché non resta che concludere con Giulio Bollati che «ogni discorso sull’indole, la natura, il carattere di un popolo appare come un’equivoca combinazione di conoscenza e di prescrizione, di scienza e di comando. Quello che un popolo è (o si crede che sia) non si distingue se non per gradi di dosaggio da ciò che si vuole debba essere».

Il paese degli egoisti con il record di donatori d'organi. Chiaromonte, sui monti lucani, fu descritto dal sociologo Banfield come culla dell'anti solidarietà. Ma è una bufala, scrive Nino Materi, Lunedì 23/01/2017, su "Il Giornale". A Chiaromonte, 1.933 abitanti in provincia di Potenza, due avventori del bar-ristorante-affittacamere La porta del Pollino discutono. E nell'aria echeggiano frasi un po' surreali, del tipo: «Amorali noi? Amorale sarà lui. Certo lui non era un donatore di organi come noi». Ma chi è il deprecato «lui»? Si tratta del professor Edward C. Banfield (Bloomfield, 1916 - Vermont, 1999) politologo e sociologo statunitense, autore del saggio The moral basis of a backward society del 1958 (tradotto per Il Mulino come Basi morali di una società arretrata), in cui introdusse la nozione di «familismo amorale», attribuendone l'«infamia» proprio al modo di «relazionarsi tipico dei chiaromontesi».

«A Banfield, se fosse ancora vivo, dovremmo far leggere la ricerca della nostra amica» riprende la coppia del bar. L'«amica» in questione è la giovane sociologa Antonietta Di Lorenzo, autrice dello studio «Arcipelago donazioni», in cui si dimostra come Chiaromonte sia «la capitale italiana delle donazioni di organi», con una percentuale doppia rispetto alla media nazionale. E così i chiaromontesi si interrogano su un quesito che li assilla non poco: «Ma noi siamo il paese amorale descritto da Banfield o il paese virtuoso descritto dalla Di Lorenzo?». Disonore o onore di Chiaromonte dipendono da questi due «opposti estremismi». «Avere una reputazione in bilico tra bene e male è la nostra condanna - ci racconta Vito Telesca, emigrato al nord ma con Chiaromonte nel cuore -. Quando ero studente lessi il saggio di Banfield ne soffrii tantissimo. Questa ricerca è una rivincita». Ma in cosa consiste tecnicamente il «familismo amorale»? Nel «massimizzare solo i vantaggi della propria famiglia ristretta, e pensare che tutti gli altri si comportino alla stessa maniera». Tradotto: farsi gli affari propri senza uscire dall'area ristretta del proprio clan. Ma probabilmente Banfield non aveva mai letto l'aforisma di Leo Longanesi che nel '45 scrisse: «La bandiera nazionale italiana dovrebbe recare una grande scritta: tengo famiglia». E di aforismi è pratico anche Angelomauro Calza, animatore del sito giornalistico-satirico TiGiuro cui la «maldicenza» di Banfield su Chiaromonte non va proprio giù: «La società italiana (e non solo quella italiana) è intrisa di nepotismo e raccomandazioni. Il mondo della politica è lo specchio di una parentopoli nazionale che abiura la meritocrazia premiando invece i furbetti dell'opportunismo. E Banfield che fa? Fa affondare le radici di questo diffuso malcostume solo nel terreno di Chiaromonte?». Allora Banfield si è inventato tutto? «Io penso - ci spiega Calza, figlio del poeta Carlo Calza - che Banfield abbia ipotizzato a tavolino la sua teoria, individuando in Chiaromonte il posto giusto per ambientarla. Magari anche raccogliendo suggerimenti che giovavano a opportunità di politiche internazionali degli Usa in quel periodo, Banfield mise piede su terra di Chiaromonte, per dimostrare, non per studiare e poi elaborare, come da decenni si millanta». Una difesa d'ufficio che però trova concreti riscontri di una ricerca della sociologa potentina, Antonietta Di Lorenzo. Mi sono concentrata sulla donazione degli organi a livello sia europeo che nazionale - spiega Di Lorenzo -. Poi, restringendo il mio campo d'azione, sono andata a cercarmi i dati riguardanti la Basilicata: l'elemento clamoroso che ho riscontrato è stato il dato registrato a Chiaromonte, che ha fatto registrare il più alto numero di donazioni per milioni di persone». Una prova di grande altruismo e solidarietà, con tanti saluti per il Banfield-pensiero. Ma da cosa nasce la «conversione» virtuosa? A venirci in soccorso è l'archivio storico del Comune di Chiaromonte dove si conserva memoria di una tragedia emblematica: nel 1995 Rosella Popia, una ragazza di Valsinni (paese limitrofo a Chiaromonte) morì a seguito di un incidente stradale e i suoi genitori decisero di donare gli organi. Una scelta che provocò un effetto-domino che venne ribattezzato «fenomeno Rosella»: a Chiaromonte, dove la madre di Rosella era ostetrica, la popolazione iniziò a sottoscrivere disponibilità alle donazioni. Un trend di generosità che da allora non si è mai fermato. Il tutto mentre a Valsinni si registrava, sempre grazie al «fenomeno Rosella», un altro piccolo record positivo: la fondazione della prima sede Aido (Associazione italiana donatori di organi) della Basilicata. La tesi di Banfield è quindi completamente da smontare? «Probabilmente sì - sostiene Di Lorenzo -. Nel '50 uscivamo da due guerre mondiali, è normale che si cercasse di racimolare quel che era possibile in primis per se stessi e per i propri cari». Peccato che Banfield parlasse essenzialmente di «profondi atteggiamenti e convinzioni interiori» che di materiale avevano ben poco. Ma ormai sono in molti i sociologi moderni che ritengono quella di Banfield una teoria superata. Tra loro spicca, ad esempio, Alessio Colombis: «Parlare ancora oggi del familismo amorale, senza prenderne le distanze, significa continuare a diffondere un grave pregiudizio nei confronti della popolazione chiaromontese e lucana in genere, che, rispetto alle altre del Mezzogiorno, era - ed ancora oggi in gran parte rimane - non solo priva di criminalità organizzata ma anche più genuina e più vicina allo spirito comunitario». Ma c'è anche chi vede nel familismo qualcosa non di non necessariamente amorale, anzi il suo opposto. Come Isaia Sales che scrive: «Collocare nella propria scala di affetti e di interessi i familiari prima degli estranei non è una cosa moralmente sanzionabile, né tanto meno chi lo fa è (agli occhi della pubblica opinione, ndr) necessariamente un pessimo cittadino. I Bush padre e figli sono stati presidenti degli Stati Uniti, la famiglia Kennedy è stata una specie di dinastia politica, Clinton e la moglie hanno occupato per anni la scena politica americana, in Italia gli Agnelli hanno trasmesso il potere sulla Fiat da quattro generazioni». Conclude sarcastico Angelomauro Calza, autore tra l'altro di un pamphlet su Giovanni Passannate, l'anarchico lucano autore nel 1878 di un attentato fallito alla vita del re Umberto I: «Perfino il nostro ex premier Renzi non è stato eletto dal popolo sovrano, ma cooptato nelle stanze del potere». Quando si dice il «cooptismo amorale».

La cooptazione è nella Costituzione, scrive il 2 ottobre 2012 "Wittgenstein.it". Alessandra Moretti – portavoce della campagna Bersani per le primarie e vicesindaco di Vicenza – ha saggiamente smontato un luogo comune e motivo di indignazione a comando: quello che vede il male dei mali nella “cooptazione” in quanto tale, a prescindere dai suoi criteri. Ne avevo scritto così in Un grande paese. Negli anni passati in Italia si è molto criticata la cooptazione. Abbiamo chiamato così il sistema per cui qualcuno accede a posti di più o meno grande responsabilità o rispettabilità, in quanto scelto da qualcun altro che abbia il potere di promuoverlo. E pensando che questo generico procedimento fosse responsabile di ogni mancato apprezzamento del merito, abbiamo stabilito che il problema fosse la cooptazione. Abbiamo associato un significato fortemente negativo a una parola che si riferisce genericamente alla scelta di qualcuno, senza farci domande sui criteri effettivi di quella scelta. Ogni promozione è diventata cooptazione, ogni cooptazione scandalo. Abbiamo convenuto che la radice da estirpare fosse la cooptazione, senza riflettere sul fatto che sistemi di cooptazione rendono efficaci istituzioni, comunità e aziende da sempre, e che persino la Costituzione prevede la cooptazione rispetto a diversi poteri dello Stato: indicando che si diventi ministri, o assessori, per cooptazione. Abbiamo discusso di: cooptazione. Abbiamo discusso di una parola. E tutto quel che abbiamo concluso è: la-cooptazione-è-sbagliata. E oggi Moretti condivide, con ragioni personali ma ben fondate. Meritocrazia e cooptazione (o nomina) non sono concetti necessariamente in conflitto tra loro. All’interno di un’organizzazione, sia economica che sociale, alcuni incarichi sono assegnati per via elettiva altri per via concorsuale e altri ancora tramite nomina o cooptazione. I meriti, le qualità, le doti per cui viene nominato un dirigente sono sempre oggettivi?  Si può parlare di meritocrazia? Credo che buon capo, come un buon dirigente si possano valutare anche sulla base della qualità dei collaboratori di cui scelgono di avvalersi, ma rimane pur sempre un metodo discrezionale. Anche il nostro attuale Premier ed i Ministri della nostra Repubblica sono dei cooptati.

Se la classe dirigente rappresenta solo se stessa e i suoi amici, scrive Daniele Marini su “L’Inkiesta” il 29 Maggio 2012. L’Italia soffre di un sistema di rappresentanza a circuito chiuso. Che si genera e alimenta tutta al suo interno. L’attenzione dei media e dell’opinione pubblica è focalizzata sul ceto politico, sulla casta. Giustamente. Sono quelli che portano la responsabilità maggiore delle scelte che ricadono su cittadini, famiglie e imprese. Ma se i politici sono lo specchio del Paese, allora dobbiamo porci qualche interrogativo in più. A maggior ragione dopo giorni di discussione sugli esiti delle recenti amministrative, sulla (presunta) antipolitica di una parte consistente della popolazione, sul fenomeno del Movimento 5 stelle. In questo senso, bene ha fatto Luca Ricolfi sulle colonne de La Stampa (27.5.2012) a sollevare il tema spinoso della classe dirigente. Che non è soltanto quella politica, appunto. Ma quella che alberga nei mondi associativi e della rappresentanza organizzata, nelle organizzazioni sindacali così come nelle banche, nelle sue fondazioni e negli enti intermedi. Con diverse gradazioni, i leader dei partiti politici, soprattutto di quelli personali e carismatici (come la Lega, Forza Italia prima e il PdL poi. Ma anche il centrosinistra non ne è esente), hanno realizzato un meccanismo di selezione della classe dirigente dove il criterio della fedeltà e dell’adesione ha fatto aggio su quello del merito, della professionalità e della critica. In una sorta di “familismo amorale”, rafforzato da un “con me o contro di me”, si è inverata una selezione per esclusione progressiva. Dove le voci critiche e riflessive sono diventate, poco alla volta, eretici da marginalizzare. Il problema è che un meccanismo analogo ha intessuto anche gli altri ambiti dei mondi della rappresentanza. Inverando – per riformulare la locuzione di Ricolfi – un meccanismo di “cooptazione a ripetere”. Senza voler fare tutto di un’erba un fascio, tuttavia è sufficiente, per esempio, fare un’esplorazione all’interno delle organizzazioni sindacali, dove i gruppi dirigenti cambiano sì, ma spostandosi da una categoria all’altra, limitando al massimo così l’ingresso di nuove forze. Oppure nell’ambito delle associazioni imprenditoriali. In questo caso, i ruoli di vertice hanno meccanismi di rinnovo più celeri (fatto salvo che negli anni recenti non sono pochi i casi in cui modifiche statutarie tendono a prolungare la durata degli incarichi), ma poi si assiste alla chiamata a incarichi di rappresentanza nei mondi collaterali, come quello bancario o assicurativo. Da qui, a loro volta, risulta facile cooptare all’interno di questi ambiti altre persone considerate vicine, che condividono i medesimi interessi e partecipano dei medesimi gruppi di potere. L’esito finale è lo sviluppo di un insieme di relazioni e regole vischioso che rende praticamente impossibile, se non in modo estremamente lento e complesso, un ricambio effettivo della classe dirigente. E rende questi gruppi dirigenti impermeabili alle sollecitazioni che vengono dall’esterno. Impermeabili perché la reciprocità delle loro relazioni le spinge ad auto-sostenersi e proteggersi. Tutto ciò spiega perché questi sistemi di rappresentanza sono incapaci: 1) di riformare le proprie organizzazioni; 2) di guardare al futuro e fare scelte strategiche, perché ripiegate sulla propria conservazione; 3) di percepire il distacco che si è generato nei confronti dei cittadini, degli aderenti, dei soci. È l’esito del meccanismo della “cooptazione a ripetere”. Un meccanismo che, a mio avviso, prende avvio negli anni ’70, quando i mondi dell’associazionismo e della rappresentanza non costituiscono più il canale privilegiato della formazione per l’approdo all’esperienza politica. Quando gli stessi partiti hanno via via smesso di formare nelle apposite scuole la loro classe dirigente. La “cooptazione a ripetere” si può rompe per un evento traumatico proveniente dall’esterno, com’è stato nel caso di Tangentopoli o, più di recente, com’è nel caso del PdL e della Lega. O perché emerge una leadership culturale in grado di esprimere e imporre una vision, nuovi valori dell’azione della rappresentanza. Una nuova leadership non può che venire dalle giovani generazioni. Finora, quelle che hanno tentano di approcciare questi percorsi più spesso hanno abbandonato sfiduciati e si sono dedicati ad altro. Esprimono il loro essere classe dirigente in altre forme: nell’imprenditoria, nella cooperazione, nell’associazionismo volontario. Una leadership per diventare tale necessita comunque di incubatori, di contenitori dove si realizzino percorsi di formazione e di educazione alla politica. Ciò non significa tornare alle forme del passato. Sarebbe impossibile. Ma offrire luoghi strutturati dove lo spazio della riflessione e dell’esercizio della critica sia la materia d’insegnamento quotidiana. Là dove ciò si realizza, i giovani non si sottraggono. La sfida della creazione di una classe dirigente del futuro si gioca nella sua formazione.

Merito e cooptazione, scrive Matteo su "tidiverticompany.com". Non mi piacciono le citazioni, sono un fare sfoggio della propria ignoranza, per dirla alla Nino Frassica. Però a volte capita che qualcuno, molto prima di noi, abbia espresso certi concetti meglio di tutti quelli che sono venuti dopo quindi ho bisogno di menzionare due aforismi. Uno é di la Rochefocauld che diceva che tutti sembriamo degni delle cariche che non ricopriamo. Il secondo appartiene al Saggio Confucio che raccomandava di non dolersi se non si vedono riconosciuti i propri meriti. La vera fonte di rammarico deve essere nel non saper riconoscere quelli altrui. Cito queste due massime per parlare riguardo la cooptazione che consiste nell’aggregare ad un organo collegiale candidati scelti da uno o piú membri del collegio stesso, in genere i più anziani o potenti. Questa maniera di fare é tipica delle corporazioni e delle associazioni di categoria. É molto diffusa anche nelle università, in politica e in tutti i centri da cui si sviluppa una qualsivoglia forma di potere. É una delle ragioni principali per cui si parla di casta riferendosi ad alcuni settori della società particolarmente chiusi, autoreferenziali che appaiono formati da persone occupate esclusivamente nel mantenere i privilegi acquisiti ( la casta dei notai, la casta della politica etc..). In maniera impropria si potrebbe utilizzare la parola “raccomandare” per descrivere alcune azioni insite nel termine cooptazione. Il più grosso dei danni compiuti da questa pratica non é quello di aver messo incapaci in posizioni di responsabilità, spesso ai più alti livelli decisionali. Non é neanche quello di aver, per proprietà transitiva, lasciato nel dimenticatoio gente di talento che per virtù varie avrebbe meritato soddisfazioni e compiti maggiori. Il danno consiste in due aspetti complementari: primo, l’aver fornito a un esercito di mediocri la giustificazione migliore ai propri insuccessi. Così, dopo anni di brutti voti perché” il professore non sa spiegare” o “perché al professore sto antipatico”, il mediocre potrà continuare a giustificarsi dicendo: “non mi assumono perché se non sei raccomandato non vai da nessuna parte”. Io chiamo questo ragionamento sindrome del tennista pensando a quei giocatori che se la prendono con la racchetta perché hanno sbagliato il passante. Il secondo aspetto é il senso di delegittimazione che circonda tutti quelli che sono riusciti a raggiungere una carica ambita da altri: sei diventata la conduttrice di un programma RAI? Tutti pensano che te la fai con il direttore di rete dimenticando le lunghe ore di lezioni di dizione, recitazione, sceneggiatura, danza canto che hai preso. Diventi assistente di un noto barone universitario? Questo perché qualcuno ti ha raccomandato e non perché il professore in te ha visto qualità superiori o una maggiore passione rispetto agli altri studenti. Fai strada in azienda? Sei uno yes man prono e sottomesso al capo. Fai carriera in politica? Sei un individuo squallido, pronto a ricattare, malversare, colluso, sceso chissà a quali inconfessabili compromessi. É ovvio che qualcuno che ha una opinione del genere dei suoi superiori non ci lavorerà che male, con crescente frustrazione e acredine di tutte le persone coinvolte.

Le raccomandazioni diventano così la scusa principale che molti mediocri utilizzano per consolarsi dei propri insuccessi e sentirsi migliori di quello che in realtà sono. Diffidate di chi fa della guerra contro il “familismo amorale”, il nepotismo, la cooptazione la propria principale ragione d’essere. La vera persona intelligente queste cose le mette in conto come parte delle difficoltà che si incontrano normalmente nell’ambito lavorativo. Magari cerca di utilizzarle a suo vantaggio. Sicuramente cerca di adattarsi e sviluppare meccanismi di compensazione che gli permettano di continuare a progettare, pensare. Vivere. Con questo non sto difendendo una prassi che ostacola pesantemente lo sviluppo del Paese e che crea migliaia di persone frustrate e insoddisfatte. Però, ho voluto portare all’attenzione un altro aspetto spesso trascurato: il giustificazionismo di molti che si sentono esclusi da vere e presunte spartizioni di incarichi.

CERVELLI IN FUGA.

Poletti, il calcetto e tutte le gaffe su giovani e lavoro. Dai "bamboccioni" di Padoa Schioppa alla monotonia del posto fisso di Monti. Oltre Poletti, tutti i politici che sono scivolati sui giovani e il loro futuro, scrive Maria Franco il 29 marzo 2017 su "Panorama". Questa volta non si è trattato di un congiuntivo sbagliato, di un errore di geografia, di una citazione erroneamente attribuita e nemmeno di sviste sulla Costituzione. A scatenare la polemica che ha investito il ministro del Lavoro Giuliano Poletti è stata infatti una frase espressa in italiano corretto, secondo molti anche onesta nel contenuto ma per tutti tragicamente inopportuna.

Il calcetto. Incontrando gli studenti dell'istituto tecnico professionale Manfredi-Tanari di Bologna, Poletti ha infatti suggerito loro di coltivare il più possibile le relazioni sociali. Nulla di male se non avesse anche aggiunto che per trovare lavoro è “più utile giocare a calcetto che mandare in giro curricula”. Molte ricerche gli danno ragione: secondo i dati Isfol solo il 3% trova lavoro attraverso i centri per l'impiego mentre “l’Italia continua ad essere un paese – ha dichiarato il Commissario straordinario dell'ente pubblico di ricerca Stefano Sacchi - dove per trovare lavoro conta moltissimo la rete di conoscenze che un individuo può mettere in campo”. Eppure il ministro è stato travolto da critiche e attacchi e le opposizioni, Lega e Movimento 5 Stelle in testa, ne hanno chiesto le dimissioni.

I cervelli in fuga. D'altra parte il ministro del Lavoro non è nuovo a questo tipo di esternazioni scivolose. Qualche mese fa, a colloquio con dei giornalisti in difesa del Jobs Act, Poletti usò frasi piuttosto sprezzanti nei confronti di chi decide di lasciare l'Italia per cercare miglior fortuna all'Estero: “conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. Anche allora il ministro tentò di correggere il tiro e si scusò: “non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero. Penso, semplicemente, che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri”. Un'altra polemica risale a circa un anno fa quando sempre Poletti dichiarò che “prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21”.

Fornero e i giovani “choosy”. Tra i ministri meno amati nella storia della Repubblica italiana, Elsa Fornero viene ancora oggi ricordata come la professoressa che ha sbagliato i conti sui cosiddetti “esodati” e che ha dato dei “choosy” (schizzinosi) ai giovani che non si accontentano di ciò che gli viene offerto quando si affacciano al mondo del lavoro. Per esattezza ciò che allora fece la ministra fu elargire loro il consiglio di “non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi”. Ricordando ciò che ella era solita dire sempre ai suoi studenti, Fornero suggeriva che fosse opportuno prendere subito il primo lavoro che capitava per poi “da dentro” guardarsi intorno. Anche in questo caso sarebbe ipocrita negare che il 99% dei genitori italiani suggeriscano la stessa cosa ai loro figli. Ma da un ministro del Lavoro i giovani italiani si aspettano non consigli bensì soluzioni che li sottraggano a un futuro da precari a tempo indeterminato.

Monti e il posto fisso. Certo è che dentro il governo Monti, di cui Fornero ha fatto parte, il posto fisso non ha mai goduto di un particolare favore. “Che noia” dichiarò infatti l'allora premier Mario Monti a Matrix. “I giovani devono abituarsi all'idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Del resto, diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita. È più bello cambiare”. Peccato che in un Paese dove, secondo dati Istat, la disoccupazione giovanile si attestava a gennaio al 40,6%, il problema non è più nemmeno quello di trovare un posto fisso ma di trovarne uno qualsiasi.

Anna Maria Cancellieri e i mammoni. Quasi che denigrare i giovani fosse diventata l'ossessione di molti dei membri del governo Monti, anche l'allora ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri non si fece scappare l'occasione di lanciare la propria personale bombetta. Intervistata da Tgcom24, la ministra che fu costretta a dimettersi quando da Guardasigilli del governo Letta fu coinvolta nel caso Ligresti, in una sola frase Cancellieri rievocò la celebre etichetta di “bamboccioni” appiccicata addosso ai giovani dal Padoa Schioppa e ribadì il giudizio espresso da Monti sul posto fisso: “Siamo fermi al posto fisso nella stessa città – disse infatti – di fianco a mamma e papà...”.

Martone e gli sfigati. Sui giovani, il lavoro e il loro futuro anche l'allora viceministro al Welfare (sempre del governo Monti) volle consegnare alle cronache una perla di presunta saggezza ma di dubbia opportunità. Alla sua prima uscita pubblica, un convegno sull'apprendistato organizzato dalla Regione Lazio, Michel Martone bollò infatti come uno “sfigato” chi a 28 anni ancora non è riuscito a mettersi una laurea in tasca. “Dobbiamo dire ai nostri giovani - disse il vice della Fornero - che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa”. Anche in questo caso il consiglio dall'alto, paternalistico e secchione, di un “giovane” particolarmente fortunato, fu respinto al mittente con profluvio annesso di infuocate polemiche.

Padoa Schioppa e i bamboccioni. A conquistarsi il titolo di “madre di tutte le gaffe” fu quella scappata allo scomparso ministro dell'Economia nel secondo governo Prodi Tommaso Padoa Schioppa. Nel presentare la finanziaria del 2007, l'allora titolare di via XX Settembre disse infatti che le misure a favore delle famiglie sarebbero servite anche “a mandare i 'bamboccioni' fuori di casa". Cioé incentivare l'uscita di casa da parte dei giovani che adesso restano fino a età inverosimili con i genitori. Non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi”. Ma quanti sono quelli che non si rendono autonomi per scelta? Una domanda che evidentemente il ministro non si pose o che non ritenne opportuno porsi per evitare di essere in futuro ricordato solo per questo episodio nonostante una prestigiosa e lunga carriera ai vertici sia della Commissione europea che della Banca d'Italia.

Brunetta e l'Italia peggiore. Anche perdere la pazienza in pubblico può giocare brutti scherzi a chi fa politica. È successo per esempio al capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta all'epoca in cui era ministro della Funzione Pubblica. Al termine del suo intervento a un convegno sull'innovazione, un gruppo di precari chiede di prendere la parola. Il ministro chiamò sul palco due donne (precarie dell'agenzia tecnica del ministero del Lavoro) e appena quelle pronunciarono la parola “precarie”, Brunetta scese dal palco pronunciando uno stizzito “siete l'Italia peggiore”.

Poletti, Padoa-Schioppa, Berlusconi: dieci anni di battute contro i giovani precari. "Meglio il calcetto del curriculum" è stato solo l'ultimo sfottò di una lunga serie di uscite governative. Da Donne sposate mio figlio! agli sfigati senza ancora una laurea, scrive Wil Nonleggerlo il 28 marzo 2017 su "L'Espresso". Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti "Sfigati", "poco occupabili", "bamboccioni", "choosy"”. Insomma, "l'Italia peggiore". Dieci anni di crisi economica, dieci anni di battutine, sfottò, consigli imbarazzanti per studenti, precari e mondo del lavoro in generale. Ecco la risposta governativa ad una disoccupazione giovanile che veleggia stabile sul 40%, tra le più alte dell'Eurozona. L'ultimo caso riguarda il ministro del Lavoro Poletti: inviare curricula? Meglio il calcetto, crea più opportunità. Scivoloni di questo tipo non riguardano ovviamente solo i governi Renzi-Gentiloni, partono da Padoa-Schioppa e attraversano 10 anni di esecutivi, politici e tecnici. Li abbiamo raccolti per voi.

- Meglio il calcetto dei curricula (Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti agli studenti dell'istituto tecnico professionale Manfredi-Tanari di Bologna - 27 marzo 2017): Nella ricerca di un lavoro "il rapporto di fiducia è un tema sempre più essenziale", si creano più opportunità "a giocare a calcetto che a mandare in giro i curricula".

- Dopo lo scoppio delle polemiche il ministro Poletti prova a spiegare meglio il concetto (28 marzo 2017): "Critiche? È una stupidaggine sintetizzare in una riga due ore di dialogo con i ragazzi. Il calcetto, se volete, è la metafora della relazione sociale".

- Fuori dai piedi (Il ministro Poletti a colloquio con i giornalisti a Fano - 19 dicembre 2016): "Bene così: se 100mila giovani sono andati via non vuol dire che qui siano rimasti 60 milioni di pistola. Quelli che se ne sono andati è bene che stiano dove sono, il Paese non soffrirà sicuramente nel non averli più tra i piedi".

- Consigli per la laurea (Il ministro Poletti - non laureato - durante la convention di Veronafiere "Job&Orienta" - 26 novembre 2015): "Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21".

- Italiani poco occupabili (Enrico Giovannini, ministro del Lavoro nel governo Letta - 9 ottobre 2013): "L'Italia esce con le ossa rotte dai dati dell'Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco 'occupabili', perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro".

- Choosy (Elsa Fornero, ministro del Lavoro del governo Monti, durante un convegno a Milano - 22 ottobre 2012): "I giovani escono dalla scuola e devono trovare un'occupazione. Devono anche non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi". 

- Sfigati (Michel Martone, viceministro del Lavoro del governo Monti, alla sua prima uscita pubblica, in un convegno sull’apprendistato organizzato dalla Regione Lazio - 24 gennaio 2012): "Dobbiamo iniziare a far passare messaggi culturali nuovi, dobbiamo dire ai nostri giovani che se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato".

- Precari, siete l'Italia peggiore! (Renato Brunetta, ministro per la Funzione Pubblica del governo Berlusconi, risponde così ad un gruppo di precari durante la terza edizione della “Giornata Nazionale dell’Innovazione” - 14 giugno 2011): Il ministro invita due donne che chiedono di fare una domanda sul palco, ma non appena pronunciano la parola "precari" Brunetta perde completamente la pazienza: "Grazie, arrivederci. Questa è la peggiore Italia!". Uscendo dalla sala strapperà pure il cartellone dei manifestanti.

- La ricetta di Berlusconi contro la precarietà: donne, sposate mio figlio! (L'allora premier risponde ad una studentessa che nel corso della rubrica del Tg2 Punto di vista gli chiede come sia possibile, per una giovane coppia, farsi una famiglia senza un lavoro stabile - 13 marzo 2008): "Intanto bisognerebbe che in questa giovane coppia - ed è un consiglio che da padre mi permetto di dare a lei - dovrebbe cercarsi magari il figlio di Berlusconi o di qualcun altro... Lei col sorriso che ha potrebbe anche permetterselo!".

- I bamboccioni (Tommaso Padoa-Schioppa, ministro delle Finanze del governo Prodi, promuovendo agevolazioni all'affitto per i più giovani - 6 ottobre 2007): "Mandiamo i bamboccioni fuori casa!".

 “Sfigati”, disse il dottor Michel Martone, viceministro per un quarto di stagione. “Bamboccioni”, disse il ministro Tommaso Padoa Schioppa. “Choosy”, schifiltosi e pigri, così il ministro Elsa Fornero. “Giovani in fuga? Conosco gente che è meglio non averla tra i piedi”, dice il ministro Giuliano Poletti in carica al dicastero del Lavoro. In principio fu Tommaso Padoa Schioppa. Nel 2007 l'allora ministro dell'Economia, scomparso nel 2010, definì "bamboccioni" i giovani italiani. "Mandiamoli fuori di casa", disse all'epoca. E giù polemiche, con l'Italia spaccata tra bamboccioni sì e bamboccioni no. Da allora è stato un susseguirsi di sparate sui ragazzi del Belpaese. Fornero, Martone, Giovannini e il 26 novembre 2015 Giuliano Poletti secondo cui una laurea presa a 28 anni con 110 e lode non serve a un fico.

Basta! Ora siamo pure incompetenti. Da Padoa-Schioppa a Fornero, da Martone a Giovannini: i ministri se la prendono sempre con gli italiani in difficoltà. Bamboccioni, choosy e chi ne ha più ne metta. Ma perché non si guardano allo specchio? 9 ottobre 2013 da Libero quotidiano. Dopo “choosy”, “scansafatiche” e “bamboccioni”, ora gli italiani sono pure “incompetenti”. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, dopo sei mesi a palazzo Chigi centra subito l’obiettivo: farsi odiare da chi lavora e soprattutto da chi un lavoro non ce l’ha. Intervenendo a un convengo sul Senato sui 10 anni della legge Biagi, Giovannini afferma: “L’Italia esce con le ossa rotte dai dati dell’Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco occupabili, perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro”. Affermazioni pesanti di per sé, ancora di più se a pronunciare è il ministro del Lavoro”. Ma il ministro non fa marcia indietro: “Quelle cifre – ha aggiunto – ci mostrano quanto siamo indietro in termini di capitale umano e di occupabilità. La responsabilità di questa situazione – ha concluso – è di tutti”. Il dato di ieri dell’organizzazione mostrava come l’Italia sia tra gli ultimi posti al mondo per le competenze fondamentali necessarie a muoversi nel mondo del lavoro e della vita sociale. Ma quei dati di certo non sono il passaporto per poter definire gli italiani come “incompetenti” e “inoccupabili”. Insomma Giovannini si accoda subito alla buona tradizione di offese che sono piovute sugli italiani negli ultimi anni. Giovannini come la Fornero – L’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero qualche mese prima di lasciare il suo incarico disse chiaramente: “Gli italiani costano tanto e lavorano poco”. La bordata era arrivata subito dopo l’attacco ai giovani disoccupati che, sempre la Fornero, definì “choosy”, ovvero “stizzinosi, con poco spirito di adattamento”. Infine l’attacco di Giovannini è in linea con quello dell’ex ministro del Tesoro, Tommaso Padoa Schioppa che definì i giovani disoccupati come “bamboccioni”. Mentre l’ex sottosegretario al Lavoro, Martone disse che “laurearsi dopo i 28 anni, è roba da sfigati”.

Bamboccioni, choosy, pistola: quando i ministri fanno infuriare i giovani, scrive Ugo Barbàra su "Agi" il 20 dicembre 2016. Le scuse non bastano a fugare le nubi di tempesta che si addensano sul ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. "Non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero" ha detto dopo che sul web si è diffusa alla velocità della luce una sua affermazione riportata dalla stampa su alcuni giovani andati all'estero, "questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi". "Evidentemente mi sono espresso male e me ne scuso", si legge nella nota di precisazione. "Penso, semplicemente", aggiunge, "che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri. Ritengo, invece, che è utile che i nostri giovani possano fare esperienze all'estero, ma che dobbiamo dare loro l'opportunità tornare nel nostro paese e di poter esprimere qui le loro capacità e le loro energie". 

Il Fatto Quotidiano traccia un parallelismo tra le parole di Poletti e quelle di Claudio Scajola, che definì "rompicoglioni" Marco Biagi, il giuslavorista ucciso il 19 marzo del 2002 dalle nuove Brigate Rosse. Ricercatori, ma anche liberi professionisti di livello, imprenditori, inventori di start up: per Poletti meglio che se ne siano andati, ad arricchire con le loro conoscenze, la loro capacità di intuito e di analisi, la loro immaginazione e fantasia, altri paesi. 

Non è la prima volta che Poletti attira su di sé le ire dei laureati. Poco più di un anno fa se ne uscì con un'altra frase destinata a scatenare ondate di polemiche: "rendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21". Ma non è l'unico, tra i vertici delle istituzioni, a primeggiare per impopolarità tra i giovani. 

In ottobre è stato il ministero dello Sviluppo economico a fare una gaffe non da poco: la blogger Eleonora Voltolina aveva trovato in un opuscolo destinato agli investitori esteri un invito forse allettante per loro, ma non lusinghiero per i lavoratori italiani il cui senso era questo: costano poco anche quando hanno un elevato tasso di scolarizzazione. 

Nell'ottobre del 2012 fu l'allora ministro del Lavoro, Elsa Fornero, a finire sotto il fuoco delle polemiche per una frase sui giovani che non devono essere troppo schizzinosi al momento dell'ingresso nel mercato del lavoro. “Non devono essere troppo choosy nella scelta del posto di lavoro. Meglio cogliere la prima occasione e poi guardarsi intorno”.

Dieci mesi prima, nel gennaio del 2012, era stato il viceministro del Lavoro, Michel Martone, a dare degli 'sfigati' ai giovani: "Se a 28 anni non sei ancora laureato - aveva detto partecipando a un incontro sull'apprendistato - sei uno sfigato. Bisogna dare messaggi chiari".

Nell'ottobre del 2007 era stato l'allora ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa a usare un termine destinato a diventare di uso comune nel dibattito politico. Le misure a favore delle famiglie, disse presentando la finanziaria, serviranno anche "a mandare i 'bamboccioni' fuori di casa. Cioé incentivare l'uscita di casa da parte dei giovani che adesso restano fino a età inverosimili con i genitori. Non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi". 

La guerra infame del potere contro i giovani di questo Paese. Da Poletti alla Fornero. Ma il suo capostipite fu il ministro Padoa Schioppa, passato alla storia con la sua invettiva contro "i giovani bamboccioni", scrive Luca Telese il 20 dicembre 2016. Dei pistola. Malagente. Persone indesiderate da tenere - addirittura - fuori dall'Italia. L'incredibile gaffe del ministro al Lavoro Giuliano Poletti questa volta va studiata nel dettaglio. E non per ridicola e flebile richiesta di scuse che ha seguito l'infelice sortita, ma perché - purtroppo - non rappresenta un caso isolato. "Se 100mila giovani se ne sono andati dall'Italia - ha detto il ministro con incomprensibile fare aggressivo - non è che qui sono rimasti 60 milioni di 'pistola'". Il ministro del Lavoro, conversava amabilmente con i giornalisti a Fano e pochi minuti prima aveva difeso il Jobs Act del governo e aperto alla possibilità di rivedere le norme sui voucher. Già questa, a ben vedere, era una manifestazione di stato confusionale, visto che solo tre giorni prima lo stesso ministro si augurava una crisi anticipata del suo governo, pur di impedire il referendum abrogativo sui voucher e sull'articolo 18. Ma evidentemente, mentre fingeva di aprire, Poletti sembrava anche interessato a punire, se non altro sul piano simbolico: "Intanto - osservava stilando il suo atto d'accusa - bisogna correggere un'opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100mila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i 100mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei 'pistola'. Permettetemi di contestare questa tesi". E a questo punto che era arrivato il colpo di grazia, la mazzata sui reprobi. "Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi". A chi si riferisse Poletti, non è dato di saperlo, resterà un mistero. Però ci sono almeno due indizi importanti da seguire. Il primo: le parole del ministro arrivano dopo un preferendo in cui le tesi del governo sono state bocciate a maggioranza quasi unanime, dagli elettori compresi nella fascia anagrafica fra i 18 e i 35 anni. La seconda, però, è molto più profonda, sottile, e merita una riflessione.

Denigrare i giovani è diventato uno sport nazionale. La guerra infame ed ideologica dei governi italiani contro i giovani in questo paese parte da lontano, e non è stata incominciata da Poletti. Ha il suo capostipite nelle parole scioccanti del ministro Padoa Schioppa che con il sorriso sulle labbra la sua celebre invettiva contro "i giovani bamboccioni". Italiani infantili e colpevoli perché incapaci di trovare una strada, mammoni, desiderosi di protezioni, pappe pronte e tutele. Non era che l'inizio. Quindi dopo il ministro dell'ulivo, fu la volta della ministra Fornero, la sacerdotessa del rigore con la lacrima facile, in uno dei suoi momenti di melodrammatica megalomania, si lanciò in una invettiva contro "i choosy", gli schizzinosi, contro i ragazzini che non hanno voglia di fare la propria parte. La faceva egregiamente lei, peraltro, massacrando i pensionati, battezzando con le sue lacrime di coccodrillo, battaglioni di esodati.

E che dire dell'allora sottosegretario al lavoro, Michel Martone? Anche lui ci era andato giù duro: "Hai 28 anni e non ti sei ancora laureato? Allora sei uno sfigato". A queste frasi, divenute ormai proverbiale, si sono aggiunte decine di dichiarazioni, di gaffe rivelatrici, di infortuni lessicali, seguiti da scuse più o meno maldestre in alcuni casi, e da nessuna scusa, nella maggior parte. Piuttosto che considerare questo florilegio una collezione di parole dal sen fuggite, o casi isolati, bisognerà rassegnarsi a prendere in considerazione questo repertorio di errori come una sorta di inconsapevole ma fluente manifesto ideologico. Come una dichiarazione di guerra a una classe sociale, anagrafica, che le classi dirigenti italiane considerano nemica. Mentre smantellavano diritti in tutte le leggi sul lavoro a partire dal pacchetto Treu, mentre colpivano la #buonascuola, mentre bastonavano, e non solo metaforicamente la precarietà, costruivano una apartheid di diritti, i governi italiani si sono dati la staffetta in un opera di demolizione psicologica delle loro vittime. Non sono loro ad avere colpa dell'esodo, non nel loro la responsabilità della fuga dei cervelli, non sono loro ad essere deficitari nelle loro risposte e iniqui nel loro operato. Con un geniale riflesso istintivo, hanno trasformando le loro vittime in carnefici, e viceversa.

Per alcuni i privilegi sono ormai una grazia dovuta. A sentire le sparate di Poletti e dei suoi epigoni, è chi paga il prezzo delle loro politiche che si deve vergognare e non viceversa. C'è dietro questa retorica cattiva, anche qualcosa di più, un istinto corporativo. La classe dirigente dei garantiti, che pensa a se stessa, ai propri figli e ai propri privilegi come ad una grazia dovuta. Come al biglietto di ingresso nel club dell'aristocrazia e delle elite. A tutti gli altri, invece, guarda come una masnada di usurpatori, disperati che si affollano bussando alle porte delle loro fortezze. I giovani che sono partiti, in verità, sono quelli che non rinunciano a muovere l’ascensore sociale. Sono quelli che non si mettono in fila di fronte ai nonni e ai baroni. Sono quelli che non accettano la geometria di potere delle vecchie e nuove caste, coloro che non vogliono pagare la tassa d'ingresso nelle corporazioni garantite. Fra qualche anno, quando tutto sarà più chiaro, le Fornero e i Poletti, che in questi anni la stampa e i media hanno trattato con i guanti di velluto, saranno ricordati come i razzisti americani degli anni ‘60, quelli che sorridevano con i colletti inamidati, mentre dormono coperture ideologica discorso lui, ai cappi, e ai roghi in cui si bruciavano i "negri" che non volevano piegarsi e accettare la parte dello zio Tom.

PARLIAMO DELLA PROVA DI IDONEITA’ PROFESSIONALE PER GIORNALISTI.

La precarietà dei giornalisti invisibili, scrive il 16 dicembre 2017 Valentina Tatti Tonni su "Articolo 21". Al pari degli altri danno senso alla verità, ma non sono retribuiti e il loro lavoro non è riconosciuto. In Italia c’è un sistema, perlopiù marcio che le cronache ben conoscono. In Italia per conoscere e volendo tutelare l’esercizio di una professione, c’è bisogno di un Ordine di categoria che come una grande impresa regoli gli iscritti con un badge (tessera di riconoscimento) e un’imposta annuale. Potranno lavorare in modo “regolare” solo i soci onorari dell’impresa. Tutti gli altri si sentiranno o saranno, poco labile la differenza, cittadini fuorilegge che svolgono una professione che non gli compete. C’è una diffusa credenza, falsa per il resto del mondo nel quale non esiste alcun Ordine perentorio e nel quale si è quello che si fa, che si diventi professionista solo entrando in possesso di questo magico libretto, lungi la riconoscenza che avrebbe potuto avere Joseph Pulitzer in assenza. Giornalista ed editore puro americano, di certo non si sarebbe sentito meno rispetto a un qualunque collega italiano. L’Italia dunque è una Repubblica fondata sul lavoro circoscritto a pochi eletti. I restanti fuori da questa ristretta cerchia, passano l’esistenza tra un contratto e un lavoro in nero. Nero come la borsa in tempo di guerra. Con un fazzoletto di volontà ben ripiegato nella tasca della giacca, nella loro mente sanno di essere buoni giornalisti ma si potrebbe affermare in loro l’idea di non essere considerati uguali dagli altri colleghi, non tanto per la giacca quanto per i diritti che si nascondono sotto. “Come hai fatto ad accettare un lavoro nero e sporcare così la professione?” si sentirà chiedere con astio, con tutte le colpe rovesciate in capo. E’ vero, avrebbe potuto non accettare e non avere alcuna visibilità, smettere di cercare l’opportunità giusta anche se spesso questo significherà ripiegare la passione e l’istinto. Avrebbe potuto vendere il suo ideale e il suo buon cuore al miglior offerente, barattare il pensiero prima che potesse giurare la sua lealtà alla Costituzione e alla deontologia. Avrebbe persino potuto evitare qualunque interferenza con la parola, sì, ma cosa sarebbe diventato senza la sua identità a contatto con la pelle? Non è giusto fare generalizzazioni. Esistono persone che sono riuscite nel loro intento, pur non avendo parenti o amici pronti a soccorrerli e indirizzarli. Sono riusciti a imboccare una strada e arrivare fino al traguardo senza scuole di giornalismo né aiuti di sorta. Tuttavia ogni persona ha una sua storia, ed è per questo presumo che il legislatore abbia voluto una legge costruita per assistere la professione, che prevedesse le sue problematiche e tentasse di risolverle. La precarietà in questo senso duplice è una di queste problematiche. E’ precario il lavoratore con un contratto provvisorio di cui si ci si attenda un cambiamento e dunque alla quotidianità vi si leghi un’aspettativa e un’ansia maggiore, ma è precario anche quel lavoratore d’altro canto minacciato per il suo operato o in alternativa imputato dinnanzi a una Corte composta di suoi pari che lo giudicheranno “colpevole di Giornalismo”. La condanna è la derisione ma non è possibile schierarsi per ricevere una miglior difesa, poiché da tale imputazione non ci si macchia per assenso generale ma per comportamento. Queste leggi approvate per rendere la precarietà meno illegale di fatto favoriscono l’incongruenza della disparità, non rendendo alcun merito a chi di questo lavoro ha fatto il suo mantra e la sua missione. Accedere a questo lavoro dovrebbe essere una possibilità, non un privilegio. E invece, le possibilità per accedervi sono ad oggi esclusive: frequentazione di una scuola biennale, il praticantato o la pubblicazione di un numero di articoli firmati e stipendiati in modo continuativo, queste le alternative per accedere alla professione. Il problema però è che a dispetto di dieci anni fa, la continuità è una chimera, così come il contratto, il pagamento, il praticantato, per una grande fetta di imprese editoriali presenti sul territorio non è neanche un’opzione. Va da sé che, esclusa la parentela e una dose di fortuna, il giornalismo resti un mondo a sé stante dove non tutti quelli che vogliono entrarvi a far parte ci riescono e, sia detto che, spesso, non è per mancanza di volontà ma a causa della privazione di tutta una serie di cose, come il fatto che sembra non esista più il mentore che ti dica: “Questo pezzo fa schifo, riscrivilo” e da queste sole piccole parole ti trasmetta il suo sapere e mantenga in te il coraggio di tentare. No, oggi il sapere è inserito dentro un cassetto elettronico, sterile e senza spessore umano. Così quella che si gioca è una corsa a ostacoli per vincere la penna d’oro, una corsa nella quale la competitività va a braccetto con la desolante paura di non essere abbastanza. Essendo l’Ordine un ente pubblico che gestisce l’albo associativo dei giornalisti italiani, dal 1963 anno della sua fondazione obbliga chiunque voglia intraprendere la professione a iscriversi e rispettare le sue leggi. Chiunque altro operi da freelance, non iscritto ad alcun registro, pur rispettando le leggi dell’albo cui vorrebbe appartenere per una forma di dipendenza, istiga tutti alla verità ma è un fuorilegge a tutti gli effetti. Se scrive o filma con cognizione lo può fare solo con le dovute precauzioni da cittadino, allargando così sotto di sé la piaga della casta. Può paragonarsi a un abile narratore, ma se vuole sfruttare la pazienza e l’insegnamento di un giornalista la cui realtà si misura con il badge di inserimento deve rischiare un ruolo che si sente addosso ma che non ha. Appartengono a questa fascia di professionisti, i giornalisti invisibili che vivono anni in un limbo fatto di sacrifici. Se lavorano in nero non è per compiacenza ma per necessità, e anzi, sapendo che prima o poi qualcuno potrebbe accorgersi del loro “stato temporaneo”, quasi in attesa trepidante di un visto speciale, sfoderano dalla penna o dalla telecamera un rigoroso senso morale e critico per ovviare al senso di manifesta inadeguatezza nella quale l’Ordine ci colloca. Se è lecito che non tutti si improvvisino del mestiere, che allo stesso modo verrebbe il dubbio del buon operato se un calzolaio si mettesse di punto in bianco a vendere viaggi, diverso sarebbe il caso di un calzolaio che in seguito a dovuti studi e approfondimenti abbia scoperto che è la pianificazione e la vendita del viaggio per conto terzi a rendere la sua vita migliore, sarebbe allora questo il modo per riconoscergli la possibilità di cambiare. Il giornalista invisibile, ugualmente, non può invece essere riconosciuto per l’inosservanza di un iter burocratico e la sua vita dovrà essere vincolata, senza per questo smettere di dare un senso alla verità rischiando tutto quello che gli basterebbe oltrepassare il confine per essere.

O ancora l'esame di ammissione all'albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un'agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere.

Firenze, studente chiede a Mentana come diventare un giornalista. Lui lo gela: Hai un piano B? Scrive Andrea Lattanzi il 15 dicembre 2017 su “la Repubblica.tv”. "Nelle scuole di giornalismo ci sono giornalisti vecchi che insegnano il giornalismo di un'altra epoca. Sarebbe come se Napolitano insegnasse il Pci a Civati". Il direttore del Tg La7 Enrico Mentana, invitato all'università di Firenze per un'iniziativa sul giornalismo al tempo del web, risponde così a uno studente che gli chiedeva quali prospettive per i giovani nel giornalismo. "Il caso del giornalismo è emblematico di tutti i mestieri - ha detto Mentana - nei quali si va in pensione troppo tardi e non si assumono giovani". L'appello ai giovani resta quello già scritto su Facebook a inizio 2017: "Scendete in piazza ogni giorno, organizzatevi".

Enrico Mentana attacca: "Nelle scuole di giornalismo ci sono giornalisti vecchi che insegnano ai giovani com'era il giornalismo quando erano giovani loro. Sarebbe come se Napolitano insegnasse il Pci a Civati. Non serve a niente", scrive Francesco Curridori, Domenica 17/12/2017, su "Il Giornale". "Nelle scuole di giornalismo ci sono giornalisti vecchi che insegnano ai giovani com'era il giornalismo quando erano giovani loro. Sarebbe come se Napolitano insegnasse il Pci a Civati. Non serve a niente". Il direttore del Tg La7 Enrico Mentana, invitato all'università di Firenze per un'iniziativa sul giornalismo al tempo del web, risponde così a uno studente che gli chiedeva quali siano prospettive per i giovani che vogliono intraprendere la carriera giornalistica. "Se fossi un giovane scenderei costantemente in piazza a protestare. Non c'è chances per le nuove generazioni e il caso del giornalismo è emblematico anche per tutte le altre professioni", spiega Mentana. "Per permettere a chi fa il giornalista oggi e lo faceva ieri e l'altro ieri di continuarlo a fare, - spiega il direttore de La7 - si sono compromessi i futuri posti di lavoro e non c'è stato alcun tentativo di autoriforma della categoria per consentire un accesso agevolato ai giovani". "Questo - conclude - nell'ambito della crisi fa sì che, non essendo possibile per le garanzie contrattuali che hanno licenziare i giornalisti, è diventato impossibile negli ultimi dieci anni assumerne di nuovi".

“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”. Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?

«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato.  Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».

Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?

«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».

E sull’indifferenza…

«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato senza conoscermi, nonostante la mia notorietà. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”

E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente in modo disinteressato, come ristoro delle sofferenze da lei subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?

“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.

"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".

Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...

"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»

Come commenta...

«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».

Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.

«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».

Concludendo?

«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti».   

L’ORDINE DEI GIORNALISTI: QUANTO SONO TRASPARENTI I GUARDIANI DELLA VERITA’? Scrive Zaira Bartucca il 13 dicembre 2017 su "Scenari economici". Riceviamo e pubblichiamo da una nostra lettrice che ci invia anche ampissima documentazione, in parte allegata. Pensiamo che meriti una lettura attenta. In Gran Bretagna e in Olanda, non esiste un organismo pubblico che rappresenti i giornalisti. In Germania, l’esercizio della professione è libero. In Austria un solo sindacato, diviso in categorie, regola la professione del giornalista. In Finlandia, l’iscrizione all’Unione dei giornalisti finlandesi non è obbligatoria. E in Italia? Esiste una vera e propria costellazione di sigle, Casse, sindacati, fondi e fondazioni (Inpgi, Casagit, Fnsi, fondazioni Murialdi, fondazione Cutuli, ecc.) su cui governa un “ente di diritto” nato nel 1925 (ai tempi del fascismo), che non trova omologhi nei Paesi europei: l’Ordine dei Giornalisti. Il suo ruolo – proprio come accadeva ai tempi del Duce – è quello di regolare l’attività degli iscritti, richiamando, sanzionando o radiando i giornalisti non graditi. L’Odg, da marzo presieduto dal napoletano Carlo Verna dopo le dimissioni rumorose di Enzo Iacopino, è diviso in consigli territoriali, uno per ogni regione. Gli incarichi sono intercambiabili o cumulabili: è facile essere consigliere dell’Odg e contemporaneamente sedere su un’altra poltrona di un sindacato di categoria. Consiglieri, presidenti, docenti, aziende: attorno all’Ordine gravita un giro di persone e di affari difficile da penetrare, visto l’ovvio silenzio dei giornalisti che fanno parte della categoria e che non sono liberi di documentare quanto avviene.

SEMPRE LE SOLITE AZIENDE…Prendiamo i bandi di gara per l’affidamento dei servizi informatici per la prova di idoneità professionale: dal 2014 è sempre la fortunata Smartbrand s.r.l., con la benedizione della responsabile di sempre Nadia Spader (secondo lo stesso sito dell’Odg, dal 2009 a oggi) a vincere. Che si tratti dell’unica azienda sul territorio nazionale ad avere i requisiti per assistere i candidati nel corso dell’esame di Stato, appare un po’ difficile da credere: Smartbrand, azienda di consulenza e software di Napoli, non ha neppure un sito web. Strano, per un’azienda che si occupa di informatica. Eppure l’Ordine continua a preferirla di anno in anno. Il nome che salta all’occhio nella documentazione sull’ultimo bando di gara, è invece quello dell’azienda Skill Lab, con sede legale in via dell’Epomeo 219, a Napoli: lo stesso indirizzo di Smartbrand s.r.l. (in realtà le sedi sono diverse dal punto di vista legale, ma l’attività di marketing di Skill Lab viene svolta, come da immagine nella stessa sede di Smartbland. Skill Lab quindi potrebbe essere semplicemente registrato presso uno studio professionale, Nd SE).

I bandi di gara, all’Odg, non durano il tempo utile (per ogni sessione di esami – in genere ce ne sono due all’anno – c’è un nuovo bando), ma circa un lustro: dal 2007 a oggi, sempre facendo riferimento alla documentazione pubblicata sul sito dell’Odg, sono state solo 3 le aziende vincitrici: D&D s.r.l, Lapis s.r.l e Smartbrand/Skill Lab: aziende che l’Odg reputa idonee e competenti ma di cui, nei fatti, non è possibile trovare alcun riferimento. Riferimenti mancano anche nei documenti solo sporadicamente vidimati da Nadia Spader: elenco dei partecipanti, riferimenti delle aziende vincitrici: all’Odg, che si fregia del nome di “ente di diritto”, è permesso omettere tutto.

E SEMPRE LE SOLITE FACCE. Quello di Nadia Spader non è l’unico caso di nomina “vita natural durante”: Saverio Cicala è segretario della Commissione esami quasi “onorario”: dal 2014 a oggi, non si è staccato dalla segreteria neppure una volta. Il suo curriculum non sembra tra i più convincenti in assoluto: ex giornalista del Giorno, nel lontano 1989 ha vinto il premio Walter Tobagi. Oggi è un placido nonnino in età pensionabile, ma tenace nel mantenere l’incarico che, di sessione in sessione, l’Odg gli rinnova. Non si tratta certo dell’unico giornalista in Italia a poter occupare il posto di segretario della Commissione esami: più di 10 anni di iscrizione all’Albo dei professionisti e un documento in cui si manifesta la propria disponibilità a diventare commissario, sono criteri sufficienti – almeno apparentemente – per far parte dei “magnifici quindici”. La scelta definitiva, però, è sempre dei vari consigli e, contro ogni logica di trasparenza e meritocrazia, avviene su segnalazione. Sempre a proposito di curricula, il dirigente Mario Gallucci si compiace nel curriculum redatto per l’Ordine il 10 febbraio del 2017, di conoscere “il sistema operativo Windows” e di utilizzare i “principali programmi del pacchetto Office ed equivalenti”: un po’ poco per un ente che, per il 2015, ha speso più di un milione e duecento per il suo personale in attività.

LA COMMISSIONE “ORRORI”. Sempre tornando alla commissione esami, le sue scelte, in generale, non sembrano delle più azzeccate: di anno in anno, le varie commissioni hanno bocciato giornalisti come la madre di Report Milena Gabanelli e Giulia Innocenzi, nata giornalisticamente nella fucina di Michele Santoro. E non sono nuove a gaffe o a veri e propri strafalcioni: nel 2013 la clamorosa confusione tra gip e pm di cui ha dato conto il sito dell’Espresso, nell’ultima sessione, la 126esima, l’utilizzo fantasioso della grammatica italiana, con apostrofi al posto degli accenti, mancanza di punti fermi, utilizzo indiscriminato di “ed” e “ad” dove la “d” non serve, o di frasi come “presentato per vedere approvato il loro rifiuto di accogliere”.

LE COMMISSIONI DEI SONNAMBULI. La Commissione esami, aiutata da una sotto-commissione quando il numero di candidati supera le 400 unità, nell’ultima sessione (che ha visto la partecipazione di 191 unità), ha corretto una media di 12 elaborati per componente. Per farlo, ha impiegato quasi un mese e mezzo, al ritmo di meno di un elaborato al giorno (il 24 ottobre il solito Ergife Palace Hotel di Roma ha ospitato gli esami scritti e solo il 30 novembre la commissione ha pubblicato l’esito). Non è l’unica ad aver bisogno di dosi massicce di caffè quando è “al lavoro”: Alessandra Torchia è la responsabile della Prevenzione della corruzione e della trasparenza amministrativa. Sua prerogativa è, senz’altro, quella di redigere piani triennali, in cui oltre a criteri base e modus operandi, non viene rilevato nulla. Anche le segnalazioni sugli episodi di corruzione presso il suo ufficio rimangono lettera morta. “È tutto normale – chiosa al telefono sollecitata sui bandi di gara dove a vincere è sempre le stesse azienda, forte della laurea conseguita all’Università Magna Graecia di Catanzaro – e non ci sono problemi. L’Ordine dei giornalisti è un ente di diritto”, e come tale, fa quello che gli pare.

Zaira Bartucca: Speriamo che qualcuno si faccia sentire in materia. L’Ordine dei Giornalisti è un ente di diritto che dovrebbe essere gestito in modo trasparente. Se così non è diviene inutile.

Rompiamo il muro di silenzio sull'Ordine dei Giornalisti, scrive Zaira Bartucca su "Italiachange.org". L'Ordine dei Giornalisti - che non trova omologhi in nessun altro Paese europeo - è nato nel 1925 per controllare l'esercizio della professione, che veniva permessa solo ai giornalisti graditi a Mussolini e al suo regime. Novantatré anni dopo, in uno Stato repubblicano fondato su principi costituzionali e democratici, appare sorpassata la visione corporativa di un "ceto" che ha perso tutta la vocazione di tutela degli iscritti, ma non quella a preservare gli interessi economici di quanti vi gravitano attorno in qualità di presidenti, consiglieri, componenti delle varie commissioni, docenti. Tra Ordine nazionale e ordini regionali, commissioni consultive e gruppi di lavoro, sono più di un migliaio i privilegiati titolari di incarichi d'oro che vengono spostati da una poltrona all'altra, foraggiati dalle quote di iscrizione e dalle tasse degli oltre 100mila iscritti ai vari albi. Lo scorso marzo, è stato l'ex presidente dell'Odg Enzo Iacopino a dire, dimettendosi, basta: “Prevalgono - ha dichiarato - un gioco perverso e irresponsabile di opposte militanze, il settarismo, la superficialità, le urla, le volgarità. Ci sono polemiche alimentate da ‘professori del diritto’, che si dividono equamente tra analfabeti del diritto e oltre”. Eppure questo marasma di "incompetenze e strette di mano" può contare su diversi milioni l'anno: cinque quelli dichiarati nel 2013, per quanto non resti cosa semplice indagare su un organismo che si fa paladino della libertà di stampa ma che nei fatti appare torbido, privo di trasparenza. Attorno all'Ordine gravitano aziende, altri organismi simili, persone. Un "giro di affari" più che un ente in grado di tutelare i propri iscritti, garantendo loro l'esercizio della professione e tutelandoli nelle diverse sedi. Eppure l'Ordine, protetto dal silenzio degli stessi giornalisti che temono ritorsioni quali la cancellazione dall'Albo o richiami disciplinari, si sente protetto. E' ora di rompere questo silenzio. Alberto Moravia, Milena Gabanelli, Giulia Innocenzi, sono solo alcuni dei bravi e competenti giornalisti che, in tempi diversi, l'Odg ha pensato di escludere. E' dunque lecito domandarsi: qual è il suo ruolo se non è in grado neppure di adottare criteri meritocratici - ma spesso solo clientelari - per l'accesso alla professione? E' giusto che il governo provveda a mantenere in vita un organismo che serve a rinfrescare, senza nessun tornaconto per la collettività e neppure per i giornalisti, le tasche di pochi? Al ministro con delega all'Informazione e alla Comunicazione Luca Lotti, al Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e a tutti i parlamentari senza colore politico, chiediamo, nell'interesse di tutti, di farsi promotori di iniziative che portino alla cancellazione di questo organismo di stampo fascista, che contribuisce a dare una brutta immagine dell'Italia all'estero, relegandola a tempi bui che è meglio dimenticare. Ai giornalisti precari, a quelli che vogliono esercitare i propri diritto di cronaca e di critica, a chi crede nella libertà di stampa, ai cittadini stanchi di contribuire all'ennesimo spreco, chiediamo il sostegno per questa petizione: porteremo queste firme in Parlamento, per una Legge di iniziativa popolare fatta da noi, per tutti noi. Basta privilegi di pochi. Ha aderito alla petizione anche il Portavoce M5S alla Camera dei Deputati Paolo Parentela. 

Zaira Bartucca, come lei stessa scrive, nasce nel 1986 a Lamezia Terme. Qualche anno dopo inizierà a scrivere, per non smetterla più. Passerà con una certa disinvoltura dal giornalino venduto a cinque anni ai parenti per 500 lire (in proporzione si stava meglio allora) a, vent’anni dopo, testate larghe di propositi ma strette di manica. Si laurea - incurante dei rischi - in una facoltà di Beni culturali. Vince il Premio ComuniCal 2014 ma se ne accorge solo a premiazione avvenuta. Qualche mese dopo, stavolta rendendosene conto, partecipa alla trasmissione di Canale 5 Striscia la Notizia. Ha intervistato Vittorio Sgarbi senza che lui dicesse neppure una volta “capra”. Tifa Napoli ma vorrebbe che Paulo Sousa fosse un giorno l’allenatore della sua squadra del cuore.

La giornalista Zaira Bartucca si aggiudica il premio “ComuniCal 2014”, scrive il 25 novembre 2014 "Tropeaedintorni.it". Il primo posto per la giornalista vibonese. Promosso dal Consiglio regionale e dal CoreCom, punta alla valorizzazione degli operatori calabresi dell’informazione. Ad aggiudicarsi il premio Zaira Bartucca giornalista vibonese Zaira Bartucca – promosso dal Consiglio regionale della Calabria e dal Comitato regionale per le Comunicazioni – per il miglior “articolo pubblicato su quotidiani o periodici online calabresi”, in ex aequo con Maria Crisafi de “L’Ora della Calabria. L’articolo in questione, “Il lavoro? Si inventa”, pubblicato il 24 luglio scorso sul “Corriere della Calabria”, ha messo in risalto l’esperienza di alcuni giovani informatici calabresi o che sulla Calabria hanno deciso di scommettere, mettendo a frutto progetti di rilancio occupazionale e del territorio (Domenico Perna con il progetto “Nonni Digitali”, Nicola Procopio e il suo team con “Magic bus app” e Paolo Daniele e il suo team con “Baleno”). La premiazione ha avuto luogo a Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale e del Corecom: «il concorso riservato ai giornalisti pubblicisti e professionisti iscritti all’Ordine regionale della Calabria e al sindacato Giornalisti Calabria – ha fatto sapere il presidente del Corecom Alessandro Manganaro – punta alla valorizzazione delle competenze degli operatori calabresi dell’informazione orientano il proprio impegno ad allargare i confini della comunicazione di qualità». Per ciascuna delle quattro sezioni, gli articoli e i servizi saranno pubblicati sul magazine del Consiglio regionale Calabria on web e remunerati, per i primi classificati, secondo quanto previsto per i titolari di rubrica dello stesso magazine, e per i secondi e terzi classificati secondo quanto previsto per i collaboratori dello stesso magazine. «Alla giuria che ha selezionato i lavori – ha detto Zaira Bartucca – va il mio ringraziamento per la scelta operata. Sono grata del fatto che il mio articolo sia stato considerato un contenuto di qualità e orientato al buon giornalismo. Le mie congratulazioni vanno, invece, ai colleghi premiati assieme a me in questa e nelle altre sezioni». Alla cerimonia di premiazione hanno preso parte, oltre al presidente del Corecom Calabria Alessandro Manganaro, i componenti Gregorio Corigliano e Carmelo Carabetta, il dirigente Rosario Carnevale, il capo di Gabinetto della presidenza del consiglio regionale Pasquale Crupi e il segretario del sindacato Giornalisti della Calabria e vicesegretario nazionale della Fnsi Carlo Parisi, componenti la commissione aggiudicatrice del Premio.

Esami giornalisti, l’Ordine spieghi quei 75 nomi in più, scrive Zaira Bertocca il 9 gennaio 2018 su "Scenarieconomici.it". RICEVIAMO E RILANCIAMO QUESTE INTERESSANTI DOMANDE. "Avvocati, commercialisti, docenti. In Italia il “corpus” in materia di esami professionalizzanti truccati, è piuttosto vasto. C’è chi, come lo scrittore Antonio Giangrande, ha impostato su questa materia contributi dettagliati e ben documentati. Escamotage in sede di esame, cognomi “musicali” che ricordano subito quelli dei colleghi (spesso dirigenti) del proprio ordine professionale, modi più o meno fantasiosi di segnare un elaborato: i ferri del mestiere del perfetto commissario sembrano essere questi. Tanti hanno avuto la possibilità di familiarizzarvi, per esperienza diretta o per quanto reso noto da giornali e tv. Così l’esercito dei ricorrenti al Tar cresce, si infoltisce, di giorno in giorno. Non stupirebbe più di tanto, quindi, se a essere colpita fosse anche la categoria dei giornalisti, con la compiacenza dell’ordine di riferimento che, a differenza dei vari omologhi, può contare sul silenzio di tutte le testate e di tutti i giornalisti. A chi interessa crearsi problemi con l’organismo che eroga pensioni o privilegi, e che ha il potere di inoltrare richiami disciplinari o di radiare un iscritto? A me, che credo nell’inutilità di un ordine dei giornalisti, che cozza con ogni evidenza con i principi democratici e con quelli della libertà di stampa, non importa più di tanto. Spero dunque che qualcuno possa farsi promotore di una scelta coraggiosa dando spazio a questo contributo. Altrettanto, spero che le Procure e chi di competenza acquisiscano tutto il materiale utile per accertare i criteri di accesso agli esami orali che avranno luogo a Roma in Via Sommacampagna, nella sede dell’Ordine, domani stesso. Prove che, in attesa che venga fatta chiarezza, andrebbero sospese. Ho partecipato in qualità di candidata alle prove scritte dell’esame per giornalisti professionisti del 26 ottobre del 2017. L’esclusione dalle prove orali, che ritengo ingiustificata, è stata il pretesto per scavare dentro un meccanismo che desta più di una perplessità. In sede di esame è stato piuttosto frequente sentire candidati lagnarsi del fatto che sia stata estratta una busta anziché un’altra, quasi che in qualche modo fossero stati messi a conoscenza del loro contenuto. Asserzione che, tuttavia, non è facile documentare. Quello che invece è facilmente riscontrabile, è che ben 75 ammessi agli orali di domani non hanno sostenuto le prove scritte propedeutiche al colloquio. Il raffronto può essere fatto agevolmente scorrendo le liste degli ammessi agli scritti e agli orali presenti sul sito dell’Odg. Un numero piuttosto elevato, che l’Ordine dei giornalisti è chiamato a spiegare per fugare ogni dubbio su possibili episodi di corruzione. Perché 75 candidati non hanno sostenuto la prova scritta? Come mai i cognomi degli ammessi agli orali, di sessione in sessione, ricordano in percentuali strabilianti quelli di consiglieri, dirigenti, presidenti degli ordini regionali o componenti di organismi simili (Fnsi, Inpgi, ecc.)? E’ giusto che i “documenti” presenti sul sito dell’Ordine siano costantemente sprovvisti di riferimenti anagrafici, timbri, date, firme? Per quale motivo dal sito – a seguito di segnalazioni alla commissione Anti-Corruzione interna all’Odg – spariscono i documenti sui bandi di gara aperti alle aziende di informatica che danno assistenza in sede di esame? Azienda, per meglio dire, perché, dal 2014, la fortunata è sempre la stessa. Il mio lavoro di giornalista, consiste nel documentare quello che vedo, e nel fare domande. All’Ordine spetterebbe dare delle risposte, alla Procura della Repubblica, fare il proprio lavoro per accertare la presenza di dinamiche diverse da quelle previste dalla legalità".

E spunta pure un esame truccato da giornalista professionista, scrive “Tuscia Web” ed “Oggi Notizie”. Viviana Tartaglini potrebbe aver truccato l’esame da giornalista professionista. Sarebbe questo, secondo il Messaggero, il nuovo risvolto nell’inchiesta della Procura di Viterbo per tentata estorsione che coinvolge il direttore del giornale locale l’Opinione Paolo Gianlorenzo e la collega Viviana Tartaglini. Una notizia finita sulla prima pagina del quotidiano nazionale. Secondo quanto riportato dal giornale, Viviana Tartaglini avrebbe saputo in anticipo la traccia dell’esame professionale e si sarebbe fatta scrivere l’articolo da un collaboratore. Per la giornalista spunta così una nuova ipotesi di reato che, se verificata, aggraverebbe la sua posizione. Ieri, infatti, gli agenti della polizia giudiziaria, su mandato della Procura di Viterbo, avrebbero bussato alla porte dell’Ordine nazionale dei giornalisti a Roma, sequestrando la prova scritta dell’esame di Stato per l’iscrizione all’albo dei professionisti sostenuta nel gennaio del 2011 dalla giornalista. “Il sospetto – secondo quanto riporta il Messaggero – è che la giornalista fosse in possesso del titolo della traccia da svolgere durante la prova professionale già nei giorni precedenti e che la mattina del 18 gennaio si sia limitata a copiare quanto per lei era già stato scritto da altri. E ieri, durante il sequestro, sarebbe arrivata la conferma”. Due le modalità per accedere alla prova: o tramite corso universitario presso facoltà o scuole di giornalismo accreditate dall’Ordine. Oppure facendosi assumere da una redazione come praticante e, passati diciotto mesi, presentare la domanda. Poi l’esame di stato che tra l’altro consiste nella redazione di un articolo durante la prova. Per la Tartaglini le cose sarebbero andate diversamente. “A quanto pare – si legge nel Messaggero - la Tartaglini, a pochi giorni dall’esame invia una mail a un giornalista con cui lo incarica di redigere un articolo di sessanta righe su un evento sportivo, tema motociclismo”. Un particolare che sarebbe finito negli atti del fascicolo aperto dal pm Massimiliano Siddi, dopo la denuncia di alcuni soci della cooperativa editrice dell’Opinione. Tutto è ora al vaglio degli inquirenti che dovranno dimostrare la nuova ipotesi di reato a carico della Tartaglini.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO. MILENA GABANELLI.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Aldo Busi è stato bocciato all'esame di giornalismo, scrive “La Repubblica”. Il celebre scrittore aveva scelto di svolgere il tema di cronaca nera: immaginare un'intervista ai genitori di un ragazzo morto per overdose. Un capolavoro secondo l'autore di Sodomie in corpo undici ambientato nel Bresciano, dove sono nato. La commissione esaminatrice, però, non lo ha giudicato così. L'articolo doveva essere lungo 60 righe, mentre Busi ne ha scritte più di 100, e non avrebbe avuto il taglio giornalistico richiesto. Se è vero che Busi ha scritto più di 100 righe quando ne venivano richieste 60 ha commesso un errore tecnico-professionale molto grave ha commentato Franco Abruzzo, presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia. Chi come me viene dalla scuola del Giorno di Italo Pietra sa benissimo che non c'è notizia che non possa essere raccontata in 50 righe. Un tempo col piombo si poteva anche essere un po' più elastici, ma oggi, con le nuove tecnologie, è fondamentale che il giornalista sappia rispettare le lunghezze. L'articolo-scandalo di Busi è intanto richiestissimo da settimanali e mensili disposti a pagare cifre altissime per poterlo pubblicare. La commissione esaminatrice deve decidere, però, se consentire o meno la restituzione del tema all'autore. Sono particolarmente fiero di annunciare la mia bocciatura all' esame ha detto l'autore non appena è uscito l'elenco degli ammessi alla prova orale è una riprova che chi ama la verità e sa scriverla non può essere un giornalista, ma solo uno scrittore. La ridicola corporazione dei giornalisti in Italia una volta di più dimostra la merdina in cui sta nuotando da quando c'è. A forza di esigere protezioni particolari e benefici per meriti inesistenti ha aggiunto lo scrittore si finisce con l'essere esposti su tutti i fronti e infatti non per niente i giornalisti sono equiparati ai magistrati. Adesso posso dire: evviva, mi considero promosso con 110 e lode nell'ordine della vita. Gli è andata male, capita a tutti ha commentato Guido Guidi, presidente dell'Ordine dei giornalisti. Ma perché insulta tanto la categoria quando proprio lui ne vuole far parte?

Indro Montanelli, durante la sua permanenza al fronte aveva iniziato a scrivere un libro-reportage, che diede alle stampe all'inizio del 1936, mentre era ancora all'estero. L'opera, XX Battaglione Eritreo, in maggio fu recensita favorevolmente da Ugo Ojetti (sul Corriere della Sera) e da Goffredo Bellonci; la sua tiratura raggiunse le 30.000 copie. Il padre di Indro, Sestilio, si trovava in Africa Orientale per dirigere una commissione di esami per militari e civili dell'esercito residenti nelle colonie. Intercedesse presso il direttore del quotidiano di Asmara La Nuova Eritrea, Leonardo Gana, facendolo assumere. Montanelli ottenne così la tessera di giornalista.

Interessante ricordare anche in questo caso Montanelli. Domanda: come mai non diventò mai giornalista professionista? Per sua scelta o perchè .... le commissioni di esame sono composte da commissari dall’incerta preparazione. Inadatti a correggere chi, forse, è meglio di loro e non sono all'altezza di giudicare le prove d'esame dei candidati eccellenti.

Giornalisti, tracce d'esame 2013 con errori. E la gaffe viene "sbianchettata" online. I testi distribuiti durante la prova scritta, che ha visto bocciato un candidato su due tra cui Giulia Innocenzi, presentavano varie imprecisioni: una clamorosa confusione tra pm e gip, nomi sbagliati e persino il biglietto d'addio di Carlo Lizzani trascritto male. Possibile che la commissione non se ne sia accorta? Si chiede Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Grazie a Giulia Innocenzi, conduttrice di "Servizio Pubblico", la 115esima sessione dell'esame di Stato per diventare giornalista professionista è finita sui giornali di mezza Italia. La ventinovenne è stata infatti bocciata allo scritto, e la notizia (chissà perché) ha fatto il giro del web e dei giornali, su cui si sono cimentati - con ironie e sfottò - i commentatori e i telespettatori che non hanno in grande simpatia la collaboratrice di Michele Santoro. Una campagna stampa martellante, tanto che è dovuto intervenire il presidente dell'Ordine Enzo Iacopino, spiegando che la prova d'esame può essere «falsata dalla tensione, e non fotografa certamente le reali capacità» dei candidati. «Non dovrei dirlo proprio io, ma non è il tesserino che fa di una persona un giornalista». La Innocenzi è capitata in una sessione particolarmente dura: il 44 per cento dei candidati, infatti, non è riuscita a prendere il minimo (36) per passare agli orali. In genere la media dei bocciati viaggia sul 25 per cento. Stavolta la commissione è stata severissima, falcidiando quasi la metà dei ragazzi. Tuttavia la stessa commissione - composta da 5 esperti giornalisti professionisti e da un sostituto procuratore di Frosinone - ha fatto degli errori gravissimi nelle tracce d'esame che - commessi da un candidato - ne avrebbero comportato bocciatura sicura. Errori che poi sono stati malamente corretti sui documenti pubblicati sull'Ordine dei giornalisti alla fine dell'esame. L'Espresso ha avuto il documento originale consegnato ai candidati lo scorso 15 ottobre, ossia la traccia destinata a chi avesse voluto scegliere l'articolo di cronaca, in genere il più gettonato tra gli aspiranti professionisti. Una serie di lanci di agenzia (inventati) da trasformare in un pezzo. Ebbene, se il pm protagonista della vicenda immaginaria viene chiamato prima in un modo (Galese) e poi in un altro (Galesi) - segno di un refuso non corretto - a un certo punto la traccia indica che è il pubblico ministero stesso «a decidere se convalidare o meno il fermo» di alcuni sospetti. Anche i cronisti alle prime armi sanno che - come indica il codice di procedura penale - è il giudice per le indagini preliminari a poter ordinare la convalida del fermo. Il magistrato può solo fare la richiesta. Strano - e grave - che i commissari giudicanti di un esame di Stato non conoscano la differenza tra un gip e un pm. Accortisi dell'errore, sul sito dell'Ordine dei giornalisti sono corsi ai ripari, pubblicando la traccia "sbianchettata": la frase incriminata è scomparsa, e a penna è stata aggiunta la frase «chiederà al gip». Per chi s'è preparato per mesi, sborsando 400 euro come tassa per sostenere l'esame (a cui aggiungere i soldi per raggiungere Roma e il pernottamento: L'Ergife, l'hotel dove si tiene l'esame, è convenzionato e costa 140 euro a notte) un errore di questa portata ha il sapore della beffa. «Ci si aspetterebbe professionalità assoluta», spiega una ragazza che non è passata «ma non è così. È inaccettabile». Anche perché un altro errore, meno grave, c'era anche nella prima traccia di spettacoli, sulla recente scomparsa di Carlo Lizzani. Il regista si è gettato dalla finestra un mese fa, lasciando - come segnalarono le agenzie di stampa il 5 ottobre - un criptico biglietto d'addio ai familiari: «Stacco la chiave». I commissari, chissà perché, hanno semplificato il biglietto d'addio a modo loro, e la frase s'è trasformata in: «Stacco la spina». Anche nella seconda traccia di economia c'è, infine un'imprecisione: si legge che «entro oggi (il 15 ottobre, giorno dell'esame, ndr) il governo deve presentare in Parlamento la legge di stabilità». Non è così: la Finanziaria quel giorno era solo stata approvata dal Consiglio dei ministri: solo nei prossimi giorni verrà discussa dal Parlamento.

GIULIA INNOCENZI E L’ESAME TRUCCATO DI GIORNALISMO.

Uomini di fiducia, persino competenti. Concorsi pubblici? si fa per dire, scrive Claudio Visani su su “L’Indro”. L’ultimo caso a Faenza, protagonista il Sindaco Giovanni Malpezzi, Pd, renziano doc. Ci risiamo. La malapianta delle selezioni pubbliche truccate, fatte apposta per scegliere discrezionalmente chi si vuole ma senza avere il coraggio di difendere le proprie scelte fiduciarie, usando le norme che dovrebbero favorire professionalità, merito e trasparenza solo per farsi belli e pararsi il sedere dalle critiche politiche e dai ricorsi, non conosce fine. Me ne occupo da diversi anni sul mio blog. Contro concorsopoli ho fatto battaglie all’Ordine dei giornalisti e presentato ricorsi legali col sostegno del sindacato. Contro i bandi sartoriali cuciti addosso ai vincitori predestinati da pubbliche amministrazioni che non esitano a prendersi gioco dei tanti disoccupati che ancora credono nell’etica della politica, ho scritto denunce sui media e cercato di smuovere l’opinione pubblica. Niente, non è servito a niente. Non c’è verso di cambiare l’andazzo della malapolitica. L’ultimo caso è di pochi giorni fa. Il Sindaco di turno – Giovanni Malpezzi, Pd, renziano doc, primo cittadino di Faenza - vuole rafforzare il suo staff e migliorare la sua comunicazione. Più che la professionalità gli interessa la fedeltà delle persone che sceglierà e che, peraltro, ha già in mente. C’è una norma che gli consente di fare nomine ‘fiduciarie’ (l’articolo 90 della legge 267/2000 sugli enti locali) per gli incarichi legati al suo mandato politico. Ma procedere alla nomina diretta lo esporrebbe a critiche. E lui mica è uno che distribuisce incarichi per calcolo o fedeltà politica: ci mancherebbe. Lui è uno che ci tiene al rispetto sostanziale delle regole, che guarda solo all’interesse pubblico mica a quelli personali o degli amici. Così fa uscire un bell’avviso per una selezione pubblica: fumoso, generico, di quelli che non si capisce bene chi si voglia selezionare e per fare cosa. L’avviso parla della «copertura di due posti di istruttore amministrativo (categoria C), con contratto a tempo determinato, presso l’ufficio di staff del Sindaco del Comune di Faenza». Precisa che «la durata del contratto di lavoro è legata alla scadenza del mandato del sindaco», e che «i candidati devono essere in possesso del diploma di istruzione secondaria superiore» (??), «oltre ai requisiti generici previsti per le selezioni pubbliche»Il passaparola dice, invece, che il Sindaco cerca, in particolare, qualcuno che gli curi l’informazione e la comunicazione, ma nell’avviso ci si guarda bene dal fare riferimento alla legge che regola questa attività nelle pubbliche amministrazioni (la legge 150/2000) e alle figure professionali che dovrebbero esercitarla (i giornalisti iscritti all’Ordine professionale). Indica genericamente, tra le funzioni, la «cura delle relazioni politiche istituzionali, interne ed esterne del Sindaco e della Giunta». L’avviso, casualmente, esce all’inizio di agosto e scade due giorni dopo Ferragosto. Nonostante questo arrivano al Sindaco 79 domande. La fame di lavoro è grande in tutti i campi, e in quello dell’informazione di giornalisti a spasso ce n’è sempre di più. Il bando precisa che le domande «saranno inizialmente esaminate dal Servizio personale e organizzazione» e che successivamente «il Sindaco provvederà poi ad individuare i soggetti a cui affidare l’incarico, previa analisi dei curricula prodotti e sulla base delle esperienze e competenze specifiche». Dice anche che il Sindaco, dopo l’analisi dei curriculum, «valuterà se convocare i candidati per un eventuale colloquio individuale». L’11 settembre il sindaco comunica di aver proceduto alla nomina dei due nuovi addetti al suo staff. Non risulta che ci siano stati colloqui. Anzi, non risulta che ci sia stata nemmeno una risposta di cortesia alle domande presentate. Il comunicato precisa che, però, i due sono stati «selezionati mediante procedura pubblica, così come prescritto dall’art. 90 del Testo Unico degli enti locali». Uno dei due è quello che c’era già, un «diretto collaboratore» del primo cittadino. L’altro, spiega il comunicato, è «un laureato in Scienze Politiche e relazioni internazionali». Che c’entri con la comunicazione non si sa. Poi, fatto sicuramente secondario e ininfluente, è anche un ex Consigliere comunale del partito del Sindaco che doveva essere rieletto e invece è rimasto a piedi. Il Sindaco precisa, puntigliosamente, che «oggetto di valutazione sono state in primis la conoscenza politico-amministrativa del territorio, l’esperienza acquisita presso pubbliche amministrazioni, le conoscenze informatiche e degli strumenti di comunicazione multimediali e le competenze relazionali». Poi, finalmente, arriva al punto, con queste due frasi da incorniciare: «Come è prassi, risulta evidente che il ruolo di consiglio e di supporto nell’azione politica del Sindaco e della Giunta necessiti anche di elementi fiduciari irrinunciabili». «So bene che ogni nomina -soprattutto in politica- può generare critiche ed anche contrapposizioni e strumentalizzazioni. Al riguardo, sono molto sereno, perché ho scelto due persone valide e capaci di gestire i compiti richiesti». La prima frase è un inno all’ipocrisia: ma se voleva due fiduciari, perché non li ha nominati direttamente, avendo il coraggio della scelta e assumendosene la responsabilità? Perché ha messo in piedi tutto l’ambaradan della selezione pubblica prendendo così per i fondelli gli altri 77 che hanno partecipato a una gara truccata, il cui esito era già deciso in partenza? La seconda frase, infine, è un monumento alla coda di paglia: per prevenire o ribattere alle critiche, si dice sereno perché ha scelto due persone valide e capaci. Perché, oltre che fedeli li voleva forse anche incapaci?

Fermiamo la concorsopoli per i giornalisti negli enti pubblici. Sempre più rare, quasi sempre truccate. Non se ne può più delle selezioni ad personam per giornalisti della pubblica amministrazione. I casi clamorosi, scrive Claudio Visani su “Globalist”. Sempre più rari. Quasi sempre finti. Spesso truffaldini. Sono i "bandi sartoriali" per giornalisti cuciti addosso ai vincitori predestinati dalle pubbliche amministrazioni di ogni colore e di ogni latitudine. Sono i concorsi e le selezioni che servono non a prendere i più bravi ma a parare il culo ad amministratori e dirigenti. Quelli che fin dall'inizio hanno già scelto i loro "fiduciari" per i posti disponibili, ma non sanno o non vogliono prendersi la responsabilità di nominarli direttamente, anche quando la legge glielo consentirebbe, ad esempio per gli incarichi ad alta professionalità o per gli incarichi di tipo politico. Oppure vogliono, semplicemente, evitare l'interrogazione o l'esposto dell'oppositore di turno che - in caso di chiamata diretta - chiede come mai per quel posto non si è proceduto a una selezione pubblica. Oppure, ed è la pratica peggiore ma molto diffusa, vogliono semplicemente "farsi belli", andare sui media come quelli che fanno le cose per bene, che perseguono il merito nell'interesse dei cittadini e dell'ente che rappresentano. Di tutto questo verminaio non se ne può veramente più. Le finte selezioni. Le ultime due finte selezioni di cui ho conoscenza diretta sono state fatte al Dams di Bologna e al Comune di Crema. Nel primo caso veniva offerto un posto da addetto stampa per un anno, con contratto co.co.co. da 20mila euro. Alla selezione, per soli titoli, hanno partecipato più di ottanta giornalisti. In palio c'erano 30 punti: 15 venivano assegnati a chi aveva (testuale nel bando) "esperienze professionali maturate presso amministrazioni del Comparto Università nei peculiari ambiti di attività del profilo e con le caratteristiche del profilo medesimo, con contratto di lavoro subordinato e non subordinato". Indovinate quanti avevano quel requisito e hanno preso quei 15 punti? Uno solo. Il vincitore, ovviamente. Nel secondo caso, a Crema, il nuovo sindaco cercava un addetto stampa. Selezione per titoli, contratto part-time di pubblico impiego da 18 ore alla settimana per 800 euro lordi al mese. Offertina così così, ma con la fame di lavoro che c'è sono arrivate ugualmente 200 domande, da mezza Italia. In prima battuta ne vengono selezionate 25 e il sindaco, a quel punto, decide di chiedere ai selezionati una prova scritta da remoto, on line. La procedura è insolita, per niente trasparente (chi valuta chi e con quali criteri?) ma sembra propendere a una selezione meritocratica. Su 25 concorrenti ne vengono selezionati 4 che vengono chiamati dall'amministrazione a un colloquio supplementare. A quel punto, e solo a quel punto, la giunta che fa la selezione finale (anche questa una curiosa pratica) dice papale papale che è pregiudizievole la presenza quotidiana in ufficio, 3 ore al giorno per 6 giorni. Il che equivale a dire che serve la residenza in zona, dal momento che 3 dei 4 finalisti risiedono uno tra Milano e Como, uno a Parma e l'altro a Bologna, cioè a ore di auto, quindi interessati a modalità diverse di lavoro (telelavoro, ad esempio) perchè se devono fare presenza quotidiana in ufficio si mangiano il magro compenso in viaggi. Un solo concorrente, peraltro dei 4 l'unico non giornalista, è di quelle parti. Indovinate chi è stato scelto. Un malcostume dilagante. Ma perché si devono prendere per il sedere in questo modo le persone? Si rendono conto o no questi dirigenti pubblici, questi sindaci o assessori, che così facendo non fanno l'interesse del loro ente o della loro comunità? Che, anzi, macchiano il loro stesso mandato e danno un contributo straordinario all'antipolitica? La disoccupazione anche tra i giornalisti ormai è diffusissima. Gli editori non assumono più, vogliono fare i giornali senza giornalisti. I posti da giornalista nelle pubbliche amministrazioni sono una merce sempre più rara. E le poche selezioni che ancora si fanno nove volte su dieci sono truccate. E' un malcostume diffuso contro il quale l'Ordine e il sindacato dei giornalisti fanno ancora troppo poco. La battaglia contro "concorsopoli". Alla "concorsopoli" dei giornalisti ho dedicato un bel po' di lavoro negli anni passati. Per un certo periodo ho monitorato selezioni e concorsi pubblici in tutta Italia. Ho documentato come la gran parte dei bandi fosse redatta in maniera non conforme alla legge, che prevede ancora come unico requisito obbligatorio (ripeto, obbligatorio) per l'ammissione alle selezioni sia l'iscrizione all'Albo dei giornalisti. Gli altri titoli - dalla laurea alle lingue, dall'essere pubblicista piuttosto che professionista, fino alle precedenti esperienze lavorative - possono servire per alzare i punteggi ma non per escludere i concorrenti. Ho segnalato le violazioni continue alla legge 150 che regola l'attività giornalistica negli uffici stampa pubblici, in particolare per la mancata netta separazione che dovrebbe esistere tra i ruoli di portavoce e addetto stampa. Ho denunciato, in particolare, la pratica dilagante dei bandi e delle selezioni "ad personam", raccontando ciò che avevo avuto modo di incrociare direttamente. I casi più clamorosi. Ecco un riepilogo dei casi più clamorosi. Alla Regione Calabria cercavano il direttore di un giornaletto istituzionale on-line. Un incarico da ben 120mila euro lordi l'anno. E un bando così smaccatamente personalizzato che chiamai al telefono il dirigente regionale incaricato della selezione per protestare, il quale mi invitò a presentare ricorso. L'ho fatto. Non mi è tornata indietro nemmeno la ricevuta di ritorno della raccomandata. Alla Regione Sardegna, invece, uscì un bando per assumere 4 colleghi con la qualifica di capo servizio. Tra i titoli richiesti, c'era la conoscenza della lingua sarda. Il mio amico Giancarlo Ghirra, allora segretario nazionale dell'Ordine, mi spiegò che c'era una vecchia legge che equiparava la Sardegna alle Regioni bilingui e che qualcuno l'aveva riesumata per mettere quel requisito ed essere così sicuro che non ci fossero intrusi nella selezione. Alla Fondazione Cineteca di Bologna il bando per assumere a tempo indeterminato il capo ufficio stampa, addirittura non prevedeva l'iscrizione all'Albo dei giornalisti. In compenso chiedeva la laurea, la conoscenza della lingua inglese, tre anni di esperienza in materia di cinema. Evidentemente il prescelto non era un giornalista. L'Università di Bologna persevera con un bando per un incarico di lavoro autonomo di quasi due anni, egregiamente retribuito (134mila euro lordi nel biennio). Questa volta assume un "capo ufficio stampa e portavoce", due figure che per legge dovrebbero essere incompatibili tra loro. Al Comune di Modena, infine, per rinnovare due contratti di lavoro precari in scadenza all'ufficio stampa, viene bandita una selezione pubblica per due co.co.co. della durata di 20 mesi discretamente retribuiti (60mila euro per l'addetto stampa, 80mila per il vice capo ufficio stampa). Arrivano 324 domande. Una commissione seleziona una decina di curriculum (con quali criteri non è dato sapere). I superstiti vengono chiamati a un colloquio che è solo "conoscitivo" della persona, non affonda su competenze, capacità, attitudini. Ma che basta alla commissione per scegliere i due "fortunati". Che, guarda caso, sono il vice capo ufficio stampa e l'addetto stampa uscenti. Ovvero, i due colleghi precari scaduti, immagino validissimi, che vengono rinnovati nel loro incarico per altri 20 mesi. I ricorsi e il bando virtuoso. Ovunque ci si volta, si vede - quanto meno - il trionfo dell'ipocrisia e l'inabissamento dell'etica. Ma dalla denuncia del malcostume intollerabile dei bandi "sartoriali" e delle selezioni pubbliche "truffaldine" dove vincono gli amici degli amici e non i più bravi, qualcosa nasce. In due casi, alla Provincia di Trento e ancora all'Università di Bologna, per due bandi che non rispettavano le normative vigenti (in particolare per i requisiti della laurea e dell'anzianità di servizio), con il sostegno del Sindacato (a Trento) e dell'Ordine dell'Emilia-Romagna (a Bologna) presentammo ricorsi al Capo dello Stato. In un caso, a Trento, il bando venne modificato positivamente prima del pronunciamento del giudice. Nell'altro il Consiglio di Stato respinse il ricorso, ma con motivazioni di tipo procedurale e non di merito. Anche da quel lavoro di inchiesta e denuncia nasce poi l'iniziativa del sindacato nazionale dei giornalisti (la Fnsi) del bando virtuoso per le assunzioni dei giornalisti nella pubblica amministrazione. Un bando che definisce i criteri che si dovrebbero seguire per la selezione e la contrattualizzazione, che nell'autunno del 2012, su mia iniziativa (allora ero consigliere nazionale) è stato fatto proprio anche dall'Ordine e inserito nella carta dei doveri dei giornalisti degli uffici stampa. Sindacato e Ordine rilancino la battaglia. Le iniziative di Ordine e Fnsi per promuovere il bando con le pubbliche amministrazioni, tuttavia, complice anche la crisi, sono state poche e non hanno dato risultati apprezzabili. Anche se c'è una Regione, l'Umbria, che ha approvato un protocollo di intesa (Regione, Province, Comuni, Ordine, Sindacato) per la selezione dei giornalisti, la definizione del loro profilo professionale all'interno degli uffici stampa e l'applicazione del contratto giornalistico. Iniziative apprezzabili, rimaste però in gran parte sulla carta. Per questo c'è la necessità di rilanciare una battaglia che è anzitutto di civiltà e moralità pubblica soprattutto in questo periodo di crisi, contro ogni "concorsopoli". I colleghi che sono disposti a sostenerla si facciano avanti. Il Sindacato e l'Ordine dei giornalisti li ascoltino, li organizzino e rilancino l'iniziativa su questo tema.

Quando un esame truccato, truccabile, o comunque irregolare miete vittime illustri e scoppia la bagarre.

Tra ipergarantiti e affamati, il disordine dei giornalisti. «Mettere i giornalisti nel calderone delle liberalizzazioni è sbagliato. Senza l’Ordine sarebbe la giungla», ha detto Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Eppure la professione sembra già una giungla, divisa ormai tra chi ha i diritti (ma solo il 19% degli iscritti ha un contratto giornalistico) e chi lavora per poche lire ad articolo (tra i free lance, 6 su 10 hanno un reddito lordo annuo inferiore ai 5.000 euro). Tutti i dati nella nostra infografica, quinta della serie sulle liberalizzazioni. Reportage su “L’Inkiesta” a cura di Carlo Manzo e Paolo Stefanini. Ha collaborato Christiana Antoniou.

Come si diventa giornalista?

La professione è regolata dalla legge 69 del 1963. Non è necessaria la laurea, è sufficiente la licenza di scuola media superiore. I giornalisti si dividono in professionisti e pubblicisti. È professionista chi esercita in modo esclusivo e continuativo la professione di giornalista. È pubblicista chi svolge attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercita altre professioni o impieghi.

Giornalista professionista. Per diventare professionista e iscriversi nel relativo elenco, è necessario:

A) svolgere il praticantato (18 mesi presso una redazione giornalistica) o frequentare una scuola di giornalismo (biennale) riconosciuta dall’Ordine. Nel primo caso è necessario frequentare anche uno dei corsi di formazione o preparazione teorica (anche “a distanza”), della durata minima di 45 ore, promossi dal consiglio nazionale o dai consigli regionali dell’ordine;

B) superare l’esame di idoneità professionale. Il praticante deve sostenere la prova di idoneità professionale entro 3 anni dalla data di iscrizione nel registro dei praticanti.

Giornalista pubblicista. Per iscriversi nell’elenco dei pubblicisti è necessario aver svolto un’attività giornalistica continuativa e regolarmente retribuita, per almeno due anni e comprovarlo con elenco di articoli, giustificativi fiscali e dichiarazione del direttore responsabile su carta intestata.

I free lance. Chi è già iscritto all’albo come pubblicista e svolge attività giornalistica da almeno tre anni, con rapporti di collaborazione coordinata e continuata, con una o più testate qualificate allo svolgimento della pratica giornalistica, può chiedere al consiglio regionale dove risiede l’iscrizione al registro dei praticanti e sostenere l’esame. È obbligatoria l’iscrizione all’istituto di previdenza.

L’esame. Prevede una prova scritta e una orale.

Lo scritto (che solo dal 2009 viene svolto con il computer, in precedenza con la macchina per scrivere) consiste:

A) nella sintesi di un articolo in un massimo di 30 righe di 60 caratteri ciascuna, per un totale di 1.800 battute;
B) nello svolgimento di una prova di attualità e di cultura politico-economico-sociale riguardante l’esercizio della professione (questionari a risposta aperta);

C) nella redazione di un articolo su argomenti di attualità scelti dal candidato tra quelli, in numero non inferiore a sei (interni, esteri, economia-sindacato, cronaca, sport, cultura-spettacolo) proposti dalla commissione. L’articolo non deve superare le 45 righe da 60 caratteri ciascuna per un totale di 2.700 battute compresi gli spazi.

L’orale consiste in un colloquio diretto ad accertare la conoscenza di: elementi di storia del giornalismo; elementi di sociologia e di psicologia dell’opinione pubblica; tecnica e pratica del giornalismo; ordinamento giuridico della professione di giornalista e norme contrattuali e previdenziali; norme amministrative e penali concernenti la stampa; elementi di legislazione sul diritto di autore; etica professionale; elementi di diritto pubblico. Comprende anche la discussione di un argomento di attualità, liberamente scelto dal candidato e anticipato in forma scritta con una tesina (5500/6000 battute).

La Commissione d’esame. La commissione di esami è composta da due magistrati, designati dal presidente della Corte d’appello di Roma, e da cinque giornalisti professionisti, iscritti nel relativo elenco da non meno di dieci anni, non facenti parte del Consiglio nazionale o di Consigli regionali, dei quali almeno quattro esercitino la propria attività presso quotidiani, periodici, agenzie di stampa e presso un servizio giornalistico radiotelevisivo, in ragione di uno per ciascuno di detti settori di attività. Il segretario della commissione è scelto tra professionisti iscritti nel relativo elenco da almeno cinque anni. La commissione non può esaminare un numero di candidati superiore a 400. Se supera lo scritto un numero superiore vengono create delle sottocommissioni.

Il ruolo dell’ordine.

I Consigli.

– provvedono alle iscrizioni all’Albo professionale e alle cancellazioni;

– hanno poteri di vigilanza per la tutela del titolo di giornalista, in qualunque sede, anche giudiziaria, e contro l’esercizio abusivo della professione;

– garantiscono l’osservanza delle norme di etica professionale, «vigilando sulla condotta e sul decoro degli iscritti» e adottando provvedimenti disciplinari nei confronti di coloro che si rendano colpevoli di fatti non conformi al decoro o alla dignità professionale o di fatti che compromettano la propria reputazione e la dignità dell’ordine.

Le sanzioni sono:

l’avvertimento viene inflitto nel caso di abusi o mancanze di lieve entità e consiste nel richiamo del giornalista all’osservanza dei suoi doveri;

– la censura, è connessa ad abusi o mancanze di grave entità e consiste nel biasimo formale per la trasgressione accertata;

– la sospensione dall’esercizio professionale può essere inflitta nei casi in cui l’iscritto abbia compromesso, con la sua condotta, la propria dignità professionale;

-la radiazione è diretta a sanzionare la condotta dell’iscritto che abbia gravemente compromesso la dignità professionale sino a renderla incompatibile con la permanenza nell’Albo. La legge prevede la reiscrizione, su domanda dell’interessato, trascorsi cinque anni dal giorno della radiazione.

L’INPGI. Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani “Giovanni Amendola”. Attua la previdenza e l’assistenza in favore dei giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti titolari di un rapporto di lavoro subordinato di natura giornalistica e dei familiari a loro carico. È una fondazione dotata di personalità giuridica di diritto privato, soggetta alla vigilanza del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale e del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Provvede al

– trattamento di pensione di invalidità, vecchiaia, anzianità e superstiti;

– trattamento economico in caso di tubercolosi;

– trattamento in caso di disoccupazione;

– assegni per il nucleo familiare;

– trattamento in caso di infortunio;

– forme ulteriori di previdenza e assistenza.

LA CASAGIT. Cassa Autonoma di Assistenza Integrativa dei Giornalisti Italiani “Angiolo Berti”. È un’associazione di natura privata, a carattere nazionale e senza fini di lucro. È ispirata ai principi della mutualità e assicura ai soci e ai loro familiari un sistema integrativo al Servizio Sanitario Nazionale.

LA FNSI. Federazione Nazionale della Stampa Italiana. È il sindacato nazionale unitario dei giornalisti italiani (federazione fra le associazioni regionali). Stipula i contratti collettivi di lavoro e assicurare ai giornalisti l’assistenza sindacale anche in collaborazione con le Associazioni Regionali di Stampa e le strutture sindacali aziendali (Comitati e fiduciari di redazione). 

Giulia Innocenzi bocciata all’esame di giornalismo. Succede anche ai vip. Ed era già successo, ma prima che divenissero "big", a Milena Gabanelli e a Paolo Mieli. Giulia Innocenzi è stata bocciata all'esame per diventare giornalista professionista. La pupilla di Michele Santoro non ha superato la prova scritta dell'esame di Stato. Pare che abbia sviluppato la traccia su amnistia e indulto, ma non si conoscono i motivi per i quali il suo tema non ha raggiunto la sufficienza. 

L’ordine dei giornalisti va abolito? Altro che dileggi, una medaglia per la Innocenzi. Bocciata all’esame da giornalista, gestito da burocrati della notizia. Il vero test sono i lettori, scrive Luca Telese su “L’Inkiesta”. Sembra una disputa tra giornalisti ma non lo è: la presunta polemica contro Giulia Innocenzi, bocciata all’esame di giornalismo e sbeffeggiata ieri su Libero, e oggi sulla prima pagina del Giornale e poi in un coretto turbinoso di siti sciacalleschi e di parassiti dileggiatori contenti di gridare dagli al vip è il simbolo di una follia tutta italiana.

La prima insensatezza è evidente a chiunque abbia già passato l’esame di giornalismo: ovvero l’assurdo di considerare come un giudizio attendibile un concorsone taroccato per costituzione, in cui puó capitare di andare benissimo o malissimo per puro caso, una lotteria in cui si essere interrogati sullo scibile umano, perché la materia teorica di chi deve fare il giornalismo è appunto pura tuttologia: diritto, codice civile, Costituzione, storia, storia del giornalismo, titolistica, grafica, solo per citare alcuni dei tanti sterminati campi. Ricordo una meravigliosa risposta di Alberto Ronchey: «Lei è un intellettuale, uno studioso, un giornalista, ora anche un ministro: si sente un tuttologo?». E lui, magistralmente aveva risposto: «Anche». Una prova per tuttologi, dunque.

L’altro paradosso è che il concorso lo fa sia chi è già giornalista da dieci anni, sia chi non lo farà mai. Lo fanno persone che hanno già un lavoro (da giornalista) e anche persone che hanno un altro lavoro (magari collaterale, o anche diverso, ma vogliono la medaglietta). Quindi la contraddizione di questo concorso è che non garantisce nessun posto, ma al massimo una abilitazione a professionisti che poi il lavoro se lo trovano, o se lo dovrebbero trovare da soli. Per cui la prima domanda da farsi è: ma se uno fa già il giornalista da dieci anni, come può non ottenere l’abilitazione a fare quello che già fa? E se non la ottiene lo ha fatto abusivamente? Come si puó bocciare Giulia Innocenzi nello scritto? Possibile che Giulia improvvisamente non si ricordi più come si scrive? Che abbia fatto proprio all’esame errori di grammatica o di sintassi? Possibile ma improbabile.  Vero è, invece, che bocciare uno famoso da sempre soddisfazione ai burocrati designati. In altri casi bocciare dei giovani anonimi da soddisfazione allo stesso modo, perché ti fa pensare di avere un ruolo edificante.

Sembra che stia difendendo la Innocenzi, di cui parlerò tra poco, ma in realtà parlo di tante storie che conosco benissimo, compresa la mia. Sono entrato in una redazione nel 1989, ho potuto fare il sospirato concorso - ci si accede in base a requisiti previdenziali - solo nel 2001. Perché all’epoca (con ancora più rigore di oggi) a nulla valeva l’anzianità professionale, era solo quella clausola contributiva che ti abilitava alle prove scritte e orali. Quando dopo dodici anni finalmente ho potuto iscrivermi al corso di preparazione dell’ordine, scrivevo tutti i giorni sul Giornale da due anni. Prima di allora, per altri tre anni avevo lavorato al settimanale del Corriere della sera e al Corriere della sera, firmando articolesse, aperture, prime pagine. Il collega che mi aveva corretto il compito di prova, evidentemente non aveva mai letto il mio nome nemmeno per sbaglio. Meglio così. Era animato da un sano pregiudizio verso i colleghi più giovani e si ritenne libero di esprimerlo. Non dimenticherò mai quel giorno: ci riconsegnarono i compiti e ci umiliarono dicendo che eravamo una generazione che non sarebbe mai arrivata a scrivere sui giornali. Il collega designato dall’ordine mi riconsegnó il mio compito aveva costellato di appunti rossi e blu tutta la pagina. Mi disse, con un accento dialettale marcato: «L’Italiano bisogna saperlo scrivere: soggetto, predicato e complemento oggetto». Era meglio essere mediocri che eleganti, un ammonimento importante.

In sostanza andó a finire così: fui bocciato al corso dell’ordine, come un somaro, e promosso con pieni voti all’esame. Se i selezionatori fossero stati invertiti sarei stato bocciato come Giulia, all’esame, perché in due settimane non era certo cambiato il mio modo di scrivere. Se ci fossimo scambiati il compito io e un collega disoccupato che era con me in quel corso preparatorio, sicuramente mi sarei depresso, forse avrei gettato la spugna.

Infine l’ultima perla: se ci sono due quotidiani che sparano sull’ordine, in Italia, sono Libero e Giornale. Hanno sparato a palle incatenate contro questa istituzione per motivi spesso sensatissimi, ma improvvisamente se bisogna sbeffeggiare una giornalista che lavora con il "nemico" Santoro, l’Ordine diventa una Cassazione. "La maestrina bocciata", titola soddisfatto Il Giornale. Ma se una giornalista fa delle interviste ed esprime delle opinioni in tv fa il maestrino? Deve essere bocciato perché sembra presuntuoso? Perché è nemico o viene percepito come nemico da qualcuno? Secondo me, la Innocenzi, che paga il prezzo della sua visibilità sul l’altare dove di solito si preferisce la mediocrità operosa al talento, merita una sola cosa, oggi: una medaglia. 

Giulia Innocenzi bocciata all'esame di giornalismo. Ma un anno fa voleva abolire l'Ordine, scrive “Fan Page”. La star di Servizio Pubblico bocciata alla prova scritta. Fino a pochi mesi fa diceva: "Sono per l'abolizione dell'Ordine, sono praticante solo per via del contratto". Giulia Innocenzi è stata bocciata alla prova scritta prevista dall'esame di stato valido per conseguire l'iscrizione all'elenco professionisti dell'Ordine dei giornalisti. Insomma, non sarà – almeno a questo giro – giornalista professionista. Le prove sono due, scritta e orale, Giulia Innocenzi non è riuscita a superare il primo ostacolo, costituito da un articolo, da una sintesi giornalistica e da un questionario su temi attinenti la professione. La questione non è tanto la bocciatura: autorevoli colleghi prima di lei non sono riusciti a passare quest'ostacolo (a volte molto gioca l'emozione). La questione, secondo me, è un'altra. Perché Giulia Innocenzi vuole diventare giornalista professionista visto che è a favore dell'abolizione dell'Odg? Lo ha detto a più riprese lei stessa e qui c'è un eloquente post del maggio 2012. “Premesso che rispetto il pensiero di tutti, ci deve essere qualcosa che mi sfugge nel ragionamento di questa lettrice di Libero: sarebbe una battaglia di "giustizia" impedirmi di lavorare nel campo dell'informazione perché "non iscritta all'albo dei giornalisti"? Per completezza: sono per l'abolizione dell'ordine dei giornalisti, che è obsoleto, liberticida e corporativo, e attualmente risulto come praticante perché Santoro è uno dei pochi che applica contratti giornalistici.” L'aspirante collega di “Servizio pubblico”, vera star dei social network, scriveva all'epoca: “Sono per l'abolizione dell'ordine dei giornalisti, che è obsoleto, liberticida e corporativo, e attualmente risulto come praticante perché Santoro è uno dei pochi che applica contratti giornalistici”. Quindi nel 2012 la Innocenzi sosteneva di essere iscritta nel registro dei praticanti (fase di 18 mesi propedeutica all'esame da professionista) solo per garantirsi il contratto Fieg-Fnsi che Michele Santoro ha applicato ai giornalisti di Servizio Pubblico (per molti dei colleghi della redazione del programma di La7 si tratta di un patto a tempo che vale per tutta la durata della trasmissione e che può non essere rinnovato l'anno successivo). E poi, cos'è successo? Giulia Innocenzi ha cambiato idea? Ora vuol far parte della ‘casta'? O anche in questo caso è solo questione di soldi?

Quando la bocciatura a un esame diventa notizia, scrive “Rai News 24”. Incredibile polemica sul web: Giulia Innocenzi, giovane collega di Michele Santoro a "Servizio pubblico", non passa lo scritto dell'esame da giornalista. E i "nemici" della trasmissione si scatenano in sfottò. Anche la diretta interessata sbotta su Facebook. E' uno degli argomenti che da 24 ore impazzano sulla Rete: sui social network, sui siti di informazione. Giulia Innocenzi, giovane giornalista della "scuderia" di Michele Santoro a "Servizio pubblico", non ha passato l'esame da giornalista, non superando le prove scritte dell'ultima sessione. La notizia, giudicata di rilievo nazionale da Libero, è rimbalzata ovunque. Prima i critici abituali della trasmissione, cui la Innocenzi prende parte, hanno cavalcato il suo "infortunio" all'esame di abilitazione per dare a Santoro e Travaglio dei "cattivi maestri". Botta e risposta sui social network. Poi è toccato a Facebook e Twitter fare da casse di risonanza per sfottò di ogni tipo. Una notizia (?) che ha attirato l'attenzione di alcune firme importanti del giornalismo italiano: da Luca Telese a Pierluigi Battista, tutti a prodigarsi in messaggi di solidarietà alla giovane collega. Sotto esame, a questo punto, ci è finito l'ordine professionale e le sue modalità di accesso: chi difende la Innocenzi dal barbaro attacco sostiene che sia l'esame stesso ad essere inattendibile, falsato e da rivedere. Insomma, se una come Giulia Innocenzi non passa l'esame vuol dire che la prova è da rivoluzionare. La risposta di Giulia: "Siete dei poracci". E infine, tocca proprio a Giulia rispondere agli attacchi. Anche lei, che finora aveva mantenuto il controllo e un certo riserbo, sbotta su Facebook così: "Ci sono persone che si alimentano solo dei misfatti degli altri. Ragionano così: a me va di m..., a te deve andare peggio. Queste persone mi fanno pena, perché sono povere. E anche con tutto l'oro del mondo non si arricchirebbero di certo. Rimarranno sempre dei poracci".

Dopo aver criticato aspramente l'Ordine dei Giornalisti, Giulia Innocenzi ha tentato comunque di entrarne a far parte, scrive “Affari Italiani”. La preferita di Michele Santoro non ha però superato la prova scritta necessaria per diventare giornalisti professionisti. A poco sembra esserle servito il praticantato da Michele Santoro e la star di Servizio Pubblico dovrà ripetere l'esame nonostante la sua fama di "maestrina". La stampa di destra si è subito scatenata contro l'aspirante giornalista indirizzandole commenti e sondaggi a risposta multipla con insinuazioni anche pesanti su questo mancato risultato ottenuto. In difesa della giovane quasi-giornalista pupilla di Michele Santoro sono scesi in campo molti, tra i quali anche il presidente dell’Ordine dei Giornalisti Enzo Iacopino che ha giustificato la defaillance di Giulia Innocenzi: "Il non aver superato la prova è solo un incidente. Scherzando con i colleghi dico loro che durante gli esami sono in una fase di semi infermità mentale. […] Il Presidente dell’Ordine non dovrebbe dirlo, ma non è il tesserino che fa di una persona un giornalista". Altri sostegni sono arrivati da ulteriori colleghi, che hanno manifestato solidarietà a Giulia Innocenzi e spostato il dibattito sull’utilità o meno del tesserino da giornalista, scagliandosi contro l’Ordine e rivendicando la stessa posizione espressa dal presidente Iacopino. Su Facebook e Twitter, ironie e sfottò, ma anche difese a spada tratta, si sono moltiplicate in un istante. Invidie e gelosie professionali, rivalse. Eccone qualcosa tra i commenti più clementi: «Giulia Innocenzi go home! Dio esiste» (steph@docst). E poi altri: «Come godo», «boriosetta», «saccente». Non mancano le polemiche sul senso dell’esame di Stato. «Una sanatoria» scrive Emiliano Liuzzi, direttore dell’edizione online del Fatto Quotidiano. Michele Ruschioni, direttore di «Noiroma», sorta di Dagospia dell’Urbe, attacca tranchant la collega sul suo profilo facebook: «Ora non è che st’esame sia indicativo di quanto uno sappia fare il mestiere. Però dal momento che è istituito tocca superarlo. Non ci vuole uno scienziato per rimediare un 36. Bisogna solo saper scrivere». Mattia Feltri, inviato della Stampa, twitta a difesa.«La bocciatura all’esame di giornalismo di @giuliainnocenzi dimostra la ridicola inutilità dell’esame medesimo ». Così anche dall’Espresso. Ecco Riccardo Bocca - «Dopo tante batoste, l’Ordine dei giornalisti recupera credibilità grazie a Giulia Innocenzi. Un gesto generoso, farsi bocciare all’esame» -e Alessandro Gilioli: «Penosi e biliosi gli attacchi a Giulia Innocenzi per l’esame non passato eh. Ripigliamoci dai. Che poi conosco colleghi “professionisti” che te li raccomando». 

Giulia Innocenzi bocciata all’esame di giornalismo, scrive Riccardo Ghezzi, su “Quelsi”. Ci sono aspiranti giornalisti che prima di ottenere l’agognato tesserino sono costretti a superare le fasi di una lunga gavetta: collaborazioni o mansioni in redazioni sottopagate, due anni di sfruttamento, corsi talvolta costosi, master fuori portata per chi non è particolarmente facoltoso. Si arriva al primo step, quello del tesserino da pubblicista, poi c’è chi riesce a compiere l’ulteriore salto: un anno e mezzo di assunzione come praticante presso una qualsiasi redazione e poi l’esame per l’abilitazione allo status di professionista. Tutto questo dopo almeno quattro anni di sacrifici anche economici.
E poi c’è Giulia Innocenzi, che la gavetta la fa in un talk show in prima serata, davanti a milioni di spettatori. Come se fosse una giornalista già arrivata, al culmine della sua carriera, tanto da poter dispensare lezioni ai colleghi o intervistare esponenti politici in auge, come “l’odiato” Silvio Berlusconi, peraltro con esiti discutibili. Per Giulia Innocenzi quella di Annozero e Servizio Pubblico è stata una sorta di “scuola di giornalismo”. Peccato che non fosse uno stage, né una collaborazione occasionale, ma una trasmissione in prima serata, in teoria agognato approdo dopo la lunga gavetta di cui sopra. Questi però sono problemi di Santoro, essendo in capo a quest’ultimo la scelta dei profili professionali considerati più idonei e competenti al fine di garantire un’informazione di qualità.

Se Santoro ha voluto che la sua trasmissione fosse una “palestra” per una aspirante giornalista professionista, buon per lui. Ciò che stupisce, semmai, è che nonostante questo Giulia Innocenzi sia stata bocciata all’esame di giornalismo.

Ebbene sì, la pupilla del dissacrante presentatore non ce l’ha fatta. Un articolo pubblicato su liberonews di oggi, a firma Matteo Pandini, riporta la notizia in qualche modo clamorosa: Giulia Innocenzi non ha superato l’esame scritto.

Pandini ricorda anche una polemica tra Giulia Innocenzi e il giornalista Aldo Grasso. Davvero incredibile, per una ragazza che più volte aveva impartito lezioni a destra e manca. Anche a dei direttori come Maurizio Belpietro e Augusto Minzolini. Un atteggiamento che era stato notato anche da Aldo Grasso. Sul Corriere della Sera, all’indomani della puntata-show di Berlusconi da Santoro, il critico s’era chiesto: “Quell’aria di supponenza da dove le deriva? Si crede la più autorevole del reame?”. Aveva addirittura scritto, Grasso, che la Innocenzi “ha un tono così saccente che predispone al peggio il telespettatore”. Dubitare delle qualità professionali di Giulia Innocenzi non è mai stata lesa maestà. Ora, però, i dubbi rischiano di diventare certezze.

Giulia Innocenzi all’esame di giornalismo. Ironie e sfottò. E lei: «Mi fanno pena, poracci!». Il web si infiamma con le prese in giro scrive Alessandro fulloni su “Il Corriere della Sera”. Quel che scrive su Facebook è questo. «Ci sono persone che si alimentano solo dei misfatti degli altri. Ragionano così: a me va di m..., a te deve andare peggio. Queste persone mi fanno pena, perché sono povere. E anche con tutto l’oro del mondo non si arricchirebbero di certo. Rimarranno sempre dei poracci». Lo sfogo è quello di Giulia Innocenzi, 29 anni, riminese, giornalista di «Servizio Pubblico» e volto noto della trasmissione anche per le polemiche in diretta con direttori come Augusto Minzolini e Maurizio Belpietro. Il 15 ottobre Innocenzi non ha passato lo scritto dell’esame di Stato per l’iscrizione all’albo de i giornalisti professionisti. Prova severissima che una certa ansia la mette, figurarsi, anche alle firme eccellenti tra le quali si conteggiano, anche in tempi recenti, bocciature non pronosticabili. E appunto: il kappaò di Innocenzi è stata giudicata una notizia dal quotidiano «Libero» che ne ha dato conto con una certa perfidia. «Davvero incredibile, per una ragazza che più volte aveva impartito lezioni a destra e manca». E ancora. «Ora la fidanzata di Pif, ex Iena e applauditissimo alla Leopolda durante la recente convention renziana, dovrà ripartire da capo. D’altronde, diventare professionista non è una passeggiata. Anche se ti chiami Giulia Innocenzi e frequenti “una vera scuola di giornalismo” - così ha definito la sua esperienza di lavoro la stessa Innocenzi  - come quella di Santoro». Apriti cielo. Su Facebook e Twitter, ironie e sfottò, ma anche difese a spada tratta, si sono moltiplicate in un istante. Invidie e gelosie professionali, rivalse. Eccone alcuni tra i commenti più clementi: «Giulia Innocenzi go home! Dio esiste» (steph@docst). E poi altri: «Come godo», «boriosetta», «saccente». Non mancano le polemiche sul senso dell’esame di Stato. «Una sanatoria» è la sintesi di Emiliano Liuzzi, responsabile dell’edizione online del «Fatto Quotidiano». Michele Ruschioni, direttore di «Noiroma», sorta di Dagospia dell’Urbe, attacca tranchant la collega sul suo profilo Facebook: «Ora non è che st’esame sia indicativo di quanto uno sappia fare il mestiere. Però dal momento che è istituito tocca superarlo. Non ci vuole uno scienziato per rimediare un 36. Bisogna solo saper scrivere». Mattia Feltri, inviato della «Stampa», twitta a difesa.«La bocciatura all’esame di giornalismo di @giuliainnocenzi dimostra la ridicola inutilità dell’esame medesimo ». Così anche dall’«Espresso». Ecco Riccardo Bocca - «Dopo tante batoste, l’Ordine dei giornalisti recupera credibilità grazie a Giulia Innocenzi. Un gesto generoso, farsi bocciare all’esame» - e Alessandro Gilioli: «Penosi e biliosi gli attacchi a Giulia Innocenzi per l’esame non passato eh. Ripigliamoci dai. Che poi conosco colleghi “professionisti” che te li raccomando». A difesa della Innocenzi c’è anche il presidente dell’Ordine dei Giornalisti Enzo Iacopino. L’endorsement arrabbiato compare sulla bacheca della 115esima sessione d’esame, quella sotto tiro e che ha visto una mezza falcidie: oltre il 44 per cento rispediti a casa. L’appello - in gran parte raccolto - è proprio per i candidati, invitati a «mostrare dignità». «Sapete, per averla vissuta, che prova è l’esame. Il giudizio, positivo o negativo, è falsato dalla tensione e non fotografa certamente le vostre reali capacità. Invece perfino l’esame viene usato per delle volgarità. Mi riferisco alla campagna contro Giulia Innocenzi. Mi piacerebbe un sussulto di dignità da parte vostra - è l’esortazione di Iacopino -: un documento non di solidarietà (non conosco praticamente Giulia, ma credo abbia spalle larghe e forti) ma di denuncia di un modo di fare informazione che passa sopra la vita e i sentimenti delle persone». I «mi piace» sono stati moltissimi. Ma qualche intervento ha spostato il tiro: «Ricordatevi dei precari, e dello sfruttamento che c’è in tante redazioni».

La maestrina Innocenzi bocciata in giornalismo I colleghi esultano in rete. Passo falso della collaboratrice di Santoro all'esame di Stato, scrive Cristina Bassi su “Il Giornale”. La «patente» di giornalista gliel'ha data nientemeno che Michele Santoro. Peccato che l'Ordine professionale non sia d'accordo. Giulia Innocenzi, fedelissima collaboratrice del teletribuno fin dai tempi di Annozero e riconfermata a Servizio Pubblico, è stata bocciata all'esame scritto per ottenere il tesserino da professionista. Un bello smacco per una che, non ancora compiuti i trent'anni, si è già cucita addosso il ruolo di maestrina del giornalismo d'inchiesta. Con un mentore del calibro di Santoro ci si aspetterebbero risultati migliori: «Quella di Michele è una vera scuola di giornalismo», aveva detto Giulia. O forse è così facile sentirsi un fenomeno da affrontare il compitino un po' pedante dell'esame dell'Ordine con una po' di puzza sotto il naso. D'altra parte l'abbiamo vista in moto con Vauro e con in braccio il sosia del cane Dudù nello spot della trasmissione su La7 e in altre occasioni impartire lezioni in studio nientemeno che a direttori di giornali. All'indomani della storica puntata con Silvio Berlusconi ospite fu il severo critico del Corriere Aldo Grasso a chiedersi: «Si crede la più autorevole del reame? Ha un tono così saccente che predispone al peggio il telespettatore». Poco più che ventenne Giulia Innocenzi si dedica alla politica con il Pd e i Radicali. Poi passa al giornalismo che - come diceva un grande di cui spesso ci si sente chiedere all'esame da professionista - «è sempre meglio che lavorare». Vola subito su Rai2 sotto l'ala protettrice del talent scout Santoro, scrive sul Fatto e la sua carriera sembra irresistibile. Non fosse per quei guastafeste dell'Ordine nazionale. Scrive il sito di Libero infatti che la giovane praticante si è presentata alla sessione qualche settimana fa, ma non compare nell'elenco degli ammessi agli orali pubblicato dal sito dell'Odg. Inutile dire che la notizia ha già fatto il giro del web e che non pochi colleghi - come Riccardo Bocca dell'Espresso - cantano vittoria al grido di «Finalmente l'Ordine riacquista credibilità...». È vero che per essere un bravo giornalista non c'è bisogno di un pezzo di carta. Lo dimostra il fatto che anche Milena Gabanelli fu bocciata all'esame. È vero anche che l'Ordine è considerato da molti un ente inutile da abolire. Ma finché esiste, chi vuole praticare il mestiere deve passare attraverso le sue maglie. Anche le allieve preferite di Santoro.

Giulia Innocenzi bocciata all'esame di giornalismo, scrive “Libero Quotidiano”. I particolari sul giorno del test a Roma: alla lettura delle tracce la maestrina di Santoro e Travaglio sorrise. Torna sulla terra, la maestrina Giulia Innocenzi. La santorina e travaglina, come una comune mortale, è stata bocciata all'esame di Stato: non è (ancora) una giornalista professionista. Semplicemente, ha stabilito la commissione capitolina, non è idonea. Non è la prima né sarà l'ultima bocciata celebre (tra gli altri, nella storia di questo mestiere, Paolo Mieli e Milena Gabanelli). Però, l'Innocenzi bocciata, fa un certo effetto: la bacchettatrice di giornalisti professionisti stroncata all'esame di abilitazione professionale. Ma tant'è, la notizia ve l'abbiamo data già qualche ora fa. Su Libero in edicola giovedì 31 ottobre, a firma di Matteo Pandini, un lungo approfondimento sulla bocciatura della maestrina di Servizio Pubblico. Alcuni particolari divertenti: Giulia, lo scorso 15 ottobre, s'era presentata all'esame di Stato con una profetica maglietta, che recitava "che ansia". Alcuni dei presenti tra gli aspiranti professionisti giurano che alla lettura delle tracce, la Innocenzi abbia sorriso, come a dire: questo è il mio pane, non avrò problemi. Invece di problemi ne ha avuti: bocciata, appunto. Nonostante la traccia che avrebbe scelto, quella su amnistia e indulto: un tema sul quale i "cattivi maestri", Michele Santoro e Marco Travaglio, non l'hanno evidentemente preparata a sufficienza.

Giulia Innocenzi insulta Libero: "Poveracci, vi nutrite dei misfatti altrui". Bocciata all'esame di giornalismo scrive “Libero Quotidiano”. Lei è Giulia Innocenzi, la fedelissima di Michele Santoro e di Marco Travaglio. Una notizia, la bocciatura: lei è un personaggio molto in vista sul piccolo schermo, molto seguita sui social network, molto disucussa, molto criticata (tanto quanto lei è sempre in prima fila a bacchettare e criticare tutti quelli che non la pensano come lei). Dunque, normale che si parli di questo fatto. E, attenzione, di questo fatto, e non "misfatto", come lo definisce lei. La risposta e l'attacco a Libero è arrivato su Facebook: "Ci sono persone che si alimentano solo dei misfatti degli altri. Ragionano così: a me va di merda, a te deve andare peggio. Queste persone mi fanno pena, perché sono povere. E anche con tutto l'oro del mondo non si arricchirebbero di certo. Rimarranno sempre dei poracci". Sorvolando sugli insulti e i giudizi morali, ci limitiamo a ribadire la differenza tra "fatto" (la sua bocciatura) e "misfatto". Le notizie, e una giornalista (seppur non professionista) lo dovrebbe sapere, devono essere date, e spesso una notizia è determinata dalla rilevanza pubblica del suo protagonista. Infine un'ultima considerazione. Premesso che nessuno si alimenta dei "misfatti" della Innocenzi, non si può non notare come Giulia, Michele Santoro e Marco Travaglio, abbiano costruito una carriera sui "misfatti" o presunti tali di Silvio Berlusconi. Partendo dalla recente condanna Mediaset, ma passando attraverso le molteplici forzature che, negli anni, si sono sprecate. Per ultima, e soltanto per pescarne una dal mazzo, la grottesca comparsata di Michelle Bonev negli studi di Servizio Pubblico. Telese, Battista, Feltri, etc: tutti a difendere la Innocenzi Piuttosto insegnatele qualcosa...

Levata di scudi pro-Giulia, finita nel mirino per la bocciatura all'esame di Stato. E la santorina diventa una scusa per abolire l'ordine, scrive “Libero Quotidiano”. Un esercito di giornalisti in campo per difendere la giornalista bocciata all'esame di Stato. Giulia Innocenzi non ha superato la prova di abilitazione professionale. Per primo Libero ha rilanciato la notizia, poi ripresa un po' ovunque. Una notizia che scatenato diverse ironie sulla "maestrina" rimandata a settembre e sui "cattivi maestri", Michele Santoro e Marco Travaglio. Di contro, in molti, sono scesi in campo in difesa della santorina (e contro l'ordine dei giornalisti). Il presidente - Tra gli alfieri schierati in difesa di Giulia c'è anche Enzo Iacopino, presidente dell'ordine nazionale dei giornalisti: "Considero la giornalista praticante Giulia Innocenzi molto brava. Il non aver superato la prova è solo un incidente", scrive su Facebook. Poi aggiunge: "Il presidente dell'Ordine non dovrebbe dirlo: ma non è il tesserino che fa di una persona un giornalista". Di fatto, Iacopino nega l'importanza dell'esame di Stato. Simile il ragionamento di Luca Telese, che sul suo blog su Linkiesta parla di "siti sciacalleschi" e "parassiti dileggiatori", ovvero quelli che hanno riportato la notizia della bocciatura. Telese si spinge più in là, parlando dell'"assurdo di considerare come un giudizio attendibile un concorsone taroccato per costituzione, in cui può capitare di andare benissimo o malissimo per puro caso". Telese - L'ex conduttore di In Onda prosegue: "La domanda da farsi è: ma se uno fa già il giornalista da dieci anni, come può non ottenere l'abilitazione a fare quello che già fa? E se non la ottiene lo ha fatto abusivamente? Come si può bocciare Giulia Innocenzi nello scritto? Possibile che Giulia improvvisamente non si ricordi più come si scrive? Che abbia fatto proprio all'esame errori di grammatica o di sintassi? Possibile ma improbabile". Non ha dubbi Telese: sbagliato bocciarla. Sembra quasi adombrare un "complottone". Per fugare i sospetti, forse, sarebbe interessante poter leggere il testo della Innocenzi, il testo che le è valso la bocciatura. La schiera dei difensori della santorina è fitta. E, come detto, nel mirino, ci finisce anche l'Ordine. Apre le danze Mattia Feltri de La Stampa, che cinguetta: La bocciatura all'esame di giornalismo di Giulia Innocenzi dimostra la ridicola inutilità dell'esame medesimo.

Gli risponde Pierlugi Battista del Corriere della Sera: E dell'Ordine dei giornalisti, residuo fascista unico in tutto il mondo democratico occidentale.

Quindi Marco Alfieri, direttore de Linkiesta, che rilancia l'intervento di Telese. Ma ha senso l'ordine dei giornalisti o l'esame è quello dei lettori?

Non poteva mancare un "aiutino" da un collega del Fatto Quotidiano, Emiliano Liuzzi: la mia solidarietà all'ottima collega Giulia Innocenzi è brava, a differenza di molti. l'esame da giornalista? solo una sanatoria.

Quindi Simone Spetia, di Radio24: A me, invece, guarda un po' Giualia Innocenzi fa simpatia, pensa tu. Di base non prenderei l'esame da giornalista come qualcosa di indicativo, né nel bene, né nel male.

Infine un intervento a sorpresa, quello di Nicola Porro, vicedirettore de Il Giornale che riportava la notizia della bocciatura della Innocenzi in prima pagina: bocciata all'esame di giornalismo? Un mondo di rosiconi che gode. Che schifezza.

Chi è Giulia Innocenzi?

Le età dell'Innocenzi. Ritratto di Giulia, pupilla di Santoro che ha cercato sponsor in tutti i partiti. Da An ai Radicali, da Montezemolo al Pd, scritto da Giovanni Florio per "Lettera 43.it". Non tutti i giornalisti o presunti tali riescono a farsi eleggere, altri sgomitano per trovare comunque un partito sponsor che ti curi la carrierina, specie in Rai dove ogni cronista ha il suo bravo cartellino, e la ricerca di santi in paradiso può essere frenetica. Prendete una come Giulia Innocenzi, scoperta non si sa bene dove da Santoro, uno che non si fa mai scappare le belle guaglione (remember le precedenti santorine, Costamagna, Simonetta Martone, Bianca Berlinguer, Rula Jebreal, Margherita Granbassi, Beatrice Borromeo e via sfilando...), in questo abbastanza simile al suo sfidante (nella diretta televisiva in agenda per il 10 gennaio), Berlusconi, altro apprezzatore di doti femminee (alla faccia delle centinaia di giornaliste precarie meno carucce della Innocenzi, catapultata in tivù dal nulla). Ebbene, la signorina si sta dando un gran da fare coi partiti. È possibile, ad un comune mortale italiano, passare rispettivamente da An, Radicali, Montezemolo, Pd di Renzi e poi Pd di Bersani, rimanendo nel frattempo anche con Santoro, Vauro e Travaglio simpatizzanti di Grillo? Ebbene sì, alla Giulia è riuscita questa giostra psichedelica. Cosa non si farebbe per avere un partito che ti sponsorizza, specie poi se sei di bell'aspetto, voce indispensabile nel curriculum di una giornalista. Lo spettatore santoriano può crederla semplicemente santoriana, ma si sbaglia, nel beauty case la Innocenzi conserva una dozzina di tessere di partito, anche opposti, non si sa mai. E' di sinistra? No perché ha iniziato nei giovani di Alleanza nazionale, come ha rivelato lei stessa in un programma: «Okay, a 16 anni mi sono iscritta ad Azione giovani, il movimento giovanile di An. Però dopo aver assistito alla prima riunione, sono andata via». Com'è noto infatti tutti noi prima ci iscriviamo ad un partito e soltanto dopo ci imbuchiamo in una riunione per vedere com'è, e se non ci piace passiamo ad altra iscrizione. Percorso logico senza dubbio interessante. Dunque, seppur insoddisfatta dai giovani di An, è di destra? Neppure. Non paga di Azione giovani, la Innocenzi in drammatica ricerca di padrini politici ci ha provato coi Radicali, che la l'hanno fatta subito presidente degli Studenti Coscioni, che - non fraintendiamo - è il cognome dello storico militante Luca Coscioni. La Innocenzi risultava ancora qualche mese fa nel comitato Radicali italiani e fidanzata «con un commercialista militante radicale». Beh allora è una radicale? La accendiamo? Ma va. In contemporanea o quasi la trottola partitica Innocenzi ci ha provato infatti pure col Pd, da radicale ex Alleanza nazionale, ma le cose gli sono andate male, mentre intanto ha cominciato a fare le domandine ai giovani da Santoro, vicino a Di Pietro e Grillo. A quel punto la ragazza a caccia di partito ha fatto l'ennesima piroetta, e si è materializzata nei capelli di Luca Cordero di Montezemolo. Costernati, l'abbiamo ritrovata infatti nel comitato di Italia Futura, cioè appunto l'associazione-partito di Montezemolo, presentata come «blogger e conduttrice tivù ed esperta di politiche giovanili». Esperta di politiche giovanili, e chi non lo è? Ma non era radicale? Ma non era di An? Ma non era del Pd? No è di Montezemolo, dove risulta ancora tra i membri dell'associazione. Anzi no, è del Pd. Ebbene sì, perché, visto che Montezemolo tentennava troppo e che ci sto a fare in un partito che poi non candida nessuno, la Innocenzi si è ributtata sul Pd. Sì ma quale, quello di Renzi o quello di Bersani? Tutti e due, che domande. A settembre, prima delle primarie, fa sapere che aspetta di vedere il programma, «ma se Renzi si candiderà a presidente del Consiglio io ne sarò felice». Lui ricambia l'interesse presentando a Firenze l'opera prima della Innocenzi, Meglio fottere. Poi però Renzi perde le primarie, e lei va da inviata di Servizio Pubblico a intervistare il candidato premier del Pd, Bersani. Con frasi durissime come: «Mi scusi se le faccio una domanda dopo la lasagna», spronandolo, da radicale di azione giovani e montezemoliana, a dire qualcosa di sinistra contro la Fiat di Marchionne (amministratore delegato nell'azienda di cui Montezemolo è stato presidente). Per il momento si è fermata sul Pd, anche perché probabilmente è il partito destinato a vincere le elezioni. Peccato perché le mancano ancora la Lista Monti, Fermare il declino, la lista Ingroia, il M5S, l'Udc, il movimento di Emilio Fede...

Pif: “Sì, sono fidanzato con Giulia Innocenzi. Ma non la sposo”, scrive “Oggi”. Il mattatore di Mtv rivela per la prima volta il legame che lo lega con la giornalista-musa di Michele Santoro. "Niente nozze", assicura. "Ma magari... un figlio sì". L'intervista esclusiva su Oggi. Pif, l’ex Iena oggi star di Mtv, ammette per la prima volta di essere fidanzato con Giulia Innocenzi, la giovane giornalista-musa di Michele Santoro. E lo fa dalle pagine di Oggi in edicola. «Giulia Innocenzi l’ho conosciuta due anni fa», spiega Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, nell’intervista esclusiva che pubblica Oggi. «Il 25 giugno è il nostro anniversario… Ci siamo conosciuti a Palermo, al corteo di un movimento giovanile che è sparito dopo un mese, il Movimento delle forchette rotte». Pif aggiunge: «Mi chiede se vogliamo metter su famiglia? Sono domande che non si fanno: sono troppo giovane per il matrimonio, ho solo 41 anni!», scherza. E poi si fa serio: «Ma se capita un bimbo, va benissimo». Così dice Pif, al secolo Pierfrancesco Diliberto, il giornalista ex Iena che con «Il Testimone» su Mtv conduce interviste e inchieste di successo, al settimanale Oggi. Dove per la prima volta emerge il suo legame con la collaboratrice di Santoro a «Servizio Pubblico» Giulia Innocenzi. Nell’intervista che Oggi pubblica nel numero in edicola, Pif parla anche di Saviano, Berlusconi, Grillo, Carmen Consoli, Jovanotti e del suo film, «La mafia uccide solo d’estate», che prende in giro Cosa Nostra. «A Palermo bisogna essere o bianchi o neri«, racconta Pif nell’intervista a Oggi, «perché la mafia è grigia, ti trascina verso di sé… Ed è dappertutto: mentre giravo, mi sono reso conto che il posto dove giocavo a pallone da piccolo era proprio di fronte alla casa di Vito Ciancimino. Ciancimino riceveva Bernardo Provenzano, magari al boss è arrivata pure qualche pallonata…». Il film non ha ricevuto finanziamenti dalla Regione Sicilia. «In realtà non volevo i soldi, ma il patrocinio: avrebbe significato che la Regione la pensa come me sulla mafia», dice Pif, che racconta: «Avevo appuntamento alle quattro con l’assessore al turismo della giunta Lombardo. Passa mezz’ora e niente. Un’ora e nulla. Poi, dopo un’ora e mezza arriva un funzionario e mi dice: “L’assessore non la può ricevere perché è arrivata la Cucinotta”».

E’ interessante conoscere i mistificatori di Stato: i difensori a spada tratta degli Ordini Professionali e dell’Esame di Stato, così come dei concorsi pubblici.

GIORNALISTI. BUONI E CATTIVI CON L’ABILITAZIONE COL TRUCCO.

Vittorio Feltri, "Buoni e Cattivi”. "Se Michele Santoro è giornalista è colpa mia che l'ho promosso", scrive su “Libero Quotidiano”. Buoni e cattivi è il nuovo libro scritto da Vittorio Feltri con Stefano Lorenzetto (Marsilio, pp. 544, euro 19,50): un catalogo di 211 nomi e volti noti di politica, magistratura, imprenditoria, giornalismo, spettacolo e sport passati al vaglio dei ricordi e del giudizio come sempre lucidissimo del «Vittorioso». L’elenco dei personaggi, dalla A di Agnelli alla Z di Zeffirelli, evoca un po’ Montanelli, con i suoi ritratti di figure decisive, anche se non sempre positive, del nostro tempo. E si presta a un sequel. Il catalogo, un po’ the best of e un po’ bestiario, è anche una raccolta di pagelle. Si parte dalle eccellenze, come Oriana Fallaci e Nino Nutrizio, cui viene assegnato un 10 e lode. Si passa a Giorgio Napolitano e Matteo Renzi, che ottengono rispettivamente 4½ e 5. E si arriva ai somari, come Alfano, Amato e Boldrini che prendono 3, e ai peggiori - Cederna, Fini e Lusi - cui spetta il 2. La vera sorpresa è Marco Travaglio,«forse il più bravo giornalista d’Italia», cui Feltri regala un 9. Ci sono gli inaffidabili, come Sandro Pertini, che voleva far arrestare Feltri a Nizza. Ci sono le coppie come Hunziker-Trussardi, che Feltri fece incontrare. Poi figurano gli editori-fregatura, come Montezemolo che costò a Feltri, direttore de l’Europeo, 150 milioni di lire per videocassette scadenti e Urbano Cairo, che fece sborsare a Feltri 300 milioni di lire per un aumento di capitale di Libero non sottoscritto; e Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente Ior, che avrebbe dovuto essere tra gli editori di Libero. E poi Giuliano Ferrara, alla cui lista «Aborto? No, grazie» Feltri diede a sorpresa il suo voto.

Anche volendo, non potrei parlare male di lui. Se lo facessi, equivarrebbe a spararmi nei marroni. Si dà infatti il caso che Santoro sia diventato giornalista professionista con il mio contributo, giacché facevo parte della commissione all’esame di Stato che lo promosse e gli consentì l’iscrizione all’Ordine nazionale dei giornalisti. Era il 1982. Me lo ricordo perché erano in corso i Mondiali di calcio in Spagna, quelli vinti dall’Italia con Sandro Pertini in tribuna d’onore. L’unico motivo per cui accettai di far parte della commissione esaminatrice – composta da due magistrati designati dal presidente della Corte d’appello di Roma e da cinque giornalisti professionisti, iscritti nel relativo elenco da non meno di 10 anni – si chiamava Alberto Cavallari. Pur di allontanarmi dal direttore che mi mobbizzava, diedi la mia disponibilità all’Ordine e ottenni dal Corriere il permesso retribuito per trasferirmi a Roma a selezionare gli aspiranti scribacchini. Da allora, mai più ripetuta l’incresciosa esperienza. Non si rivelò un lavoro di tutto riposo. Era da poco stato liberalizzato l’accesso alla professione e venivano ammessi agli esami d’idoneità professionale anche cineoperatori, fotoreporter, conduttori di radio e televisioni private. Una bolgia. Saranno stati almeno 400 candidati. Un bel po’ li segammo alla prova scritta di aprile. Ne restarono in campo 250 agli orali di maggio e giugno. Fra questi, Santoro. E non solo: ho sulla coscienza altri tipi sinistri di quella sessione, come Giuseppe D’Avanzo, Curzio Maltese, Federico Rampini, Loris Campetti, Daniele Protti, Maurizio Mannoni e Cinzia Sasso, la cronista della Repubblica che, dopo aver tirato la volata a Giuliano Pisapia, se l’è sposato due mesi prima che diventasse sindaco di Milano. Roba che temo ancora, a distanza di anni, una class action da parte dei lettori per i guasti che la combriccola ha provocato. Attilio Bolzoni, mafiologo presso la medesima Repubblica, per fortuna no. Quello non mi può essere addebitato. Infatti non superò l’interrogazione. Lo bocciammo e dovette ripresentarsi all’esame l’anno successivo. Il che non gli ha impedito, trascorso un quarto di secolo, di vincere il premio È giornalismo, alias premio Stalin. Come si vede, il merito prima o poi viene sempre riconosciuto. Basta avere solo un po’ di pazienza e mettersi in coda sulla corsia giusta. Da quell’infornata uscì anche qualche firma ortodossa, per esempio Mauro Crippa, oggi gran sacerdote dell’informazione Mediaset, e Mauro Tedeschini, fior di professionista che ha già collezionato cinque direzioni: il Quotidiano Nazionale, Italia Oggi, Quattroruote, La Nazione e Il Centro. La vita del commissario esaminatore aveva qualche risvolto piacevole. Feci comunella con Giuseppe Pistilli, vicedirettore del Corriere dello Sport, il quale sedeva con me nel sinedrio. La sera andavamo a cena insieme. Il ponentino e il Frascati ci aiutavano a dimenticare le miserie cui avevamo assistito durante la giornata nel valutare i candidati. Ancora non avevo maturato la convinzione che l’Ordine dei giornalisti fosse un ente inutile, anzi peggio: dannoso. Pistilli contribuì a instillarmi qualche sospetto, illustrandomi come funzionava la commissione d’esame. Esempio: un aspirante scriba ti era stato raccomandato o ti stava a cuore? Bene, si trattava di farsi dare da lui le prime righe dell’articolo che aveva steso durante la prova scritta. Nessuno comincia un pezzo nella stessa maniera del compagno di banco, chiaro no? Perciò, non appena s’iniziava la lettura ad alta voce e in forma anonima degli elaborati, all’udire l’attacco familiare il commissario dava un calcetto sotto il tavolo a chi gli stava accanto. Costui a sua volta sferrava un calcetto al commissario più vicino, e avanti così. Con sei calcetti, il candidato era promosso. Dopodiché ricevevi a tua volta altri colpi negli stinchi e dovevi restituire il favore ricevuto. In questo modo passavano l’esame (e lo passano tuttora) asini sesquipedali. A quell’epoca Santoro non era proprio un giovincello: 31 anni. Pesava 20 chili meno di adesso. Aveva i capelli scuri (non tinti) e un bel volto da meridionale intelligente. Gli occhi erano da matto furbissimo. Non rammento nulla della sua prova scritta. L’orale, viceversa, ce l’ho stampato nella memoria. Non era ancora un personaggio televisivo, ma si capiva che trattavasi di predestinato: lingua sciolta, grande capacità d’improvvisare, prontezza di riflessi. Non ebbe alcuna difficoltà a superare la formalità richiesta dalla legge per esercitare un mestiere che, per quanto sia stato burocratizzato in modo indecente, s’impara solo facendolo con passione. E lui di passione ne ha sempre avuta, fin troppa, al punto che in breve tempo me lo ritrovai in video. Conduceva Samarcanda con assoluta padronanza del mezzo. Non ne fui sorpreso. I dati d’ascolto del programma erano da capogiro: 7 milioni di telespettatori. Che per Rai 3 erano uno sproposito. Da lì in poi Santoro galoppò sicuro da un successo all’altro (Il rosso e il nero, Tempo reale) fino a sconfinare in territorio nemico nell’autunno del 1996, quando lasciò la Rai per diventare conduttore di Moby Dick sull’Italia 1 del Berlusca. Non male per uno che proveniva dal nucleo maoista dell’Unione comunisti italiani e da Servire il popolo. Aveva inventato una formula nuova che piaceva specialmente alla gente di sinistra. Per la prima volta il pubblico partecipava alle discussioni, non era relegato ai margini con l’esclusivo compito di applaudire a comando. Un format sostanzialmente rimasto immutato nel tempo, che consente a Santoro di furoreggiare, amato e odiato, comunque atteso nelle sue performance. Ogni volta fa centro: con Sciuscià, con Il raggio verde, con Annozero, con Servizio pubblico. Ogni volta costringe anche chi lo detesta ad accendere il televisore, magari solo per sacramentargli contro. La polemica, la provocazione, la faziosità sono gli ingredienti che hanno sempre reso le sue trasmissioni imperdibili. È un arruffapopolo, un Masaniello, una birba, un efferato scassapalle costantemente al centro dell’attenzione. Silvio Berlusconi, oltre ad assumerlo, gli ha anche offerto il destro, da premier, di potersi atteggiare a martire dell’informazione sulle note di Bella ciao. Altro che «editto bulgaro». È stata l’apoteosi dello scugnizzo riccioluto, che con una cantata da partigiano stonato s’è guadagnato, nell’ordine: l’elezione a europarlamentare dell’Ulivo; il successivo ritorno in Rai per sentenza di un giudice del lavoro; un risarcimento dei danni stratosferico (1,4 milioni di euro); il reintegro nel ruolo di conduttore dei programmi di prima serata; la riconsegna in diretta del Santo Graal – il microfono – nientemeno che dalle mani di Adriano Celentano, durante una celebre puntata di Rockpolitik chiusa da Santoro al quadruplice grido di «viva la fratellanza, viva l’eguaglianza, viva la cultura, viva la libertà». Olà! In quell’occasione, con tono accorato, assicurò alle figlie che lo stavano guardando d’aver sempre «agito con onestà e correttezza». Peccato che, mentre lo diceva, continuasse a strofinarsi il naso con la mano. Rammento che si toccava la proboscide ogni dieci secondi. Ahi ahi. Evidente indizio di menzogna, avrebbe concluso Desmond Morris, studioso del comportamento umano e animale. Quando si raccontano bugie, aumenta la produzione di catecolamine, le mucose nasali s’ingrossano e subentra l’impellente e inconsapevole necessità di grattarsi le frogie per calmare il fastidioso prurito. Comunque per me Santoro, al netto del suo settarismo intollerabile, potrebbe anche infilarsi le dita nel naso e resterebbe comunque bravo. Mille volte meglio lui di quel cicisbeo di Giovanni Floris. Quello proprio non lo reggo, lui e il suo sorrisino da ebete. Voto: 6.

"Buoni e Cattivi", il libro di Vittorio Feltri: le pagelle a Fazio, Littizzetto, Serra e altri 2mila vip, su “Libero Quotidiano”. Buoni e cattivi è il nuovo libro scritto da Vittorio Feltri con Stefano Lorenzetto (Marsilio, pp. 544, euro 19,50): un catalogo di 211 nomi e volti noti di politica, magistratura, imprenditoria, giornalismo, spettacolo e sport passati al vaglio dei ricordi e del giudizio come sempre lucidissimo del «Vittorioso». L’elenco dei personaggi, dalla A di Agnelli alla Z di Zeffirelli, evoca un po’ Montanelli, con i suoi ritratti di figure decisive, anche se non sempre positive, del nostro tempo. E si presta a un sequel. Il catalogo, un po’ the best of e un po’ bestiario, è anche una raccolta di pagelle. Si parte dalle eccellenze, come Oriana Fallaci e Nino Nutrizio, cui viene assegnato un 10 e lode. Si passa a Giorgio Napolitano e Matteo Renzi, che ottengono rispettivamente 4½ e 5. E si arriva ai somari, come Alfano, Amato e Boldrini che prendono 3, e ai peggiori - Cederna, Fini e Lusi - cui spetta il 2. La vera sorpresa è Marco Travaglio,«forse il più bravo giornalista d’Italia», cui Feltri regala un 9. Ci sono gli inaffidabili, come Sandro Pertini, che voleva far arrestare Feltri a Nizza. Ci sono le coppie come Hunziker-Trussardi, che Feltri fece incontrare. Poi figurano gli editori-fregatura, come Montezemolo che costò a Feltri, direttore de l’Europeo, 150 milioni di lire per videocassette scadenti e Urbano Cairo, che fece sborsare a Feltri 300 milioni di lire per un aumento di capitale di Libero non sottoscritto; e Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente Ior, che avrebbe dovuto essere tra gli editori di Libero. E poi Giuliano Ferrara, alla cui lista «Aborto? No, grazie» Feltri diede a sorpresa il suo voto. Chi l’avrebbe mai detto: è diventato qualcuno grazie a Forza Italia. La trasmissione si chiamava così. Andava in onda su Odeon Tv, emittente privata appartenente a Calisto Tanzi, il boss della Parmalat che, tre lustri dopo, tutti avrebbero fatto finta di non aver mai conosciuto. Correva l’anno 1988. In studio Roberta Termali e Walter Zenga. Io partecipavo in veste di ospite fisso. C’era anche Cristina Parodi, con una sua rubrica, «La ragazza con la valigia», che la portava in giro per l’Italia a fare interviste. E infine lui, Fabietto. Un pistolino da oratorio. Mi divertiva con le sue imitazioni. Solo che non riuscivo a riconoscere i personaggi che imitava. Alla fine del programma, si andava tutti insieme a bere un’ombra al bar. Non è che sia molto cambiato da allora, mi assicura mia figlia farmacista che gli vende i cachet per il mal di testa .. Con quella sua aria da santificetur, Fazio mostrava grande deferenza nei miei confronti. Poi il sacrista dal collo torto tentò un paio di volte di farmi passare per fesso. Siccome è cresciuto a omogeneizzati di coniglio, ricorreva sempre a un complice. A Diritto di replica fu quel povero guitto di Sandro Paternostro, il corrispondente da Londra della Rai che ha lasciato nella storia del giornalismo più tracce di tintura Testanera che non d’inchiostro. Paternostro dirigeva quattro o cinque giovanotti, vestiti come assistenti di volo, che sfottevano ospiti ignari della trappola. Superfluo precisare che il programma andava in onda su Rai 3. A Quelli che il calcio si servì di quell’altro mandolone che risponde al nome di Gene Gnocchi, scelta battesimale un po’ infelice, considerato il corredo cromosomico d’infima qualità. Il sinistrume ha questa fissa: incastrare il giornalista diverso. Persino il Festival di Sanremo, con Fabio Fazio presentatore, è diventato di sinistra. Era ora. Di destra in Italia rimane solo il bagno al posto della doccia, ultimo orgoglio di una borghesia sempre più piccola piccola. È la prova che Forforina ha un suo talento naturale: quello di saper fiutare che aria tira. Non ha mai sbagliato un refolo, veleggia sempre con il vento a favore. Un fuoriclasse. Guadagna in un anno quello che io, ben pagato, incasso in tre: 2 milioni di euro. Il suo ultimo contratto, portato alla firma del direttore generale della Rai, proponeva fino al giugno 2017 il modico compenso di 5 milioni e 400.000 euro. Ignoro se Luigi Gubitosi ci abbia apposto in calce il proprio autografo. V’è da augurarsi di no, soprattutto dopo che al Festival di Sanremo 2014 il moscio conduttore s’è perso per strada 3 milioni di ascoltatori. Lo dico da contribuente che versa due canoni di abbonamento, uno a Milano e l’altro a Bergamo. Il sosia ligure di Bashar El Assad dà il meglio di sé nel ruolo di presentatore e conduttore... non è mai successo che abbia molestato con domande impertinenti qualche potente, in particolare se progressista, mentre ha manifestato una prontezza eccezionale nel prendere in giro qualunque povero cristo, in particolare se privo di protezioni politiche. D’altronde le tracce per le sue interviste sono preparate da un pool di autori ben locupletati, nel quale primeggia Michele Serra, ex Unità. Da solo, Faziosino non sarebbe neppure in grado di chiedere che tempo che fa. Ultimamente si è specializzato come piazzista di prodotti editoriali. In pratica occupa l’intera trasmissione del servizio pubblico per reclamizzare i libri scritti da suoi amici. (A proposito: ma i libri non sono prodotti come gli altri? non hanno un prezzo di copertina? non fanno guadagnare editori, autori e librai? e dunque non si tratta di pubblicità occulta?) Quando pubblicai Il Vittorioso, mi sarei aspettato, da ingenuo quale sono, che m’invitasse nel salottino domenicale di Rai 3. Mi sarei accontentato anche del sabato. Ero persino disposto a sopportare un grosso sacrificio: la presenza di Luciana Littizzetto. Niente da fare. Un collega mi spiegò che figuravo nella black list faziosa, in quanto il mio Giornale s’era occupato in passato della villona del nostro sulle alture di Celle Ligure (...) oggetto di esposto dell’opposizione per i massicci lavori di ristrutturazione che vi sono stati eseguiti. In compenso Fazio invita a Che tempo che fa il giornalista e scrittore Massimo Gramellini e gli riserva quasi mezza puntata affinché possa magnificare la sua ultima fatica letteraria. Poco importa che costui sia incidentalmente anche collaboratore fisso del medesimo Che tempo che fa. Poi blaterano tanto del conflitto d’interessi. Alessandro Di Pietro, conduttore di Occhio alla spesa su Rai 1, è stato licenziato in tronco perché avrebbe lodato in modo eccessivo la Aliveris, una pasta di soia per diabetici. Invece Gramellini può autopromuoversi il romanzo Fai bei sogni nella stessa bottega Rai che lo retribuisce, vendere oltre 1 milione di copie epperò va tutto bene madama la marchesa. Basta che il pistolino ci metta sopra il suo bel timbrino. Ma andate a nascondervi, moralisti del pifferino. Voto: 4.

L’esercito dei tesserini marroni: chi sono i giornalisti italiani, scrive il 7 novembre 2013 Giuliano Lebelli su "Primato Nazionale”. Si è parlato molto, nei giorni scorsi, della bocciatura di Giulia Innocenzi, conduttrice di “Servizio Pubblico”, alla 115esima sessione dell’esame di Stato per diventare giornalista professionista. La supponenza della giovane ha certo esacerbato i toni, anche se, da quanto si è appreso, la sessione sembra essere stata piuttosto sui generis. Assieme alla maestrina di Santoro non ha passato l’esame il 44% dei candidati, laddove in genere la media dei bocciati si attesta sul 25%. Hanno fatto discutere, inoltre, i gravi errori inseriti nelle tracce composte da cinque esperti giornalisti professionisti e da un sostituto procuratore di Frosinone: nell’articolo di cronaca, basato su finti lanci d’agenzia distribuiti ai candidati, un pm (il cui cognome era peraltro riportato in due modi differenti) doveva “decidere se convalidare o meno il fermo”, prerogativa che spetta però al gip e non certo al pm. Psicodramma Innocenzi a parte, la figuraccia dell’Ordine dei giornalisti è clamorosa. Ma è solo l’ultima stranezza di un carrozzone parassitario che sembra ormai aver esaurito ogni funzione. Bollato spesso come “creazione fascista”, l’Ordine nasce in realtà con la legge n. 69 del 3 febbraio 1963 ed entra in vigore il 12 marzo 1965. Il fascismo, nel 1925, si era limitato all’istituzione di un “albo generale dei giornalisti professionisti”.

Una persona su 526 è giornalista. Ma quanti sono oggi gli operatori dell’informazione sotto la tutela dell’Odg? Secondo il rapporto sulla professione giornalistica in Italia 2013, dal titolo “Il paese dei giornalisti”, elaborato da Lsdi (Libertà di stampa diritto all’informazione), presentato qualche giorno fa, in Italia una persona ogni 526, a fine 2012, aveva in tasca il famoso tesserino marrone, per un totale di 112 mila giornalisti. Di questi, però, meno della metà è attiva, ovvero solo 47.727 hanno una posizione Inpgi aperta. Ciascun iscritto è obbligato a pagare una quota annua di 100 euro, per circa undici milioni di euro globali. Questi centomila giornalisti si dividono in pubblicisti e professionisti. L’iscrizione all’albo dei professionisti prevede un esame di Stato che può essere sostenuto da chi abbia lavorato per 18 mesi in una redazione con contratto da praticante. L’esame prevede due prove, una scritta e una orale. I giornalisti non professionisti possono invece iscriversi all’albo dei pubblicisti dopo aver pubblicato un certo numero di articoli. A differenza dei professionisti, non è prevista per il pubblicista la prova di idoneità professionale, ma i consigli regionali del Lazio, della Sicilia e della Campania richiedono un colloquio informativo che viene sostenuto subito prima del rilascio del tesserino. Questo anche per tentare di mettere un freno all’andazzo allegro che aveva ampiamente screditato la figura del pubblicista.

Amici degli amici. Quanto appena detto risponde all’eterna domanda di tanti giovani. “Come faccio a diventare giornalista?”. Questo, almeno, dal punto di vista burocratico. Come fare a lavorare davvero nel mondo del giornalismo è invece tutto un altro paio di maniche. Provate a cercare sui siti dei maggiori quotidiani italiani: mai un bando, mai l’annuncio di nuove assunzioni, spesso manca addirittura un indirizzo mail apposito per inviare curricula, quando non compare in modo spietato l’avviso esplicito a non importunare la redazione con scoccianti richieste di lavoro. Come si fanno allora le nuove assunzioni (quando se ne facevano: oggi, con la crisi, il settore è completamente in ginocchio)? Semplice: amici degli amici, nepotismo, raccomandazioni. Prendete i cognomi dei principali giornalisti italiani e confrontateli con quelli di 30 anni fa: sono tantissimi quelli che ricorrono. Quando c’è di mezzo il giornalismo pubblico, dove ci sarebbe l’obbligo di una maggiore trasparenza, le cose non cambiano di molto. Il 28 giugno scorso, per esempio, Rai e Usigrai avevano siglato un accordo per reclutare 35 “nuove risorse” dalle “scuole di giornalismo” e altre 40 tra i giornalisti interni all’azienda, ma “utilizzati con altra qualifica o forma contrattuale”. Infine, all’articolo 2 era scritto: “L’Azienda avvierà entro settembre un’iniziativa di selezione pubblica per future esigenze di nuovo personale giornalistico”. A tutt’oggi, però, del concorso non si sa assolutamente nulla. Le trentacinque “nuove risorse”, tuttavia, sono state individuate tra gli ex allievi della Scuola di Perugia, chiamati direttamente a lavorare in Rai senza alcuna selezione.

Proletariato culturale. La corsa al tesserino si basa del resto su una erronea percezione della dimensione economica della professione. Molti dei centomila operatori dell’informazione vanno, infatti, a ingrossare le fila di un vero proletariato culturale. Il giornalismo è in effetti uno dei settori in cui più è diffuso il precariato e il lavoro sommerso. Soltanto nel dicembre 2012 la Camera ha approvato la legge sull’equo compenso per i giornalisti freelance e i collaboratori autonomi, ma ancora oggi non si vedono risultati concreti e i giornali locali (ma anche quelli nazionali) sono pieni di collaboratori pagati 10 o 5 o addirittura 3 o 2 euro ad articolo. I lavoratori dipendenti, oggi, sono circa 19 mila, gli autonomi 28 mila. La media generale delle retribuzioni è di circa 33.500 euro all’anno, ma è di 62.459 per i dipendenti e di 11.278 per gli autonomi. In pratica, sul totale degli iscritti all’Ordine, meno di un giornalista su cinque ha un contratto a tempo indeterminato.

Un settore sovvenzionato. Un altro degli aspetti controversi del giornalismo italiano è il fatto di gravare fortemente sulle casse dello Stato a causa dei contributi pubblici all’editoria. Si calcola che dal 1990 a oggi, i giornali italiani abbiano ricevuto circa 850 milioni di euro di contributi pubblici. Nel 2011 lo Stato ha speso circa 80 milioni di euro in fondi per l’editoria. Circa 40 milioni in meno rispetto al 2010. Il contributo diretto stimato per l’anno prossimo è sui 67 milioni di euro. Sul sito del governo italiano sono consultabili, nel dettaglio, i finanziamenti erogati fino al 2011. Vi troviamo testate note come Il Manifesto (€ 2.598.362,85), Il Foglio (€ 2.251.696,55) o Avvenire (€ 3.796.672,83). Stupiscono di più i 691.110,82 euro percepiti da Il Romanista. O le alte cifre destinate a giornali locali come la Voce di Romagna (€ 1.587.723,78) o il Quotidiano di Sicilia (€ 1.420.055,25). Per non parlare delle somme folli destinate ai giornali per gli italiani residenti all’estero: lo Stato spende € 1.948.145,56 per informare gli italoamericani attraverso America Oggi o € 1.266.106,40 per il Corriere Canadese destinato agli italiani in Canada. Consola, se non altro, che Buddismo e Società abbia percepito solo € 21.141,50 e che Italia Ornitologica costi al contribuente appena € 27.783,87. Uno studio del 2011 del Reuters Institute for the study of journalism dell’università di Oxford ha dimostrato che in realtà lo Stato italiano spende in media 15 euro all’anno per abitante per sostenere i giornali. La Finlandia è il Paese che elargisce la quantità maggiore di fondi pubblici (59 euro annui per abitante), seguono la Francia (20), appunto l’Italia, poi la Gran Bretagna (12), la Germania (6,4) e gli Stati Uniti (2,6). Nella classifica l’Italia è terza, ma ha un ritorno irrisorio in termini di nuovi lettori. Il nostro Paese è risultato infatti ultimo nella graduatoria per copie vendute ogni 1.000 abitanti: 103. In Finlandia sono 483, in Francia 152, in Germania 283, nel Regno Unito 307 e negli Usa 200. Al di là della demagogia che spesso regna sull’argomento, il finanziamento pubblico ha comunque una sua ratio: si tratta di garantire il pluralismo delle idee e la diversificazione dell’offerta culturale, che non può essere lasciata unicamente in balia del mercato. Gli esempi citati sopra mostrano tuttavia che non è il finanziamento in sé, ma le modalità con cui esso viene erogato che destano perplessità. Mentre testate storiche chiudono, infatti, quotidiani che nessuno conosce o che trattano di argomenti surreali e ultraminoritari continuano a ricevere sovvenzioni statali.

Interessi e corruzione. A quali interessi rispondono le principali testate italiane? In Italia non esiste la figura, tipicamente anglosassone, dell’editore puro, ovvero dell’imprenditore che opera esclusivamente nell’editoria. Tutti i padroni dei giornali, di fatto, fanno principalmente altro. Nello specifico, Repubblica risponde al gruppo L’Espresso, cioè al discusso Carlo De Benedetti. Il Corriere fa parte del gruppo Rcs, di proprietà dei principali operatori finanziari, bancari e industriali italiani. Il Messaggero e tutta una serie di giornali locali sono del gruppo Caltagirone. Fiat è la proprietaria de La Stampa. Confindustria, l’associazione degli industriali, possiede invece Il Sole 24 ore. Il Giornale è di proprietà della famiglia Berlusconi. Tutto ciò limita di molto l’indipendenza politica dei giornali italiani. Ma attenzione: oltre al condizionamento degli editori, i giornalisti italiani sono anche preda di una corruzione diffusa a livello individuale. Enrico Mentana, ex direttore del Tg5 e attuale direttore del Tg di La 7, uno dei volti più noti della tv italiana, ha così raccontato questo fenomeno: «Il capo delle relazioni esterne dell’Alitalia e il capoufficio stampa della Fiat erano il santo graal più inseguito dalle redazioni italiane a metà degli anni 80. Dal Manifesto al Giornale. Mammelle ausiliarie. Il tornaconto era reciproco. Sa com’è, per derogare al rigore bisogna essere in due […] A metà degli anni 80 in redazione girava una battuta. […] Invece di chiamare la Hertz telefonate all’ufficio stampa della Fiat. Ma magari la Fiat di allora fosse stata la Hertz. Alla Hertz le macchine le paghi. L’abitudine al comodato gratuito invece era generalizzata. I miei colleghi prendevano macchine in prestito senza pagare. Una cosa ridicola, francamente ridicola. Un altro tipo di commercio a chilometri zero. I giornalisti sono stati e sono ancora una categoria “disponibile”. Senza dubbio […]. Per anni i cronisti di moda e quelli che si occupano di sanità sono stati scorrazzati gratis in giro per il mondo. Venivano perfino inviati a spese delle case farmaceutiche ai congressi sulla lotta contro l’Aids […] Se non usi passaggi aerei non devi dire grazie a nessuno. Invece nel silenzio generale di Fnsi, Ordine e Rai assistiamo ogni anno a campionati di sci per i giornalisti, a tornei di tennis e sagre senza mai aver letto un richiamo netto: “È vietato prendere auto in prestito”. O sbaglio?».

Casta grande mangia casta piccola. Questo aspetto non è in contraddizione con quanto si diceva sopra circa il proletariato dell’informazione. Diciamo il giornalismo è a due velocità. Sopra la gran massa dei giornalisti pagati miseramente, che svolgono un lavoro oscuro, esiste una vera e propria casta colma di privilegi e di fatto intoccabile. A costoro, il senso di onnipotenza gioca a volte brutti scherzi. Basta ricordare quello che successe a margine della strage di Brindisi del 19 maggio 2012. Fra i primi cronisti giunti sul posto ci fu Sandro Ruotolo. Seguendo le indagini, il noto cronista progressista si lasciò andare a una serie di indiscrezioni su internet in un momento in cui l’identità del responsabile era ancora ignota. Su Twitter, Ruotolo scrisse: «Il cognome sarebbe Strada. Il sospettato si chiamerebbe Claudio». Poi altri dettagli: «Quartiere popolare. Lui mano offesa. Vive con il fratello e una signora. All’ultimo piano di un palazzo. Edilizia popolare». Infine, venne messa sul social network una fotografia del palazzo in cui abitava il presunto killer. Poi, però, le indagini appurarono che quella bomba era stata messa da tutt’altra persona. Un anno e mezzo dopo, non risulta che contro Ruotolo siano stati presi provvedimenti dall’autorità giudiziaria o dall’Ordine dei giornalisti. Insomma, una parte del giornalismo italiano pensa di poter fare e dire tutto ciò che vuole impunemente. In realtà i limiti al diritto di cronaca sono stati sanciti da una sentenza della Corte di Cassazione del 18 ottobre 1984, insegnata nelle scuole di giornalismo con il nome di “sentenza decalogo”, proprio perché si ritiene che essa dica tutto quel che c’è da dire su cosa si può e cosa non si può dire. Per la Cassazione, il giornalista deve sempre attenersi a tre principi: “utilità sociale dell’informazione”, “verità dei fatti esposti e “forma ‘civile’ della esposizione dei fatti”. Il tribunale fa di più, entrando nel merito di ciò che il giornalista esplicitamente non può fare. Non può, per esempio, dire una verità incompleta o utilizzare alcune forme espressive lesive della dignità delle persone. Ovvero non può sottintendere accuse senza formularle in modo esplicito (“sottinteso sapiente”), non può operare “accostamenti suggestionanti”, citando in un articolo fatti slegati dalla notizia principale ma lasciando intendere che un legame in fondo vi sia, non può ricorrere “al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato”. Chi legga quotidianamente i giornali italiani può ben rendersi conto di quanto queste regole siano ogni giorno calpestate. Tale onnipotenza di fatto trova un limite solo quando quella giornalistica si scontra con una lobby più forte. Una è per esempio quella dei magistrati, che in Italia hanno un potere abnorme. Se andiamo a vedere le (poche) storie di giornalisti italiani che sono finiti in carcere o hanno rischiato di andarci, vediamo che spesso c’entrano degli scontri con i magistrati. L’ultimo caso è quello del direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, condannato a un anno e due mesi di carcere e a 5000 euro di pena pecuniaria, per diffamazione a mezzo stampa, per aver pubblicato sul suo quotidiano la notizia (falsa) che un giudice di Torino avrebbe costretto una ragazza ad abortire. Il Presidente della Repubblica in persona ha commutato la pena in una multa pecuniaria. Ma in passato, fra i pochissimi giornalisti che in Italia sono seriamente finiti nei guai, ricordiamo anche Vincenzo Sparagna e Valter Vecellio, della rivista satirica Il Male, condannati a due anni e mezzo per il testo di una vignetta sulla magistratura scritto nel 1979. O Lino Jannuzzi, condannato a due anni e cinque mesi per articoli ritenuti diffamatori sui magistrati che si occuparono del caso Tortora. Va citato anche Giovannino Guareschi, condannato nel 1950 per vilipendio al Presidente della Repubblica Luigi Einaudi e nel 1954 per diffamazione dell’ex Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Guareschi scontò 409 giorni di carcere. Come si vede, i giornalisti che finiscono nei guai sono quelli che danno fastidio a chi è più potente di loro. Ma per il normale cittadino, quella giornalistica resta una casta onnipotente, privilegiata e capricciosa.

I GIORNALISTI? SONO PIU’ DISONESTI DEI POLITICI.

«I giornalisti? Sono più disonesti dei politici». Lunga intervista a Massimo Fini, sull'onestà del giornalismo e sulla fedeltà a sé stessi, di Andrea Coccia su “L’Inkiesta”. Quando sei convinto di avere un appuntamento a casa di Massimo Fini alle 6 di sera e alle 4, mentre stai riguardando le domande che ti sei preparato, il telefono squilla con il suo nome sullo schermo, sei portato a pensare che l’intervista che stavi aspettando da settimane non sia esattamente partita con il piede migliore. Prima di rispondere ti schiarisci la voce, poi scorri il tuo ditone sullo schermo e rispondi: «Sì, pronto, buonasera... sì... effettivamente... alle 6... non c’è problema... in un quarto d’ora sono lì...». La prima volta che vidi Massimo Fini fu un pomeriggio di settembre della prima metà degli anni Duemila, mi sembra il 2004. Eravamo a Mantova, lui in una delle sue rare apparizioni festivaliere — a presentare Sudditi. Manifesto contro la democrazia, che era uscito da poco per Marsilio — io nelle vesti di un giovane volontario del Festivaletteratura, di quelli con la maglietta blu. Non avevo idea di chi fosse, non lo avevo mai sentito nominare e men che meno l’avevo sentito parlare o avevo letto qualche suo articolo. Era un perfetto sconosciuto, ma mi capitò di prestare servizio proprio al suo evento, e lo ascoltai, seduto per terra, con le gambe formicolanti, per una bella oretta e mezza. Alla fine, quando mi alzai, ebbi la netta sensazione di non essere esattamente la stessa persona di quando mi ero seduto. E non soltanto perché non sentivo più la gamba destra. Nei dieci anni che separano quella gamba formicolante da quel telefono che vibra sono successe un sacco di cose: Fini ha scritto altri libri — ma non è più tornato a Mantova — ha cominciato a scrivere sul Fatto Quotidiano (che all’epoca ancora non esisteva) e ha fondato un movimento. Io, invece, che intanto sono decisamente meno giovane e non metto più magliette blu nemmeno durante il Festival, di Massimo Fini mi sono letto un sacco di libri: cominciando da Sudditi, che lessi d’un fiato proprio quella sera, passando poi per Il vizio oscuro dell’Occidente, il Di[zion]ario erotico, La Ragione aveva torto?, il Mullah Omar e Ragazzo, fino a Il Conformista, piccola bibbia del giornalismo sulle cui pagine torno spesso, soprattutto nei momenti di difficoltà. Insomma, Massimo Fini è per me un personaggio dannatamente affascinante. E lo è per un motivo che insieme è molto semplice e molto raro: è uno dei pochissimi giornalisti che oggi, in Italia, è dotato di una straordinaria onestà intellettuale, di un’irriducibile coerenza con se stesso che viene sempre prima di ogni altra cosa e che lo ha portato spesso a giocarsi tutto — visibilità, carriera, fama — pur di non sacrificarla. È per tutte queste cose che il 3 giugno, alle 5 del pomeriggio, accompagnato dall’immancabile ansia tipica di questi incontri, mi sono ritrovato nel salotto di Massimo Fini, un salotto stracolmo di libri, impilati sul tavolo, appoggiati disordinatamente su sedie e tavolini, pigiati nella libreria-muraglia, su scaffali dalla tassonomia diligentemente etichettata.

«Sono figlio di un giornalista», attacca lui, alla mia domanda su come ha iniziato a scrivere per i giornali, «ma per ribellismo non ho voluto fare il lavoro di mio padre, almeno all’inizio. È per questo che da giovane ho fatto un sacco di lavori diversi. Ho lavorato alla Pirelli — un lavoro straziante — ho fondato un’agenzia pubblicitaria e molte altre cose».

Uhm, tanti lavori diversi. Mi ricorda qualcosa.

E poi che è successo?

«Poi, a un certo punto, il caso ha voluto che la prova dell’esame di Stato di magistratura alla quale partecipai, a Roma, era truccata. A quel punto, quando tornai a Milano chiesi agli amici di mio padre — a cui non avevo mai chiesto la cosa più normale, ovvero di farmi entrare nel mondo del giornalismo — se quella storia dell’esame di magistratura truccato avesse potuto interessare qualcuno. A me sembrava una cosa grossa, eppure non ebbi nessun riscontro: pareva che non interessasse. A quel punto decisi di andare a bussare alle porte dell’Avanti!, dove non sapevano nulla di me, e proposi la storia. All’Avanti! mi dissero che in quel momento non c’era nessuno dei suoi che poteva occuparsene e mi chiesero di provare a scriverlo io. Lo scrissi e piacque molto. Il direttore, però, mise subito le mani avanti, e mi disse che non c’erano possibilità di entrare all’Avanti!, che c’era già la coda e che poi non ero neppure socialista. Ma che se volevo potevo andare lì ogni tanto, due o tre ore al giorno, per fare esperienza, naturalmente non pagato. Così capii che questo mestiere, che avevo rifiutato per ribellismo verso mio padre, in realtà mi piaceva.»

Bussare alle porte dei giornali per riuscire a cominciare, scontrarsi con la fila di persone che per diritti di nascita o di censo ti precedono, fare esperienza senza essere pagato. Non avrei mai pensato che la vita di un aspirante giornalista negli anni Sessanta fosse così simile alla nostra...

L’Avanti! era organo del partito socialista, o sbaglio? Come ti sei trovato in un contesto del genere?

«Ti confesso che è stato certamente il periodo migliore della mia vita. Lavoravo con facilità, l’Avanti! a quei tempi — a parte una decina di funzionari di partito che però non contavano un cazzo, che stavano lì a occupare la sedia e prendersi lo stipendio — era come una piccola squadra di calcio e quindi ho avuto l’opportunità di seguire casi importanti: il caso Calabresi, quello Feltrinelli. Il PSI non era al governo e quindi noi avevamo la massima libertà e l’ambiente mi piaceva un sacco, un ambiente libertario, interessante. C’era il capocronista — che tra l’altro mi pare che non fosse neanche socialista, ma comunista — che conosceva tutta la città, c’erano intellettuali strani, persone decisamente interessanti.»

Perché te ne sei andato?

«Accadde che mi fecero due proposte. Fu grazie all’interessamento di Camilla Cederna: una mi arrivò dall’Europeo e l’altra dall’Espresso. Scelsi l’Europeo e, come tutte le scelte che ho fatto in vita mia, scelsi in modo completamente irrazionale.»

Come cambiò la tua vita all’Europeo?

«Per la mia vita lavorativa quella all’Europeo è stata un’esperienza importantissima: era un grande giornale. Si lavorava ancora seguendo regole molto severe e c’era la possibilità di viaggiare, anche se io per la verità mi occupavo soprattutto di Italia. Però da un punto di vista personale fu un periodo abbastanza difficile. L’ambiente in redazione era cupo, il direttore — che all’epoca era Tommaso Giglio — era una sorta di sadico padre padrone. Io in realtà me la sono sempre cavata, in fondo. Ero il più giovane, mi avevano preso tutti in simpatia, quindi l’ho subita fino a un certo punto, però c’era un’atmosfera abbastanza pesante. Lì sono rimasto fino al 1976, quando Giglio se ne andò e cominciarono ad arrivare una serie di direttori abbastanza scandalosi, fino ai socialisti di Martelli, e da un rigore che era alla base della storia del giornale, la faccenda si tramutò in una roba comica e dilettantesca.»

In che senso comica?

«Ma sì, sai quelle cose molto italiane. Un esempio su tutti: ricordo un inviato che fu assunto e che pretese che lo fosse anche la sua ragazza che, per l’amor di dio, aveva anche un bel culo, però non sapeva fare niente. Insomma, un dilettantismo clamoroso.»

Cambiò qualcosa solo all’Europeo o fu un cambiamento più generale?

«Fu un cambiamento totale e definitivo del mondo del giornalismo e avvenne a metà degli anni Settanta, quando la politica entrò a piedi uniti nel giornalismo. Prima esistevano ancora i cosiddetti “editori puri”. Lo erano Rizzoli e Mondadori, per esempio. Poi sono cambiate le cose, e i politici sono entrati sia direttamente, sia attraverso i comitati di redazione, che erano spartiti tra schieramenti politici. È da lì che è cambiato tutto.»

Tu come hai vissuto questo cambiamento?

«Ho avuto la fortuna di affermarmi in qualche modo prima di questa storia, verso la fine degli anni Settanta. E infatti nel 1979 me ne sono andato a spasso, a fare il freelance. Una scelta rischiosissima, insomma. Certo, la fortuna era che queste redazioni, seppur pletoriche, mi affidavano dei pezzi. Senza contare che all’epoca mia moglie faceva l’insegnante e portava lo stipendio a casa. In quel periodo mi misi su un progetto molto interessante insieme ad Aldo Canale: fondammo un settimanale che si chiama Pagina, un’operazione interessante, anche se abbiamo molte colpe, lo ammetto.

Si accende una sigaretta, io intanto ne rollo una di tabacco e l’accendo anch’io. Lasciamo cadere la cenere in un piccolo posacenere pieno di sigarette spezzate, appoggiato su un libro dalla copertina blu, sporco di cenere: una vecchia e splendida edizione del Viaggio al termine della notte di Céline.»

Che genere di colpe?

«Abbiamo fatto scrivere gente come Giuliano Ferrara, Ernesto Galli Della Loggia, c’era anche Pigi Battista che era un nostro giovane di bottega, e molti altri. In realtà è stato un gran bel giornale, soprattutto per merito di Canale. Solo che a un certo punto, visto che eravamo un settimanale liberale con venature anarchiche — che erano quelle che portavo io — i socialisti fecero di tutto per toglierci la poca pubblicità che avevamo. E noi, che vivevamo grazie ai soldi di Canale, alle vendite — circa 13mila copie, che non erano affatto male — ma soprattutto grazie alla pubblicità, a quel punto abbiamo dovuto chiudere. La nostra colpa era semplicemente di non essere un organo del partito socialista.»

E poi?

«Poi passai al Giorno, proprio in virtù di Pagina, perché il direttore Magnaschi — forse il miglior direttore che ho avuto — leggeva Pagina e gli piacevano molto i miei pezzi, soprattutto le stroncature, un po’ alla Papini. Mi ricordo che una volta ero disoccupato e stavo sfogliando un giornale di scommesse ippiche cercando di capire su quale cavallo puntare a Milano e, proprio in quel momento, mi chiamò Magnaschi proponendomi di scrivere un pezzo su un’enciclica papale — all’epoca il papa era Karol Wojtila. Gli serviva il mio pezzo per fare il contraltare laico a un altro pezzo, e io accettai. Non sapevo un caz... ehm, ero lontano mille miglia da questa cosa, della storia della Chiesa non sapevo un bel niente, e telefonai a un mio amico comunista, professore a Savona che, come tutti i comunisti, ne sapeva un sacco della storia della Chiesa, lui mi diede qualche dritta e io in due ore avevo scritto il pezzo. Zucconi, per provarmi, mi chiese l’articolo entro le quattro, io lo feci, andò in pagina e funzionò. Da quel momento iniziai una collaborazione con il Giorno che proseguì fino a che ci furono Zucconi e Magnaschi. Fu un ottimo periodo, perché è vero che il giornale era in pratica dell’Eni, quindi un po’ del Psi e un po’ della Dc, però Zucconi era molto abile, e riusciva ad accontentare Craxi e contemporaneamente a garantire libertà alla redazione. Io proprio lì ho scritto le cose più tremende contro la partitocrazia. Zucconi era un gran volpone, quando qualcuno gli diceva che il giornale era troppo buono con i partiti, tirava fuori il fatto che lasciava scrivere me, quando invece aveva delle grane per quello che scrivevo io se la cavava dicendo che in fondo era una rubrica sola, un punto di vista personale, mi dava del pazzo e se la cavava così. Insomma, con questo trucchetto delle tre carte noi alla fine avevamo la nostra libertà.»

Hai avuto buoni rapporti con i tuoi direttori?

«Sì, e devo dire che anche quelli che non mi hanno amato mi hanno sempre difeso. C’era un impegno, forse anche un bravura da parte loro, che ha fatto sì che non avessi mai grossi problemi. Qualcuno mi detestava, certo, però c’era ancora il concetto del rispetto per il lavoro fatto bene e mi lasciavano lavorare.»

E invece con chi hai avuto problemi?

«Con i sindacati e con i colleghi. Con i sindacati perché a un certo punto hanno appiattito tutto, non valeva più né la qualità né la quantità del lavoro, e non solo, succedeva anche che tu andavi in giro a lavorare alle tue inchieste o alle tue storie e quelli che restavano in redazione tramavano e intrecciavano rapporti avanzando di carriera, mentre tu te ne rimanevi sempre allo stesso posto. Con i colleghi era una questione di competizione, cose normali, ma c’erano anche lotte interne, mafiette, cricche e gruppi di interesse. In ogni caso, tutte queste dinamiche a partire dal 1979 non mi interessarono più molto. Al Giorno mi fecero un contratto che mi permetteva di essere libero dalla redazione, e tutte queste cose faticosissime che ti tolgono energia me le sono potute evitare.»

Mi racconti della tua esperienza all’Indipendente?

«Quella per me è stata l’ultima grande stagione, all’Indipendente di Feltri, quando non gli era ancora passato sopra il Berlusconismo. Il momento era molto favorevole. Si era rotto il consociativismo dei partiti, c’era Mani pulite, un fenomeno che Feltri ha cavalcato alla grande, indulgendo anche su posizioni molto forcaiole che ha poi cambiato, diventando garantista quando è andato a lavorare per Berlusconi.»

Che tipo di giornale era?

«Era un giornale molto aperto, fu per questo che forse riuscì a coinvolgere lettori provenienti da tanti settori diversi, con diverse idee politiche, anche. Tra i collaboratori scelti da Feltri c’era chi era di destra e chi di sinistra, ma il tutto aveva una sua faccia, che era la sua, quella di Feltri, che aveva inventato il feltrismo e abbiamo vissuto un anno e mezzo straordinario, con una redazione molto giovane e motivata. Siamo passati da 20mila a 120mila copie nel giro di pochi mesi. Vivevamo in una specie di sogno, quello di un giornale libero, perché il nostro editore Zanussi era uno che ci permetteva di fare tutto: pensa che un giorno arrestarono il nostro amministratore nell’ambito di alcune inchieste di Mani pulite e noi uscimmo con quel pezzo in prima pagina. Insomma, eravamo liberi sul serio. Solo che un giorno d’agosto, Feltri mi invita a cena e mi fa la terrorizzante domanda: «ma se vado al Giornale vieni con me?» E allora io li a spiegargli che era un errore, da ogni punto di vista, sia professionale che politico, e che lo era anche per lui. Insomma, finiamo la cena un po’ brilli tutti e due e lui, bicchiere in mano, alza il calice e dice «ma sì, in culo a Berlusconi, restiamo all’Indi!». Il giorno dopo aveva firmato.»

È curioso, per un trentenne come me, sentir parlare in questo modo di Feltri, per noi nati negli anni Ottanta lui è solo quello che è ora. Che cosa è successo?

«Per Vittorio ha contato per prima cosa il fatto che non si dovrebbe mai nascere poveri — al Giornale gli offrivano un miliardo, da noi prendeva 250 milioni — ma soprattutto aveva capito che Berlusconi era il più forte in quel momento e dunque decise di lasciare quella straordinaria avventura. Abbiamo litigato molte volte su questa cosa, gli ho detto di tutto, anche se poi siamo sempre rimasti in contatto. E devo dire che l’ultima volta che ci siamo sentiti, mi sembra un annetto fa, anche lui ha ammesso che, in fondo, era stata una scelta sbagliata. Prima era il Feltri anarchico di destra, libero e indipendente, poi gli passò sopra il berlusconismo. In quegli anni, però, successe una cosa ben più grave: fu spazzato via tutto ciò che si era in qualche modo opposto alla partitocrazia: la Lega, che fu inglobata, Funari, emarginato, Feltri, comprato, e così andare. Hanno fatto quello che credo cercheranno di fare con Grillo e con il Movimento 5 Stelle.»

Eccoci arrivati alla politica, a Grillo — «siamo amici da trent’anni» — al Movimento 5 Stelle, ovvero a un potenziale pantano. Per un attimo mi spaventa l’idea di vedere la conversazione prendere quella strada, che poco c’entra, anzi quasi per niente, con quello a cui volevo arrivare.

Tornando al giornalismo, che è quello che mi interessa, che cosa significa essere intellettualmente onesti?

«L’onesta intellettuale è un atteggiamento mentale che dovrebbe rappresentare la normalità. Significa trattare nello stesso modo chi ti sta simpatico e chi ti sta antipatico. Una cosa se secondo te è sbagliata, o giusta, lo devi riconoscere indipendentemente da chi la fa. Questo vuol dire essere coerente e onesto intellettualmente, se no fai l’agitatore, che è un altro mestiere. Purtroppo oggi quasi tutti i giornali, piccoli o grandi che siano, sono tutti schierati o da una parte o dall’altra. Certo, questo è un discorso che riguarda soprattutto gli editorialisti, poi all’interno della redazione c’è ancora chi fa servizi, cronaca e reportage molto bene. Mi viene in mente Paolo Rumiz, per esempio. Essere coerenti vuol dire anche che se una volta affermi una cosa e il giorno dopo il suo contrario, per lo meno devi ammetterlo e ricordarlo al tuo lettore. Il grande corruttore in questo senso è stato Eugenio Scalfari, il quale incominciò a dire una cosa per poi dire il suo contrario sei mesi dopo, finché arrivò all’apice assoluto e, in un articolo su Bettino Craxi, scrisse una seconda parte in cui riusciva a smentire ciò che lui stesso aveva detto nella prima. Un tempo questo non sarebbe stato possibile, perché come diceva Giorgio Bocca esisteva una «società degli eccellenti».»

Che cosa intendeva?

«È un concetto da prendere con le molle, ma insomma, certe cose non le potevi fare, se no eri squalificato. Poi è saltato tutto, e infatti lo vediamo nel giornalismo di oggi, ma anche nella politica. «Stai sereno», dice Renzi a Letta, e dopo due giorni gli ha preso il posto. Ecco, almeno per queste cose, un tempo l’Italia era diversa, c’erano delle regole, anche non scritte, ma certe cose non le potevi fare. E non solo nel giornalismo anche nella vita quotidiana. Era un’Italia, quella dei Cinquanta e Sessanta, in cui l’onestà era un valore per tutti: per la borghesia, se non altro perché dava credito, per il mondo contadino, in cui se venivi meno alla parola data o a una stretta di mano venivi escluso dalla comunità, e anche per le classi medie e il proletariato.»

E cosa è cambiato?

«Purtroppo, a un certo punto c’è stato un cambiamento antropologico dell’intera società italiana, e il giornalismo è stato in parte coinvolto, ma in parte è stato anche corruttore e protagonista.»

Quale è stato il punto di rottura?

«Il boom economico, l’idolatria del quattrino. L’idolatria del quattrino ha cambiato gli italiani radicalmente: ora ci si vende per niente. Lo vediamo tutti i giorni, i recenti scandali che abbiamo visto ne sono la prova. E non ci si vende mica per grandi cose, tutt’altro. Io capirei anche una donna che si vende per uno smeraldo che vale un miliardo, abbagliata dalla ricchezza. Ma una che si vende per una cena in un bel ristorante o per delle cose ancora più miserabili, cose che anche un barbone rifiuterebbe, non posso proprio accettarlo. Il dio quattrino è diventato l’unico idolo condiviso di questo paese. Questa è la verità.»

Che responsabilità hanno avuto i giornalisti?

«Il giornalismo e gli intellettuali — uh, che brutta parola — hanno delle responsabilità gravissime, forse maggiori della stessa classe politica.»

Dici che intellettuale è una brutta parola. Perché il termine “intellettuale” è diventato un insulto in questo paese?

«Credo che dipenda dal fatto che gli intellettuali hanno tradito il loro compito, il loro mestiere. E qual è il mestiere dell’intellettuale o del giornalista è, per usare una vecchia formula un po’ usurata, quella del cane da guardia del potere, il controllore. Un ruolo che in alcune parti del mondo ancora esiste, penso agli Stati Uniti, paese che detesto per molti motivi, ma a cui bisogna dare questo merito: la stampa, o almeno, delle parti della stampa sembrano ancora avere l’indipendenza minima, quella che ti permette quando parli dell’Afganistan, per esempio, di criticare l’operato del tuo governo e del tuo esercito.»

E in Italia?

«In Italia la stampa ha smesso da molto tempo di fare il suo mestiere, è totalmente versipelle, ma ci sono esempi di tutti i tipi. Giuliano Ferrara direi che ne è l’emblema, perché è una persona intelligente, anche se in questo caso l’intelligenza mi sembra una aggravante più che un’attenuante. In ogni caso, è questo mondo quello di cui parlo: i Ferrara, i Della Loggia, i Panebianco, i Battista e via dicendo, sono loro che hanno squalificato il lavoro del giornalista. Ma ci sono anche esempi positivi, penso ai Rizzo, agli Stella, che hanno fatto parecchia gavetta e che sono degli ottimi giornalisti. Il problema è che restano in uno stato di perenne gavetta, non avranno mai il peso che può avere un editorialista del Corriere della Sera, che poi non si sa nemmeno più perché debbano essere loro gli editorialisti del Corriere.»

Qual è il prezzo che un giornalista paga per difendere la propria onestà intellettuale?

«Come paga? Be’, con la marginalizzazione, l’estromissione, l’annullamento. Del resto, non si può fare la rivoluzione con la mutua, come pretendevano quelli del '68. Se ti metti contro devi essere disposto a pagarne il prezzo e il prezzo è quello. Ma c’è anche da dire che non è quasi mai una scelta, nel mio caso sta scritto nel Dna, non avrei mai potuto fare altrimenti.»

Credi che una nuova generazione di giornalisti possa cambiare le cose?

«È molto difficile. Prima di tutto perché è difficilissimo entrare. Una volta assumevi il figlio del collega o il nipote di un politico, ma insieme assumevi anche uno bravo. Adesso quelli bravi fanno molta più fatica. Ritornando alla mia storia, io ho avuto la fortuna di essermi affermato un po’ prima di quando cambiarono le cose. Oggi un ragazzo non so come potrebbe fare. Forse il web sarà utile in questo senso, per creare qualcosa di nuovo e indipendente, anche se la rete ha tutta una serie di problemi che non rendono affatto facile emergere. Con l’abbondanza che può offrire il web farsi notare è sempre più un’impresa eccezionale.»

Cosa ne pensi del finanziamento pubblico ai giornali?

«La legge che era nata per finanziare i giornali che erano organi di partito qualcosa di giusto ce l’aveva. Nell’ingenuità dei nostri padri costituenti, questa legge permetteva di fare un giornale anche a chi non aveva per forza un potere economico alle spalle. Poi invece è andata a finire come vediamo oggi: basta un sotterfugio e due parlamentari per aggirare la legge. È la solita storia italiana, insomma, non è che non ci sono buone leggi, è che le buone leggi vengono continuamente bypassate e diventano un’altra cosa.»

Il problema è sempre la disonestà?

«Sì, ma anche se forse tanto seri non lo siamo mai stati, una volta, almeno a livello popolare, un senso di onestà di fondo lo avevamo, io un po’ l’ho vissuto. C’era un rispetto delle regole che iniziava addirittura dalla strada. Per dire, quando eravamo piccoli, nel dopoguerra, noi abbiamo vissuto per strada e c’erano piccole faide di continuo tra gruppi diversi. Però anche lì, anche nelle risse tra ragazzini, c’erano delle regole: se uno cadeva per terra non lo potevi più toccare, non si potevano dare calci, ma solo pugni, se qualcuno si faceva male sul serio gli si dava una mano. Cominciava da lì, dalla strada. C’era tutto un mondo di regole, che poi erano le stesse della vecchia malavita milanese che, fino a Vallanzasca compreso, queste regole le rispettava: sarà stato pure un codice malavitoso, ma almeno era un codice. Quella che è sparita è proprio un’etica pubblica condivisa.»

Sono anni che ti batti contro il conformismo, in particolare contro quella specie di professionismo dell’anticonformismo che, facendo un giro completo, diventa il peggior conformismo. Com’è la situazione ora?

«Non è cambiato poi molto. Ci sono tantissimi finti anticonformisti in Italia, ci sono sempre stati, e se ne stanno benissimo incistati in quello che si chiama pensiero unico, che non sanno nemmeno bene che cos’è.»

Qual è il pensiero unico?

«È il pensiero uscito dalla rivoluzione industriale, che si basa su una distinzione netta tra destra e sinistra, che sono in realtà due facce della stessa medaglia. Questo quando sono onesti intellettualmente. Quando sono disonesti sembrano anche la stessa faccia, perché fondamentalmente si conformano al potente del momento. È normale, è quello di cui parlava Flaiano quando diceva “salire sul carro del vincitore”. Adesso c’è Renzi, prima c’era Berlusconi, poi chi sa chi ci sarà...»

Ti sembra di vedere oggi qualcuno che sfugge da questa dinamica?

«No. Una volta i giornali davano spazio anche a personaggi eterodossi. Certo li usava come foglia di fico, ma almeno li faceva scrivere. Pensa all’esempio di Pasolini, che ha scritto cose micidiali sulle pagine del Corriere della Sera, opinioni eterodosse che oggi non hanno più spazio. Questo tipo di intellettuale è esistito in Italia per molto tempo. Mi vien da pensare anche a una parte della carriera di Bocca, o di Montanelli. Adesso però io non riesco a vedere personaggi di questo genere, di questa statura intellettuale. Faccio fatica, non me ne vengono in mente, e questo probabilmente perché o non riescono ad accedere alla professione oppure, se ce la fanno, pagano un prezzo altissimo, ovvero la quasi completa emarginazione. In ogni caso l’effetto è lo stesso: non si vedono.»

Chi sono i conformisti dell’anticonformismo oggi?

«Sono ancora e sempre i finti anticonformisti, sono una classe di miracolati, è sempre la solita compagnia, il solito giro. E infatti non sentirai o non leggerai mai nelle loro trasmissioni o nei loro articoli, qualcosa di diverso dal solito, di eterodosso. Ti faccio un esempio che mi riguarda: una volta — una sola — sono stato invitato da Ballarò. Era una puntata con D’Alema e si parlava della guerra in Serbia, che io ho sempre giudicato inutile e cogliona. Ho spiegato il perché di questa mia convinzione, ovvero che, al di là del fatto che non avevamo nessun contenzioso con la Serbia e che, anzi, avevamo sempre avuto rapporti discreti, Milosevic in quel momento era una specie di gendarme dei Balcani e, proprio grazie all’intervento della Nato, è stato sostituito da una organizzazione di criminali enormi. E dove fanno i migliori affari questi gruppi criminali? Ovviamente nel paese ricco più vicino, ovvero l’Italia. Bene, io a Ballarò non ci sono più tornato. Magari sbaglio, dicendo queste cose, ma se non mi invitano non è per quello, è perché queste cose non le vogliono sentire. Insomma, o fai parte della compagnia del giro, quella dei Fazio, dei Saviano, dei Gramellini, o non avrai spazio. Per avere spazio devi essere cooptato da qualcuno. Prendiamo l’esempio di Luttazzi, così non parliamo solo di me, Luttazzi è uno che riempie i palazzetti dello sport con i suoi spettacoli, e forse interesserebbe a qualcuno se lo facessero passare in televisione, ma Luttazzi in televisione non ci rientrerà mai più, perché non fa parte di nessun gruppo, non fa parte della compagnia del giro.»

Cosa ne pensi delle scuole di giornalismo?

«Secondo me le scuole non servono a niente, semplicemente perché il giornalismo non è una cosa che si può insegnare. Quando mi chiamano nei licei o, ma molto più raramente nelle università, a tenere delle lezioni di giornalismo io non so che dire. Penso che il giornalismo lo si impari facendolo. Una volta il sistema per entrare nella professione era avere molta tenacia, bussare a tutte le porte, ma erano tempi diversi, i giornali assumevano ancora, era più facile. Ora invece è tutto molto più complicato e mi sembra che le scuole di giornalismo siano lì per cooptare gente cooptabile, ma non hanno quasi nulla a che fare con l’insegnamento della professione. Il problema è che molti ragazzi non hanno alternative, perché oggi quasi non ce ne sono. Un tempo era diverso. Feltri in questo era molto bravo per esempio. Quando eravamo all’Indipendente, visto che eravamo un piccolo giornale e non potevamo assicurarci i ragazzi che uscivano dalle scuole, noi leggevamo sempre i quotidiani locali per trovare firme che ci piacessero, poi li mettevamo alla prova e se ci piacevano li tenevamo. È un po’ quello che è successo a me, ma non mi pare che questa strada oggi sia praticabile. Un altro aspetto preoccupante e molto pericoloso per chi inizia a fare questo lavoro è il pagamento, che ormai è sceso a quote veramente ridicole, mi pare che si arrivi addirittura a meno di cinque euro al pezzo. Utilizzano questi ragazzi, fanno fare loro lavori molto importanti, inchieste o altro, e poi, quando hanno 30-32 anni, che poi è il momento in cui vorresti anche poter decidere qualcosa della tua vita, ti scaricano e ne prendono altri, tanto ormai alla qualità non bada più nessuno. È una specie di selezione al contrario, assolutamente pazzesca, perché chi ha qualche talento a un certo punto se lo va a giocare da qualche altra parte, e quindi restano quelli che di talento non ne hanno, oppure quelli che hanno una vocazione e una tenacia talmente forte che resiste a tutto questo. Ripeto, è estremamente pericoloso mettersi a lavorare in questo settore, magari lavorarci per cinque o dieci anni pagato pochissimo e, dopo un po’, ritrovarsi con niente in mano.»

Quando hai iniziato era molto diverso?

«Anche una volta la gavetta la facevi pagato pochissimo, ma avevi la certezza, se lavoravi bene, che dopo due o tre anni di gavetta poi il giornale ti assumeva, quindi poteva veramente considerarsi un investimento. Ora non è più così.»

Credi che l’informazione sia vicina a una fine o a un nuovo inizio?

«Credo che l’informazione sia finita. Non il nostro mestiere, ma l’informazione. Questo naturalmente è un ragionamento di un vecchio, quindi magari è da prendere con le pinze, però io ne sono abbastanza persuaso: l’informazione è finita per eccesso di informazione. È quello che ti insegnano al primo anno di economia: il primo cucchiaio di minestra ti salva la vita, il secondo ti nutre, il terzo di fa piacere, ma, alla lunga, il decimo ti uccide. Noi siamo attraversati di continuo da messaggi, non solo di tipo informativo, ma anche pubblicitari, per cui non riusciamo più a ritenere nulla di quel che leggiamo. Qualche anno fa lessi un articolo americano che spiegava come i giovani cresciuti in era pre-televisiva avessero una quantità di informazioni molto superiore ai loro coetanei nati dopo. Non parlo di qualità, ma di quantità. È un processo naturale, oserei dire di difesa. Come non puoi emozionarti di tutto, così non puoi ritenere tutto. Non credo che sia una morte definitiva, perché non c’è mai nulla di definitivo, però per gli anni a venire sono molto pessimista, non per difetto, ripeto, ma per eccesso.»

E come si fa a cambiare senza far esplodere i server?

«Eh eh eh... l’altro giorno mi hanno intervistato per una piccola televisione e mi hanno fatto una domanda simile. Io ho risposto che preferivo stare zitto, non volevo essere arrestato. Sai — e qui superiamo i confini del giornalismo — i veri cambiamenti avvengono soltanto quando ci si ritrova in condizioni di crisi veramente profonda. Se ci fosse una crisi economica veramente forte, e adesso non ci siamo ancora, allora forse le persone si sveglierebbero e non farebbero come adesso, che tirano a campare. E questo vale per tutto, non soltanto per l’informazione. L’informazione è un campo strano: se leggi soltanto quella main stream sai che al 90 per cento è taroccata, se invece cerchi in rete ti ritrovi con una massa talmente vasta di informazioni che non sai più nemmeno come gestirla.»

Qual è l’errore peggiore che può fare un giornalista?

«Non scrivere quello che vede e non dire quello che pensa, senza dimenticare mai che quello che pensa non è la verità assoluta, visto che non c’è nessuna verità. La cosa peggiore che può fare un giornalista è non essere onesto. Io l’ho sempre detto: se in un’inchiesta dovessi scoprire che mia madre è una puttana, scriverei che mia madre è una puttana. Questo deve fare il giornalista. Naturalmente non c’è una verità oggettiva, non esiste, ma questo è un tema più profondo, qui sfociamo nella metafisica. C’è un bellissimo film degli anni Cinquanta di Akira Kurosawa che si chiama Rashomon. Kurosawa ti fa vedere la scena di un samurai e di sua moglie che vengono aggrediti in un bosco. Lei viene stuprata e lui ucciso. Poi c’è il processo, e al processo ognuno racconta la sua verità. E Kurosawa ti fa vedere ogni volta la stessa scena, senza cambiare una virgola, ma ogni volta la verità è diversa. Esiste l’obiettività relativa, non quella assoluta. Se tu dici che nel 2000 il Mullah Omar ha proibito la coltivazione dell’oppio in Afghanistan e che nel 2001 la produzione di stupefacenti in Afghanistan è crollata a quasi zero, dici una verità oggettiva, basata sui dati. Anche se dici che ora la produzione di oppio dell’Afghanistan è pari al 93% della produzione mondiale e che i talebani la usano per finanziarsi dici la verità. Ma se non hai detto la prima parte, non stai facendo buona informazione, la stai appiattendo. La verità che emerge da una realtà appiattita è una mezza verità. E le mezze verità sono peggiori delle menzogne.»

Si può cambiare il conformismo della maggioranza?

«Ora che sono arrivato alla venerabile età di 70 anni posso dirti che sono molto deluso, e anche molto pessimista. Certo che quando ho iniziato anch’io pensavo che nel mio piccolo avrei contribuito a cambiare le cose, ma con il tempo mi sono reso conto che non è così, o almeno non è stato così. Anzi, le cose sono andate di male in peggio. È anche vero però che la delusione è responsabilità di chi si illude. Io ho sempre inseguito, non solo nel giornalismo, ma anche nella vita, cose di questo genere. L’utopia di certo non paga, ma nemmeno cose meno ambiziose dell’utopia.»

Che rapporto c’è tra l’idea che hai di una storia prima di incontrarla sul posto e quello che poi ti trovi di fronte?

«Quando vai sul posto e la realtà che incontri corrisponde esattamente alla realtà che ti sei immaginato, allora stai sbagliando qualcosa. Perché la realtà non è mai quella che tu stando a casa tua e leggendo quello che ti pare ti puoi immaginare. Una cosa del genere mi è capitato in Sudafrica, c’erano decine di articoli sulla situazione, ma erano tutti uguali, potevano essere scritti da dovunque, da Washington o da Roma. La realtà che mi trovai di fronte quando arrivai sul posto era un po’ diversa da quella che si raccontava, era più complessa del quadretto che vedeva i bianchi come dei mascalzoni e i neri come delle vittime. Era anche così, certamente, ma non era solo così. Vale il principio fondamentale del nostro mestiere, quello che disse una volta Nino Nutrizio, direttore de La Notte: «il giornalismo si fa prima coi piedi, poi con la testa». Prima devi andare sul posto, osservare, parlare, ascoltare eccetera. È solo dopo che viene la testa.»

Se dovessi indicare i tuoi maestri, che nomi faresti?

«Prima di tutto Curzio Malaparte, poi, come personaggio più abbordabile e più vicino direi Giorgio Bocca. Poi ce ne sono altri, sotto traccia, come Buzzati, Flaiano, Prezzolini, se dovessi far vedere a un ragazzo come si scrive su un giornale farei leggere loro, e poi Montanelli, se non altro per l’eleganza e la chiarezza dell’esposizione.»

Un'ultima domanda, forse la più difficile: qual è il peggior errore che può fare un uomo?

«Non essere coerente con se stesso. Ora mi spiego con un esempio estremamente crudo. Io sono convinto che si debba essere all’altezza delle proprie cattive azioni, anche delle peggiori. Voglio dire, ciò che per me è intollerabile è il mafioso che scioglie un bambino nell’acido e poi, la sera, va a un club e si commuove sentendo My Way di Frank Sinatra. Preferisco, a questo tipo di personaggio, un nazista che è crudele, ma è crudele coerentemente, fino in fondo. È il tradimento che tu fai a te stesso la cosa peggiore che puoi fare come uomo: tradire se stessi vuol dire non essere uomini, e non ne vale la pena. Ho avuto recentemente una polemica con il solito Feltri, che mi ha fatto un ritratto in cui mi ha definito un grande giornalista mancato. «Sì», gli ho risposto io, «può essere, però ho preferito essere un giornalista mancato che un uomo mancato». Una scelta difficile, è vero, infatti come vedi non vivo in una reggia. E mi fanno ridere quelli che mi dicono che è facile parlare dal mio salotto, che vengano a vederlo, il mio salotto... eh eh eh...»

Sono passate quasi tre ore da quando sono entrato in quella casa piena di libri, mi sono già fumato tre sigarette e bevuto due bicchieri di vino — un buon rosso — insieme a Fini. Spengo il registratore, mi alzo e faccio per dirigermi alla porta. Ma prima mi fermo, tiro fuori dallo zaino una copia usurata e pesante de Il Conformista e gliela porgo. Slegando la bicicletta, proprio davanti al portone di Fini, mi è venuto in mente che non la facevo mai da ragazzo, questa cosa del chiedere gli autografi. Poi ho pensato una cosa stupida, che forse si iniziano a chiedere gli autografi quando si passa i trent’anni perché è l’esatto momento in cui si capisce sul serio quanta fretta abbia il tempo.

LA RAI, L’INFORMAZIONE E LA DESTRA ITALIANA.

Qual è il misfatto? Mazza: "Fini mi ossessionava col cognato". In un libro, Mauro Mazza e Adolfo Urso scrivono la storia di 20 anni di destra: fino a quando gli intrighi hanno seppellito An. © 2013 Lit Edizioni srl Per gentile concessione dell’editore di Mauro Mazza e Adolfo Urso.  Un viaggio nella destra italiana lungo vent’anni. Dal 1993, anno della candidatura di Gianfranco Fini a sindaco di Roma, al 2013. Quando si compie l’esclusione dalle liste del Pdl di gran parte degli esponenti di An. È questo l’arco di tempo preso in esame da Mauro Mazza e Adolfo Urso per raccontare la «parabola» degli eredi della Fiamma missina nel libro, edito da Castelvecchi, Vent’anni e una notte (382 pp, 19,50 euro), da oggi in libreria. La notte in cui, appunto, Silvio Berlusconi azzera di fatto la presenza degli ex An nel Pdl. Non mancano, corredati da documenti e foto, retroscena inediti sull’ascesa e il declino di Fini. Delle cui mosse entrambi gli autori - Mazza da direttore del Tg2 prima e di Raiuno dopo, Urso come parlamentare e viceministro – sono stati testimoni privilegiati. L’ex presidente della Camera non ne esce bene. Come quando, sono i giorni della rottura con il Cavaliere nel 2010, non esita a definirsi con orgoglio un «kamikaze iracheno», pronto a farsi «esplodere e a morire, pur di sancire la fine politica di Silvio Berlusconi». E questo nonostante una mediazione con l’ex premier che sembrava sul punto di essere raggiunta. Ma Fini, rivela Urso, «ogni volta alza il prezzo, perché vuole la rottura, solo la rottura». Non poteva mancare il capitolo, di cui pubblichiamo un estratto, del rapporto con il «cognato» Giancarlo Tulliani, che Fini cerca di favorire in ogni modo attraverso le pressioni sui dirigenti della Rai a lui più vicini come lo stesso Mazza e Guido Paglia, ex responsabile delle relazioni esterne di viale Mazzini. Ma Fini è solo uno dei tanti protagonisti del ventennio d’oro della destra italiana. Un’avventura che adesso, complice il fatto che An abbia perso la sua battaglia politica «nell’ultimo giro di pista», è costretta a ripartire da zero. Con «forma e leader diversi da quelli del passato». Perché «non servono reduci, ma innovatori».

MAURO MAZZA. Un anno dopo le elezioni politiche stravinte, nella primavera 2009, si decide il nuovo organigramma della Rai. Mauro Masi, già segretario generale a Palazzo Chigi, è il nuovo direttore generale. Per me si parla con insistenza della possibilità di essere nominato direttore del Tg1, dopo sette anni alla guida del Tg2. Sarebbe un passaggio naturale. Si sa bene che la linea editoriale del maggiore telegiornale del servizio pubblico è sempre in sintonia con quella del governo in carica. È un’altra verità che alcuni non ammettono, ma è un dato consolidato e immutabile.

Bene, a un certo punto, comincia a circolare la voce che mi sarà proposta la direzione di Rai Uno, la rete «ammiraglia» della Rai. Insomma, da un ruolo giornalistico a uno manageriale, sia pure di grande rilievo, il più importante nella macchina produttiva dell’azienda. Io manifesto qualche riserva. Ma è lo stesso Gianfranco Fini a rassicurarmi e a incoraggiarmi ad accettare. In fondo – penso – anche il direttore uscente Fabrizio Del Noce è un giornalista e ha fatto un buon lavoro come direttore di rete. Rifletto ancora un po’ e mi decido per il sì.  [...] Molto presto capirò anche i motivi della sponsorizzazione di Fini. Mi chiede di tornarlo a trovare a Montecitorio e, nel suo ufficio, trovo un impomatato giovane mai visto prima. Me lo presenta. È Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta, la compagna di Gianfranco. Il ragazzo vuole produrre programmi per la tv. Fini mi chiede di dargli una mano. Ci tiene moltissimo e mi affida quella patata bollente. Tulliani chiede subito di realizzare trasmissioni importanti attraverso una sua società – mi dice – che conta buoni autori e ottime idee. Lo vedo un paio di volte: non ha misura, né esperienza, né buone maniere. Valuto un paio di sue proposte. Una mi pare buona per un piccolo spazio pomeridiano: una rubrica di quindici minuti sul rapporto figli-genitori. Gli ascolti sono buoni. «Per quest’anno bisogna accontentarsi, facciamo bene questo e poi si vedrà», provo a spiegargli. Ma Tulliani non si accontenta. Ha fretta e smania. Esagera. Una volta, al telefono, è addirittura sgarbato. Gli rispondo per le rime. Decido di non vederlo né sentirlo più. Mando a Fini un biglietto, gli chiedo di risparmiarmi ogni ulteriore contatto con il «cognato» e gli suggerisco di tenerlo a freno, anche perché circolano voci di altre sue smanie, con altri dirigenti Rai e con esponenti politici di governo. Sono certo che il mio rapporto trentennale con Fini non ne risentirà. Invece, da allora, non l’ho più visto né sentito. Le sue scelte politiche successive, per me scellerate, faranno il resto.

ADOLFO URSO. Questo tuo racconto conferma quello che, dal 2009, è sempre più evidente. Nelle decisioni e nelle scelte di Gianfranco Fini il fattore privato diventa prevalente, anche perché non c’è più un partito come An che, strutturalmente indirizzato, ha sempre tutelato il suo leader. Nel caso della Rai, quei suoi fattori personali mutano la politica e l’atteggiamento della Destra non berlusconiana nei confronti del servizio pubblico. Da sempre, dai tempi del vecchio Msi, si è tentato di conquistare una nostra presenza, sia pure marginale, per esercitare un’opera di moralizzazione e di controllo. Il diritto di rappresentanza all’interno della Rai è stato una battaglia storica per il Msi. Negli anni Ottanta, il missino Guglielmo Rositani venne nominato sindaco revisore dei conti e riuscì a incidere, vera spina nel fianco per amministratori allora abituati a spese facili spesso fuori controllo. All’epoca, Rositani era vicino a Franco Servello, a sua volta in relazione con l’imprenditore tv Silvio Berlusconi, ma certamente non succube dei suoi interessi. Dal 1994, con la Destra al governo, il compito istituzionale di occuparsi della Rai è assunto innanzitutto dal ministro Tatarella, che [...] considera quel ruolo assolutamente decisivo sia per la nostra proiezione pubblica sia per limitare il potere di Berlusconi. Alla sua morte, il pallino passerà di fatto a Gasparri che lo contenderà dapprima a Storace e, successivamente, a Landolfi, presidenti della commissione di vigilanza e quest’ultimo, infine, anche ministro (2005-2006). Forse attraverso questi ultimi, allora molto vicini a lui, Fini tenta di avocare al vertice del partito la questione-Rai, altrimenti appannaggio di Gasparri che Fini considera da tempo troppo allineato al Cavaliere.

MAURO MAZZA. In effetti, l’entrata in scena di Tulliani crea difficoltà, imbarazzi e rotture. È nota la vicenda che ha avuto protagonista Guido Paglia, responsabile Rai per le relazioni esterne e animatore di un centro studi che per lungo tempo ha tenuto assieme moltissimi dirigenti, giornalisti e dipendenti vicini ad An. La sua lite con Fini risale al 2008, quando gli viene presentato il neo-cognato [...]. Paglia prova a dargli una mano. Ci riesce relativamente. Fini lo chiama alla Camera e consente a Tulliani di insinuare, davanti a lui, che Paglia abbia «altri interessi» che gli impedirebbero un intervento in suo favore. Fini non apre bocca. Paglia, furioso, si alza e se ne va. Fine del rapporto. Guido racconterà l’episodio solo molto tempo dopo, saputo di un intervento personale di Fini per impedire che lui fosse nominato vicedirettore generale della Rai.

LE CONFESSIONI DI PAOLO MIELI.

Giusto per capire da che parte stanno. E per renderci conto che la sinistra non è da meno. Libero, 5 maggio 2008. LE CONFESSIONI DI PAOLO MIELI di Barbara Romano.

Giornali, zero. Libri, a non finire nello studiolo del Pontifex Rcs Maximus Paulus Secundus: così Massimo Giannelli ha vignettizzato Paolo Mieli. Più che l'ufficio del due volte direttore del Corriere della Sera, sembra la Biblioteca Ambrosiana. Volumi di ogni foggia, spessore ed età torreggiano sulla sua scrivania, dietro la quale si staglia il tradizionale armamentario enciclopedico di via Solferino: la Treccani dal 1938 a oggi. Di lato, il computer, fisso sull'homepage di Dagospia. C'è persino un'edizione del 1564 delle "Opere Morali" di Cicerone avuta in dono dalla Fallaci, che lui tiene sotto chiave nel cassetto. Assieme a un tomo di Hermann Rauschning, "Hitler mi ha detto..." (Edizioni delle Catacombe), datato 1944: altro regalo di Oriana. Mieli è così: (poco) direttore e (molto) prof. «Sarà un retaggio di mio padre», spiega, «ma mi sta molto a cuore la doppia identità: se una cade l'altra va avanti. Ecco perché considero fondamentale avere due lavori». Oltre a dirigere il Corriere, da cinque anni tiene un corso di Storia contemporanea alla Statale di Milano. «È lì che mi sento veramente arrivato», confessa. «Il giornalismo, invece, è relativo. È quando sto in cattedra o correggo una tesi e ho a che fare con gli studenti, che mi sento veramente un padreterno». Non che non gli piaccia fare il direttore. L'unica foto nell'ufficio è quella che lo ritrae assieme ai padri fondatori del Corriere, accanto a un manifesto di Mao. Ce l'ha messa tutta a risalire la china dopo l'emorragia di copie provocata dal suo editoriale dell'8 marzo 2006 in cui invitava i lettori a votare Prodi. Ora i dati Audipress lo premiano. Nell'ultima rilevazione il Corriere segna un +4,1%, contro il +1,6% di Repubblica. E addirittura un +5,6 rispetto all'autunno 2006. Letto ogni giorno da 2.722.000 persone, il quotidiano diretto da Mieli è quello che cresce di più in Italia (dopo Libero: +4,5%).

Pensa di aver riparato al danno prodotto con il suo endorsement in favore di Prodi?

«Certo. Anzi, quel 5% di lettori del Corriere che reagirono male all'endorsement li abbiamo ripresi e sono anche cresciuti di numero. Perché hanno avuto modo di interpretare il senso di quella scelta».

Lei suggerì loro di votare Prodi, non c'è molto da interpretare.

«La mia non era una scelta di schieramento. L'endorsement, per come lo intendevo io, era di tipo anglosassone: ci lasciava anche liberi di criticare il governo quando andava criticato».

Quanti elettori fece perdere al Corriere?

«In quella primavera-estate ci fu uno scostamento di qualche decina di migliaia di copie».

Il suo vicedirettore Massimo Mucchetti, nel libro "Il Baco del Corriere", racconta che furono 40mila le copie perse.

«Confermo».

Quando decise di schierare il Corriere aveva previsto simili effetti?

«Quando uno fa una scelta di quel tipo mette in conto che le conseguenze possano essere complesse. Ma quei lettori, col tempo, sono rientrati».

Sì, ma allora creò il panico in azienda. Nel Cda del 14 luglio 2006, l'ex ad di Rcs, Vittorio Colao, denunciò che il bilancio risultava gravato da 12 milioni di oneri aggiuntivi necessari per tamponare la perdita di 40 mila copie prodotta dal suo editoriale.

«In effetti, la mia scelta creò dei problemi. Ma penso di aver fatto bene».

Quindi lo rifarebbe?

«No, col senno di poi non lo rifarei».

Si è pentito dell'endorsement?

«No, perché ho fatto una scelta che rientra nei canoni del giornalismo più moderno. Ovviamente mi brucia ancora il bailamme che ne scaturì. Ma pur rimanendo una cicatrice sulla mia immagine, alla lunga sono convinto che il mio sarà considerato un precedente positivo».

Se non si è pentito, perché dice che non lo rifarebbe?

«Se tutti i lettori fossero in grado di capirne il senso, lo rifarei. Ma se c'è anche una piccola minoranza che fraintende, non ne vale la pena. I direttori degli altri grandi giornali fanno continuamente l'endorsement, ma con la mano sotto il tavolo».

I dati sulle vendite del Corriere spesso vengono contestati. Nel computo rientrano solo le copie vendute o anche quelle distribuite sugli aerei e quelle regalate?

«I dati sulle copie vendute sono forniti mese per mese dalle aziende editoriali che valutano le copie all'ingrosso, mettendoci dentro tutto: copie vendute in edicola, porta a porta, in tandem con altri giornali e quelle regalate».

Tutti hanno visto i camion distribuire gratis il Corriere...

«Tutti i giornali distribuiscono copie gratis, Libero compreso. Non è che sugli aerei non c'è Libero».

Non più. Ma è possibile sapere quante sono le copie del Corriere effettivamente vendute?

«Ogni giornale ha il suo dato sulle copie diffuse, ma quello sulle copie effettivamente vendute non è scomponibile da quello delle copie regalate».

Nell'editoriale dell'8 marzo lei si schierò con l'Unione e Berlusconi disse: «Sapete che prima delle elezioni, gli azionisti del Corriere prima e Paolo Mieli poi, vennero da me a garantirmi l'appoggio al voto?". Andò veramente così?

«Incontrai Berlusconi prima del voto e parlammo della situazione politica in generale, ma non gli garantii assolutamente nulla».

A Capri, al congresso dei giovani di Confindustria di ottobre, lei fu durissimo contro il governo: «Le cose fatele, non limitatevi a dirle». Se non è una retromarcia questa...

«Prodi ha dato una buona prova di governo. Ma la sua maggioranza si è comportata in maniera veramente disdicevole. Siccome il mio endorsement l'ho fatto nei confronti del governo Prodi e della possibilità di questa maggioranza di dimostrarsi all'altezza della prova, penso che almeno uno dei due termini del mio editoriale fosse radicalmente sbagliato».

Chi voterà questa volta?

«Devo ancora decidere se rifarò o no l'endorsement. Siccome probabilmente non lo rifarò, o almeno non nei termini in cui l'ho fatto nel 2006, se dicessi chi voto è come se lo rifacessi».

Ma non l'ha già rifatto con il suo editoriale dell'8 febbraio scorso, che benediceva la corsa solitaria di Veltroni?

«No, tant'è vero che non ha avuto l'effetto dell'endorsement. Quell'editoriale voleva essere una constatazione, che di lì a poche ore si è rivelata giusta».

Quale?

«Veltroni, con la sua scelta di andare da solo, ha messo in moto un processo virtuoso e per il centrosinistra e per il centrodestra. Quindi do un giudizio positivo di tutte e due le forze ai nastri di partenza».

Chi vincerà le elezioni?

«Mi sembra una partita tutta da giocare. Ma se fossi uno scommettitore inglese punterei tutto su Berlusconi».

Lei è stato due volte direttore del Corriere, dopo aver diretto la Stampa, passando per Repubblica e l'Espresso. Quando va a dormire la sera si sente Dio onnipotente o un uomo a corto di desideri?

«Io ho un sacco di desideri e quando vado a dormire ho un sacco di pensieri. Molti di lavoro, ma anche pensieri lieti».

Come ha fatto a inanellare una carriera così strepitosa?

«Ho cominciato a lavorare molto giovane in un'Italia che era molto diversa. Nel 1967, un diciottenne appena uscito dal liceo poteva essere assunto in un giornale prestigioso come l'Espresso, allora diretto da Eugenio Scalfari. Tutto un altro mondo il giornalismo a quei tempi. Pensi: si poteva persino licenziare. Tant'è che quattro anni dopo io fui licenziato».

Perché Scalfari la licenziò?

«Perché l'azienda viveva un momento di difficoltà economica. Ma mi tennero con un contratto di collaborazione e due anni dopo mi riassunsero».

Cosa fece nel frattempo?

«Ne approfittai per laurearmi in Storia contemporanea con Renzo De Felice, il grande storico del fascismo, e divenni suo assistente. Mi laureai nel 1972 con una tesi sul corporativismo fascista in pieno periodo di contestazione».

Come visse il '68?

«Dentro il movimento studentesco. Negli anni tra il '68 e il '72 io ero tre cose contemporaneamente. Primo: ero giornalista dell'Espresso, dove tenevo un diario sulla sinistra extraparlamentare. Secondo: militavo in un gruppo che precedette la costituzione di Potere Operaio, dove c'erano Oreste Scalzone, Franco Piperno, Toni Negri, con i quali rimanemmo amici anche negli anni successivi. Terzo: facevo lo studente applicato di De Felice».

Come mai un militante di Potere Operaio decide di fare una tesi sul fascismo?

«Perché successe la cosa più importante della mia vita: l'incontro con De Felice, la rivoluzione copernicana della mia esistenza giovanile. Me lo presentò mio padre: un ex comunista che aveva diretto l'Unità ed era poi uscito dal Pci nel '56, dopo la rivolta d'Ungheria. De Felice mi affascinò, convincendomi che il centro della vita di un individuo è interessarsi in profondità dell'altro da sé, di quella porzione di ragione che ha chi si trova nel campo opposto, politicamente e culturalmente, perché lì puoi scoprire un tesoro».

Lei è figlio d'arte. Crede che il suo destino sarebbe stato lo stesso se suo padre non fosse stato Renato Mieli?

«Mio padre era un ebreo di Alessandria d'Egitto che venne in Italia. Ma durante le leggi razziali si rifugiò in Medio Oriente. Rientrò cambiando identità, nei panni di un colonnello dell'esercito inglese di nome Ralph Merrill. Non considero mio padre un giornalista. Quindi non mi considero un figlio d'arte».

Suo padre fu anche il fondatore dell'Ansa.

«Fondò l'Ansa perché gli inglesi sapevano che era un intellettuale di spessore. Entrato nel Pci, divenne anche direttore dell'Unità nel '49, l'anno in cui nacqui io. Ma poi lasciò la direzione nel '54, per andare a Roma a dirigere la sezioni Esteri del Pci. Nei primi tempi, fummo ospitati da Maurizio e Marcella Ferrara, i genitori di Giuliano, che per me è stato un fratello per tutta l'infanzia e l'adolescenza».

Che rapporto ha lei con l'ebraismo?

«Io mi sento ebreo, anche se "tecnicamente" non lo sono, essendo figlio di padre e non di madre ebrea. Pur non professando alcuna religione, mi sento molto vicino al mondo ebraico».

Che rapporto aveva con suo padre?

«Molto forte. Anche se era più forte il rapporto con mia madre, perché da quando avevo sette anni, quando i miei si separarono, ho vissuto con lei».

Quando fu preso dal sacro fuoco del giornalismo?

«Nel 1967, l'anno in cui feci la maturità classica al Tasso, complice il papà della mia fidanzata dell'epoca, che era un giornalista dell'Espresso, Enrico Marussig. A settembre mi presentò, feci l'abusivo qualche mese e mi assunsero».

Cosa sognava di fare da bambino?

«Il professore universitario. Facevo attività politica. Mi iscrissi prestissimo alla federazione giovanile comunista. Ero dissidente da destra e poi fui travolto dal '68. Ma non sono mai stato maoista. Anche se per vezzo nel mio ufficio tengo un manifesto della rivoluzione culturale di Mao, come una citazione forzata di quello che sono stato».

Doveva essere un secchione...

«No. Fui anche rimandato in storia in quinta ginnasio. Ma ero stato malato, quindi sono giustificato. Anche all'esame di giornalista sono stato bocciato, all'orale».

Paolo Mieli bocciato all'esame di giornalista?

«Cominciarono a torchiarmi con delle domande giuridiche, ma io sapevo poco o niente perché avevo saltato quella parte del programma. Provai a bofonchiare qualcosa. Mi bocciarono».

Quando nell'85 Piero Ostellino volle assumerla al Corriere, lei disse no. Perché?

«Preferii andare a Repubblica, dove mi aveva chiamato Scalfari, con cui avevo lavorato 18 anni all'Espresso. Ma non mi trovai bene».

Perché?

«Perché il passaggio dal settimanale al quotidiano fu un trauma. Il caos e la competitività mi davano ansia e resistetti poco».

Se soffriva d'ansia, come ha fatto nel giro di pochi anni a diventare direttore di due quotidiani: prima della Stampa e poi del Corriere?

«Tutto cominciò con un'intervista che feci a Gianni Agnelli per Repubblica nell'85. Andai da lui a Torino e passammo una giornata intera insieme. Da allora mantenemmo un rapporto di amicizia. E tutte le volte che lui veniva a Roma mi invitava a cena. Ogni tanto andavamo anche in vacanza e a sciare insieme. Quando, nell'86, il direttore della Stampa, Gaetano Scardocchia, propose di assumermi, Agnelli si dichiarò molto contento e il nostro rapporto si intensificò. Nel maggio del '90, Scardocchia lasciò. E Agnelli mi chiamò a dirigere la Stampa, nonostante avessi 41 anni. Nell'autunno del '92, siccome la proprietà era la stessa, e l'Avvocato aveva grande voce in capitolo, mi mandarono a dirigere il Corriere».

Sul Corriere non compaiono quasi mai suoi editoriali. Non le piace scrivere?

«Mi piace. Non scrivo perché penso che il compito di un direttore sia di far scrivere gli altri. Io mi vedo più come direttore d'orchestra che come concertista».

Cosa pensa dei giornalisti?

«Secondo me, i direttori dei giornali fanno poco perché le persone eccezionali possano venir fuori e le meno eccezionali restino un passo indietro».

E lei cos'ha fatto per invertire la tendenza?

«Preferisco non parlare di me. Da osservatore - è un espediente retorico perché giudico anche me stesso - mi sembra che oggi i direttori abbiano le mani molto legate».

Non tutta la categoria stima il mielismo, ribattezzato "giornalismo con la minigonna".

«Come tutti i generi, il mielismo ha vissuto un momento felice all'inizio degli anni Novanta e poi un'orribile deformazione, in cui io sono il primo a non riconoscermi. Sono state messe sul mio conto cose con le quali io non c'entro nulla».

Lei fa un mestiere complicato: deve soddisfare i tanti lettori del Corriere senza contrariare una quindicina tra i più grandi centri di potere di questo Paese, tanti quanti sono i grandi azionisti del suo quotidiano. Quando si guarda allo specchio la mattina pensa di più ai lettori o ai suoi editori?

«In questo ultimo anno sono cresciuti i miei lettori, non i miei azionisti».

Quanto tempo dedica al Corriere e quanto al suo personaggio?

«Il mio tempo è interamente dedicato al giornale, alle mie letture e ai miei amici personali, gran parte dei quali non sono giornalisti».

I detrattori dicono che lei non fa giornalismo, ma politica.

«È vero. Un grande giornale che si impone con i suoi editoriali influenza la politica: è scritto per questo».

Pensa di scendere in campo prima o poi?

«Mai».

Le sarebbe piaciuto se l'avesse fatto Luca di Montezemolo?

«Sarebbe un buon presidente del Consiglio, ma siccome siamo amici non gli suggerirei mai di entrare in politica. Penso abbia fatto bene a chiarire che non intende farlo».

Che ne pensa della discesa in campo di esponenti di spicco di Confindustria, come Matteo Colaninno e Massimo Calearo, nelle file del Pd?

«Dal momento che non è sceso in campo Montezemolo, queste mi sembrano candidature fatte a titolo personale, che danno il senso dell'immagine che Veltroni vuole imprimere al Pd: un partito non delle barricate, ma delle compatibilità. Forse la candidatura più dirompente in questo senso è quella del nostro editorialista Piero Ichino. Del resto, a ogni campagna elettorale si arruola un editorialista del Corriere che poi diventerà ministro. È già successo con Tremonti e con Padoa Schioppa. Ora ricapita con Ichino».

È convinto che Ichino diventerà ministro?

«Di sicuro, se vincesse il centrosinistra, Ichino sarebbe un ottimo ministro».

Lo vedrebbe bene al ministero dell'Economia?

«Lo vedrei meglio al Welfare».

A luglio, a Cortina, lei disse: «Bisogna vedere se quando Veltroni prenderà in mano lo scettro del Pd sarà rimasto qualcosa». È rimasto qualcosa?

«Io penso che il Pd possa prendere tra il 35% e il 40%. E se accadrà, le elezioni, anche se trionferà Berlusconi, le avranno vinte in due».

Riconosce meriti a Berlusconi?

«Enormi. Innanzitutto quello di aver fondato il centrodestra. È riuscito a mettere insieme una formazione politica che resisterà anche quando lui non ci sarà più. Berlusconi è sicuramente un grandissimo personaggio della politica. E se dovesse vincere le elezioni per la terza volta, dopo essere stato sulla scena politica per 15 anni, lo spazio a lui dedicato nei libri di storia non sarà limitato alle formulette che usiamo oggi. Ci vorrà una riflessione profonda su quest'uomo che ha segnato nel bene e nel male la storia recente di questo Paese. Il male è stato ampiamente dibattuto. Ma il bene merita di essere anch'esso esaminato».

Qual è l'aggettivo che connota meglio Berlusconi?

«Grande. Discusso. Ma, soprattutto, sorprendente. Berlusconi è un uomo che ha rotto gli schemi».

La chiama spesso?

«Non spessissimo. Però ci sentiamo. Ci incontriamo».

Che rapporto avete?

«Di grande cortesia. Il mio rapporto con Berlusconi è contrassegnato da due episodi nei quali il Corriere non è stato tenero con lui. Uno risale al 1994, quando pubblicammo la notizia dell'avviso di garanzia che diede uno scossone al suo governo, che di lì a poco sarebbe caduto. E l'altro è quello dell'endorsement. Mi ha sempre stupito che questi due fatti, dei quali per un politico normale uno basterebbe, in lui non abbiano lasciato il segno».

Sicuro? Berlusconi non perde mai occasione di sparare contro «la stampa nemica», Corriere compreso...

«Certo, a ridosso di quei fatti non mi ha parlato, ha avuto delle reazioni infastidite. Ma col tempo il nostro rapporto è sempre ripreso».

Con lei, in privato, il Cavaliere si lamenta molto del Corriere?

«Mai».

Da Prodi ha subito pressioni?

«Pressioni, no. Però da parte di Prodi non ho avuto neanche grandi attestati di simpatia».

Può sopravvivere il Corriere con tutti questi azionisti?

«Certo. È evidente che si tratta di forti personalità che la pensano una diversamente dall'altra, tutte con interessi diversi. Ma la cosa che mi dà più soddisfazione è quando il Corriere della Sera viene individuato, a torto o a ragione, come portatore di una politica dei poteri forti, perché vuol dire che è riuscito questo lavoro sottile di tessere un'identità comune. Il direttore io lo vedo come un regista, un punto di equilibrio tra identità diverse. Questo vale tanto per gli editorialisti quanto per gli azionisti».

Mucchetti, invece, dice che un giornale non può avere un board editoriale che somiglia a un campo da golf.

«Sono visioni diverse. Non è che ci voglia molto a mettere insieme tutti gli amici di Berlusconi o tutti gli amici di Veltroni. Ma è molto più interessante trovare un punto d'intesa dinamico».

Quanto "paraculismo" ci vuole per dirigere un giornale con quindici padroni diversi?

«Pochissimo. È un'idea semplicistica pensare che un problema così si possa risolvere con la furbizia».

Che rapporto aveva lei con Enzo Biagi?

«Molto affettuoso, ma adulto, senza smancerie. Negli ultimi giorni della sua malattia è stato molto più lui vicino a me che non io a lui. Mi telefonava e, poiché sapeva che anch'io sono cardiopatico, si informava lui del mio stato di salute e mi dava consigli».

Lei ha avuto diversi matrimoni. Questo vuol dire che è un uomo fedele?

«Sì, ho avuto più matrimoni e figli da ogni matrimonio. Io penso che significhi qualcosa della mia vita».

L'8 marzo il suo editoriale lo dedicherà alle donne o al voto?

«Né all'uno né all'altro. E poi, nel mondo succedono cose più importanti delle elezioni del 13 e 14 aprile».

PURE I VIGILI DEL FUOCO CON IL CONCORSO TRUCCATO…

"Brogli e aiutini": il concorso dei vigili del fuoco verso l'annullamento? Si moltiplicano le "denunce" di anomalie alle pre-selezioni alle quali partecipano 1200 persone per 250 posti nel Corpo nazionale dei vigili del fuoco. "C'è puzza di imbroglio": tutte le segnalazioni in un gruppo su Facebook. Il sindacato Usb: "Bombardati anche noi dalle segnalazioni. Chiediamo chiarezza per garantire tutti i ragazzi che hanno fatto il concorso", scrive Violetto Gorrasi il 7 giugno 2017 su "Today". "Non avrei mai immaginato una cosa del genere, anche se avevo capito subito che c'era qualcosa che non andava bene". Alex, 26 anni, è uno dei 1200 partecipanti alle pre-selezioni per il concorso nel Corpo nazionale dei vigili del fuoco. Le prove, partite lunedì 29 maggio, si tengono a Roma e termineranno il prossimo 12 giugno. In "palio" 250 posti da pompiere. Nelle ultime ore si stanno moltiplicando le segnalazioni di presunti brogli e "aiutini" durante le prove, tanto che l'annullamento del concorso atteso da anni pare già essere un'ipotesi concreta. Secondo Alex, che ha svolto l'esame con risposte a crocetta stile quiz nella prima ondata del 29 maggio, "c'era un continuo via vai dai bagni e la maggior parte dei candidati aveva il cellulare tra le mani". "Assurdo che un concorso venga gestito in questa maniera - scrive il ragazzo a Today - Adesso si rischia l'annullamento... E naturalmente andrà rifatto tutto, senza tener conto dei sacrifici fisici ed economici per affrontare un tale impegno". Poi lo sfogo amaro: "Dov'è la legalità? Se non c'è serietà nello Stato dove andremo a finire? Ormai si va avanti solo con le raccomandazioni...". Le "anomalie" denunciate dal giovane non finiscono qui. "Il giorno dopo aver svolto la prova scritta ho controllato i risultati sul sito dei vigili del fuoco: alcuni candidati erano stati valutati con punteggio zero. E questo puzza di imbroglio assurdo". Fare zero punti su 40 sembrerebbe in effetti più improbabile che ottenere il massimo punteggio possibile. Si tratta di schede annullate? Non è chiaro, almeno secondo i partecipanti alle selezioni. "Siamo stati bombardati anche noi da queste segnalazioni di anomalie alle prove d'esame - ci dice Costantino Saporito, responsabile del sindacato Usb vigili del fuoco - e abbiamo anche visto le denunce apparse su Facebook. Il paradosso è che non siamo a conoscenza di nessuna denuncia fatta alla Procura della Repubblica, ma abbiamo chiesto chiarezza e trasparenza all'amministrazione del dipartimento dei vigili del fuoco per verificare attraverso la polizia postale cosa c'è di vero in quelle denunce sui social network. Lo abbiamo fatto per garantire tutti quei ragazzi che hanno fatto il concorso e lo hanno fatto bene rispettando le regole, quindi a garanzia sia di chi denuncia che di chi ha svolto le prove regolarmente". E conclude: "Il punto chiave, e per questo chiediamo chiarezza a tutela di tutti i partecipanti, è capire se quelle denunce su Facebook corrispondono alla verità dei fatti: se la polizia postale dovesse dimostrare che ci sono stati degli illeciti il concorso può, anzi deve essere invalidato". Anche sul gruppo Facebook "Concorso Vigili del Fuoco 2016/2017" molti candidati lamentano una scarsa vigilanza: "Ragazzi comunque concorso troppo falsato, commissione che suggerisce le domande corrette, una vergogna! Stupidi noi che spendiamo soldi per viaggiare e fare concorsi, uno schifo!". E ancora: "Ragazzi non mi è chiara una cosa. Come mai molti avevano il cellulare se non si può tenere?". C'è però anche chi la pensa diversamente e difende l'operato di chi vigila nel corso delle prove: "Il concorso si è svolto in maniera regolare e la vigilanza era più che rigida. Per passarlo basta impegnarsi senza inventare scuse e gettare fango su chi si è impegnato veramente". E chi prova a stemperare gli animi affidandosi alla fortuna: "Ragazzi molto semplicemente... l'esito del concorso dipende da NOI STESSI. Aiuti o no, resta il fatto che comunque dobbiamo stare con la testa sul foglio e rispondere a quante più domande possibili... capisco alcuni che si indignano sul fatto dei suggerimenti e degli aiutini perché sono schifato anche io dalle modalità dei concorsi, ma purtroppo dobbiamo arrenderci a questo e l'Italia è un paese marcio... detto ciò non molliamo e incrociamo le dita". Il tutto, come spesso è capitato in passato per casi simili, è stato denunciato alla commissione d'esame. Le prove continueranno a svolgersi fino a domenica 12 giugno, ma il timore di molti è che il concorso venga annullato.

Concorso 250 Vigili del Fuoco, le segnalazioni ricevute al nostro sportello, scrive l'avv. Francesco Leone il 5 giugno 2017. Un’assurda realtà quella che sta vivendo il concorso per la selezione di 250 Vigili del Fuoco che ha avuto inizio da pochi giorni ma che già ha destato polemiche e perplessità tra i candidati. A Roma, le preselezioni dureranno fino al 12 giugno e sono 1.200 i candidati che stanno concorrendo per ottenere un posto di lavoro pubblico.

In questi giorni, al nostro form “Raccontaci il tuo caso”, ci sono giunte diverse segnalazioni sulle anomalie che stanno caratterizzando il concorso. Chi ha sostenuto la prova ci racconta che, all’interno dei padiglioni della Fiera di Roma, i candidati non sono stati accolti da un personale qualificato con precisi compiti di sicurezza ma, viceversa, sono stati ricevuti da hostes civili, senza alcun titolo e/o autorità. Il loro compito si è risolto nella distribuzione ai candidati dei plichi contenenti le domande e il relativo foglio risposte. Le anomalie e le stranezze non si fermano qui. Dalle segnalazioni ricevute, infatti, anche gli stessi questionari non risultavano essere sigillati per garantirne la sicurezza e la conformità. Sui social network diversi candidati (o apparentemente tali) hanno fotografato il foglio risposte già compilato, o ancora c’è chi ha immortalato l’intera sede d’esame con i candidati e la commissione schierata, violando indisturbatamente tutte le norme sulla sicurezza previste nelle istruzioni che vengono consegnate all’inizio di ogni concorso pubblico (contenute, in via generale, nel D.P.R 487/94). Dalle segnalazioni ricevute è emerso che è stata ritrovata una scheda risposte già compilata e consegnata ad un candidato. Tutto ciò, fortunatamente, è stato denunciato alla Commissione del concorso. Stiamo valutando se questo episodio sia unico ed isolato o se, viceversa, all’interno dei plichi vi fossero più questionari precompilati e consegnati nelle mani dei candidati.

CONCORSI PUBBLICI: E' NORMALE CHE...?

Concorsi pubblici: è normale che…? Ciao Beppe, a proposito dei concorsi pubblici ti chiedo: 1) è normale che ad un concorso possano partecipare precari o comunque personale che già lavora nello stesso ufficio o con le stesse persone con cui dovrebbe andare a lavorare il vincitore del concorso? Non sono enormemente avvantaggiati rispetto al personale esterno? Non sarebbe meglio avere concorsi appositi per personale “interno” e concorsi per personale “esterno”? 2) E’ normale che le materie argomento delle prove del concorso siano indicate in modo estremamente generico e senza (spesso) alcun riferimento a documentazione? 3) E’ corretto che le prove prevedano spesso una prova scritta tipo TEMA e un ORALE, che sono alcune tra le prove più soggettive che esistano? 4) E’ normale che nella prova del TEMA vengano richieste conoscenze relative al contesto lavorativo in cui dovrebbe andare a lavorare il vincitore del concorso? Come fa un esterno a conoscere informazioni relative al contesto lavorativo specifico se ancora non ci lavora? Un interno invece è , anche in questo caso, estremamente favorito. Trovo ABERRANTE e VERGOGNOSO che quotidianamente si svolgano concorsi pubblici che violano il diritto dei cittadini. Non sono equi, non sono corretti, non sono precisi, non sono oggettivi e tutto questo anche se non sono “truccati”. Luca Matteini, IL 18/10/2016 a Italians di Beppe Severgnini Su “Il Corriere della Sera”.

Concorsi pubblici truccati: ecco come denunciare le irregolarità, scrive l'1 Agosto 2016 Sara Catalini. L’Italia è tristemente nota per i suoi concorsi pubblici, che sembrano impossibili da vincere senza raccomandazione: ma cosa fare in caso di un concorso truccato? Ecco una guida per ricorsi e denunce. Concorsi pubblici in Italia: è tutto un bluff? I concorsi pubblici non favoriscono i migliori: questo è quanto emerso da uno studio condotto da quattro economisti della Banca d’Italia che discutono sull’efficacia dei sistemi di assunzione e reclutamento. Le selezioni dei concorsi a detta degli analisti sono distorte e legate fin troppo a lunghissime graduatorie di idonei, difficili da scavalcare. In aggiunta si caratterizzano per un eccesso di burocrazia nella compilazione delle domande di ammissione, che li rende rigidi e troppo formali. Le prove da sostenere per accedere alla selezione sono basate, sempre secondo le valutazioni della ricerca, su teorie e nozioni astratte, senza contare le pochissime posizioni disponibili per ogni concorso indetto. Il quadro emerso non è incoraggiante, questo perché i concorsi italiani sono spesso una vera e propria giungla per gli aspiranti al posto fisso nella PA. Tanti i casi di irregolarità, di domande misteriosamente non andate a buon fine seppure il candidato era in possesso dei requisiti e ancora più numerosi gli episodi di veri e propri concorsi truccati venuti alla luce negli anni. Come denunciare concorsi pubblici truccati e irregolarità? E’ possibile vincere un concorso pubblico nel nostro Paese senza raccomandazione? Ecco come muoversi nel caso di irregolarità in una guida che spiega a chi rivolgersi e cosa chiedere.

Concorsi pubblici truccati: ricorso al Tar. I partecipanti ad un concorso pubblico hanno diritto a fare ricorso contro eventuali irregolarità. Che strumenti possiede il candidato per rifarsi in caso di anomalie? Molti non denunciano l’ingiustizia subita per paura di non avere successo nella causa legale, invece è legittimo e necessario difendersi da concorsi truccati. Quando il bando di gara viola le norme del nostro ordinamento o nella gara si riscontrano delle stranezze circa i criteri di valutazione, bisogna presentare ricorso al Tar (Tribunale amministrativo regionale) entro 60 giorni dall’emanazione del provvedimento. Per fare questo ci si può rivolgere ad un avvocato esperto di diritto amministrativo che aiuterà il candidato a compilare la domanda del ricorso. Nella domanda di ricorso bisogna allegare: il bando di concorso, l’eventuale provvedimento di esclusione, la graduatoria e tutti gli elementi che si ritengono più opportuni (ad esempio i titoli presentati e non accettati). Dopo bisognerà notificare il ricorso all’ente pubblico che ha indetto il concorso e agli altri candidati inseriti nella graduatoria definitiva. La mancata notifica del ricorso preclude la possibilità di poter far valere le proprie ragioni e i propri diritti.

Concorsi pubblici truccati: ecco come funziona in Italia. Per difendersi non è solo opportuno sapere cosa fare in caso di concorsi pubblici truccati, ma anche saper riconoscere quegli elementi che si ripetono nel tempo e danno luogo ad anomalie. Ecco come in Italia vengono falsati i concorsi. Spesso si indice un concorso a propria immagine e somiglianza, infatti chi pubblica il bando lo fa quando non ci sono candidati adatti tranne coloro già prescelti. Altra nota dolente sono le commissioni d’esame, spesso presiedute da persone incompatibili con il concorso in sé. Si parla di soggetti impossibilitati per legge o di parenti, amici e conoscenti che favoriranno un candidato a loro vicino. Non dimentichiamo che i concorsi vengono indetti spesso per sanare delle mansioni esistenti, come il concorso truffa dell’INPS a 1.940 posti che serviva per inserire lavoratori già operanti presso l’Ente. Le prove d’esame sono spesso già note anticipo perché pubblicate su internet o perché vengono elaborate in corsi organizzati ad hoc. A volte la fuga di notizie avviene anche quando l’esame viene sostenuto contemporaneamente in più sedi a molte ore di distanza tra un posto e l’altro, cosa che dà modo alle domande della prova di circolare.

AGENZIA DELLE DOGANE, AGENZIA DELLE ENTRATE, FORZE DELL'ORDINE, INPS: LA BEFFA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE SENZA CONCORSO PUBBLICO O CON CONCORSO TRUCCATO.

Concorsi truccati in Forze dell’Ordine e Forze Armate: lo scandalo si allarga. Soldi in cambio di spintarelle per superare le selezioni nell’Esercito, nella Marina, nei Carabinieri, nella Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Polizia Penitenziaria. Insomma, per i concorsi truccati, ci sono ancora altri indagati. Ne parla Casertace con Tina Palomba il 30 Ago 2018. Esistono, al momento, tre filoni di indagini, dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere e che ha portato all’arresto, lo scorso 9 agosto dell’impiegato civile del Pirotecnico di Capua di G.Z; il secondo filone che prende il via dalle indagini della Procura di Napoli; il terzo, di cui fino ad oggi non abbiamo mai scritto, è nelle mani della Procura della Repubblica di Roma. All’interno di queste indagini sono coinvolti anche altissimi ufficiali, a quanto pare generali dell’esercito e un’attività continua e sistematica di raccomandazioni per concorsi viziati che, in qualche modo coinvolgono, chi più, chi meno la provincia di Caserta. Secondo le accuse, i candidati risultati promossi erano quasi tutti di Aversa, San Prisco, Marcianise, Maddaloni e dell’area napoletana. Tante le selezioni con presunti brogli nel periodo considerato dalle indagini che va dall’anno 2015 fino all’anno 2018. Sotto la lente di ingrandimento della Guardia di Finanza i risultati delle prove. Le perquisizioni effettuate nei mesi scorsi, con il sequestro di tanto materiale (computer, pen drive ecc…) hanno portato ad allargare il cerchio delle indagini. Nelle indagini di Santa Maria Capua Vetere, insieme a G.Z. sono indagate altre sei persone. Per quanto riguarda l’inchiesta della Procura di Napoli, con atto firmato dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino e dal Pm Stefania Buda, ha chiesto e ottenuto dal Gip la proroga delle indagini per un elenco di indagati formato da 14 persone per le quali la Procura di Napoli. Tanti insospettabili che gestivano pure le scuole di formazione nella provincia di Caserta e Napoli. Un nome che ha destato scalpore è stato quello del generale di brigata C.F. che si sarebbe adoperato «per reperire le tracce delle prove scritte utili al superamento dei concorsi». A destare sospetti erano stati i risultati dei test: troppo alta la concentrazione dei candidati che hanno ottenuto una votazione superiore al “nove” e che provenivano dalla nostra provincia, da quella di Napoli e dalle altre campane. A rendere più incandescente il clima, una serie di ricorsi al Tar presentati dai concorrenti non raccomandati.

I NUOVI NOMI INDAGATI DALLA PROCURA DI NAPOLI. I nomi degli indagati per i quali è stata chiesta la proroga delle indagini sono, oltre a C.F.: G.P., napoletano, che lavora presso l’ufficio di Foligno del Centro di selezione nazionale per reclutamento nell’Esercito. Per la Guardia di Finanza, per le scuole di formazioni della “Napoli 2000 Coop” e l’associazione “Medifuturo” di Afragola, sono indagati R.R.e L.V.. Per il centro studi “Adam Smith”, Con sede a Marigliano, è indagato S.V.. Sotto accusa anche in questo filone di indagine, quindi indagato, il dipendente del Pirotecnico di Capua G.Z., di Capodriose, punto di riferimento nel casertano e che compare nelle diverse indagini dei concorsi truccati sia nella Procura sammaritana che in quella di Napoli. Sotto accusa S.G.. Per Casalnuovo e Castello di Cisterna, sono indagati A.O ed M.R.. N.C. per Napoli e Aversa. R.D. per Nocera Superiore e M.D.C. di Villa Di Briano. Altri tre devono essere identificati.

Concorsi Truccati nella Finanza, nell’Esercito e in Polizia tra Marcianise, San Prisco, Maddaloni e Aversa, scrive Daniela Petrache il 31 Agosto 2018 Casertakeste.it. Soldi in cambio di “aiuti” per superare le selezioni nell’Esercito, nella Marina, nei Carabinieri, nella Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Polizia Penitenziaria. Per i concorsi truccati ci sono tre filoni di indagini e tanti altri indagati, che dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere ha portato all’arresto, lo scorso 9 agosto, dell’impiegato civile del Pirotecnico di Capua Giuseppe Zarrillo; il secondo filone è quello sul quale indaga la Procura di Napoli ed il terzo filone investigativo è stato aperto recentemente dalla Procura della Repubblica di Roma. In questa vicenda sono coinvolti anche altissimi ufficiali, generali dell’esercito, i quali con il loro modus operandi di continue e sistematiche raccomandazioni per concorsi viziati ha interessato purtroppo anche la provincia di Caserta. Dalle indagini è emerso che i candidati “promossi” erano quasi tutti di Aversa, San Prisco, Marcianise, Maddaloni e dell’area napoletana, nel periodo investigativo che va dall’anno 2015 fino all’anno 2018. Le perquisizioni effettuate nei mesi scorsi, con il sequestro di tanto materiale (computer, pen drive ecc…)  hanno ampliato il cerchio delle indagini e la Procura della Repubblica  di Santa Maria Capua Vetere, oltre a Zarrillo ha iscritto nel registro degli indagati, altre sei persone. Mentre la Procura della Repubblica di Napoli, su richiesta del procuratore aggiunto Alfonso D’Avino e del Pm Stefania Buda, ha ottenuto dal Gip, una proroga delle indagini per altri 14 indagati che gestivano pure le scuole di formazione nella provincia di Caserta e Napoli. I nomi degli indagati per i quali la Procura della Repubblica di Napoli ha chiesto la proroga delle indagini sono, oltre a Fiore: Gennaro Di Palo, napoletano, che lavora presso l’ufficio di Foligno del Centro di selezione nazionale per reclutamento nell’Esercito. Raffaele Russo e Lea Vitolo che lavorano presso la Guardia di Finanza, per le scuole di formazioni della “Napoli 2000 Coop” e l’associazione “Medifuturo” di Afragola. Per il centro studi “Adam Smith”, con sede a Marigliano, è indagato Sabato Vacchiano nonché il dipendente del Pirotecnico di Capua, Giuseppe Zarrillo, di Capodrise, punto di riferimento nel casertano, il quale risulta indagato sia dalla Procura sammaritana che da quella di Napoli. Altri indagati sono: Sabrina Giampaoli, 50 anni per la sede di Pomigliano, Alfredo Olivares e Michela Rega, rispettivamente per Casalnuovo e per Castello di Cisterna, Nunzio Cassano per Napoli e Aversa, Rocco D’Amelia per Nocera Superiore e Mario Della Corte, 42 anni di Villa Di Briano. Altri tre devono essere ancora identificati. Un nome che ha destato sconcerto, è quello del generale di brigata Ciro Fiore di Torre Annunziata che avrebbe “reperito le tracce delle prove scritte utili al superamento dei concorsi». A suscitare dubbi erano stati anche i risultati dei test: un numero troppo alto di candidati che avevano ottenuto una votazione superiore al “nove” e che provenivano dalla provincia di Caserta, da quella di Napoli e dalle altre campane. Ma anche una serie di ricorsi al Tar presentati dai concorrenti non raccomandati, insoddisfatti giustamente dei risultati ottenuti.

Inchieste a Napoli, Aversa e Roma. Svelato «l’algoritmo» con cui venivano comunicate in anticipo le risposte ai test. Inchiesta di Antonio Castaldo, Antonio Crispino e Amalia De Simone su Corriere TV del 28 aprile 2017. Neanche un errore, 80 domande e altrettante risposte esatte. Test superato con il punteggio massimo, 100 per cento. Non capita spesso. Il 13 maggio del 2016, nel concorso per 559 allievi agenti della polizia, è capitato ben 194 volte. In 134 hanno sbagliato un singolo quiz, 93 soltanto due. Risultati eccezionali, considerando che si trattava di test a risposta chiusa estratti da batterie di domande che non erano state precedentemente rese pubbliche, come invece accade solitamente. Qualcuno parlò di miracolo. Altri cominciarono a sospettare. Quando poi si venne a sapere che i «geni» provenivano quasi tutti dalla Campania, e che in particolare 180 di loro risiedono ad Aversa e dintorni, il dubbio è diventato sospetto. Da allora sono cominciate le indagini. E lo scorso dicembre il capo della Polizia Gabrielli ha deciso di annullare il concorso, che ora è ripartito con una nuova commissione e con risultati molto più “umani”, nessuno ha superato il voto di 8,4). La magistratura ha da tempo acceso i riflettori su queste procedure concorsuali. Inchieste sono in corso presso le procure di Roma, Napoli e Napoli nord. Solo nel capoluogo partenopeo, si indaga su nove diversi concorsi, tra esercito, carabinieri, polizia e guardia di finanza. «I concorsi per entrare nelle forze dell’ordine o nelle forze armate rappresentano una delle vie principali per trovare lavoro, soprattutto nel pubblico impiego», sottolinea il colonnello Giovanni Salerno della Guardia di Finanza di Napoli. «Centinaia di migliaia di giovani ogni anno cerca di sistemarsi in questo modo», aggiunge Francesco Leone, avvocato specializzato in concorsi: «Su questo settore si è sviluppato un giro d’affari milionario». Case di editrici specializzate, scuole di formazione, ex militari che offrono servizi di vario genere: «E naturalmente truffatori o millantatori», spiega il colonnello Salerno, «che offrono a prezzi variabili ogni tipo di aiuto: si va dalla garanzia di promozione, alla raccomandazione su una singola prova. In qualche caso, arrivano a fornire anche le risposte esatte per i quiz». E quest’ultima sembra la fattispecie del concorso per entrare in polizia poi annullato. Le indagini riguardano anche gli uffici del Viminale. Infatti lo scorso dicembre gli investigatori della Digos di Roma e del nucleo di polizia tributaria della guardie di finanza di Napoli hanno sequestrato materiale informatico e documenti proprio presso l’ufficio concorsi pubblici del ministero dell’Interno e ora stanno esaminando il traffico proveniente dalle varie postazioni computer. Una in particolare, da cui sarebbero partite alcune informazioni riguardanti il concorso in polizia successivamente annullato da Gabrielli, sarebbe nel mirino degli inquirenti. Ora bisognerà capire chi ha utilizzato quel pc (non è detto che sia stato il titolare della postazione) e se quelle operazioni siano effettivamente riconducibili alla truffa dei concorsi truccati. Il sospetto che ci fossero stati problemi o interferenze proprio nell’ufficio concorsi del ministero è confermato dalla circolare a firma del capo della segreteria del dipartimento pubblica sicurezza Enzo Calabria, che dispone la revoca del decreto di nomina della commissione esaminatrice del concorso nonché le operazioni e i risultati della prova scritta, ma che soprattutto rimuove i componenti del medesimo ufficio: «Si procederà ad un avvicendamento del personale dell’Ufficio attività concorsuali». E se dal ministero qualche «gola profonda» faceva filtrare in anticipo le risposte ai test, sul territorio qualcuno le raccoglieva e le distribuiva ai candidati disposti a pagare cifre salatissime. Il pm della procura di Napoli Stefania Buda, nel luglio 2016, ha disposto perquisizioni a carico di 24 persone, quasi tutte responsabili o impiegate presso sedi di associazioni, centri studio ed enti di formazione. Come ha spiegato ai nostri microfoni il colonnello della guardia di finanza Salerno, per comunicare con i propri «clienti» le scuole che violavano il segreto dei quiz facevano ricorso anche a codici criptati e «algoritmi» per individuare le domande e soprattutto le risposte corrette. Al Sud i concorsi nelle forze armate sono una specie di ammortizzatore sociale. È emblematico il caso di Fabio, nome di fantasia, che incontriamo nella sede di un Sindacato di polizia ad Aversa. Dopo aver tentato - senza riuscirci - la carriera di calciatore, geometra, rappresentante di cosmetici, alla fine ha tentato la strada delle Forze dell’ordine. E gli è arrivata subito la proposta: 30mila euro per entrare nella Guardia di Finanza. «Era un amico di famiglia, qui funziona così. Non accettai perché nel frattempo passai i test nella Polizia Penitenziaria». Non un caso isolato, quello di Fabio. Per il procuratore aggiunto Alfonso D’Avino è un sistema consolidato che ruota principalmente attorno a uomini in divisa o che ne hanno fatto parte in passato: «L’appartenenza a un corpo avvalora la loro credibilità. Oltre al fatto che, in alcuni casi oggetto di inchiesta, i protagonisti proponevano una sorta di assicurazione: se non dovessi diventare un militare ti restituiamo la somma». Ma accanto ai casi di effettiva agevolazione c’è il millantato credito. Sempre ad Aversa un ispettore della Polizia Penitenziaria, appoggiato da un maggiore dell’Esercito, offriva il suo «aiuto» ad un costo preciso: 15 mila euro per il concorso nella Penitenziaria, 40 mila per la Guardia di Finanza. A. D., di professione barbiere, lo ha conosciuto durante una festa di famiglia. «Vai da lui che risolve il problema di tuo figlio», gli avevano sussurrato nell’orecchio. Uno dei due figli, infatti, aveva cercato inutilmente di superare i test. Quattro chiacchiere, poi l’appuntamento in un bar del centro il giorno successivo e il versamento della prima rata: 5mila euro. «Non li avevo, ho fatto debiti. La metà me li son fatti dare da mia mamma dicendo che era per il bene del nipote, è anziana, spero che un giorno mi possa perdonare». Le chiede scusa da quando ha scoperto che era una truffa. Il nipote non ha passato nessun esame. L’ufficiale gli aveva consigliato di lasciare in bianco le risposte di cui non era sicuro, le avrebbero dovute riempire le sue «conoscenze ai vertici dell’amministrazione». Ma le caselle sono rimaste vuote ed è stato bocciato.

Trentamila euro per entrare in Polizia, ecco come si vendono i posti di lavoro. Sgominata in Campania una banda che garantiva a giovani in cerca di lavoro il superamento di un concorso nella forze dell'ordine in cambio di denaro, scrive Antonio Menna il 5 novembre 2016 su "Tiscali Notizie". C'era una volta la vocazione. Non solo quella sacerdotale. La vocazione a un mestiere. Sentirselo nello spirito, nella cultura. Da grande voglio fare. E poi crescere con quel principio, quell'obiettivo. Inseguirlo. Impegnarsi. C'era una volta il lavoro che ti identificava, ti caratterizzava. Io sono quello che faccio. Quel sentimento si è smarrito. Oggi, con la crisi, con la disoccupazione galoppante, con l'angoscia di restare senza un lavoro, si insegue il posto - possibilmente pubblico - come una lotteria. Non conta cosa farai, dove andrai, che sarai. Conta raggiungerlo. A qualunque costo. Violare la legge per indossare una divisa. Così si è disposti a tutto. Anche al più estremo dei paradossi. Cioè, che per entrare nella Polizia penitenziaria o nella Guardia di Finanza o nella Polizia di Stato, ci si renda disponibili alla corruzione. Cioè, un reato per indossare una divisa. Cioè, violare la legge per poi tutelarla. E' successo in Campania, dove nei giorni scorsi, è stata sgominata una gang che garantiva a giovani in cerca di lavoro, il superamento di un concorso nella forze dell'ordine in cambio di denaro. L'indagine è stata condotta dalla procura di Napoli nord, diretta dal magistrato Francesco Greco. A indagare gli uomini della Guardia di Finanza. In manette sono finiti un ufficiale dell'Esercito, poi una donna e suo fratello, considerati la mente del gruppo. Provvedimenti cautelari anche per tre agenti della Polizia penitenziaria. Coinvolte anche altre persone, tra cui un insegnante di scuola superiore, che avrebbe aiutato alcuni ex studenti ad entrare in contatto con la gang. Tutti sono accusati di truffa, millantato credito e abuso di potere. Per un gruppo ristretto è scattata l'accusa di associazione per delinquere. L'indagine si è focalizzata su 24 episodi. In tutti questi casi, il gruppo avrebbe intascato denaro da ragazzi, o dalle loro famiglie, che desideravano superare concorsi pubblici in particolare nella Polizia penitenziaria, ma in qualche caso anche nella Polizia di Stato e nella Guardia di Finanza. Con una fitta rete di mediatori, il ragazzo o la sua famiglia che voleva superare il concorso entrava in contatto con gli organizzatori del gruppo e a loro doveva versare il denaro, ovviamente prima della prova concorsuale. Gli importi andavano dai 10mila ai 30mila euro, a seconda dell'importanza del ruolo cui si concorreva. Il gruppo avrebbe raccolto circa 282mila euro. Secondo la procura sarebbero circa ottanta i ragazzi truffati. La gang usava tecniche molto persuasive. Esibiva biglietti personali con auguri e messaggi attribuiti ad alte cariche dello Stato, millantava amicizie e aderenze. «Una volta ci invitarono a casa loro per festeggiare il compleanno di nostro figlio - raccontano due genitori al quotidiano Il Mattino -  con una torta a forma di volante di polizia e un manichino che rappresentava un agente». Il sistema sarebbe saltato in seguito alla denuncia di alcuni ragazzi che non hanno superato la prova e che hanno, subito dopo, preteso la restituzione della cifra versata. «Quando chiedemmo la restituzione del denaro - hanno raccontato i genitori del ragazzo truffato, secondo quanto riportato dal Mattino - ci offrirono degli assegni scoperti».  Al rifiuto del rimborso, alcuni si sono rivolti alle forze dell'ordine - quelle vere, in questo caso - e hanno rivelato tutto. Immediatamente è partita un’indagine, alla ricerca di riscontri e si sono evidenziati decine e decine di episodi di questo tipo. Così, alla fine, sono arrivati i provvedimenti cautelari. La vicenda, nel suo insieme, mette tristezza. Non sono per l'esistenza di una banda di presunti truffatori con l'intento di fare denaro sul bisogno della gente. Ma anche e soprattutto per la spregiudicatezza di tutti gli attori. E' vero che ci sono colpevoli e vittime, eppure in casi come questi le vittime - se non penalmente, almeno moralmente - sembrano anche loro un po' colpevoli. Possibile che nessuno si sia fatto uno scrupolo etico? Possibile che nessuno si sia chiesto se fosse giusto pagare una tangente per avere un posto di lavoro? Possibile che si finisca alla denuncia solo perchè il concorso è andato male e non si è ottenuto un rimborso? Ma soprattutto, possibile che si ambisca ad indossare una divisa per tutelare la legge e al tempo stesso si sia disponibili a farsi truccare un concorso su misura?

La rivolta dei dirigenti (sulla carta) della pubblica amministrazione. Sarebbero "idonei" ma vengono superati dai colleghi promossi senza concorso: i casi dell'Agenzia delle entrate e dell'Autorità Anticorruzione, scrive il 7 novembre 2016 Stefano Caviglia su "Panorama". Come può funzionare una burocrazia i cui metodi di reclutamento dei dirigenti sono regolarmente contestati e spesso bocciati da sentenze della magistratura amministrativa? Fra i tanti paradossi italiani ce n'è anche uno che di solito passa sotto silenzio ma produce danni sia sul piano economico che su quello morale: le abituali anomalie per la nomina dei dirigenti pubblici. Un male che non risparmia neppure i centri più strategici dell’Amministrazione, come l’Agenzia delle entrate e perfino l’Autorità nazionale anticorruzione. Ne sanno qualcosa gli oltre 250 funzionari pubblici che negli ultimi anni hanno ottenuto l’idoneità (ma non il relativo incarico) al ruolo di dirigenti, seguendo la procedura classica: preselezioni, due prove scritte, una prova orale e infine inserimento in una graduatoria. Alla fine di quest’anno, dopo anni di attesa, perderanno anche quel fragile titolo, la cui durata triennale è già stata prorogata più volte. Così, vedendo la ghigliottina pronta a calare sulla sudata idoneità, il piccolo esercito dei dirigenti mancati si è organizzato, dando vita a un comitato che ora prova a farsi sentire. Tre le rivendicazioni fondamentali che spera di riuscire a far valere prima della fine di dicembre: proroga della validità dei titoli al 2018; ripresa dello scorrimento delle graduatorie concorsuali (nel frattempo bloccate anche perché non si sa ancora dove mettere i dirigenti delle province); creazione di un ruolo unico in cui ciascun idoneo possa essere pescato da tutte le amministrazioni e non solo da quelle in cui ha superato la prova. "Chi ha studiato per preparare un concorso" osserva uno dei promotori del comitato, Dario Messineo "si è fidato dello Stato. Tradire questa fiducia significa mandare un messaggio devastante ai dipendenti pubblici e più in generale al Paese". Sarebbe facile obiettare che nei paesi seri i concorsi si bandiscono solo per i posti disponibili e che il conseguimento di una semplice abilitazione crea aspettative fatalmente aleatorie. Se non fosse per un piccolo particolare: mentre i vincitori di concorso aspettavano, altri sono diventati dirigenti al posto loro, sfrecciando in corsia di sorpasso. Come? Soprattutto ricorrendo all’articolo 19, comma 6 della legge 165 del 2001, una norma scritta negli anni ’90 per consentire alla Pubblica amministrazione di pescare all’occorrenza anche dall’esterno e di cui lo stesso autore, l’allora ministro della Funzione pubblica Franco Bassanini, ha appena contestato l’applicazione proprio in una intervista pubblicata da noi. Situazioni anomale ce n’è davvero in quantità e la cosa più sorprendente è che, nonostante le contestazioni diffuse e diverse sentenze della giustizia amministrativa, vanno avanti da anni come se niente fosse. Chi potrebbe immaginare che perfino all’Anac di Raffaele Cantone, continuamente invocata contro sprechi e corruzione, siano al lavoro ben 9 dirigenti su 45 (fra cui Lorenza Ponzone, rinviata a giudizio per corruzione nell’inchiesta sulla Tav) entrati con un concorso dichiarato nullo dal Consiglio di Stato? La faccenda, a quanto pare, è così imbarazzante che la stessa Autorità esita a pubblicare il ruolo dei dirigenti, atteso ormai da mesi, nel timore che questo semplice atto sia impugnato da quanti si considerano danneggiati. Spicca in questo campo la baldanza dell’Agenzia delle entrate che, non contenta di esser stata bacchettata duramente un anno e mezzo fa dalla Corte Costituzionale con la retrocessione di 800 dirigenti nominati senza concorso, continua a produrre perle di disinvoltura burocratica. Ad esempio quella che a gennaio 2015, subito prima della sentenza della Corte (attesa da mesi), ha portato alla promozione di uno dei quasi sicuri retrocessi, Claudio Borgnino, da vicedirettore a direttore della rivista telematica Fisco Oggi. Per farlo i vertici dell'Agenzia non hanno sentito il bisogno di dar vita ad alcuna procedura pubblica (che il prescelto ben difficilmente avrebbe potuto superare, non essendo neppure laureato), scatenando i prevedibili malumori dei colleghi più titolati. Qualcosa del genere è successo anche a fine luglio scorso, con la nomina del nuovo portavoce della direttrice Rossella Orlandi, Sergio Mazzei, uno degli 800 già promossi sul campo e successivamente bocciati dalla Corte Costituzionale. Anche lui è stato messo in aspettativa come funzionario interno per poi essere assunto dall'esterno a tempo determinato al livello superiore. A differenza del collega è almeno laureato, ma non ha comunque mai fatto un concorso da dirigente. E la cosa più sorprendente è che nella delibera di nomina, a sostegno della promozione, effettuata ancora una volta senza lo straccio di un “interpello” (procedura pubblica semplificata rispetto al concorso) viene citata una precedente sentenza della Corte dei conti, la 36 del 2014, che sembrerebbe più adatta a censurare la nomina medesima, visto che il suo contenuto è la bocciatura di un'altra promozione per mancanza di requisiti. Come stupirsi se i funzionari i cui titoli non sono stati presi in considerazione, rimasti ancora una volta a bocca asciutta, sono a dir poco arrabbiati?

Pa, la carica dei dirigenti "per grazia ricevuta". Da palazzo Chigi all'Agenzia delle entrate, dai ministeri al Campidoglio: il vizietto di aggirare i concorsi, scrive Stefano Caviglia il 14 ottobre 2016 su "Panorama". Assumere dirigenti in modo regolare e senza contestazioni è un compito che si rivela ogni giorno più arduo per la Pubblica amministrazione italiana. La sequenza del mese scorso, qui rivista a ritroso, è impressionante: il 22 settembre il Consiglio di Stato sospende il concorso per 175 dirigenti all’Agenzia delle entrate; il 21 i carabinieri perquisiscono gli uffici di vari funzionari dell’Agenzia delle dogane (Ministero dell’Economia), accusati di aver passato il tema di un concorso nel 2013; il 15 il presidente dell’Anac Raffaele Cantone boccia 11 assunzioni fatte da Antonio Campo dall’Orto in violazione dei criteri di trasparenza stabiliti dalla Rai. E all’inizio di settembre, la bufera che rischia di travolgere la giunta del Movimento 5 Stelle a Roma, nasce proprio dalla goffaggine con cui la sindaca Virginia Raggi ha cercato di piazzare tre figure chiave in Campidoglio. Si potrebbe obiettare che le storie citate sono troppo diverse per essere accomunate, ma non è così. Un filo robusto le lega, fra loro e a molte altre: è la disinvoltura con cui si aggirano le norme per il reclutamento dei dirigenti nel settore pubblico. Talvolta i concorsi appaiono chiaramente «aggiustati» (come nell’esempio, riportato il 23 settembre dallo stesso Cantone, delle assunzioni incrociate dei figli dei professori universitari), più spesso si saltano direttamente a piè pari. È il caso dell’Agenzia delle entrate, che a marzo 2015 si è vista retrocedere da una sentenza della Corte Costituzionale ben 800 dirigenti in quanto nominati senza prove pubbliche, dunque violando l’articolo 97 della Costituzione, secondo cui «agli impieghi nella Pubblica amministrazione si accede mediante concorso». La sentenza dava tempo fino a fine 2016 per dar luogo a quei concorsi che, in 14 anni di vita dell’Agenzia delle entrate, non si sono mai fatti. Nel frattempo, per non azzopparne le capacità operative (fondamentali nella lotta all’evasione fiscale), la Consulta chiese di attribuire ai funzionari più alti in grado le deleghe tolte ai retrocessi, compreso il fondamentale potere di firma. Peccato che queste indicazioni non siano state seguite. In quasi due anni l’Agenzia non ha saputo far altro che rimettere in pista due concorsi, già invalidati in passato, che nelle settimane scorse sono stati nuovamente stoppati dalla giustizia amministrativa. Nel frattempo molti dei dirigenti bocciati hanno ottenuto posizioni organizzative speciali a tempo determinato che li collocano in ruoli simili a quelli giudicati illegittimi dalla Coorte Costituzionale (anche se ora sono pagati un po’ meno). E poiché queste posizioni scadono tutte a fine anno ed è impensabile organizzare concorsi a così breve scadenza, nessuno è in grado di dire che cosa succederà fra tre mesi all’Agenzia delle entrate. Per aggirare l’ostacolo dei concorsi c’è perfino chi si mette in aspettativa come funzionario, facendosi poi riassumere immediatamente dopo come dirigente esterno a tempo determinato. Nella stessa amministrazione! A consentire la magia è il comma 6 dell’articolo 19 del decreto legislativo 165 del 2001 (riforma Bassanini), di cui prevale da tempo un'interpretazione a dir poco elastica. La dubbia regolarità di queste pratiche è testimoniata da numerose sentenze. In una di queste, nel 2012, il Tribunale di Roma ha condannato il ministero della Difesa a pagare 80 mila euro di danni e spese legali al dirigente Cataldo Bongermino, scavalcato ingiustamente da tre colleghi che non avevano titoli sufficienti (uno di loro, nominato capo del personale, provvide a prepensionare d’ufficio il malcapitato, con un atto poi invalidato dal Tribunale del lavoro). Più recentemente è finita nei guai la presidenza del Consiglio, dove l’interpretazione spregiudicata della legge (sempre la famosa 165 del 2001) ha generato contenziosi a ripetizione. Solo nel 2015 il Tribunale del lavoro ha disposto centinaia di migliaia di euro di risarcimenti a vantaggio di diversi dirigenti. Per sapere la cifra esatta (che chiaramente potrebbe dar luogo a una denuncia per danno erariale) il sindacato dei dirigenti Dirstat ha presentato un quesito formale, ma ancora non è stato ritenuto degno di una risposta. In questa gara a chi è più bravo ad aggirare la legge, la pubblica amministrazione locale non è da meno di quella centrale. Così come i dirigenti dell’Agenzia delle entrate, anche il capo della segreteria della sindaca di Roma Virginia Raggi, Salvatore Romeo, è stato messo in aspettativa come funzionario per essere subito riassunto a tempo determinato come dirigente. E l’attuale capo del personale del Campidoglio, Raffaele Marra, fu assunto nel 2011, per uno stipendio di 307 mila euro lordi l’anno, come direttore del personale dalla Regione Lazio dell’allora presidente Renata Polverini. Ovviamente come esterno, in quanto già allora era al Comune di Roma. I sindacati fecero ricorso e sia il Tar che il Consiglio di Stato diedero loro ragione, in quanto c’erano all’interno figure più qualificate, ma non servì a nulla. Della questione fu investita anche la Corte dei conti, che all’inizio di quest’anno ha chiesto alla Giunta regionale e al direttore del personale di allora giustificare la loro decisione. Danno erariale ipotizzato: 324 mila euro. Forse per non essere da meno, la Giunta di Nicola Zingaretti ha appena creato un altro caso: la funzionaria dell’Azienda regionale per l’edilizia territoriale (Ater) di Roma Estella Marino, già consigliere comunale del Pd nonché assessore all’Ambiente in Campidoglio con Ignazio Marino, è stata appena destinata a un nuovo incarico di grande responsabilità in fatto di lavori pubblici e organizzazione del lavoro. La nomina non comporta al momento remunerazioni aggiuntive, ma il punto è proprio che, secondo i sindacati, questo potrà avvenire in tempi ravvicinati, essendo l’incarico conferito esorbitante rispetto alla sua qualifica attuale. E non rassicura certo che il direttore generale dell’Ater abbia disposto nella stessa delibera di non pubblicare l’atto di nomina sul sito web dell’azienda, in contrasto con quanto prevede la legge. Ai vertici di ministeri, agenzie, aziende statali, regionali e comunali, sono evidentemente in molti a pensare che le procedure di un concorso, e perfino quelle di un "interpello" (selezione meno impegnativa che in alcuni casi può sostituire il concorso), siano troppo lunghe e vincolanti. Ammesso e non concesso che abbiano le loro ragioni, perché non le sostengono alla luce del sole anziché andare alla ricerca di ogni cavillo buono a spianare la strada agli amici e a lasciare al palo tutti gli altri?

Pa, in una legge del 2001 la scorciatoia anti-concorsi. La norma consente di pescare all'esterno per incarichi a tempo, ma è usata anche per normali promozioni, scrive Stefano Caviglia il 14 ottobre 2016 su "Panorama". Passare dalla posizione di funzionario a quella di dirigente nella Pubblica amministrazione italiana è un bel salto di carriera (e di retribuzione), che in teoria richiede il superamento di un concorso pubblico. Ma ultimamente succede sempre più spesso che qualcuno imbocchi una strada più breve e più semplice degli altri. La scorciatoia si chiama comma 6 dell’articolo 19 del decreto legislativo 165 del 2001 (ordinamento del lavoro nelle amministrazioni pubbliche), uno degli ultimi del pacchetto noto come Riforma Bassanini. Il suo intento dichiarato, all’epoca, era far entrare un po’ d’aria fresca nelle stanze della burocrazia italiana, aprendo le porte a dirigenti del mondo delle imprese private e di altre amministrazioni pubbliche, a partire dall’università. Per questo è stato stabilito che per una piccola quota di posizioni (l’8 per cento dei dirigenti di prima fascia e il 10 di quelli di seconda fascia), esclusivamente a tempo determinato, si potesse pescare anche fuori, ma solo dopo aver accertato la mancanza delle professionalità richieste all’interno degli uffici. In che modo? Valutando i candidati con una procedura più leggera del concorso, ma pur sempre pubblica, detta “interpello”. Per i vincitori provenienti dall’interno dell’Amministrazione è giustamente previsto che possano mettersi in aspettativa, rientrando nella vecchia posizione al termine dell’incarico dirigenziale. Ma era difficile prevedere che qualcuno avrebbe sfruttato questa possibilità per effettuare normalissime promozioni all'interno di uno stesso ufficio, da rendere poi semi permanenti attraverso il meccanismo dei rinnovi, a scapito di colleghi più titolati e forse anche più meritevoli. E come se non bastasse, spesso e volentieri si salta a piè pari anche l’interpello, producendo la discrezionalità più completa dei vertici di turno nella scelta dei dirigenti.

Report Rai 3 puntata del 07/11/2016

C'E' POSTE PER TE di Giorgio Mottola.  Un mese fa ci eravamo occupati del fratello del ministro Alfano diventato responsabile del patrimonio immobiliare di Poste in Sicilia e a luglio scorso Poste aveva aperto un audit interno per capire le modalità con cui era stato assunto.

MILENA GABANELLI IN STUDIO: Rieccoci. Allora, un mese fa ci eravamo occupati del fratello del ministro Alfano diventato responsabile del patrimonio immobiliare di Poste in Sicilia e a luglio scorso Poste aveva aperto un audit interno per capire le modalità con cui era stato assunto. Rivediamo brevemente.

DA REPORT DEL 17/10/2016 GIORGIO MOTTOLA: Volevo sapere, lei come è stato assunto alle Poste italiane?

ALESSANDRO ALFANO – DIRIGENTE POSTE ITALIANE POLO IMMOBILIARE SUD 2: Come tutti i dirigenti.

GIORGIO MOTTOLA: Ha fatto un concorso quindi?

ALESSANDRO ALFANO – DIRIGENTE POSTE ITALIANE POLO IMMOBILIARE SUD 2: Ah, perché lei sa che ci sono concorsi alle Poste per i dirigenti?

GIORGIO MOTTOLA: Ma lei che titolo di studio ha?

ALESSANDRO ALFANO – DIRIGENTE POSTE ITALIANE POLO IMMOBILIARE SUD 2: Io laureato.

GIORGIO MOTTOLA: Una laurea breve, però.

ALESSANDRO ALFANO – DIRIGENTE POSTE ITALIANE POLO IMMOBILIARE SUD 2: Chi glielo ha detto?

GIORGIO MOTTOLA: Ha una laurea magistrale quindi?

ALESSANDRO ALFANO – DIRIGENTE POSTE ITALIANE POLO IMMOBILIARE SUD 2: Sì, e quindi?

GIORGIO MOTTOLA: Quindi ha una laurea di cinque anni, conseguita a quanti anni?

ALESSANDRO ALFANO – DIRIGENTE POSTE ITALIANE POLO IMMOBILIARE SUD 2: E lei che le interessa? Io faccio un lavoro privato, non sono un personaggio pubblico, non devo giustificare…

GIORGIO MOTTOLA: Questa è una società pubblica, dottore.

ALESSANDRO ALFANO – DIRIGENTE POSTE ITALIANE POLO IMMOBILIARE SUD 2: No, no!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: Poste Italiane è una S.p.a. partecipata dal ministero dell’Economia. E si viene assunti, dichiara Poste, anche sulla base di titolo di studio e voto. Alfano sostiene di avere una laurea magistrale, ma all’Università di Palermo risulta che si è iscritto nel 1993 e ha ottenuto solo la laurea triennale in Economia, sedici anni dopo Il retroscena dell’assunzione lo racconta in una telefonata Raffaele Pizza, fratello dell’ex sottosegretario Giuseppe, a Davide Tedesco, collaboratore di Angelino Alfano.

RAFFAELE PIZZA – DA INTERCETTAZIONE: Hai la mia parola d’onore che questo va dicendo in giro che io l’ho fottuto.

DAVIDE TEDESCO – DA INTERCETTAZIONE: Eh ma non lo dice come è entrato lì.

RAFFAELE PIZZA – DA INTERCETTAZIONE: Cazzo te faccio ave u lavoro… minchia non solo che m’avve a fare, oh, m’avve a fare u monumento… mo a minchia la colpa mia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: Secondo Pizza, Alessandro Alfano invece di essere riconoscente, si sarebbe lamentato perché il suo stipendio era di centosessantamila euro e non centosettanta come concordato all’inizio.

GIORGIO MOTTOLA: Hanno avuto un ruolo i fratelli Pizza e suo fratello Angelino Alfano nella sua assunzione?

ALESSANDRO ALFANO: Mi sembra che io faccio un lavoro ben fatto.

GIORGIO MOTTOLA: Perché c’è un’inchiesta anche sulla sua assunzione alle Poste.

ALESSANDRO ALFANO: E quindi gli inquirenti faranno il loro lavoro.

MILENA GABANELLI IN STUDIO: Dopo il nostro pezzo ci risulta che Poste abbia aperto un altro audit interno, insomma ne chiudessero ogni tanto qualcuno. Nel frattempo si scopre che tra i dipendenti del nuovo centro destra nel gruppo del ministro Alfano, lavora anche una signora stipendiata dalla Camera dei deputati: è la signora Flavia Montana, chi è?

NUNZIA DE GIROLAMO – DEPUTATO FORZA ITALIA: Sì c’era Flavia Montana, sì, è una ragazza che stava nell’ufficio comunicazione del gruppo Ncd alla Camera.

GIORGIO MOTTOLA: Ed è una giornalista, cioè: è iscritta all’albo?

NUNZIA DE GIROLAMO – DEPUTATO FORZA ITALIA: Ah questo non glielo so dire, so che curava particolarmente – diciamo – i social, però forse faceva anche il turno sulle agenzie, per poi inviarle a tutti i parlamentari.

GIORGIO MOTTOLA: Che lei sappia lavora ancora nel gruppo di Area Popolare?

NUNZIA DE GIROLAMO – DEPUTATO FORZA ITALIA: Sì sì l’ho vista alla Camera, va tutti i giorni.

GIORGIO MOTTOLA: Senta, ma lei lo sa chi è Flavia Mentana?

NUNZIA DE GIROLAMO – DEPUTATO FORZA ITALIA: Diciamo la verità: io non lo sapevo. Quando poi sono diventata capogruppo e quindi ho visto i vari curriculum ho visto che c’era anche lei, ho chiesto un po’ di tutti e mi hanno detto chi è.

GIORGIO MOTTOLA: E chi è?

NUNZIA DE GIROLAMO – DEPUTATO FORZA ITALIA: È la cognata di Angelino Alfano.

GIORGIO MOTTOLA: La moglie di Alessandro Alfano, il fratello di Angelino.

NUNZIA DE GIROLAMO – DEPUTATO FORZA ITALIA: Sì, sì.

GIORGIO MOTTOLA: E lei che reazione ha avuto quando ha scoperto che la cognata di Alfano era stata assunta al gruppo?

NUNZIA DE GIROLAMO – DEPUTATO FORZA ITALIA: Eh purtroppo – diciamo – che non c’è una regola alla Camera, forse questo… di questo si potrebbe discutere. È che non so negli altri gruppi se ci sono situazioni analoghe… Probabilmente, boh… Cinquestelle, Pd, è possibile. Magari si potrebbe pensare di fare un codice etico, con il quale si decide che i parenti… insomma…

MILENA GABANELLI IN STUDIO: Sulle modalità con cui si assume nel pubblico, a voler esser precisi, anche l’onorevole De Girolamo ha qualche problemino, in merito alle nomine fatte alla ASL di Benevento dove ha il suo bacino elettorale. Invece per quel che riguarda la signora Montana dall'ufficio stampa del gruppo parlamentare ci fanno sapere che ha una laurea magistrale in Scienze della Comunicazione con 110 e lode e precisano che è entrata come stagista presso la segreteria di Alfano prima di conoscere il fratello del Ministro. 

LA CANDIDATA di Antonella Cignarale. Sei disoccupato e partecipi a una selezione per un posto di lavoro aspirando a ottenerlo perché è a tempo indeterminato. Sei l’unico a rispondere correttamente alle prove, sei idoneo per il posto richiesto. Il posto è tuo? No. O meglio lo deciderà il giudice. È successo a chi ha partecipato a una selezione avviata dall’Agenzia di tutela della salute di Pavia per ricoprire il posto di coadiutore amministrativo di supporto nel settore della sanità animale presso il dipartimento di Prevenzione veterinaria. Una commissione di esperti, composta da dirigenti e membri della stessa agenzia sanitaria, viene nominata per stabilire le prove che devono sostenere i candidati e per valutare l’idoneità di questi a ricoprire la mansione. A poter partecipare sono 64 candidati iscritti in una graduatoria del centro per l’impiego di Pavia. Una sola persona risulta idonea a ricoprire il posto richiesto, ma il direttore generale dell’agenzia, Anna Pavan, non ci sta e ritenendo le domande troppo complesse rispetto a quanto previsto dal bando annulla la procedura e decreta di rifare la selezione da capo. Questo “a tutela dell’interesse pubblico”. Non è forse di interesse pubblico avere persone competenti all’interno del sistema sanitario? Perché l’unica persona che supera le selezioni di idoneità non merita di essere assunta?

MILENA GABANELLI IN STUDIO: Buonasera. Nella puntata di oggi, la scelta del capitale umano, quello che serve per far funzionare la macchina pubblica: da Equitalia, Agenzia delle Entrate, delle Dogane, Polizia di Stato, Inps. Sono obbligatori i concorsi e le selezioni per pescare i migliori. Allora, prima di entrare nel vivo vediamo una piccola storia, ma emblematica. Siamo a Pavia, città perfetta, dove l’ASL – perché adesso si chiama Agenzia per la Tutela della Salute – ha bisogno di assumere un amministrativo per il Dipartimento di Veterinaria. Fa una selezione, si candidano in una sessantina, si presentano in 40, alla fine una sola persona risponde a tutto, risulta idonea. Serve una persona: una persona è selezionata. Allora, che problema c’è?

VALERIA SERGI – AVVOCATO: Anziché assegnare il posto di coadiutore amministrativo alla nostra assistita, il direttore generale dell’Ats di Pavia decide in autotutela, quindi senza che vi sia un’impugnazione o un ordine da parte di un giudice, decide che la procedura svolta dalla commissione lo era stata in maniera, diciamo, illegittima, e quindi annulla la procedura.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO: Ad annullare la prova è Anna Pavan, Direttrice dell’Agenzia Sanitaria, perché le domande richiedevano una preparazione più alta rispetto alla figura che stavano cercando. “Nemmeno io sarei riuscita” ha dichiarato ai giornali. Ma se una candidata ha superato la prova, perché non assumerla?

ANNA PAVAN – DIRETTORE GENERALE ATS PAVIA: Chi l’ha detto che era l’unica a essere idonea?

ANTONELLA CIGNARALE: L’unica idonea che ha superato la selezione, su sessanta. Non è così?

ANNA PAVAN – DIRETTORE GENERALE ATS PAVIA: La selezione, ascolti, doveva essere fatta con dei criteri adeguati, perché altrimenti si davano delle… si toglievano delle opportunità ad altre persone… comunque veramente basta.

ANTONELLA CIGNARALE: Ma quindi, mi scusi, doveva essere assegnato a qualcun altro il posto?

ANNA PAVAN – DIRETTORE GENERALE ATS PAVIA: Ma non c’è un servizio d’ordine con cui si possa allontanare la persona?

MILENA GABANELLI IN STUDIO: La direttrice è persona di polso, e ci scrive: “uno che lavorava già per noi non è risultato idoneo”. Le domande erano troppo difficili, e s’è annullato tutto. Intanto chi ha risposto invece bene a tutto ovviamente fa causa. Da qualche parte però, siccome rimarrà nel frattempo un posto vuoto, ci sarà un disagio; oppure no, perché in realtà quel posto era già occupato da qualcuno che andava regolarizzato, ma – sfortuna – non ha risposto bene. Allora, decliniamo questo micro su tutta la Pubblica Amministrazione

IL MAESTRO di Antonella Cignarale. Il Conservatorio San Pietro a Majella dal 1808 deve il suo prestigio ai grandi artisti che l’hanno attraversato e alla qualità didattica offerta da bravissimi docenti ai tanti allievi oggi riconosciuti a livello internazionale come grandi musicisti. Secondo il direttore oggi il Conservatorio ha il dovere di mantenere alta la tradizione e la qualità, offrendo agli studenti una programmazione di spessore sia per la programmazione sia per il livello di docenze. Una delle specificità proprie dell’offerta didattica infatti è la lezione frontale tra docente e allievo, una relazione uno a uno che, a detta del direttore, “crea quel rapporto padre figlio che in altre scuole non esiste”. Un rapporto che però anche all’interno del noto conservatorio San Pietro a Majella è faticoso da coltivare per un allievo se il suo maestro fa il pendolare dalla Cina.

MILENA GABANELLI IN STUDIO: Chiusa la storia di tutte le pubbliche amministrazioni, invece, rubrica sul merito. Quella di oggi è molto curiosa. Ed è ambientata nel prestigiosissimo conservatorio di Napoli, protagonista un bravo professore di ruolo. Cosa ti aspetti da un bravo professore di ruolo: che sia presente alle lezioni tutte le ore per cui è pagato, poi magari se le gestisce. Qual è il problema: che questo professore fa il pendolare, benissimo. Ma da dove a dove?

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO: Dal conservatorio San Pietro a Majella sono passati Roberto De Simone, Salvatore Accardo, il maestro Riccardo Muti e la pianista Laura De Fusco.

ANTONELLA CIGNARALE: Immaginiamo che il merito del conservatorio di Napoli sia stato quello proprio di offrire una qualità didattica che ha permesso a degli allievi di diventare un giorno maestri?

LAURA DE FUSCO - PIANISTA: Certamente… Di potere sfruttare le proprie qualità: perché le qualità da sole senza l’insegnamento, secondo me servono a poco.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO: Oggi chi aspira a diventare compositore o direttore d’orchestra ha come docente il professore Alfonso Amato.

ANTONELLA CIGNARALE: Stavo cercando il professore Amato.

TESTIMONE 1: Non si può dire.

ANTONELLA CIGNARALE: Ah non si può dire, scusate.

TESTIMONE 1: Sta già in Cina.

ANTONELLA CIGNARALE: Sta già in Cina?

TESTIMONE 2: Cambiate professore… non vi ho detto niente.

ANTONELLA CIGNARALE: Ma perché Amato non c’è mai?

TESTIMONE 2: Non è cosa, no non c’è mai… Non perdete tempo. È il consiglio di una mamma.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO: È un po’ scomodo, ma il professore insegna anche qui: al conservatorio di musica di Tianjin, dove si è trasferito dopo aver sposato una sua allieva cinese. E fa il coach.

ALFONSO AMATO – PROFESSORE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA - NA: Non è che sono fuorilegge. Sanno benissimo la mia attività qua. Funziona perché ho un monte ore. Punto e basta.

ANTONELLA CIGNARALE: Di quanto?

ALFONSO AMATO – PROFESSORE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA - NA: Noi abbiamo 250 ore più attività artistica.

ANTONELLA CIGNARALE: Quante volte viene il professore al conservatorio?

ELSA EVANGELISTA – DIRETTRICE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA - NA: Adesso non ricordo. Non posso ricordare il monte ore di tutti i docenti.

ANTONELLA CIGNARALE: Però tutto l’anno non è qua il professore?

ELSA EVANGELISTA – DIRETTRICE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA - NA: Il semestre. Basta che lui garantisce un semestre e le sue 324 ore di lezione.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO: La direttrice però il monte ore del professore non ce lo ha mai mostrato.

ALFONSO AMATO - PROFESSORE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA - NA: Nessuno si è lamentato. Nessuno. Gli alunni. Se io… o il direttore o qualche alunno, avesse detto o dirà delle cose, io lascio subito qua. Io che sto qua, voglio dire, è sempre stato un fatto, diciamo, tra me e Napoli, di conoscenza… tacito: nel senso che tu stai qua, va be’ puoi stare.

ALLIEVO PROFESSOR AMATO: Questo insegnante il monte ore lo mette insieme solo in determinati momenti dell’anno, che sa che sta qui. Diciamo due, massimo tre mesi, nell’anno accademico. Quindi per noi è un danno.

ANTONELLA CIGNARALE: Lei quante volte lo vede, all’interno del conservatorio, in un anno il professore?

ROBERTO ALTIERI – PROFESSORE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA - NA: Tre-quattro volte. Spesso ho incontrato degli allievi che si lamentavano di questo fatto… manca l’assiduità. E questa è una cosa importante.

ANTONELLA CIGNARALE: Ci sono degli studenti che si sono lamentati della sua assenza.

ALFONSO AMATO - PROFESSORE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA - NA: A Napoli?

ANTONELLA CIGNARALE: E sostengono che il tempo che stanzia lei è meno.

ALFONSO AMATO - PROFESSORE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA - NA: No, impossibile.

ANTONELLA CIGNARALE: Un tre mesi sul totale, è possibile?

ALFONSO AMATO - PROFESSORE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA - NA: No, no, no… io ho lasciato sempre una persona a Napoli.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO: La persona che lo sostituisce, quando lui non c’è, è un ex allievo: Claudio Righetti.

ANTONELLA CIGNARALE: Scusi ma, a insegnare a un allievo, non è un docente, invece che un ex allievo?

ELSA EVANGELISTA – DIRETTRICE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA – NA: Noi abbiamo il tirocinio in conservatorio e il tirocinio si svolge proprio in questo modo: facendo le lezioni agli allievi dei primi corsi.

ANTONELLA CIGNARALE: Righetti fa il tirocinio qui al conservatorio con voi?

ELSA EVANGELISTA – DIRETTRICE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA – NA: Eh guardi non lo so, sinceramente non ricordo, non…

ANTONELLA CIGNARALE: Pronto, buongiorno: il signor Claudio Righetti?

AL TELEFONO CLAUDIO RIGHETTI EX ALLIEVO PROFESSOR AMATO: Sì, sono io, mi dica.

ANTONELLA CIGNARALE: Volevo sapere se lei è tirocinante?

Al telefono – CLAUDIO RIGHETTI EX ALLIEVO PROFESSOR AMATO: Se io fossi stato un vero tirocinante sarei dovuto andare due volte la settimana, negli orari diciamo, quelli dell’insegnante; invece io faccio una cosa molto amichevole. È a livello di cortesia personale.

ANTONELLA CIGNARALE: Stando in Cina, ci chiediamo come poteva essere anche a Napoli a insegnare, e quindi le chiedo: cioè perché lei continua a tenersi questo professore?

ELSA EVANGELISTA – DIRETTRICE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA – NA: No, ma perché… Ma il professore non è che me lo tengo io: il professore lo tiene lo Stato, attenzione.

ANTONELLA CIGNARALE: Appunto: prende uno stipendio mensile statale, il professore.

ELSA EVANGELISTA – DIRETTRICE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA – NA: Io solo autorizzo, punto.

ANTONELLA CIGNARALE: Si è mai chiesta se questo ha, diciamo… crea disagio invece all’allievo?

ELSA EVANGELISTA – DIRETTRICE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA – NA: Quando gli allievi hanno dei disagi con i docenti, la prima cosa che fanno: vengono dal direttore. Ad oggi nessun allievo si è mai lamentato del professor Amato.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO: In realtà si lamentano anche gli altri professori.

DOCENTE CONSERVATORIO: E certo che va a discapito degli studenti. L’altro titolare di materia infatti questo dice: “eh noi ad Alfonso gli vogliamo bene e compagnia bella… però queste cose non si possono fare”. Perché poi chiaramente lui, per parare, promuove a tutto spiano.

ALFONSO AMATO - PROFESSORE CONSERVATORIO SAN PIETRO A MAJELLA - NA: Non ho nessun interesse a star qua, voglio dire, non guadagno niente, voglio dire. Faccio più viaggi, mi stanco a destra e sinistra: cioè, lo faccio perché sto con mia moglie praticamente… principalmente sto con mia moglie eccetera… Starei ma centomila volte meglio all’Italia, a Napoli: potrei lavorare molto di più, guadagnare molto di più. E poi sentirmi dire… passa proprio questo, voglio dire, per televisione: che io sto qua e lascio gli alunni là eccetera; mi dà molto molto molto fastidio.

MILENA GABANELLI IN STUDIO: Sono sei anni che fa ‘sta vita, ma la direttrice però potrebbe dirgli: caro Amato, non è che puoi concentrare le ore quando fa comodo a te, e farti sostituire in amicizia; ma perché dovrebbe farlo se nessuno si lamenta? Però, è lei che deve garantire la qualità, non è che dobbiamo portarle le lamentele degli studenti che scrivono a noi. Bene, pubblicità e poi torniamo per un aggiornamento sul giovane Alfano. 

LO STATO DEI CONCORSI. Giovanna Boursier. Per diventare dirigente nella pubblica amministrazione si deve fare un concorso, lo dice la Costituzione. Lo ribadiscono a Report anche il viceministro all’Economia, Enrico Zanetti, e il Presidente dell’Anac Raffaele Cantone. Eppure da anni le agenzie fiscali sono piene di dirigenti “incaricati”, che il concorso non l’hanno mai fatto. A sanare la loro posizione sono stati nel tempo i governi di turno, che hanno lanciato ai dirigenti ciambelle di salvataggio varando leggi e decreti che consentivano di conservare gli incarichi per un periodo limitato. Ma poi questo sistema è diventato la regola, finché la Corte Costituzionale nel 2015 ha sentenziato: queste leggi sono incostituzionali e dunque gli incarichi ai dirigenti sono illegittimi. All’Agenzia delle entrate su 1.100 dirigenti gli incaricati erano 767, e il direttore Rossella Orlandi li ha dovuti retrocedere. Oggi i concorsi son tutti bloccati dai ricorsi ai tribunali amministrativi e adesso anche dalle indagini giudiziarie. All’Agenzia delle Dogane ne avevano indetto uno nel 2013, per 69 dirigenti. Ma poi sono saltate fuori carte truccate: Giovanna Boursier ha intervistato in esclusiva un dirigente che con altri ha truccato una Gazzetta Ufficiale inserendo, al posto delle pagine normali, i temi d’esame. Anche nella Polizia i concorsi non funzionano: per esempio il ministero dell’Interno ne ha indetto uno nel 2014, per 1.400 viceispettori, ma appena dieci giorni fa il capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha dovuto sostituire la vecchia commissione d’esame. Intanto la ministra Madia sta varando la riforma della pubblica amministrazione, ma anche qui il parere del Consiglio di Stato non è del tutto positivo. All’Inps invece Tito Boeri sta provando a riformare la dirigenza, ma a bloccarlo sono gli stessi vecchi dirigenti che vorrebbe tagliare. Tra coloro che lo contrastano di più c’è anche il dg che aveva scelto lui stesso: Massimo Cioffi, che da capo del personale Enel non avrebbe versato quaranta milioni di contributi all’Inps.

Nel primo servizio della puntata si parla dei concorsi per diventare dirigenti nella Pubblica Amministrazione, obbligatori per Costituzione. Eppure da qualche anno le agenzie fiscali risultano piene di persone che non hanno mai fatto un concorso, dirigenti che sono riusciti a tenere il proprio posto approfittando di decreti e leggi ad hoc varate dal governo di turno. La Corte Costituzionale, nel 2015, ha dichiarato incostituzionale questa pratica ed illegittime le posizioni dei dirigenti assunti in quel modo, come i 767 incaricati presenti tra i 1100 dirigenti dell’Agenzia delle Entrate. Non va meglio all’Agenzia delle Dogane, dove un concorso del 2013 è risultato essere pesantemente truccato, o in Polizia, dove il capo dell’Arma, Franco Gabrielli, solo pochi giorni fa è stato costretto a sostituire la vecchia commissione d’esame. E chi vuole effettuare un cambiamento, come Tito Boeri dell’INPS, si ritrova bloccato dalle stesse persone che vorrebbe sostituire, compresa una scelta da lui stesso, quel Massimo Cioffi che da capo del personale Enel non avrebbe versato quasi 40 milioni di contributi all’istituto previdenziale.

Ne La candidata si tornerà a parlare di concorsi, in particolare di una selezione dell’Agenzia di tutela della salute di Pavia per un posto di coadiutore amministrativo di supporto nel settore della sanità animale presso il dipartimento di Prevenzione Veterinaria. Una commissione di esperti, scelti all’interno della stessa agenzia, è stata nominata per stabilire le prove che i 64 iscritti hanno dovuto sostenere. Una sola persona è risultata idonea ma Anna Pavan, direttore generale dell’agenzia, ha impugnato i risultati e annullato la procedura in “tutela dell’interesse pubblico” ritenendo le domande troppo complesse rispetto a quanto stabilito dal bando. Probabilmente l’interesse pubblico non prevede che la sola persona meritevole del posto, poichè l’unica capace di superare il concorso, debba essere assunta.

Report è una trasmissione di inchieste giornalistiche improntata sullo schema del rotocalco televisivo. La conduttrice, Milena Gabanelli, è anche ideatrice del programma, che dal 1994 al 1996 andò in onda su Rai 2 sotto il nome di Professione Reporter, prima di assumere la denominazione attuale e spostarsi su Rai 3, dove risulta in onda ininterrottamente dal 1997, spostandosi inoltre nella fascia oraria di prima serata dal 2003. Nel corso del 2016 Report è stato insignito del Premio TV 2016 come miglior programma dell’anno.

“LO STATO DEI CONCORSI” di Giovanna Boursier e Giorgio Mottola collaborazione Carla Rumor

MILENA GABANELLI IN STUDIO: I concorsi sono obbligatori, lo dice la Costituzione. Però li puoi organizzare in modo da reclutare i migliori, i mediocri, oppure quelli che vuoi tu. E il risultato è un po’ perverso. E stiamo parlando dei pilastri. Allora, Agenzia delle Entrate: bene, 767 dirigenti incaricati retrocessi perché il concorso non lo hanno fatto, perché? Agenzia delle Dogane e Monopoli: concorso per dirigenti bloccato. Quindi Equitalia: la grande riforma, vediamo con condono, vedremo per chi. Ma soprattutto, dove si va a innestare la mela marcia – il premier l’ha poi in sostanza definita così – con dentro 8000 fra dipendenti e dirigenti? Quindi Inps: dove di dirigenti cominciano ad essercene un po’ troppi, il presidente Boeri sta cominciando a tagliare qualche poltrona e adesso il problema sembra essere diventato lui. Per cominciare, Polizia di Stato. Poliziotto lo diventi per concorso, la carriera interna la fai per concorso, e qui i concorsi si fanno. E allora perché i poliziotti per strada sono così pochi e sempre più in là con gli anni? La nostra Giovanna Boursier e Giorgio Mottola.

POLIZIOTTO 1: Mancano ad oggi 45mila unità in tutta Italia, lei consideri che quando sono entrato io in Polizia nel 1989 entravano circa quattromila giovani agenti 18enni l’anno.

POLIZIOTTO 2: Non essendoci soldi non si assume, si lavora in economia. Quindi si ritardano i pensionamenti…

POLIZIOTTO 1: Tant’è che la media di età oggi in polizia è 47 anni.

MATTEO RENZI DA POLITICS 11 OTTOBRE 2016: Bisogna evitare che si continui ad assumere negli uffici delle burocrazie romane, quindi per quattro che vanno in pensione ne entra uno nuovo, ok? Però su due categorie, forze dell’ordine e personale medico, concorsi sacrosanti, concorsi dove non ci sono gli amici degli amici.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Il Ministero dell’Interno di concorso ne ha indetto uno a gennaio scorso, per 559 agenti. Alle prove a quiz si presentano in 13.000. Ma subito dopo partono i ricorsi: un candidato avrebbe ricevuto prima i quiz su whatsapp e gran parte degli idonei viene dalla Campania. Il sospetto cade sulle ditte esterne che organizzano i concorsi.

GIOVANNA BOURSIER: Perché non va bene?

GIANNI TONELLI – SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO DI POLIZIA: Perché chiaramente vi sono forti interessi da parte della criminalità organizzata o di associazione criminose comunque di mettere dentro persone.

GIOVANNA BOURSIER: Lei sta un po’ dicendo che attraverso il concorso infiltri…

GIANNI TONELLI – SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO DI POLIZIA: Questo rischio c’è, il rischio c’è, soprattutto se lo affidiamo a ditte esterne.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Il Ministero, con gara, ha affidato la preparazione dei quiz alla Seletek di Bari.

FRANCESCO ANGIOLA – AMMINISTRATORE DELEGATO SELETEK S.R.L.: Noi abbiamo scritto i quiz, però sicuramente sono stati elaborati, miscelati, sono stati creati dei questionari.

GIOVANNA BOURSIER: Quindi lei sta dicendo, non siamo stati noi a scegliere le domande che poi sono andate all’esame?

FRANCESCO ANGIOLA – AMMINISTRATORE DELEGATO SELETEK S.R.L.: No no, non ci competeva.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Quindi è il Dipartimento Pubblica Sicurezza del Ministero, che ha fatto i questionari per il concorso. Intanto viene coinvolta l’Anac e adesso il concorso è sospeso, e sta indagando la Procura.

RAFFAELE CANTONE – PRESIDENTE AUTORITÀ NAZIONALE ANTICORRUZIONE: Devo dire non è una bella notizia per i tanti ragazzi che hanno partecipato.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Il capo della polizia, Franco Gabrielli, sta verificando sia questo concorso, che un altro del 2014, per 1.400 vice-ispettori, anche se ne mancano 12.000. Si erano candidati in 20mila, ma superano la prova di diritto penale 2.000 idonei.

GIORGIO INNOCENZI – SEGRETARIO CONFEDERAZIONE AUTONOMA DI POLIZIA: Sono state scartate persone con più lauree, sono state scartate persone che hanno superato il concorso di avvocato, quindi voglio dire gente preparata che non è giusto che rimanga fuori.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Partono 600 accessi agli atti e ricorsi. Sono passati temi pieni di errori grammaticali. Alcuni sarebbero copiati dai manuali e altri, siccome le consegne sono anonime, sembrano contenere messaggi alla Commissione per farsi riconoscere. Ma soprattutto ci sono errori gravi di competenza giuridica.

EUGENIO PINI - AVVOCATO: Ecco questo è significativo perché: “un pubblico ufficiale – quindi parliamo di un poliziotto, io leggo - non è autorizzato a sparare all’impazzata, alla macchina che non si ferma all’Alt senza motivo, ci devono essere i presupposti”.

GIOVANNA BOURSIER: Se uno fa passare quel tema si assume la responsabilità di mandare un poliziotto a un Alt che spara all’impazzata?

EUGENIO PINI - AVVOCATO: Questo è quello che ha scritto.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Siccome la metà degli idonei ottiene lo stesso voto, cioè 35 che è la sufficienza, quelli che sono rimasti fuori hanno chiesto il parere di un esperto di statistica.

ALESSANDRO POLLI – UNIVERSITÀ SAPIENZA DI ROMA: Ci sono delle chiare anomalie. C’è un picco in corrispondenza del 37, c’è un vuoto fra 29 e 34. Quindi non utilizzando l’intera gamma di voti tra 0 e 50 a disposizione.

GIOVANNA BOURSIER: Magari quei poliziotti che volevano diventare vice ispettori erano tutti più o meno preparati e prendono una risicata sufficienza.

ALESSANDRO POLLI – UNIVERSITÀ SAPIENZA DI ROMA: Tutti con 35?

GIOVANNA BOURSIER: Vuol dire che sono stati corretti male?

ALESSANDRO POLLI – UNIVERSITÀ SAPIENZA DI ROMA: Io ovviamente non conosco i criteri di valutazione della Commissione, però da un punto di vista matematico, l’anomalia c’è.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Per riesaminare i temi di chi ha fatto ricorso, dieci giorni fa, il capo della Polizia, Gabrielli, ha mandato a casa la vecchia Commissione e ne ha nominata una nuova.

GIOVANNA BOURSIER: Quindi la vecchia Commissione non andava bene?

GIANNI TONELLI - SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO DI POLIZIA: Per me ha falcidiato completamente dei compiti, per un motivo: per non avere gli idonei non ammessi. Questo è il problema, mancano 12mila ispettori, come fai a non prendermi, a non farmi accedere al grado da vice ispettore se sono un idoneo nel momento in cui ne mancano 12mila?

GIOVANNA BOURSIER: Perché ne devono prendere da esterni?

GIANNI TONELLI - SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO DI POLIZIA: Perché in questo caso ne han voluti prendere 320 dall’esterno perché sotto il profilo del consenso elettorale c’era una ricaduta maggiore. Però non si gestisce così.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: I 320 sono i nuovi posti messi a concorso, aperto a tutti, e si son candidati in 120mila. Selezionati per la prova scritta del 12 ottobre scorso, 3.200.

MILENA GABANELLI IN STUDIO: Allora, i concorsi sono di due tipi. Quelli aperti a tutti per reclutare giovani agenti: bloccato perché i migliori sono risultati essere tutti campani. Poi invece c’è quello per fare la carriera interna, gli aspiranti sono gli agenti che da 15-20 anni corrono sulle volanti: ricorso perché le commissioni hanno fatto passare temi scarsi, e scartato chi aveva titoli. Quindi nuova commissione, che dovrà rivedere questi temi, intanto il tempo passa, poi dovranno fare delle nuove prove, c’è bisogno degli ispettori e quindi si fa a ottobre un nuovo concorso, però aperto a tutti, anche a chi non ha mai fatto un’indagine in vita sua: che senso ha? Ministro Alfano: qui se vuole correggere il tiro, è tutta materia sua. Quindi passiamo adesso all’Agenzia delle Dogane e Monopoli, che incassano per conto dello Stato le tasse… le accise su benzina, gasolio, giochi, alcolici, tabacchi, tasse di import export. Bene, sono 11.400 e anche qui si accede e procede attraverso il concorso. Però il direttore generale – questo vale per tutta la Pubblica Amministrazione – può a sua discrezione nominare sul campo un funzionario di sua fiducia, o per necessità, ma questo deve essere… deve avere un tempo però – la durata dell’incarico – limitata: poi devi fare il tuo esame, altrimenti ritorni al piano di sotto.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Un concorso all’Agenzia delle Dogane lo fanno a luglio 2013. Si presentano in 2400, ma non sanno che è fatto apposta per sanare la posizione di 69 funzionari “incaricati” dirigenti. Tra i testi in consultazione c’è la Gazzetta Ufficiale e il Regolamento europeo, ma alcuni di loro hanno in mano le copie truccate.

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Questa è una parte della Gazzetta Ufficiale che è stata opportunamente modificata nei contenuti per poter inserire la traccia del tema che poi effettivamente è stata estratta. Si parla del procedimento disciplinare…

GIOVANNA BOURSIER: Cioè questo è un documento ufficiale falsificato?

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Falsificata.

GIOVANNA BOURSIER: E c’è scritto quello che uno doveva scrivere nel tema?

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Esattamente.

GIOVANNA BOURSIER: E lei aveva questo documento?

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Sì, avevo questo documento, ma avevo anche un altro documento, che è questo, un documento europeo, all’interno del quale sono state sostituite delle pagine con dei temi svolti.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO È andata così: dentro alla Gazzetta Ufficiale e al Regolamento europeo sono stati inseriti i temi d’esame al posto delle pagine normali.

GIOVANNA BOURSIER: Chi erano le persone da fare entrare?

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Posso immaginare che siano quasi tutti quelli che nel frattempo avevano avuto incarichi dirigenziali che dovevano essere sanati in qualche modo.

GIOVANNA BOURSIER: Che erano entrati per chiamata a incarico…

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Avevano avuto l’incarico da dirigente senza concorso, come me. Tramite raccomandazione, amicizie.

GIOVANNA BOURSIER: Lei era uno di questi?

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Io sono uno di quelli che avrebbe dovuto essere agevolato, in via amichevole però, non so se dai vertici, non credo, perché io con i vertici ho dei grossi contenziosi quindi non credo che avrebbero agevolato me, però diciamo che questo amico aveva pensato di agevolarmi.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: L’amico è un altro dirigente incaricato, iscritto al concorso, che intanto gli chiede aiuto per falsificare la Gazzetta Ufficiale.

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Anche io ho partecipato a elaborarla, perché io ricevevo dei temi svolti, però dovevo formattarli nella modalità che poi era adeguata a inserirla nel format grafico della Gazzetta. E poi lui avrebbe provveduto ad assemblare tutto in questa Gazzetta.

GIOVANNA BOURSIER: Anche nel Regolamento europeo fate lo stesso?

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Anche nel Regolamento europeo abbiamo fatto la stessa cosa.

GIOVANNA BOURSIER: E chi era questo amico?

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Il mio amico è Paolo Raimondi che è il segretario particolare del direttore generale.

GIOVANNA BOURSIER: Cioè Giuseppe Peleggi.

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Giuseppe Peleggi è il direttore generale.

GIOVANNA BOURSIER: E Peleggi era consapevole di questo?

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Non lo posso sapere, bisogna chiederlo a Paolo Raimondi.

AL TELEFONO PAOLO RAIMONDI – AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Pronto?

GIOVANNA BOURSIER: Paolo Raimondi? Sono Giovanna Boursier di Report, Rai3.

PAOLO RAIMONDI – AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Eh guardi adesso sono impegnato. Ma verifichi un po’ di cose guardi, adesso sono impegnato.

GIOVANNA BOURSIER: No, senta dottor. Raimondi aspetti un attimo, mi dice delle cose. E poi cosa succede?

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Per me il concorso va male perché non riesco a finire il compito, perché nel frattempo parlo con un collega e mi fanno il verbale per l’espulsione.

GIOVANNA BOURSIER: Per l’espulsione dal concorso?

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Per l’espulsione dal concorso.

GIOVANNA BOURSIER: E come la interpreta lei questa storia?

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Io la interpreto, a mio modo di vedere, come una ritorsione.

GIOVANNA BOURSIER: Convinti che lei mai avrebbe parlato perché aveva partecipato alla costruzione di questo meccanismo fraudolento.

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Sì.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Appena espulso va a fare denuncia in Procura. Ma già prima del concorso aveva contestato il meccanismo degli incarichi al responsabile anticorruzione interno.

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Ed è il dott. Corrado Caruso, che all’epoca era già dirigente dell’ufficio ispettivo e lui condivideva che la gestione degli incarichi dirigenziali, era portata avanti da persone che lui ha definito “mafiose e delinquenti”. Quindi lui si riferiva chiaramente al direttore generale Giuseppe Peleggi e al direttore del personale Alessandro Aronica. Lui li ha definiti delinquenti.

AL TELEFONO GIUSEPPE PELEGGI – DG AGENZIA DELLE DOGANE E MONOPOLI: Pronto?

GIOVANNA BOURSIER: Dottor Peleggi, buongiorno.

AL TELEFONO GIUSEPPE PELEGGI – DG AGENZIA DELLE DOGANE E MONOPOLI: Buongiorno.

GIOVANNA BOURSIER: Sono Giovanna Boursier di Report, Rai 3.

GIUSEPPE PELEGGI – DG AGENZIA DELLE DOGANE E MONOPOLI: Scusi sono all’altro telefono.

GIOVANNA BOURSIER: Ma come mai nessuno è libero per parlare con me? Posso richiamarla?

GIUSEPPE PELEGGI – DG AGENZIA DELLE DOGANE E MONOPOLI Non lo so, ci penserò. Arrivederci.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Giuseppe Peleggi è direttore dal 2008, confermato nel 2012 quando le Dogane incorporano i Monopoli. Oggi è un’unica agenzia. Riscuote ogni anno circa 50 miliardi.

GIOVANNA BOURSIER: Se lei avesse passato il concorso oggi la penserebbe in un altro modo?

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Sui concorsi no, io ho sempre saputo che sono tutti quanti truccati. Oggi sarei più felice, probabilmente.

GIOVANNA BOURSIER: E non sarebbe andato da nessun magistrato?

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: E non sarei andato da nessun magistrato, probabilmente no.

GIOVANNA BOURSIER: Quindi siccome lei ha partecipato alla stesura di questi documenti ovviamente verrà, come dire, indagato.

LUCIO PASCALE – FUNZIONARIO AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Sono stato destinatario di un avviso di garanzia.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Il 21 settembre la procura di Roma manda i carabinieri a perquisire l’Agenzia. Indagati anche l’amico Paolo Raimondi, e altri cinque partecipanti al concorso: Edoardo Mazzilli, capo dell’antifrode, Ernesto Carbone, Francesco Natale e Marco Falconieri. Intanto dal magistrato ci è andata anche un’altra funzionaria, che non ha passato il concorso.

GIOVANNA BOURSIER: Lei sapeva che c’era una Gazzetta Ufficiale camuffata, del concorso?

CLAUDIA GIACHETTI – DIRPUBBLICA - FUNZIONARIA AGENZIA DELLE DOGANE E MONOPOLI: No io ho letto appreso dell’esistenza di questa Gazzetta Ufficiale dalle notizie che sono uscite poi il 21 di settembre.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Subito dopo il concorso fa ricorso al Tar che sentenzia: “Ricorreggete tutti temi con una nuova Commissione”. Un anno dopo il Consiglio di Stato ribalta la sentenza: “Ricorreggete solo gli insufficienti e con la stessa Commissione”. GIOVANNA BOURSIER Venivano corretti troppo velocemente?

CLAUDIA GIACHETTI – DIRPUBBLICA - FUNZIONARIA AGENZIA DELLE DOGANE E MONOPOLI: In un giorno solo ne sono stati corretti oltre un centinaio.

GIOVANNA BOURSIER: Come se uno non li avesse neanche guardati?

CLAUDIA GIACHETTI – DIRPUBBLICA - FUNZIONARIA AGENZIA DELLE DOGANE E MONOPOLI: Come se fosse già stabilito che alcuni dovevano passare ed altri no.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: I temi camuffati dentro Gazzetta e Regolamento europeo sembrano copiati dalle dispense di un corso tenuto qualche mese prima da Alberto Libeccio, dirigente dell’Agenzia, e anche membro della Commissione d’esame. Che adesso è tra gli indagati.

AL TELEFONO ALBERTO LIBECCIO – AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Non ho fatto nessun corso, io non ho il potere di organizzare corsi.

GIOVANNA BOURSIER: Ma è lei che ha corretto i compiti? Ed è vero che li avete corretti in 4/5 minuti ognuno?

ALBERTO LIBECCIO – AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Ma queste sono sciocchezze, guardi.

GIOVANNA BOURSIER: Lei lo sapeva che c’erano le Gazzette Ufficiali camuffate?

ALBERTO LIBECCIO – AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Vabbè lasciamo perdere, non voglio neanche commentarlo.

GIOVANNA BOURSIER: Ma vuole dire che non è vero che c’erano?

ALBERTO LIBECCIO – AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Non erano ammesse in aula!

GIOVANNA BOURSIER: E neanche il Regolamento europeo era ammesso in aula?

ALBERTO LIBECCIO – AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI: Quattro testi, c’è un avviso pubblico. Guardi basta, per cortesia basta.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Che sono ammessi, c’è scritto nel regolamento. Alla fine tra i vincitori ci sono proprio quelli previsti.

GIOVANNA BOURSIER: Che cosa fa lei dentro l’Agenzia delle Dogane?

CLAUDIA GIACHETTI – DIRPUBBLICA - FUNZIONARIA AGENZIA DELE DOGANE E MONOPOLI: Mi sono occupata per diversi anni di contenzioso.

GIOVANNA BOURSIER: Che vuol dire se qualcuno mi fa una cartella sbagliata io faccio ricorso e a un certo punto arrivano a lei le carte?

CLAUDIA GIACHETTI – DIRPUBBLICA - FUNZIONARIA AGENZIA DELLE DOGANE E MONOPOLI: Sì, assolutamente.

GIOVANNA BOURSIER: Però può capitare che invece il cittadino, il contribuente abbia ragione?

CLAUDIA GIACHETTI – DIRPUBBLICA - FUNZIONARIA AGENZIA DELLE DOGANE E MONOPOLI: Si creano delle sproporzioni ai danni dei cittadini, cartelle esattoriali per un contribuente che aveva mancato di versare pochi centesimi di euro, sanzionandolo con una cartella esattoriale da 30.000.

GIOVANNA BOURSIER: Vuol dire che uno va a riscuotere al piccolo e magari non a quello…

CLAUDIA GIACHETTI – DIRPUBBLICA - FUNZIONARIA AGENZIA DELLE DOGANE E MONOPOLI: Diciamo che i piccoli contribuenti, sono sempre quelli che subiscono, al posto degli evasori, dei grossi evasori fiscali che rimangono assolutamente dimenticati.

GIOVANNA BOURSIER: Detta così mi viene da pensare che è per questo che alcuni devono passare per forza perché saranno quelli che permettono questo meccanismo?

CLAUDIA GIACHETTI – DIRPUBBLICA - FUNZIONARIA AGENZIA DELLE DOGANE E MONOPOLI: Assolutamente sì.

GIOVANNA BOURSIER: Cioè sta parlando di persone fedeli che non dicevano questa cartella non va bene?

CLAUDIA GIACHETTI – DIRPUBBLICA - FUNZIONARIA AGENZIA DELLE DOGANE E MONOPOLI: Tutto questo serve a creare una classe dirigente fedele, anche a discapito delle regole e delle norme e quindi del cittadino.

GIOVANNA BOURSIER: Che vuol dire che, come dire, non è detto che la riscossione sia fatta bene.

CLAUDIA GIACHETTI – DIRPUBBLICA - FUNZIONARIA AGENZIA DELLE DOGANE E MONOPOLI: Assolutamente.

MILENA GABANELLI IN STUDIO: Sulla riscossione si fonda lo stato di salute di un Paese: perché con i soldi delle tasse si pagano le scuole, la sanità, i trasporti, le strade, gli uffici pubblici, le politiche sociali, i comuni. Però su chi fa la riscossione si scatenano migliaia di interessi privati e potenti. Allora, i criteri li dà il direttore generale, che è nominato dal governo di turno, ma i dirigenti però devono passare da una selezione neutra: perché loro restano anche quando il capo cambia, e rappresentano l’architrave di un sistema che deve essere indipendente dalla politica. Questo è lo spirito della legge, straordinario. La realtà però poi è un’altra cosa, e rischia di diventare ingovernabile, perché si intorcigliano le complicità con le norme, e le interpretazioni di Tar e Consiglio di Stato. Allora, Agenzia delle Entrate: i dirigenti incaricati sono… erano 767, l’anno scorso la Corte Costituzionale li ha dichiarati illegittimi. Domanda: come è successo, e come pensa la Orlandi di uscire da una storia in cui si è trovata suo malgrado? Perché poi la riscossione bisogna continuare a farla.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: L’Agenzia delle Entrate nasce nel 2001 e ha 39mila dipendenti. Il primo concorso lo fa subito, 300 posti; nel 2010, per 175 posti e nel 2014, 403. Ma il sindacato li impugna tutti, il Tar li annulla, poi si aspetta il Consiglio di Stato e non cominciano neanche le prove.

GIOVANNA BOURSIER: Non ce n’è uno che va bene?

GIANFRANCO BARRA- SEGRETARIO GENERALE DIRPUBBLICA: No, infatti li abbiamo impugnati tutti.

GIOVANNA BOURSIER: Per esempio questo qui all’Agenzia delle Entrate per 175 posti. Perché non andava bene?

GIANFRANCO BARRA- SEGRETARIO GENERALE DIRPUBBLICA: Perché ne prevedeva dei punteggi esorbitanti per gli incaricati. Successivamente…

GIOVANNA BOURSIER: Cioè il Tar ha detto, è vero non va bene che quello che è già incaricato abbia un punteggio pari a 10 e quell’altro che vuole fare un concorso abbia 1?

GIANFRANCO BARRA- SEGRETARIO GENERALE DIRPUBBLICA: Esattamente.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Per questo nel 2011 il Tar annulla il concorso. Ma nel 2015 il Consiglio di Stato dice: “Andate avanti però eliminate i titoli per i dirigenti incaricati”. L’Agenzia lo riavvia, e subito dopo lo stesso Consiglio di Stato ci ripensa: “Togliere quei titoli, danneggia gravemente gli incaricati, sospendete”.

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: Cambia idea e rinvia al merito. Il merito ci sarà il 13 dicembre, attendiamo.

GIOVANNA BOURSIER: Io mi chiedo questi concorsi sono fatti per stabilizzare chi uno ha dentro?

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: No, no.

GIOVANNA BOURSIER: Ma allora perché valutate la carriera fatta internamente senza concorso come titolo? Perché se quello è il titolo da conquistare, glielo riconoscete prima?

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: No scusi dottoressa, posto che noi li abbiamo tolti, quello è un incarico di valorizzazione di esperienza, perché ogni amministrazione normalmente tende a volere avere le migliori specializzazioni e professionalità.

GIOVANNA BOURSIER: E allora il problema diventa quello di stabilizzarli no, come…?

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: Guardi io non ho mai chiesto di stabilizzare.

GIOVANNA BOURSIER: Cioè lei vuole tenersi i suoi.

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: Io voglio selezionare non i miei, i migliori che ci siano nell'Agenzia delle Entrate.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Il concorso intanto è fermo da sei anni, mentre per effetto della decisione della Corte Costituzionale su 1.100 dirigenti, 767 incaricati devono essere retrocessi a funzionari.

EMILIA RANDACCIO – EX INTENDENTE FINANZA AGENZIA DELLE ENTRATE: Non hanno fatto neanche il concorso interno questi 700, sono stati per chiamata diretta, cooptati dalla politica e collocati in quel posto, per amicizie e per altre cose. Non certamente per capacità o per competenza. Erano dei semplici impiegati che sono diventati dirigenti per grazia ricevuta.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Marzo 2015: per l’Agenzia delle Entrate è il caos.

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: Noi avevamo un problema immediato, io ho uffici scoperti, cioè io non posso lasciare una struttura con 150 colleghi, 200 dentro, aperta al pubblico senza nessuno e quindi chiedevo di avere un mezzo che mi consentisse, che poi è arrivato, di traghettare questo problema.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Il mezzo per traghettare il problema è un decreto di giugno 2015 che trova la via di mezzo fra il funzionario e il dirigente e la chiama posizione organizzativa temporanea, POT.

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: E non sono gli stessi. In parte non sono gli stessi, abbiamo rifatto una selezione per nominare questi incaricati temporanei, che non sono incaricati sono reggenti, quindi non esercitano pienamente la funzione dirigenziale. E sono 403 in questo momento.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Stesso stipendio di un incaricato, comunque. E ha un tempo: entro il 31 dicembre 2016 il concorso deve essere fatto. Possono anche annullare i vecchi per farne uno nuovo.

GIOVANNA BOURSIER: E non potevate fare come ha detto il governo: annullate tutti i concorsi che sono in ballo, fatene uno nuovo, fatelo entro il 31 dicembre?

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: Allora il parere dell’Avvocatura di Stato ha detto che quella norma, usa un termine, “può”, che vuol dire potere discrezionale. L’atto discrezionale è impugnabile…

GIOVANNA BOURSIER: Cioè lei dice: non ho neanche cominciato a farlo perché tanto veniva fuori un altro ricorso?

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: Allora a questo punto dobbiamo attendere necessariamente la sentenza che ci sarà dopo il 13 dicembre. Adesso, se ne avremo una, lo faremo immediatamente.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Riassumendo: se la sentenza definitiva arriva il 13 dicembre, come si fa a fare il concorso entro il 31 dicembre come impone il decreto?

ENRICO ZANETTI – VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE: Noi avevamo dato la possibilità. Perché ricordiamoci che l’Agenzia delle Entrate è un ente giustamente autonomo sul quale il governo esercita un potere di indirizzo, come è ovvio. Poi si tirano le somme. GIOVANNA BOURSIER Si tirano le somme vuol dire cosa?

ENRICO ZANETTI – VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE: Si tirano le somme, mi sembra che in questo momento siamo tornati al punto di partenza. È stato a mio avviso sprecato un anno.

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: Un concorso si fa con un compito scritto, normalmente. Il rischio qual è? Che, quando lei valorizza solo lo svolgimento di un tema, quella persona sia molto brava a scrivere quel tema, ma non sia brava a dirigere, come dice un mio amico, il porto di Gela, oppure non sia brava a fare la verifica alla multinazionale.

GIOVANNA BOURSIER: Cioè lei dice il concorso va fatto in modo diverso?

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: Va fatto in un modo diverso.

GIOVANNA BOURSIER: Quindi valutando i titoli?

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: Valutando le esperienze non i titoli. Che vuol dire valutare con una serie di esami specifici, esami, e sottolineo la parola specifici, che evidenzino le competenze.

GIOVANNA BOURSIER: Uno dice bisogna fare un concorso dove magari entra uno che non ha nessuna esperienza e che non serve. Cioè, o si aboliscono i concorsi, cioè come si fa?

ENRICO ZANETTI – VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE: Non è mica che il direttore di un istituzione pubblica è proprietario e si nomina i suoi dirigenti di fiducia. Allora ti costruisci una bella azienda nel privato e vai là. Nel pubblico si fanno i concorsi per i ruoli dirigenziali. Quando uno è bravo, se è messo finalmente nella condizione di poterlo fare il concorso, mi aspetto che lo passi altrimenti proprio bravissimo evidentemente non è.

GIOVANNA BOURSIER: Lei dice: “Andavano fatti i concorsi, i concorsi van fatti, si facciano!”.

ENRICO ZANETTI – VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE: Vede, io mi metto anche nei panni, perché come al solito non si considera, anche di alcune decine di migliaia di funzionari dell’Agenzia delle Entrate che sono 15 anni che aspettano uno straccio di occasione per poter competere per la loro carriera, in modo trasparente. GIOVANNA BOURSIER Ma secondo lei è giusto fare i concorsi che poi non si riescono a fare?

RAFFAELE CANTONE - PRESIDENTE AUTORITÀ NAZIONALE ANTICORRUZIONE: Assolutamente sì. Io se sono un magistrato è perché ho vinto un concorso.

GIOVANNA BOURSIER: Però per esempio alcune agenzie fiscali dicono: ma nel frattempo negli anni è entrata un sacco di gente competente e adesso che cosa dobbiamo fare, fargli fare un concorso?

RAFFAELE CANTONE - PRESIDENTE AUTORITÀ NAZIONALE ANTICORRUZIONE: Sì, bisogna fare i concorsi, perché i concorsi rappresentano un sistema di garanzia.

GIOVANNA BOURSIER: E magari entra uno che non sa neanche nemmeno da dove si comincia a fare una verifica, mentre loro ce l’hanno già dentro.

RAFFAELE CANTONE - PRESIDENTE AUTORITÀ NAZIONALE ANTICORRUZIONE: Sì, ho capito, ma questo, però, è un sistema che garantisce una valutazione assolutamente discrezionale e la valutazione discrezionale non può valere quando si gestisce l’attività pubblica.

MILENA GABANELLI IN STUDIO: Quello che poi noi vorremmo è che le cose funzionassero. Allora, ha ragione Cantone, ha ragione Zanetti, però poi è la Orlandi che deve far funzionare la macchina, ed ha bisogno di persone di estrema competenza se vuole portare a casa il risultato quando vanno a fare le verifiche alla Apple di turno e si trova come controparte i migliori e superpagati tributaristi. E queste persone dentro l’Agenzia delle Entrate ci sono, e devono fare carriera giustamente per concorso: perché non fare dei duri concorsi… e trasparenti concorsi interni, anziché misurarsi con tutti, e con tutti quelli che magari sanno a memoria le leggi e leggine ma esperienza zero? L’obiettivo è reclutare il migliori? Bene, però oggi il risultato è veramente perverso. Allora: blocchi perché c’è il trucco, bypassi il blocco con gli incaricati, o perché ne hai bisogno, però poi questi incaricati devono essere regolarizzati altrimenti sono illegittimi; se gli riconosci un punteggio di competenza partono i ricorsi perché bisogna essere tutti pari, se sei tutti pari c’è il rischio che quello bravo te lo perdi, perché poi i concorsi sono generici e organizzati da società esterne che sembrano essere le uniche a trarre vantaggio da tutto questo giro di corsi e ricorsi. Qualcosa bisognerà pur cambiare. Perché funziona così alle Entrate, alle Dogane, ai Vigili del fuoco, alla Polizia penitenziaria, ai Carabinieri, alla Polizia di Stato, Ministero delle Finanze: insomma, a tutta la pubblica amministrazione. Bene, e adesso la Orlandi si troverà anche a convivere da separata in casa con l’ente più odiato e problematico: Equitalia. Ma questo lo… E tuttavia un ente che ha la sua utilità. Lo vedremo dopo la pubblicità: Equitalia.

MILENA GABANELLI IN STUDIO: E siamo alla riforma dell’anno. Equitalia, che fa recupero crediti: il grosso è multe e tasse non pagate, e contributi INPS. Strangola un po’, però adesso siamo in un momento di tregua: vediamo per chi. Allora, Equitalia intanto è una società per azioni posseduta da Agenzia delle Entrate e Inps, quindi il concorso non è obbligatorio per gli 8000 dipendenti e dirigenti, entrati però – dice la legge – attraverso una selezione che si basi su criteri di trasparenza, pubblicità e imparzialità. La selezione avviene attraverso società private. Bene, prima di vedere come funziona la rottamazione e a chi conviene, vediamo come funziona la selezione.

TESTIMONE: Vai là, ti mettono a proprio agio, e ti fanno una serie di domande sul tuo… sul tuo profilo… innanzitutto bagaglio culturale, quali sono le tue esperienze professionali… e dove, in quale società, appunto, hai lavorato.

GIORGIO MOTTOLA: Cioè nessuno ha riscontrato le sue competenze pratiche?

TESTIMONE: Assolutamente no, perché noi abbiamo parlato, ma io potevo dire che avevo anche lavorato alla Nasa; quindi non c’era niente di riscontrabile su questo colloquio.

GIORGIO MOTTOLA: Cioè, lei non è stato nemmeno sottoposto a una prova pratica...

TESTIMONE: No, assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA: Vengono rispettati criteri oggettivi nel momento in cui una selezione preveda dei colloqui sulle esperienze professionali del passato e su domande generiche?

DAVIDE TOMMASIELLO – DIRETTORE GENERALE SELEXI (SOCIETÀ SELEZIONATRICE): No, nel senso che il colloquio per antonomasia è una prova orale valutata da un soggetto chiamato a farlo. Dal punto di vista squisitamente tecnico io non la definirei come una valutazione oggettiva.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: Da anni a gestire le procedure di assunzione per conto di Equitalia è una delle più grandi aziende di selezione del personale: la Praxi. La stessa società che ha gestito il maxiconcorso del Comune di Roma per scegliere oltre duemila nuovi dipendenti.

DAL TG1 DEL 16 NOVEMBRE 2013: Finisce nel caos il concorsone romano: ci sono sospetti di irregolarità. E il sindaco chiede accertamenti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: Secondo le accuse della giunta Marino, le buste dei nomi dei candidati erano trasparenti. Messe vicino a una fonte di luce, ci si poteva leggere dentro. Perciò i risultati del concorso vennero temporaneamente bloccati. Il responsabile del maxi-concorso romano per conto di Praxi era Sergio Rossi. Cosa faceva prima di diventare un selezionatore?

GIORGIO MOTTOLA: Da curriculum era “responsabile della sperimentazione di nuovi sistemi di armi per le forze armate italiane, venezuelane e irachene”. Ha conosciuto Saddam Hussein?

SERGIO ROSSI – EX DIRIGENTE PRAXI No, no. GIORGIO MOTTOLA: E come è passato dalla sperimentazione di nuove armi alla selezione?

SERGIO ROSSI - EX DIRIGENTE PRAXI: Mi sono reinventato, insomma… mi sono dedicato a un’altra attività.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: Due anni dopo il concorsone, Rossi esce da Praxi e trasloca a Merito Srl. Che poche settimane fa ha vinto una gara pubblica da due milioni e mezzo di euro, indetta da Agenzia delle Entrate. Requisito del bando: aver già organizzato selezioni con più di 50mila candidati. Sembra ritagliato su misura sulla Merito Srl, che infatti è la sola a partecipare al bando e dunque organizzerà il prossimo concorso per le assunzioni dentro Agenzia delle Entrate.

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: Il concorso viene gestito da una commissione nominata.

GIOVANNA BOURSIER: Eh ma… no, perché a me risulta che ci sono delle aziende esterne, tipo la Merito Srl…

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: Non potrei mai farlo. Non è per legge…

GIOVANNA BOURSIER: Non è per legge? Cioè lei non può affidare a un’azienda esterna…

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: No, no. Posso solo nominarli, io… insomma, nominare una commissione…

GIOVANNA BOURSIER: E questa commissione non è parte di una società?

ROSSELLA ORLANDI – DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE: No, sono tutti alti dirigenti dello Stato. È previsto per legge.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: Dal bando di Agenzia delle Entrate emerge che Merito Srl si occuperà anche di preparare le domande per la prova attitudinale e quella tecnico-professionale dei futuri candidati. Chissà invece chi si aggiudicherà l’appalto per la riselezione degli 8000 dipendenti di Equitalia dal momento che…

MATTEO RENZI - IN MEZZ’ORA DEL 23/10/2016: Ed Equitalia non c’è più… Cucù: Equitalia non c’è più dal primo luglio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: A partire dal luglio del 2017, Equitalia passerà sotto il controllo dell’Agenzia delle Entrate. Il problema è che gli 8000 dipendenti sono inquadrati come bancari, mentre quelli dell’Agenzia hanno un contratto di natura pubblica.

GIORGIO MOTTOLA: E chi è che ha il contratto più vantaggioso?

ANNA LANDONI – SEGRETERIA FABI EQUITALIA: Il contratto più vantaggioso, sia dal punto di vista normativo che dal punto di vista economico, è il contratto attualmente in uso per il gruppo Equitalia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: E sarà quello che manterranno, perché il nuovo ente pubblico di riscossione non rientrerà nel perimetro della Pubblica Amministrazione.

ENRICO ZANETTI – VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE: Laddove invece fossimo entrati in un perimetro di Pubblica Amministrazione, chiaramente la configurazione avrebbe dovuto essere diversa e chiaramente si sarebbe dovuti procedere a veri e propri concorsi pubblici e non al trasferimento dei contratti di lavoro.

GIORGIO MOTTOLA: Quindi diciamo è un escamotage, una scappatoia che avete trovato?

ENRICO ZANETTI – VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE: No, non è un escamotage, è una soluzione intelligente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: Sul decreto però è scritto che dovranno essere riselezionati, quindi si dovrà incaricare una società come la Praxi o la Merito Srl, che li convocherà tutti per fare quattro chiacchiere. Il vero nodo della riforma però sta nella cartella.

MATTEO RENZI - CONFERENZA STAMPA DEL 15 OTTOBRE 2016: Il modello con il quale Equitalia si è diffusa e sviluppata è stato un modello inutilmente vessatorio nei confronti dei cittadini. Chiudere Equitalia significa chiudere con quel modello lì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: Fino ad oggi qual è il modello con cui vengono scelti i contribuenti inadempienti da colpire? Ce lo spiega un ufficiale di riscossione addetto ai pignoramenti.

UFFICIALE RISCOSSIONE EQUITALIA: Ho una certa discrezionalità nel poter operare, nel fare gli atti di pignoramento perché mi viene richiesto a fine anno un budget della riscossione.

GIORGIO MOTTOLA: Quindi per lei è importante fare numero?

UFFICIALE RISCOSSIONE EQUITALIA: Si, per tutti in Equitalia è importante fare numero… Se una situazione è complicata, io posso fare a meno di lavorarla e trovarne un’altra che mi porti più velocemente possibile... Se io riuscissi a trovare anche tre-quattro carrette che girano e pignorarle, per me sarebbe molto più facile.

GIORGIO MOTTOLA: Perciò lei scarica a priori le pratiche difficili.

UFFICIALE RISCOSSIONE EQUITALIA: Complicate, esatto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: E in effetti, in un documento interno di Equitalia, si legge che ogni dirigente è tenuto a raggiungere un determinato numero di risultati in base alla propria area geografica.

UFFICIALE RISCOSSIONE EQUITALIA: Il risultato qual è? Che vado a prendere chi purtroppo non ha saputo in qualche modo sfuggire prima. Quei poveracci che non hanno potuto, in qualche modo… non sono stati ben consigliati dal commercialista.

GIORGIO MOTTOLA: Nelle norme che regolano il comportamento anche degli ufficiali di riscossione, che cosa cambia con questo decreto?

PIETRO BRACCO - FISCALISTA: Non cambia assolutamente nulla, quello che si applicava prima si applica anche adesso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: L’effetto immediato invece è sulla rottamazione delle cartelle.

MATTEO RENZI - CONFERENZA STAMPA DEL 15 OTTOBRE 2016: Si pagano, le multe si pagano, senza gli interessi vessatori che ci sono stati in questi anni.

GIORGIO MOTTOLA: E che cosa è successo dopo l’annuncio del premier?

ADDETTA SPORTELLO EQUITALIA: Tantissime persone sono venute presso i nostri sportelli a chiedere informazioni, molti hanno detto: piuttosto allora di fare la rateizzazione adesso aspetto, avevo durate scadute, aspetto e ne faccio scadere un’altra, vediamo cosa succede. Poi noi abbiamo cercato di riportarli nei ranghi, spiegando che ancora di ufficiale non c’è nulla quindi non vale la pena di rischiare.

GIORGIO MOTTOLA: Quindi molti hanno smesso di pagare?

ADDETTA SPORTELLO EQUITALIA: Diciamo che vorrebbero smettere di pagare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: Ma come funziona lo sconto sulle cartelle? E chi ne ha diritto?

PIETRO BRACCO - FISCALISTA: Quello che ha pagato rimane pagato, se la prende in saccoccia se vogliamo dirla in questo modo.

GIORGIO MOTTOLA: Se invece ho un debito di 10mila euro con Equitalia e ho cominciato a pagare le rate e mi rimangono da pagare 1000 euro, che cosa cambia per me?

PIETRO BRACCO - FISCALISTA: Se quei 1000 sono 600 e 400 sanzioni, pago i 600: i 400 non li pago più. Il terzo caso è chi non ha pagato nulla. In questo caso chi non ha pagato nulla può chiedere la rottamazione integrale del ruolo e quindi pagare la quota capitale, gli interessi a raggio di riscossione, ma non paga le sanzioni.

GIORGIO MOTTOLA: Quindi converrebbe non aver mai pagato Equitalia e pagare tutto quanto adesso?

PIETRO BRACCO - FISCALISTA: Col senno di poi, certo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: Quindi scompare solo la sanzione, che però non è uguale per tutti: va infatti dal 6% a un massimo del 200%.

PIETRO BRACCO - FISCALISTA: Per esempio i casi di violazione in materia di Iva, le frodi carosello, le cose che conosciamo tutti… Quando c’è una frode, normalmente l’Agenzia delle Entrate applica il limite massimo delle sanzioni che è superiore al 200%.

GIORGIO MOTTOLA: Quindi chi negli ultimi anni ha fatto delle frodi carosello potrà avvantaggiarsi dello sconto del decreto fiscale?

PIETRO BRACCO – FISCALISTA: Se ha ricevuto il ruolo, sì… e non ha pagato, sì.

GIORGIO MOTTOLA: Professore, ma questa cosiddetta rottamazione delle cartelle sarà veramente conveniente per tutti i contribuenti italiani?

GIUSEPPE D’IPPOLITO – AVVOCATO TRIBUTARISTA E DOCENTE UNIVERSITARIO: No, assolutamente no: vi sono casi in cui addirittura potrebbe essere sconveniente, cioè si potrebbe pagare di più.

GIORGIO MOTTOLA: Quali sono questi casi?

GIUSEPPE D’IPPOLITO – AVVOCATO TRIBUTARISTA E DOCENTE UNIVERSITARIO: Le faccio un esempio. Se io ho un debito maturato nel 2014 nei confronti dell’Inps pari a 1000 euro, dovrò pagare la sanzione del 6,5%, dovrò pagare gli interessi del 4,13%.

GIORGIO MOTTOLA: E se aderisco alla rottamazione quanto pago?

GIUSEPPE D’IPPOLITO – AVVOCATO TRIBUTARISTA E DOCENTE UNIVERSITARIO: Se uno aderisce alla rottamazione, finisce per pagare addirittura di più.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: Sparisce quindi la sanzione del 6,5% e al suo posto compare la voce “interessi di rateizzazione” pari al 7,5%, mentre invece gli interessi del passato, pari al 4,13% rimangono invariati. Tirando la somma: oggi pagherei 1106,3, con la rottamazione pagherò 1116,3.

GIUSEPPE D’IPPOLITO – AVVOCATO TRIBUTARISTA E DOCENTE UNIVERSITARIO: Cioè pagherò alcune decine di euro di più di quanto avrei pagato nella fase ordinaria perdendo il diritto – questa è la cosa più importante – a una rateizzazione ordinaria a 72 mesi o straordinaria a 120 mesi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: Quindi bisogna fare bene i conti sulle proprie cartelle per capire dove conviene e dove no. E conviene soprattutto solo se si è in grado di pagare in quattro rate e al massimo nell’arco di 12 mesi.

FRANCESCO BOCCIA – PRESIDENTE COMMISSIONE BILANCIO CAMERA DEPUTATI: Quello che non posso accettare è che chi sta pagando, chi ha pagato a rate e chi può pagare solo a rate, quindi non c’ha il cash: a questi qui non gli viene tolta la sanzione. Se tu ti presenti là con i contanti e dici avevo 10mila euro, ora diventano 7mila, pago cash, tu hai la porta aperta: diciamo questa cosa non mi pare equa.

GIORGIO MOTTOLA: E perché nel decreto fiscale non è stata prevista una distinzione fra il contribuente che è in difficoltà, e non paga per questo, e invece il furbo?

ENRICO ZANETTI – VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE: Non è stato messo nel decreto perché la scelta è stata quella, in sede di conversione in legge da parte del Governo, di fronte a richiesta di questo tipo che sono certo peraltro proverranno da molti gruppi parlamentari, vi è la disponibilità… vi è la disponibilità a darvi seguito. GIORGIO MOTTOLA E perché non è stata prevista questa distinzione nel decreto fiscale?

ENRICO ZANETTI – VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE: Perché questa misura così impostata deve avere degli elementi di partenza che poi vedono anche giustamente un confronto con il Parlamento.

GIORGIO MOTTOLA: Perché, se era così importante il confronto col Parlamento, s’è fatto un decreto e non un DDL?

ENRICO ZANETTI – VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE: Si poteva scegliere il disegno di legge, non credo che questo sia un tema che appassioni più di tanto chi ha delle cartelle che vuole vedere rottamate di sanzioni e more.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO: Certamente appassiona sapere se le sanzioni definite vessatorie vengono eliminate solo per le cartelle di Equitalia del passato, o anche per il futuro.

ENRICO ZANETTI – VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE: Sanzioni e interessi per le cartelle del futuro al momento rimangono invariate, ma anche qui ritengo che nel corso della conversione in legge ci sarà lo spazio per ulteriori interventi.

GIORGIO MOTTOLA: Però mi scusi allora: le sanzioni rimarranno per il futuro, i dipendenti alla fine sono gli stessi, le regole di funzionamento sono più o meno le stesse, e quindi uno ha difficoltà a capire che cosa cambia nella realtà.

ENRICO ZANETTI – VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE: No, non è un’apparente rottamazione, è un cambiamento sostanziale e reale. A chi dice – perché lo sento dire – cambia solo il nome e tutto resta uguale, io rispondo che non cambia solo il nome. È ovvio che ci sarà sempre un soggetto che avrà come compito riscuotere, ma vorrei ricordare che quando ad esempio si è passati dai concessionari ante Equitalia al modello Equitalia, pur essendo rimasti in un contesto in cui c’era sempre qualcuno che deve riscuotere, si è sentito il cambiamento. Sarà così anche questa volta.

MILENA GABANELLI IN STUDIO: Speriamo di sentirlo presto. Per ora abbiamo capito che c’è un condono momentaneo, che cambia nome ma poi resta più o meno tutto uguale. In realtà però c’è un cambiamento sostanziale. Il premier giustamente ha detto “lì non funziona niente”, allora perché non liquidarla e dar vita a un nuovo ente risanato anziché innestarla da ente privato con tutto il suo personale dentro, dentro all’Agenzia delle Entrate che è pubblica. Se è una mela marcia non è che rischia di infettare pure l’Agenzia delle Entrate, che con tutti i suoi problemi legati ai dirigenti impantanati sui concorsi, non si può dire che non funzioni. È un presidio che contro l’evasione delle grandi società e multinazionali come Google per esempio, negli ultimi due anni ha accertato 7miliardi e 3, e incassato sempre dai grandi, come Apple per esempio, dove bisogna essere anche un po’ bravi, 4 miliardi e 100. Bene, come se ne esce adesso, ci pensa il ministro Madia con la sua riforma: i dirigenti entrati per concorso finiranno tutti in un grande elenco, da cui tutte le amministrazioni d’Italia, dalle agenzie fiscali ai ministeri, potranno pescare i migliori e i più adatti al ruolo che ti serve. Bene, domanda: come funziona questo elenco, chi lo fa? E chi sceglie, chi valuta poi i migliori?

MARIANNA MADIA – MINISTRO P.A. – TG1 DEL 05 AGOSTO 2015: Noi introduciamo una grande innovazione, nella carriera dei dirigenti, nel percorso di carriera dei dirigenti, entrerà il merito.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Il contratto è a tempo indeterminato, mentre l’incarico dura al massimo 6 anni. Alla scadenza nuova selezione e l’amministrazione può confermarti, spostarti, retrocederti a funzionario o sospenderti con taglio allo stipendio fino a 2 anni, durante i quali devi partecipare alle selezioni per avere un altro incarico. GIOVANNA BOURSIER Quindi la selezione la fa il ministero della Funzione Pubblica?

FRANCESCO BERTOLINI – COSTITUZIONALISTA UNIVERSITÀ TERAMO: La selezione è fatta dall’amministrazione interessata, però sulla base di una rosa di candidati che viene stabilita da una Commissione tecnica, diciamo così, istituita presso il ministero della Funzione Pubblica.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: La Commissione che seleziona e valuta i dirigenti, l’ha scelta la ministra Madia, ed è formata da due membri indipendenti, più: il ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, il presidente della conferenza dei rettori Gaetano Manfredi, il segretario del Ministero degli esteri, Elisabetta Belloni, il capo dipartimento Affari e territoriali del Ministero dell’interno, Elisabetta Belgiorno e il Presidente dell’autorità anticorruzione Raffaele Cantone.

GIOVANNA BOURSIER: Ma lei che è dappertutto, con tutto quel che ha da fare, ha tempo anche di valutare le nomine dei dirigenti?

RAFFAELE CANTONE - PRESIDENTE AUTORITÀ NAZIONALE ANTICORRUZIONE: Evidentemente, io sono un uomo delle istituzioni. Se mi si chiede di fare qualcosa in qualche modo la farò.

GIOVANNA BOURSIER: Ma poi lei riesce a fare tutto il resto? Perché il problema è lì.

RAFFAELE CANTONE - PRESIDENTE AUTORITÀ NAZIONALE ANTICORRUZIONE: E questo spero di sì. Io mi auguro che in qualche modo ci sia una riforma di questa norma. Se il nostro ruolo sarà un ruolo molto più di garanzia e molto meno di gestione, credo che la cosa sia fattibile.

FRANCESCO BERTOLINI – COSTITUZIONALISTA UNIVERSITÀ TERAMO: Si tratta di una Commissione la cui composizione indica chiaramente l’intento del legislatore di svincolare il più possibile il dirigente da una valutazione di carattere politico.

GIOVANNA BOURSIER: Perché è svincolata la valutazione dalla politica, visto che sono tutte nomine a loro volta politiche?

FRANCESCO BERTOLINI – COSTITUZIONALISTA UNIVERSITÀ TERAMO: Ma non si può evitare. Il governo mette i soldi, nel senso che i dirigenti li paga lui, non gli si può togliere qualsiasi voce in capitolo.

GIOVANNA BOURSIER FUORI: CAMPO Il Consiglio di Stato il 14 ottobre dà il parere sulla Riforma. “Non ha previsto fondi per attuarla”. “Alcune funzioni richiedono un impegno a tempo pieno”. “Alcuni membri della Commissione non sono del tutto indipendenti dalla politica”.

ENRICO ZANETTI – VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE: E infatti dobbiamo assolutamente correggere e migliorare alcuni aspetti di quella riforma.

GIOVANNA BOURSIER: La cambiate quella commissione però che deve giudicare i dirigenti?

ENRICO ZANETTI – VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE: Facciamo lavorare il ministro Madia, che sta sicuramente facendo cose molto importanti in un campo difficilissimo.

MILENA GABANELLI IN STUDIO: Il campo è difficile ma il ministro Madia ha detto che entro fine mese la riforma ci sarà. Passiamo all’Inps, l’ente previdenziale più elefantiaco d’Europa. Bene, Tito Boeri la sua riforma la sta facendo: allora parliamo di un ente che ha 20 milioni di pensionati e 23 milioni di lavoratori e aziende che pagano, che versano i contributi. Allora Boeri che cosa sta facendo, sta sforbiciando un po’ di dirigenti perché sono troppi. E adesso il problema sta diventando lui.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Tito Boeri la riforma della dirigenza dentro l’INPS la sta già facendo.

GIOVANNA BOURSIER: Quando lei è stato nominato, il Presidente del Consiglio le ha spiegato perché nominava lei e che cosa lei avrebbe dovuto fare qua dentro?

TITO BOERI – PRESIDENTE INPS: Beh, diciamo che un aspetto centrale era proprio quello di rendere questa macchina più efficiente. Questo lui mi ha chiesto.

GIOVANNA BOURSIER: Cosa vuole fare?

TITO BOERI – PRESIDENTE INPS: Noi vogliamo ridurre il numero di dirigenti, quindi farli scendere da 48 a 36 in totale. Questo è l’organigramma attuale, questo è l’altro organigramma: vede come si riduce? E poi li vogliamo riequilibrare, perché quelli sul territorio che adesso sono 15 li facciamo diventare 22.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Il 24 settembre, Ferruccio De Bortoli scrive: “Se ha ancora la fiducia di Renzi va sostenuto nella rottura di vecchi equilibri e inefficienze, oppure va sostituito”.

GIOVANNA BOURSIER: Senta, ma dopo l’editoriale di De Bortoli, Renzi l’ha chiamata dicendo: «Tranquillo, ti appoggio. Vai avanti»?

TITO BOERI – PRESIDENTE INPS: No, ho parlato con esponenti del governo. A parole c’è stato un impegno. Devo dire, nei fatti mi attendevo qualcosa di più, soprattutto dal ministro del Lavoro.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Boeri deve fare i conti con l’eredità lasciata da Antonio Mastrapasqua. Nel 2012, quando l’INPS incorpora Enpals ed Inpdap, i dirigenti dei 3 enti rimangono tutti. E tutti a Roma. Ogni direttore costa all’INPS circa 300.000 euro l’anno. In più ognuno ha una struttura di supporto, formata in media da altri 10 dirigenti di seconda fascia.

TITO BOERI – PRESIDENTE INPS: Quando io vado a togliere una direzione, vado anche a liberare queste persone che possono andare a fare altre cose dentro l’istituto, sono dei risparmi veri e propri.

GIOVANNA BOURSIER: Quanto prende lei? Può dirmelo?

TITO BOERI – PRESIDENTE INPS: Sì, io prendo 103mila euro all’anno.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Fra le tante direzioni fantasiose leggiamo: “Soddisfazione dell’utenza per ridurre il rischio reputazionale”, “Popolamento e implementazione casellario assistenza”.

TITO BOERI – PRESIDENTE INPS: Sembra che siano state fatte apposta per dare un incarico.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Con i risparmi Boeri vorrebbe assumere 900 giovani funzionari da smistare sul territorio, che oggi è completamente sguarnito.

GIOVANNA BOURSIER: Come li assume? Cioè, gli fa fare un concorso?

TITO BOERI – PRESIDENTE INPS: Li prenderemo in parte attingendo a delle graduatorie esistenti, gli altri invece faremo un concorso.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Vuole cambiare anche la Governance, ma aspetta il governo perché va fatto con una legge. Per esempio ripristinare il Cda, sciolto dal suo predecessore Mastrapasqua. Però vuole ridimensionare il CIV, Consiglio di Vigilanza Interna, composto da 24 rappresentanti delle organizzazioni sindacali e delle aziende.

TITO BOERI – PRESIDENTE INPS: 24 componenti mi sembrano davvero troppi. Si potrebbe benissimo scendere a 15.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Il 3 ottobre il CIV, fa ricorso contro il nuovo regolamento, perché sarebbe illegittimo: darebbe a presidente e Cda troppo potere di gestione, mentre finora alcuni indirizzi generali li dettava il CIV.

TITO BOERI – PRESIDENTE INPS: Si prevedeva che il Consiglio di Indirizzo e Vigilanza interferisse con la gestione, in particolare dovesse dettare degli indirizzi al direttore generale. Ecco, questo è un principio che io trovo assolutamente inaccettabile.

GIOVANNA BOURSIER: Sembra che - come dire - per un lungo tempo le nomine siano un po’ state dettate non dalla politica in questo caso, ma dal sindacato.

TITO BOERI – PRESIDENTE INPS: Il Cencelli che noi conosciamo è quello tra partiti, in questo caso erano i sindacati. Qualche volta le dico ho anche l’impressione che qualcuno abbia interesse a tenere questa macchina inefficiente, perché se è inefficiente a quel punto diventa il politico locale, l’amministratore locale, il sindacalista che sono quelli che decidono le sorti delle persone.

GIOVANNA BOURSIER: Lei ha ricevuto proposte del sindacato o di qualcuno che le ha detto: “Se tu ci nomini questi noi, come dire, non facciamo ricorsi”.

TITO BOERI – PRESIDENTE INPS: Non così esplicitamente con me, ma diciamo che indirettamente abbastanza, sì.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Intanto Boeri ha nominato una Commissione indipendente di tre membri per valutare i dirigenti. E appena arrivato, per fare la riforma, si era scelto come direttore generale Massimo Cioffi.

GIOVANNA BOURSIER: Ed è d’accordo su quello che sta facendo Tito Boeri?

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: Ma guardi il fatto che io sia d’accordo o non d’accordo non rileva, lui deve decidere.

GIOVANNA BOURSIER: No, rileva, rileva, lei è il Direttore Generale, quello che poi sta sopra tutti questi dirigenti.

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: Beh dal punto di vista operativo, quindi organizzativo diciamo così, le cose si potevano, secondo me, fare in modo un po’ diverso.

GIOVANNA BOURSIER: Adesso c’è come dire un po’ di attrito fra voi due. No? Perché…

TITO BOERI - PRESIDENTE INPS: Sì, lui era contrario a ridurre il numero dei dirigenti, voleva lasciarli al numero attuale. E poi voleva anche lasciare nel regolamento d’organizzazione questo rapporto diretto tra il Direttore Generale e il Civ.

GIOVANNA BOURSIER: Ma perché ha nominato lui?

TITO BOERI – PRESIDENTE INPS: Ho nominato Cioffi perché era una persona che mi dava delle garanzie, in quanto era una persona esterna.

GIOVANNA BOURSIER: Lui viene dall’Enel, è sotto indagine per non aver versato dei contributi. Cioè l’ha nominato nonostante sapesse questo?

TITO BOERI – PRESIDENTE INPS: Non lo sapevo, non lo sapevo e questa è stata una delle ragioni, se vogliamo, di maggior disappunto mio nei suoi confronti.

GIOVANNA BOURSIER: Cioè l’ha scoperto dopo? Lui non glielo ha detto?

TITO BOERI – PRESIDENTE INPS: Perché lui lo sapeva e non me l’aveva detto.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Dal 2006 al 2014 Massimo Cioffi era direttore del personale Enel. Nel 2012 la Guardia di Finanza chiede a INPS un’ispezione su contributi non versati da Enel Produzione. A ottobre 2014 accerta i primi 5 milioni di evasione contributiva. Dopodiché l’ispezione si estende ad altre 12 società e l’evasione sale a 40 milioni di euro. Intanto Cioffi è diventato Direttore generale di INPS.

GIOVANNA BOURSIER: Quando arriva in INPS, perché non informa immediatamente Boeri visto che c’era un evidente conflitto, no? Perché c’era stato un…

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: Mi scusi, il conflitto è nato dopo. La prima ispezione dell’INPS dentro l’ENEL del 2012 si è conclusa con un verbale nel 2014, prima che io venissi a lavorare qua. Per questo io non ho detto nulla a Boeri, perché quella vicenda la consideravo chiusa.

GIOVANNA BOURSIER: L’ispezione era chiusa e aveva determinato che non erano stati versati i contributi.

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: Sì, sì, esatto.

GIOVANNA BOURSIER: Quindi era chiusa in senso negativo per ENEL…

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: Per ENEL, è vero, non gliel’ho detto.

GIOVANNA BOURSIER: E perché non gliel’ha detto?

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: Sono d’accordo, vuole che dica “ho sbagliato”? Può esser che abbia sbagliato. L’ho informato il 5 di marzo, il 6 di marzo, quando l’INPS è andata in Enel. Io sono stato nominato il 27 di febbraio del 2015. Il 5 di marzo l’INPS va in Enel. A quel punto ho detto a Boeri: “Guarda, l’INPS è andata in Enel” e questa probabilmente è una vicenda che segue a quella che conoscevo di cui non gli avevo detto nulla, ma perché per me era chiusa. Dopo è stato esteso ad altre società.

GIOVANNA BOURSIER: Ma è stato esteso mica quando lei arriva in INPS?

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: Sì.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Insomma Cioffi dice che l’ha detto a Boeri nel 2015, appena nominato. Boeri dice che lo scopre quando esce sui giornali a inizio 2016. L’ispezione INPS però non si era mai chiusa, almeno a sentire il direttore della vigilanza, Fabio Vitale.

GIOVANNA BOURSIER: Ma quindi non che si interrompe l’attività ispettiva?

FABIO VITALE – DIRETTORE CENTRALE VIGILANZA INPS: Mai, mai.

GIOVANNA BOURSIER: E quindi quando Cioffi diventa Direttore Generale dell’INPS l’ispezione è in corso?

FABIO VITALE – DIRETTORE CENTRALE VIGILANZA INPS: Sì.

GIOVANNA BOURSIER: E lei è andato da Cioffi a dirgli: “Guarda che c’è un’ispezione in corso"?

FABIO VITALE – DIRETTORE CENTRALE VIGILANZA: INPS Certo, certo, certo. Dopo qualche giorno che si è insediato, ovviamente ha ricevuto tutti i colleghi, i direttori centrali, tra l’altro ho detto guarda abbiamo in piedi tutto questo ventaglio di attività tra cui c’era anche l’Enel.

GIOVANNA BOURSIER: E perché nessuno informa Boeri?

FABIO VITALE – DIRETTORE CENTRALE VIGILANZA INPS: Io non devo informare Boeri, perché Boeri è il Presidente e ha una responsabilità politica dell’istituto. Io parlo con il Direttore Generale, il mio capo.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Intanto c’è anche un’indagine della procura di Nocera Inferiore su premi di produzione a ispettori e dirigenti INPS, per più di 700 milioni. A ottobre 2015 il magistrato interroga alcuni dirigenti INPS, compreso Vitale, e salta fuori l’evasione di Enel. Cioffi è già in INPS da 9 mesi.

GIOVANNA BOURSIER: Ma lei è indagato?

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: Immagino di sì, ma non ho certezza di questo. Però immagino di sì perché, essendo uscito sui giornali in maniera così netta, immagino di essere stato indagato, ma non ho chiesto la verifica.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: È indagato a Nocera da marzo 2016 per abuso d’ufficio. E sempre a Nocera per falso e truffa sono indagati anche: Mastrapasqua, l’ex Presidente INPS, Nori, l’ex direttore generale, Iocca, il presidente del CIV, Saltalamacchia, capo del personale. Adesso l’inchiesta è passata a Roma. Ma Cioffi, quando legge la notizia sui giornali, si autosospende. Però dopo un mese e mezzo si reintegra.

GIOVANNA BOURSIER: Prima vedeva un conflitto e poi non lo vede più?

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: Mi sono sospeso perché ho appreso dai giornali che sarei stato indagato che è una cosa diversa.

GIOVANNA BOURSIER: Allora, diciamo, c’è conflitto fra…?

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: C’è un potenziale conflitto di interessi certo. Un potenziale…

GIOVANNA BOURSIER: Potenziale o reale?

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: No, scusi. Il conflitto di interessi, intanto non è un reato, ma è un conflitto di interessi. Potenziale. Quindi bisogna fare in modo che non ci si ritrovi a dover prendere decisioni in conflitto di interessi. E io mi sono sempre astenuto sulla vicenda Enel, ne sono stato fuori.

GIOVANNA BOURSIER: Però in verità è dentro, sta in INPS arriva dall’ENEL - come dire?

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: No, ma ribadisco: non ho mai voluto saperne nulla. E dico: non coinvolgetemi in questa storia ma neanche per un qualsiasi motivo.

GIOVANNA BOURSIER: Però scusi, direttore. Glielo dico così: parliamo del fatto che adesso lei fa il Direttore Generale…

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: Dell’INPS…

GIOVANNA BOURSIER: Dell’istituto che non ha ricevuto 40 milioni. Cioè adesso, al di là di tutto, i tempi, uno l’ha saputo non l’ha saputo, ma lei non lo vede il conflitto?

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: Lei lo vede, io dico al momento non devo prendere nessuna decisione, quindi non ho nessun conflitto di interessi concreto.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: Dalle carte dell’inchiesta emerge che Cioffi non si sarebbe astenuto sulla vicenda Enel, visto che appena nominato incontra in piazza di Pietra, a Roma, il capo della vigilanza INPS Vitale, testimone in procura delle ispezioni su ENEL. Cioffi gli avrebbe detto: “Fai attenzione con l’accertamento. Rischi di prendere una sportellata. Enel ha operato bene”. Poi, sempre Cioffi, firma due dei tre provvedimenti disciplinari proprio contro Vitale: sospeso dieci mesi, perché sposta fondi da una gara a un’altra e chiede il mutuo agevolato INPS per la prima casa senza dire che è la seconda. Adesso INPS gli ha ridotto la sospensione a cinque mesi. E con questa email Cioffi dà l’okay per la conciliazione.

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: La vicenda dei provvedimenti disciplinari non ha niente a che fare con l’Enel. Sono relativi a fatti completamenti diversi.

GIOVANNA BOURSIER: No, certo, però il capo della vigilanza è proprio colui che va in Procura e che deve riferire su questa cosa di Enel, no? Allora proprio lui poi riceve un provvedimento disciplinare da lei e poi perché lo concilia, perché accetta di conciliare?

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: Ma scusi se a lei il giudice dice di fare qualcosa lei non lo fa?

GIOVANNA BOURSIER: No, ma la conciliazione però è fatta da entrambe le parti, il giudice deve decidere se va bene, ma chi decide la conciliazione è l’INPS con Vitale.

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE INPS: Assolutamente.

GIOVANNA BOURSIER: Perché non gli avete fatto scontare i suoi due provvedimenti disciplinari in sospensione?

MASSIMO CIOFFI – DIRETTORE GENERALE: INPS Alla fine io ho detto: “Importante chiudere questa vicenda, ripristinare delle condizioni di normalità dal punto di vista della gestione della direzione vigilanza e andare avanti a lavorare”.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO: E come si fa andare avanti a lavorare con un direttore della vigilanza sanzionato 3 volte?

FABIO VITALE – DIRETTORE CENTRALE VIGILANZA INPS: Cioè lei giustamente, giustamente l’uomo comune quando vede una cosa del genere dice: Ma come? Quello fa il capo della vigilanza, deve controllare la nostra legalità contributiva, la legalità e quant’altro, lo sospendono addirittura perché dicono che ha frazionato gli appalti, perché che si è chiesto un mutuo per farsi i cavolacci suoi eccetera, quindi…

GIOVANNA BOURSIER: Come fa a fare il capo della vigilanza?

FABIO VITALE – DIRETTORE CENTRALE VIGILANZA INPS: È giusto. Me lo domanderei pure io! Come fa a fare il capo della vigilanza? GIOVANNA BOURSIER Io lo domando a lei però.

FABIO VITALE – DIRETTORE CENTRALE VIGILANZA INPS: Guardi, io in questa vicenda credo - con tutta franchezza - credo che sia io che Cioffi siamo vittime di gelosie, lotte intestine, ecc. Perché ovviamente il modo migliore per far fuori – come dire? – avversari scomodi è quello di tra virgolette delegittimarli.

MILENA GABANELLI IN STUDIO: Facciamo che i complotti e le lotti intestine non ci interessano, mentre i 40 milioni di contributi Enel non versati ci interessano, e il direttore del personale di allora di Enel, oggi è Direttore Generale dell’Inps e non ci pare che si senta a disagio. Mentre Boeri che sta sforbiciando qualche poltrona di troppo e trasferendone qualcun’altra sul territorio che è sguarnito, ecco, sembra essere diventato meno simpatico. Non ci pare che la convivenza tra i due sia serena e quindi chi dei due salta? La domanda è per il ministro del lavoro Poletti perché sarà lui, è lui che decide. Ora temi come trasparenza e conflitti non ci sembrano temi astratti. Tanto per rinfrescare la memoria: l’ex presidente dell’Inps Mastrapasqua, dopo anni che tutta la stampa è andata avanti a raccontare i suoi 2 piedi in 40 scarpe, è stato costretto a dimettersi e non ha lasciato un buon ricordo. Bene, nominato nel 2008 da Tremonti presidente dell’Inps, mentre è già vicepresidente di Equitalia e direttore generale dell’ospedale israelitico. L’ospedale deve versare i contributi all’Inps, ma li compensa con i crediti che ha con la Regione. Bene, Mastrapasqua è costretto poi a dimettersi nel 2014, quando salta fuori che la Regione non versa all’Inps, perché le prestazioni dell’ospedale sono gonfiate. Cosa avrebbe dovuto fare l’Inps di cui Mastrapasqua è presidente? Attivarsi per il recupero, attraverso Equitalia, di cui Mastrapasqua è vicepresidente. Bene, il totale dei contributi non versati dell’ospedale israelitico è di 42 milioni di euro comprese sanzioni e more. Boeri ne sta recuperando tre, gli altri, per gli altri dipenderà dall’esito del processo. Ecco se c’è una cosa che non vorremmo più vedere dentro all’ente previdenziale è dirigenti coinvolti in storie di contributi non versati.

PARLIAMO DELL'ESAME TRUCCATO DI COMMERCIALISTA E FARMACISTA.

Foggia, l'esame di Stato per commercialisti era pilotato: sospeso il giudice Cristino. Il presidente della commissione tributaria provinciale di Foggia (e fino a qualche giorno fa del tribunale di Benevento) è accusato di aver aiutato alcuni candidati a superare la prova di ammissione, scrive il 4 gennaio 2017 “La Repubblica”. Il presidente della Commissione tributaria provinciale di Foggia, Michele Cristino, che è anche giudice della terza sezione della stessa commissione e fino a pochi giorni fa presidente del tribunale di Benevento, è stato interdetto per 12 mesi dal ruolo di giudice tributario. Il provvedimento interdittivo, notificato dalla guardia di finanza, è stato emesso dalla magistratura foggiana. La misura cautelare personale è stata notificata al termine di un'indagine per falso in atto pubblico, rivelazione di segreti d'ufficio e abuso d'ufficio, legate all'ultimo esame per l'abilitazione all'esercizio della professione di dottore commercialista ed esperto contabile tenutosi a Foggia. Cristino era componenti della commissione esaminatrice. Quattordici gli indagati, tra cui componenti la commissione (compresi docenti universitari) e candidati. Il giudice Cristino, ora a riposo, è stato fino al 31 dicembre scorso presidente del tribunale di Benevento e prima ancora presidente della Corte d'assise di Foggia e giudice della sezione lavoro della Corte d'appello di Bari. L'indagine - secondo la guardia di finanza - ha permesso di svelare l'esistenza di un presunto sistema illecito attraverso il quale alcuni candidati all'esame di Stato per commercialista hanno superato le prove previste (tre scritti e l'orale), ricorrendo all'aiuto di diversi soggetti sia interni sia esterni alla commissione di esami (i cosiddetti solutori che svolgono le tracce d'esame e le trasmettono ai candidati interessati). E' stato accertato - secondo l'accusa - che alcuni componenti la commissione, a vario titolo, hanno svelato le tracce d'esame e si sono accordati con i candidati e i loro emissari per le interrogazioni orali, falsificando quindi anche i verbali di commissione.

Esami pilotati commercialisti, interdetto giudice tributario. La misura è valida per un anno e colpisce il giudice Michele Cristino. Le accuse: falso in atto pubblico, rivelazione di segreti d’ufficio e abuso d’ufficio, scrive il 4 gennaio 2017 “Il Corriere del Mezzogiorno”. Michele Cristino, presidente della Commissione tributaria provinciale di Foggia e giudice della terza sezione della stessa commissione (fino a pochi giorni fa presidente del Tribunale di Benevento) è stato interdetto per un anno dal ruolo di giudice tributario. Il provvedimento, notificato dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Bari, è stato emesso dalla magistratura foggiana. La misura cautelare personale è stata notificata al termine di un’indagine per falso in atto pubblico, rivelazione di segreti d’ufficio e abuso d’ufficio, legate all’ultimo esame per l’abilitazione all’esercizio della professione di «Dottore commercialista ed esperto contabile» tenutosi a Foggia. Cristino era membro della commissione esaminatrice. Quattordici gli indagati, tra cui componenti la commissione (compresi docenti universitari) e candidati. Il giudice Cristino, ora a riposo, è stato fino al 31 dicembre scorso presidente del Tribunale di Benevento, e prima ancora presidente della Corte d’assise di Foggia e giudice della sezione lavoro della Corte d’appello di Bari. L’indagine - secondo la Guardia di Finanza - ha permesso di svelare l’esistenza di un presunto sistema illecito attraverso il quale alcuni candidati all’esame di Stato per commercialista hanno superato le prove previste (tre scritti e l’orale), ricorrendo all’aiuto di diversi soggetti, sia interni sia esterni alla commissione di esami (i cosiddetti «solutori» che svolgono le tracce d’esame e le trasmettono ai candidati interessati). È stato accertato infatti - secondo l’accusa - che alcuni componenti la commissione, a vario titolo, hanno svelato le tracce d’esame e si sono accordati con i candidati e i loro emissari per le interrogazioni orali, falsificando quindi anche i verbali di commissione.

Come diventare farmacista? Laurea ed esame di stato, scrive Diego Denora. L’esame di stato successivo alla laurea abilita alla professione, ma come diventare farmacista? Iscrizione ordine e albo nazionale, ente di previdenza, tirocinio obbligatorio in farmacia o in ospedale. Tutte le informazioni secondo la direttiva europea. Diventare farmacista richiede anni di studio all’Università, una laurea specifica ed uno specifico esame di stato che abilita alla professione. Al termine del percorso di studi si avrà diritto ad iscriversi all’albo nazionale. Entrare nell’Ordine dei farmacisti garantisce, inoltre, l’adesione all’ente di previdenza connesso alla professione. Una laurea in farmacia non è cosa da poco: il corso di studi è impegnativo, non può essere inferiore a 5 anni e gran parte delle facoltà in Italia prevedono un durissimo test di ingresso. Non occorre ricordare, inoltre, che il farmacista non veste soltanto un camice bianco per vendere farmaci dietro ad un bancone, ma soprattutto per la sua acuta preparazione in chimica, biologia e medicina: conosce perfettamente il funzionamento dei principi attivi contenuti nei farmaci e sa quali reazioni provocano nell’organismo umano. La professione, quindi, non si limita alla sola vendita di farmaci, esistono corsi di laurea specifici per gli “uomini di scienza” interessati alla ricerca e alle scoperte ed è comunque una direttiva europea a darci notizia. Il farmacista svolge le attività descritte nella direttiva europea CEE 85/432, pubblicata in Gazzetta Ufficiale nel 1985. Si tratta di:

preparazione della forma farmaceutica dei medicinali;

fabbricazione e controllo dei medicinali;

controllo dei medicinali in un laboratorio di controllo dei medicinali;

immagazzinamento, conservazione e distribuzione dei medicinali nella fase di commercio all’ingrosso;

preparazione, controllo, immagazzinamento e distribuzione dei medicinali nelle farmacie aperte al pubblico;

preparazione, controllo, immagazzinamento e distribuzione dei medicinali negli ospedali;

diffusione di informazioni e consigli nel settore dei medicinali.

Prima di ciò, vi è un percorso definito ed articolato da seguire. Diventare farmacista: tirocinio, iscrizione all’Ordine e albo nazionale. Il tirocinio obbligatorio è un passo imprescindibile per chi vuole diventare farmacista, poiché non solamente consente di approfondire e applicare ciò che i molti esami teorici hanno previsto, ma rende possibile superare l’esame di stato. Si entra nell’albo nazionale solo con il superamento dell’esame di stato: consiste in una prova teorica scritta (gli argomenti delle precedenti prove si trovano negli archivi delle università dove s’intende sostenere il tema), una pratica e una discussione orale. Per l’iscrizione ad un ordine, come in molte professioni, l’accesso prevede il pagamento di una quota 126,80 € e la contemporanea iscrizione all’albo dell’Ente nazionale di previdenza e assistenza dei farmacisti. L’ente è, in parole povere, una cassa pensionistica cui i professionisti debbono obbligatoriamente prendere parte, che necessita del rinnovo triennale del proprio Consiglio direttivo: per votare è sufficiente essere laureati in farmacia ed in regola con le quote annuali, nessun vincolo ulteriore.

Concorsi truccati in farmacia: chiuse le indagini contro il super manager della sanità Giuseppe Legato. La Procura: «I candidati conoscevano in anticipo le tracce e gli argomenti dell’esame», scrive il 29 dicembre 2016 Enzo Beretta su “Umbria 24”. Abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio. Sono queste le ipotesi di reato contestate dalla Procura di Perugia all’ex direttore generale della Usl Umbria 1, Giuseppe Legato, coinvolto in un’inchiesta su due presunti concorsi truccati per quattro posti da dirigente farmacista (due da farmacia ospedaliera, altrettanti da territoriale). Nei giorni scorsi Legato, 67 anni, di Taurianova, attuale commissario straordinario dell’Azienda sanitaria locale di Roma 3, ha ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari firmato dal pm Mario Formisano. Il super manager della sanità non ha ancora chiesto di essere sentito dagli inquirenti e non lo hanno fatto neppure i coindagati Alessandro Benedetti (64, originario di Sant’Angelo in Vado) e Luana Mascotto (perugina di 57 anni), rispettivamente presidente di commissione dei concorsi e dirigente del servizio farmaceutico territoriale della Usl Umbria 1 di Perugia. «Svelate le tracce e gli argomenti della prova orale» Secondo la Procura i tre indagati «in violazione delle norme di legge che impongono ai membri della commissione di esame di attenersi a criteri di imparzialità» hanno «intenzionalmente procurato un ingiusto vantaggio ai concorrenti della prova concorsuale organizzata dalla Usl Umbria 1 di Perugia». Le accuse più pesanti vengono rivolte a Benedetti che «violando l’obbligo di segretezza» ha «rivelato ai candidati l’oggetto della traccia della prova scritta (farmaci antitumorali)», il «tipo di prova pratica da sostenere» e «i 15 argomenti che sarebbero stati affrontati durante l’esame orale». Prima della prova pratica – è la ricostruzione dell’accusa – ha perfino «spiegato e indicato in maniera dettagliata ad una candidata tutta la sequenza delle operazioni che andavano eseguite in laboratorio per l’allestimento di preparati sterili». Così, il 20 maggio 2015, «era approvata la graduatoria del concorso in base alla quale tutti i candidati che avevano ricevuto precise indicazioni per lo svolgimento delle prove risultavano nelle prime sette posizioni». Nel corso dell’indagine i carabinieri del Nucleo antisofisticazioni hanno preso a verbale le dichiarazioni di alcuni esaminandi. Il pm: «Volevano stabilizzare i precari» Mascotto e Legato vengono ritenuti «concorrenti morali del reato»: nell’ottica accusatoria l’obiettivo della farmacista era quello di «favorire alcuni candidati che svolgevano la propria attività, a termine, nel servizio da lei gestito», mentre il manager ha «suggerito un risultato della procedura concorsuale gradito che avrebbe consentito di stabilizzare diversi candidati occupati all’interno della Usl 1 a tempo determinato». Per quanto riguarda il concorso più datato – come detto sono due, il primo bando è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale nell’aprile 2013, l’altro a gennaio 2015 – Benedetti oltre ad aver svelato che «la prova avrebbe avuto ad oggetto i farmaci stupefacenti e orfani» avrebbe «ulteriormente agevolato» un paio di candidati «rivelando proprio le specialità medicinali» affrontate nel test scritto. Secondo Formisano «dall’attività di indagine compiuta emergono elementi che, allo stato, escludono di dare corso a richiesta di archiviazione». Si annuncia battaglia sull’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche. Gli indagati sono difesi dagli avvocati Monia Franchi, David Brunelli e Giovanni Bellini.

Blitz dei Nas al concorso, "Hanno passato le domande". Indagine in corso. L’accusa della magistratura. Tre nel registro degli indagati per abuso d’ufficio, scrive il 31 luglio 2015 Erika Pontini su “La Nazione”. Due concorsi per dirigente farmacista a tempo indeterminato (ognuno per due posti). Uno annullato "in autotutela" con un provvedimento secretato; l’altro tuttora in corso ma di fatto ‘bloccato’ dai Nas che hanno fatto irruzione mentre iniziava la prova, mandando i candidati a casa. Salvo poi prenderli a verbale. Nel primo concorso, in particolare, sarebbe emerso, grazie alle intercettazioni telefoniche, che alcuni membri della Commissione esaminatrice avrebbero passato le domande/tracce ai candidati per stabilizzare quanto, fino ad ora, erano andati avanti a contratti a tempo indeterminato. Un abuso d’ufficio secondo i carabinieri del Nas che, coordinati dal pubblico ministero Mario Formisano, hanno notificato l’avviso di garanzia al direttore generale dell’Asl 1, Giuseppe Legato, al presidente della Commissione (già all’Asl di Città di Castello) e ad un’altra dirigente, membro della stessa Commissione esaminatrice. E’ in quelle trenta pagina la storia dei presunti concorsi truccati per le farmacie. Ma se Legato verrebbe tirato in ballo quasi ‘de relato’ ed è già pronto a concordare con il magistrato un interrogatorio per chiarire la sua posizione, per gli altri si profilerebbero guai più seri. Anche perché i ‘favoriti’ usciti indenni al momento da qualsiasi incriminazione avrebbero subito confessato il raggiro. Nel sito dell'ASL 1 compare la «Revoca in autotutela della delibera 571 del 20 maggio 2015 avente ad oggetto ‘Concorso pubblico per titoli ed esami per la copertura a tempo indeterminato di due posti di dirigente farmacista, area di farmacia disciplina di farmacia ospedaliera, approvazione verbali della Commissione esaminatrice’» infatti e il secondo potrebbe presto subire la stessa sorte, visto che il blocco armato, non avrebbe effetto a fini amministrativi. Legato si è affidato all’avvocato Giovanni Bellini mentre la dirigente all’avvocato David Brunelli. Ieri è stato lo stesso direttore a prendere posizione dichiarandosi «totalmente estraneo ad ogni ipotesi di irregolarità» ed «esprimendo fiducia nei confronti della magistratura ed auspicando un’azione tempestiva e chiarificatrice». «L’indirizzo generale dell’azienda – precisa Legato – è la stabilizzazione ovvero la trasformazione dei posti di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, anche alla luce delle osservazioni fatte dalla Corte dei conti in merito al rispetto del tetto massimo di spesa dei contratti a tempo determinato. La gestione dei concorsi è demandata per legge alle commissioni esaminatrici, che agiscono in piena autonomia e responsabilità». «Preciso inoltre – aggiunge Legato - che non c’è stata alcuna perquisizione, tutti gli atti sono stati acquisiti con la nostra piena e totale collaborazione. E nel rinnovare la massima disponibilità e fiducia nella magistratura, mi auguro di poter essere sentito al più presto dagli inquirenti al fine di chiarire la mia posizione, nella certezza che l’avviso costituisca un ‘atto dovuto’ in fase di indagini preliminari in quanto direttore della struttura: atto destinato a cadere non appena accertati i fatti ai quali sono del tutto estraneo».

Test truccato a Napoli: il giallo e il grigio, scrive Giacomo Giannecchini il 13 settembre 2012. L’oramai famoso giallo sul test truccato di Napoli, si tinge di grigio. Andiamo con ordine: i Nas, acquisiscono documenti e verbali inerenti ad un quiz per il concorso che mette a bando ben 80 sedi di farmacie in Campania. La Procura indaga senza sosta. Che cosa è accaduto? Si è scoperto che l’azienda che ha acquisito l’appalto, ad asta ribassata, per la correzione dei test, ha tra i suoi soci alcune persone che fanno parte anche di un’altra azienda che offre servizi informatici e consulenze alle farmacie napoletane. In caso sia confermato tutto, c’è un conflitto di interesse? E’ possibile che siano stati delle “correzioni” comandate? Siamo certi che gli inquirenti faranno il loro lavoro, e lo faranno egregiamente, l’unico problema è: quando? Perché quello che molta stampa dimentica di dire è che questo concorso, che spesso viene considerato, erroneamente, un tutt’uno con quello che assegnerà altre 171 sedi in Campania in virtù del nuovo decreto, è vecchio di almeno tre anni. I 702 aspiranti proprietari di farmacia, che hanno partecipato a quel concorso su cui la procura indaga, hanno atteso più di tre anni per avere l’opportunità di fare quel test di farmaceutica. Ora che il concorso è stato bloccato, quant’ancora dovranno attendere? Forse le domande di cultura generale sono assolutamente evitabili per un concorso di chi ambisce a fare della galenica la sua professione, forse vi sono vizi di forma, forse c’è anche del marcio nell’assegnazione degli appalti per le correzioni dei test, ma a chi tre anni fa si è iscritto ad un concorso, pagando, qualcuno ci pensa? E’ scandaloso che in Italia siano necessari anni per dare il via ad un concorso; ma quando finalmente, dopo fatiche immani, si riesce a farlo, arriva un’indagine e lo blocca. Per carità, ubi maior minor cessat, ma ci auguriamo che l’indagine e le accuse ipotizzate siano fondate, perché se per questo blocco i 702 partecipanti dovranno attendere altri tre o quattro anni sarebbe davvero un’ennesima schifezza. In molti, in questi giorni, si sono affaticati a scrivere sugli accusati, sulle aziende coinvolte, sul “sistema”, ma nemmeno una riga è stata scritta sulla vera parte lesa: chi onestamente si è presentato all’esame a cui si è iscritto nel 2008. Tutti si improvvisano giudici e magistrati in questi anni piuttosto bui per il nostro Paese, noi vorremmo astenerci da questo ingrato compito e lasciamo (ma per davvero non solo con la retorica), che i magistrati e gli organi competenti facciano il loro lavoro, chiedendo loro, possibilmente, di fare in fretta, o per lo meno di tenere presente la situazione di 702 persone, che vedono il loro futuro trattato come fosse un pacco postale che viene prima spinto poi bloccato, poi ri-inviato, poi bloccato nuovamente: intanto la vita scorre. Il giallo è costituito dal presunto “conflitto d’interesse” che avrebbe “sistemato” i test di cultura generale, il grigio di cui si sta tingendo il giallo è rappresentativo di quella macchina burocratica, onnipresente e usurante che attanaglia alla gola tutta l’Italia da tempo immemore. Speriamo si risolva il giallo senza finire nelle fauci del grigio.

MEDICINA. IL TEST D’INGRESSO ALL’UNIVERSITA’? TRUCCATO!

Il test di medicina e il picco di clic su Google: «Qualcuno ha barato». Almeno mille candidati avrebbero avuto libero accesso alle ricerche su internet durante il test: è la tesi di uno studio di avvocati di Palermo pronto a intentare una class action e presentare un esposto alla Procura per tutelare il diritto allo studio, scrive Valentina Santarpia il 20 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Il 4 settembre, nelle ore clou del test di Medicina, Google ha ricevuto una mole incredibile di richieste su argomenti specifici, quelli delle domande del test: il 12,33% in più. Il che dimostrerebbe, secondo gli avvocati Francesco Leone e Simona Fell, che almeno mille candidati avrebbero avuto libero accesso a dispositivi connessi a internet per cercare le risposte al test. «Riteniamo – hanno sottolineato i due avvocati, sostenuti dal penalista Andrea Merlo – che sia a rischio la validità dell’intera procedura e il futuro di migliaia di studenti che resteranno fuori dalla selezione per errori non loro. Essendo una selezione nazionale, infatti, quello che succede in una singola sede si ripercuote inevitabilmente anche su tutte le altre, falsando risultati e graduatoria». Gli avvocati, in collaborazione con l’associazione studentesca Rete universitaria nazionale, hanno dato l’incarico di analizzare i dati ad Antony Russo, esperto di analisi della rete che lavora a Londra: Russo, insieme ai suoi collaboratori, ha scoperto che nel momento in cui si svolgeva il test, molto delle richieste poste ai motori di ricerca riguardavano proprio gli argomenti della selezione. E da qui hanno deciso di presentare un esposto alla Procura della Repubblica e si sono detti pronti ad una class action per tutelare il diritto allo studio. Qualche esempio? Nella nona domanda si chiedeva di inserire i due ultimi numeri nella sequenza 2-3-7-13-27. Il 4 settembre le ricerche su questa specifica sequenza sono cominciate alle 11 e 33 e secondo gli esperti di statistica la probabilità che venisse richiesta quella specifica serie di numeri è di una su 622 milioni. Più facile vincere al Superenalotto. La domanda numero 21, sul significato del termine «frattale», rappresenta un altro esempio significativo: rispetto alla media giornaliera degli ultimi anni il numero di ricerche registrato durante il test è stato esattamente del 12.423% in più. Secondo i dati diffusi dal Ministero, nelle prove del 4 settembre per i Test d’ingresso in Medicina, si è avuto un drastico calo degli idonei, con uno studente escluso ogni tre candidati. Ad affrontare il questionario 59.743 candidati sui 67.005 inizialmente iscritti alle prove. Tra loro, è risultato «idoneo» il 67,7% del totale (40.447 studenti), cioè chi ha totalizzato i venti punti minimi necessari per concorrere alla graduatoria nazionale e alla distribuzione dei posti disponibili. Un rendimento nettamente peggiore rispetto agli anni passati: nel 2017 risultò sufficiente l’87,26% dei candidati, nel 2016 addirittura il 93,7%. Altri dati significativi riguardano Catania, che è stata la città italiana con il maggior numero di candidati tra i primi cento, Verona, dove si è avuto il punteggio più alto, e Pavia dove è stato registrato il miglior rendimento percentuale.

Test medicina 2018, lo strano caso delle ricerche su Google, scrive Veronica Adriani il 21 Settembre 2018 su Studenti. Studio Leone-Fell: durante il test medicina 2018 boom di ricerche a Palermo sulle keyword delle domande delle prove. Class action ed esposto in procura. Uno strano numero di ricerche su Google a partire da 33 minuti dopo l'inizio deltest medicina 2018 proprio sulle keyword collegate ai quesiti della prova. È quanto denuncia lo studio legale Leone-Fell, specializzato nei ricorsi per irregolarità a seguito dei test d'ingresso, annunciando la class action in partenza insieme all'esposto alla Procura di Palermo per la verifica degli indirizzi IP da cui le ricerche sarebbero partite. Ad accorgersi dello strano fenomeno è stato Antony Russo, esperto di analisi della rete che lavora a Londra e che ha prodotto una relazione di sei pagine con i dettagli dell'evento. Pagine estremamente interessanti, dalle quali emerge ad esempio che una delle ricerche maggiori si è concentrata su una specifica sequenza riportata in una delle domande del test di logica. Scrive Leone: Il quattro settembre le ricerche su questa specifica sequenza sono cominciate alle 11 e 33 e secondo gli esperti di statistica la probabilità che venisse richiesta quella specifica serie di numeri è di una su 622 milioni. Più facile vincere al Superenalotto. Ma anche le altre chiavi di ricerca sono piuttosto insolite, e collegate ad altri quesiti presenti nel test: La domanda numero 21, sul significato del termine “frattale”, rappresenta un altro esempio significativo: rispetto alla media giornaliera degli ultimi anni il numero di ricerche registrato durante il test è stato esattamente del 12.423% in più. Possibile che le informazioni siano trapelate all'esterno? Forse. Ma secondo l'avvocato è più probabile che le ricerche siano partite dalle stesse sedi. Durante la conferenza stampa, Leone ha fatto sapere che: Almeno mille candidati avrebbero avuto con sé dei dispositivi connessi a Internet.  La riprova, peraltro, è in selfie e filmati scoperti in rete, alcuni mostrati – con i volti dei protagonisti opportunamente oscurati – nel corso dell’incontro con i giornalisti. Cosa accadrà ora? Intanto, fanno sapere dallo studio legale, è stata avviata una class action e presentato un esposto in Procura per verificare con la polizia postale da quali dispositivi le ricerche siano state effettivamente effettuate. Ma le segnalazioni continuano ad essere raccolte, aggiungendosi alle altre: "penso che tra breve comunicheremo alla stampa altre novità" continua Leone. Se la graduatoria dovesse confermare che le persone che hanno effettivamente fatto uso di smartphone per sostenere il test sono risultate idonee e parallelamente la procura dovesse dimostrare le irregolarità, quei 1000 posti che fine farebbero? "Dovranno essere redistribuiti tra gli studenti" afferma Leone "anche se al momento non sappiamo dire con certezza se saranno riassegnati in tutta Italia o redistribuiti solo fra i ricorrenti". Il ricorso, eventualmente, sarà comunque presentato non prima del 3 ottobre, data di pubblicazione della graduatoria ufficiale.

Test medicina: dubbi su candidati con smartphone. Che fine fanno i 1000 posti a rischio? Scrive Veronica Adriani il 21 Settembre 2018 su Studenti. Presentato esposto in procura per presunte irregolarità durante lo svolgimento del test. Che fine fanno i 1000 posti a rischio? Risponde l'Avv. Leone. "Il ricorso non partirà prima del 3 ottobre, dopo l'uscita della graduatoria ufficiale". Lo dichiara l'avvocato Francesco Leone dello studio legale Leone-Fell in merito alla vicenda delle strane ricerche su Google partite dopo poco più di mezz'ora dall'inizio del test medicina 2018 per trovare risposte in merito a specifici quesiti del test. Tra le ricerche incriminate, quella sulla soluzione di una specifica sequenza di uno dei quesiti di logica e la definizione del termine "frattale". Lo studio legale Leone-Fell ha fatto sapere di essersi attivato su due fronti: "quello penale, con un esposto in procura, per cui sarà la magistratura a perseguire eventuali reati; e quello amministrativo, con una class action che potrebbe influenzare il ricorso". 1000 i posti a rischio nel caso in cui le irregolarità, attraverso la verifica della polizia degli indirizzi IP da cui sono partite le ricerche, dovessero essere confermate. "Non sappiamo se queste mille persone siano tutte in posizione utile in graduatoria" fa sapere Leone "se fosse così, saranno indagate per truffa e i 1000 posti redistribuiti fra gli studenti". Al MIUR, in ultima istanza, decidere se i 1000 posti andranno solo ai ricorrenti o erga omnes, ovvero se saranno redistribuiti su tutto il territorio nazionale. "Al momento non sappiamo dirlo con certezza" dichiara Leone. Nel frattempo, comunque, sembra che a livello governativo ci sia un crescente interesse verso la vicenda indipendentemente dai ricorsi: "In questi giorni stiamo ricevendo telefonate da vari membri del governo e del Parlamento. Ci aspettiamo che qualcosa si smuova, forse anche prima del ricorso" fa sapere Leone.

Test Medicina 2015, irregolare: nuove segnalazioni, scrive Valeria Roscioni il 15 Settembre 2015 su Studenti. Test Medicina: ancora ricorsi. Le segnalazioni sulle irregolarità accadute durante lo svolgimento del quiz aumentano. Facciamo il punto. Non sono ancora uscite le graduatorie relative al Test di Medicina 2015 e già qualche studente sta sperando di poter essere ammesso in sovrannumero. Si sta infatti mettendo in moto sempre più la macchina dei ricorsi. Quasi ogni giorno arrivano nuove segnalazioni come quelle riportate in queste ultime ore dall’edizione online della Repubblica nella cronaca di Milano in cui si raccontano una serie di irregolarità che sarebbero accadute nel corso del quiz per entrare alla Statale. Cambiano i luoghi e gli studenti ma la storia è sempre la stessa: cellulari accesi in aula, procedure per il ritiro dei plichi del test di Medicina non rispettate e una buona dose di violazioni dell’anonimato. I racconti del Test di Medicina 2015 non differiscono poi molto da quelli degli anni precedenti: “È stato violato l'anonimato mio e di tutti i miei colleghi, vista la presenza, sui banchi e in bella vista, delle rispettive carte d'identità. La mia scheda anagrafica è stata compilata davanti a un commissario, così come gli adesivi, accuratamente incollati davanti a quest’ultimo. Dopo la consegna delle penne, ho notato che alcuni ne possedevano una seconda, prontamente utilizzata allo scadere del tempo massimo per modificare le risposte del test. Nell'attesa di consegnare gli elaborati, alcuni studenti hanno poi fatto uso dei cellulari, visto lo scarso controllo da parte degli addetti alla sorveglianza". Questo è quanto si legge su Repubblica.it che riporta anche le dichiarazioni dell’avvocato Francesco Leone, già pronto a partire con una nuova serie di ricorsi relativi al test d’ingresso di Medicina. Così, mentre in rete impazzano le polemiche contro i ricorsisti, non resta che prendere atto del fatto che anche quest’anno le segnalazioni riguardanti le prove d’accesso per i corsi a numero chiuso non mancano.

Test Medicina: spuntano nuove irregolarità, scrive Valeria Roscioni l'1 Agosto 2014 su Studenti. Graduatoria Test Medicina: il primo classificato è un primario vero e proprio. Una strana irregolarità spunta in Molise. Dopo il plico rubato di Bari, le numerose violazioni dell’anonimato e le conseguenti sentenze del Tar che ha disposto centinaia di immatricolazioni in sovrannumero, ad agitare le acque del test di Medicina adesso c’è un nuovo caso di irregolarità. A Raccontarlo è blogtaormina.it che in un articolo spiega per filo e per segno la quantomeno bislacca vicenda di un medico, anzi, di un primario, che avrebbe sostenuto la prova d’accesso per il numero chiuso in a Campobasso, arrivando primo e poi rinunciando al suo posto. Stando a quanto riportato sembra che l’uomo, un professionista affermato, abbia sostenuto il test d’ingresso per la facoltà di Medicina valido per l’anno accademico 2012-2013 e che adesso sia stato citato in giudizio dalla Procura di Campobasso perché il suo comportamento è apparso poco limpido. Questo strano caso, però, non è esattamente un unicum dato che di recente l’Udu ha segnalato una serie di iscrizioni al quiz “sospette” sostenendo che anche quest’anno qualche medico laureato abbia sostenuto la prova d’accesso in una nota Università romana. Nonostante il regolamento non vieti esplicitamente a coloro che hanno già conseguito la laurea di iscriversi al test, il dubbio sulla trasparenza di azioni di questo tipo è difficile da cancellare e il fatto che un candidato come quello del Molise abbia poi rinunciato alla propria postazione in graduatoria non immatricolandosi rende la questione ancora meno chiara. Difficile non pensare, in base a questi presupposti, che del test d’ingresso di Medicina, dei ricorsi e delle irregolarità a questo collegate sentiremo parlare ancora a lungo. 

ABOLITE I CONCORSI PER I MEDICI, VINCONO SEMPRE I RACCOMANDATI.

"Abolite i concorsi per i medici vincono sempre i raccomandati". A Milano la provocazione del presidente dell'Ordine: "Prevalgono le logiche clientelari. E si selezionano soltanto i medici che hanno un'affinità elettiva con il direttore generale", scrive Laura Asnaghi il 22 marzo 2012 su "La Repubblica". «I concorsi per i medici? Vanno aboliti. Perché a vincerli sono molto spesso i raccomandati. Ma con i concorsi combinati non si fa una buona sanità». È una denuncia che farà molto discutere quella lanciata da Roberto Carlo Rossi, il presidente dell’Ordine dei medici di Milano e provincia, da poco insediato ai vertici dell’organismo che rappresenta 25mila camici bianchi. Rossi non ha difficoltà a dire che «i concorsi rispondono spesso a logiche clientelari e la professionalità passa in secondo piano». «Purtroppo è risaputo che i concorsi sono diventati una farsa, ma nessuno ha il coraggio di uscire allo scoperto e dire le cose come stanno — ribadisce Rossi — ma visto che abbiamo toccato il fondo è meglio parlarne apertamente». Nella prossima seduta del consiglio dell’Ordine, in programma per metà aprile, fra i temi in discussione ci sarà proprio la questione dell’abolizione dei concorsi per medici. Con l’obiettivo di avviare un dibattito che, da Milano, si estenda a tutte le grandi città e diventi una questione nazionale. «È vero che non bisogna fare di ogni erba un fascio — precisa Rossi — ma ormai i concorsi ospedalieri sono sempre più mirati a selezionare medici che hanno una affinità elettiva con il direttore generale. Succede al Nord come al Sud. Ma di questo passo si abbassa la qualità della sanità, si penalizzano i medici capaci e non si dà spazio alle giovani leve». Però abolire i concorsi non basta per far valere la meritocrazia. «Certo — ammette Rossi — perché i direttori generali che già oggi hanno, per legge, diritto all’ultima parola sui candidati, avrebbero un potere ancora maggiore». La soluzione? «Rendere pubblici i curricula di un medico. Così chiunque può andare a verificare chi è stato nominato, che titoli ha, quanti interventi ha fatto. Tutte cose che oggi non è possibile fare». Rossi squarcia il velo sul tema, caldissimo, dei concorsi farsa, scatenando già le prime reazione nel mondo sanitario milanese. «Ma non scherziamo. I concorsi sono una cosa seria e vanno fatti — dice Pasquale Cannatelli, il direttore generale del Niguarda, esponente ciellino — è interesse di chi dirige gli ospedali selezionare medici capaci, che sappiano fare il loro mestiere. La gente va a farsi curare dove i medici sono bravi». Sì, ma le raccomandazioni non contano? «Beh, a parità di merito una segnalazione aiuta. Ma i direttori generali hanno tutto l’interesse a formare squadre con un alto profilo professionale. Con i “medici ciucci” non si va da nessuna parte». Di parere opposto Giuseppe Negreanu, chirurgo e rappresentante dei medici della Cgil del Niguarda. «Lo sanno tutti che, da tempo, i concorsi non servono più a selezionare i migliori — spiega — e i medici sono così demoralizzati che spesso, pur avendo le carte in regola per partecipare a un concorso, non presentano neanche la domanda perché tanto sanno che il vincitore è già stato designato in anticipo, nonostante si facciano le classiche prove scritte e orali». E aggiunge un medico, che preferisce mantenere l’anonimato: «La prova che i concorsi si fanno anche per selezione politica si vede passando in rassegna le nomine recenti fatte negli ospedali. Tra i prescelti e i direttori generali c’è quasi sempre un apparentamento politico».

Concorsi medici e raccomandati. Ecco le vostre lettere, scrive “Quotidiano Sanità” il 23 marzo 2012. Abbiamo chiesto ai nostri lettori di commentare le dichiarazioni del presidente dell'Ordine dei medici di Milano Roberto Carlo Rossi sulla farsa dei concorsi dove vincono solo i raccomandati. Ecco i vostri commenti.

Due volte idonea, ma non è servito a niente. Concordo pienamente con le affermazioni del presidente di Milano. Ho scritto più volte al ministro Fazio su questo argomento: la politica decide i primari indipendentemente dai curricula e dalla preparazione. Io sono risultata due volte idonea ai due concorsi a cui ho partecipato ma a che è servito? Secondo me tutti noi dirigenti medici svolgiamo, in effetti, per il carico di responsabilità, funzioni primariali in prima persona. Inoltre ritengo non giusto il mantenimento reale in carica a vita perchè è solo un'altra grande farsa la valutazione quinquennale. Nessuno mai dirà che quella persona non è più idonea a fare il primario quindi una volta raggiunta, la carica è a vita. Amen. Uniamoci e sosteniamo questa idea. Giuseppina Salomone (22/03/2012)

I concorsi servono solo a fare clientela. Evviva! Finalmente si parla di seria modernizzazione! Ha ragione mille volte il Presidente dell'Ordine di Milano. I concorsi servono per fare clientela ma non quella che serve alla causa della qualità, bensì a quella della quantità...dei consensi! Antonio Chiodo, medico in Lecce (22/03/2012)

Speriamo che qualcosa cambi, soprattutto per le nuove generazioni. Concordo appieno con la teoria che oramai i concorsi, se mai sono serviti a premiare le capacità professionali e scientifiche, siano una prassi ampiamente superata. E' cosa risaputa che, nonostante le parvenze di correttezza formale, la distribuzione dei posti avviene con logiche partitiche e servilistiche, compiacendo talora raccomandatari che provengono dalle zone più diverse e astratte della politica e dei centri di potere del ns. triste paese. La situazione diventa addirittura grottesca nella distribuzione delle apicalità, laddove non esiste neanche più il concorso ma la nomina avviene, su una terna scelta da una commissione plutocratica, a piena discrezionalità del Direttore Generale che raramente tiene conto del curriculum scientifico e professionale dei concorrenti ma attribuisce l'incarico solitamente al più raccomandato (il vincitore difatti è sempre noto da tempo prima della nomina ufficiale). Il sottoscritto personalmente, da libero pensatore, pur sapendo realisticamente di avere pochissime possibilità di arrivare a ricoprire per meriti acquisiti sul campo un incarico primariale, non si arrende e periodicamente presenta un’ampia mole di documenti ai concorsi di proprio interesse per creare almeno qualche elemento di disturbo a chi crede che la protezione partitica scoraggi gli eventuali avversari ad un tentativo di nomina "pulita" che però purtroppo mai accade. La speranza quindi è che almeno si superi la balla del formalismo concorsuale e che nelle nomine si cominci a tenere realisticamente conto del curriculum e delle capacità professionali e direttive, smettendo di distribuire i posti con la logica della raccomandazione che oggi è tanto in voga. Che almeno i più giovani possano contare in futuro, in un paese allo sbando, sulla meritocrazia! Anche se la speranza è realmente poca. Appoggerò personalmente qualunque tentativo di ripulire l'Italia e l'ambiente medico dalle svilenti logiche della carriera legata alla prostituzione delle proprie capacità alle lobby di potere o ai partiti. Dott. Giovanni Maria Puddu, Stroke Unit, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna, Policlinico S.Orsola (22/03/2012)

La trasparenza migliorerebbe la qualità e ridurrebbe gli sprechi. Vero, quasi sempre si sa chi sarà il vincitore nei concorsi per incarichi dirigenziali: contano più titoli di parentela e clientela. Soprattutto bisogna eliminare gli incarichi di struttura complessa per Unità Operative create per appositamente ad personam, ridurre i primariati e dare la possibilità ai professionisti di crescere ed esprimere la propria professionalità a vantaggio della salute dei cittadini e non a beneficio dell'attività privata dei primari. Più trasparenza nelle scelte e controlli senza conflitti di interesse migliorerebbe la performance del sistema e ridurrebbe gli sprechi; il resto sono solo chiacchiere. Carla Olivieri (23/03/2012)

Passare dalla dipendenza alla convenzione con aumento ore per merito. Proporrei, per evitare raccomandati e raccomandazioni, un rapporto di lavoro a convenzione, con aumento graduale delle ore attribuite per merito professionale al medico. Questa metodica, anche se può sembrare complessa, è applicabile sia ai servizi ospedalieri che ai servizi territoriali, differenziando eventualmente il monte ore ospedaliero con un pacchetto di almeno ventiquattro ore settimanali per favorire una continuità dei servizi. Del resto si avrebbero doppi vantaggi, sia per le spese aziendali, che sarebbero senz'altro inferiori rispetto al rapporto di dipendenza, sia per l'ingresso in ospedale o nel territorio di nuove leve. Dott. Paolo Grillo (23/03/2012)

Servono leggi nuove sui concorsi. L'equazione è semplice. Il DG + nominato dal politico presidente di regione in base a criteri ben noti. Il DG nomina il primario fra la rosa degli idonei senza dover giustificare la scelta, anche se la disparità dei curricula è nota. Secondo Voi qual è il criterio utilizzato per scegliere il primario? Lascio libero sfogo alla fantasia, anche se appare palese che al termine del mandato il DG potrebbe aver piacere di lavorare ancora in qualità di DG. Quindi, o cambia la legislazione vigente sulle modalità concorsuali per i primari e sulle modalità di scelta dei DG o qualsiasi altra manovra appare solo formale e non sostanziale. Franco Lavini (23/03/2012)

Nessuna legge può funzionare se manca una cultura della meritocrazia. La proposta, non nuova, potrebbe rappresentare finalmente un passo di onestà intellettuale, ma solo se Nel nostro Paese esistesse almeno un barlume di cultura del merito e di responsabilità oggettiva da parte dei direttori generali e di U.O. Qui in Italia, dove la meritocrazia è assolutamente osteggiata, rappresenta ancora un'utopia. Come verranno costruiti i curricula, nelle "onestissime" università? Quando mai i direttori sono stati chiamati a rispondere della loro inefficienza o di scelte sbagliate e chissà se o quando mai avverrà? Qui in Italia nessuno perde i privilegi acquisiti; e chi sperpera o distrugge patrimoni economici od organizzativi riceve una buonuscita e un altro o più incarichi equivalente, magari più remunerati. Nessun manager pubblico, a qualsiasi livello, neanche in campo medico, paga in solido per non aver raggiunto gli obiettivi. Le revoche di incarico ai direttori di U.O per inefficienza sono anedottici o comunque pure eccezioni che confermano la regola. Anni orsono proposi qualcosa di simile al mio sindacato di ospedalieri, ricevendo critiche ed improperi, che posso a buona ragione definire ipocriti quando non assolutamente miopi, da parte di colleghi. Il sistema andrebbe riformato alla radice; ci vorrebbe una evoluzione culturale, frutto di cambi generazionali, prima che raccomandazioni, clientele e nepotismi cessino di negare pari opportunità ad un qualsiasi onesto collega meritevole ma "figlio di nessuno". Se la proposta venisse accettata, poco o nulla cambierebbe; solo che non esisterebbe più il problema, relativo, di truccare le procedure concorsuali fornendo argomenti e risposte in anticipo ai candidati in pectore. dott. Andrea Zancanaro (24/03/2012)

MEDICI SPECIALIZZATI ED IL CONCORSO TRUCCATO.

Il caso del concorsone delle scuole di specializzazione di medicina.

Medicina, concorso da rifare. L'ira dei candidati e lo spettro dei ricorsi. Ondata di proteste e minacce di ricorrere alla giustizia dopo la beffa dei test per la specializzazione sbagliati. Un danno che mette in crisi la prima prova nazionale "anti-baroni". E che aumenta l'incertezza dopo la riammissione di oltre 5mila esclusi alle prove di accesso. Si dimette il presidente del Cineca, scrive Angelo Melone su “La Repubblica”. "Egregia Ministra, non le sembra di minimizzare il problema facendo ripetere la prova il 7 novembre? Ha capito sì o no che ci sono circa 8000 medici che dovranno ripetere in una sola mattina 30 +30 quiz? Decisamente condizioni diverse per richiesta di energie e concentrazione rispetto a chi farà solo 30 quiz. Inoltre lo sa o no che molti di questi giovani medici sono disoccupati nonostante la laurea conseguita da più di un anno, il tirocinio per l'abilitazione, il test per l'abilitazione, l'iscrizione all'albo, e tutto è stato pagato profumatamente dai loro genitori compresi l'iscrizione al concorso per la scuola  di specializzazione e le spese sostenute per mantenerli quattro giorni nella sede loro assegnata per il concorso in questione?" E solo una delle tante mail di protesta - con nome e cognome - arrivate nella notte appena trascorsa a Repubblica.it dopo aver letto sul sito la notizia delle prove annullate per errori nei test del concorso per l'accesso alle scuole di specializzazione di medicina. Una beffa che coinvolge ben 11.242 partecipanti su 12.168. Il messaggio è della madre di uno dei giovani medici e fotografa la gravità dell'errore e dei problemi che provoca. In effetti c'è poco da minimizzare. E ai concorrenti certo non basteranno le scuse fornite subito dal ministro Giannini con l'ammissione di responsabilità della società che gestisce i concorsi per test - il Cineca: "Il Consorzio universitario ha ammesso di aver fatto un grave errore, un gravissimo errore materiale e umano - dice il ministro a Repubblica -. Ora dovranno capire bene al loro interno che cosa è successo e noi valuteremo il nostro rapporto con loro. Questa volta l'hanno fatta grossa". E nel pomeriggio si è dimesso il presidente del Cineca. Il ministro appena avuta la certezza dell'errore ha annullato i test. Chiaramente Stefania Giannini sottolinea che "questo errore era fuori dall'immaginazione e non è colpa diretta del Ministero". Ma già le organizzazioni universitarie e della ricerca - nonché i singoli studenti - stanno pensando a ricorsi, mentre per il ministero (e per l'università italiana) la beffa è doppia. Perché - malgrado le tante incertezze e i dubbi sul meccanismo di gestione delle graduatorie a concorso completato - questo era di fatto considerato il primo concorso della svolta per l'accesso alle scuole di specializzazione. Il primo concorso "anti-baroni", con una prova unica nazionale che segna il superamento dei concorsi locali gestiti dagli atenei. Ora il paradossale errore, la rabbia dei candidati e la complessa macchina che deve rimettersi in moto in pochi giorni. Per una nuova prova in condizioni decisamente diverse e sotto la spada di Damocle dei ricorsi. Che si aggiungeranno a quelli - vincenti - di una gran quantità di studenti dopo la prova per accedere all'inizio della strada per diventare medici: i tanto contestati test di accesso alla facoltà di Medicina: non va dimenticato che il Tar ha riammesso finora ben oltre cinquemila dei diecimila partecipanti alle prove. Un meccanismo - questo dei test di accesso - che il ministro per primo afferma di voler cambiare. Ma a questo punto l'incertezza intorno all'avvio della professione medica rischia di essere totale.

Medicina, test annullati. Ecco ora cosa può accadere, scrive Salvo Intravaia su “La Repubblica”. E' il caos sulle specializzazioni mediche 2014. Il giorno dopo la scoperta del clamoroso errore commesso dal Cineca sui test di ammissione alle specializzazioni mediche consegna ai 12mila aspiranti camici bianchi un futuro quanto mai incerto. E al ministero dell'Istruzione una bella gatta da pelare, tra risorse economiche che potrebbero non bastare più e il rischio di una valanga di ricorsi che si preannunciano "quasi vinti" in partenza. Il papocchio creato alla prima uscita di una specializzazione medica nazionale voluta per contrastare lo strapotere dei baroni universitari è da dimenticare. Al punto da fare preferire quasi la vecchia selezione per singolo ateneo. L'idea venuta in mente al ministro Maria Chiara Carrozza e portata avanti dal suo successore di sdoganare le specializzazioni mediche dagli interessi localistici e dalle solite raccomandazioni che favorivano i soliti noti costituisce un vero passo avanti per il nostro Paese. Ma il suo esordio è stato un pasticcio. Lo scenario che si apre dopo l'ammissione che le 30 domande "generaliste" comuni a due delle tre aree del concorso, che metteva in palio 5mila borse di studio, sono state per errore invertite è quanto mai incerto. Cosa accadrà a questo punto non lo sa nessuno perché, secondo gli studenti, la soluzione adottata a caldo dal ministero  -  di fare ripetere il prossimo 7 novembre il quiz con le sole trenta domande incriminate  -  non sembra la migliore e già gli avvocati stanno affilando le armi per centinaia di ricorsi ai giudici amministrativi. Vediamo perché. Il meccanismo per assegnare la borsa di studio quinquennale, quest'anno, prevedeva una selezione nazionale basata su test a risposta multipla. Le aree sono tre: Medica, Chirurgica e dei Servizi clinici. Ogni candidato  -  già laureato in medicina  -  poteva partecipare alla selezione per due specializzazioni per area. In tutto sei. E molti aspiranti medici, per specializzarsi, sfruttano l'intero numero di opzioni. La selezione si è svolta lo scorso 28 ottobre con una prima batteria di 70 quiz comuni a tutte le aree. Ed è proseguita il 29, 30 e 31 con altre 40 domande diverse per singola area strutturate in questo modo: 30 comuni alla singola area e 10 diverse per ogni scuola di specializzazione. Il Cineca  -  il consorzio interuniversitario, con sede a Bologna  -  si è accorto che nel codificare le 30 domande comuni alle singole aree ha invertito quelle relative alle aree Medica e dei Servizi clinici. E che per tutti coloro che hanno partecipato al test per scuole di specializzazione nelle due aree in questione dovranno ripetere i quiz. Ma non tutti, soltanto i trenta invertiti. Si tratta, secondo quanto comunicato dal Miur, del 92 per cento dei candidati: 11.242 su 12.168. Ma le trenta domande in questione facevano parte di un complesso di 110 domande che decideva la sorte degli specializzandi. I quali, dopo avere terminato la prova informatizzata, avevano già l'idea del risultato, perché il terminale dava loro in tempo reale il punteggio ottenuto. E se questo era alto, la probabilità di essere ammessi era alta. Ma con l'errore del Cineca tutto viene rimesso in discussione. Secondo Gianluca Scuccimarra, portavoce dell'Unione degli universitari, l'unica soluzione che potrebbe adottare il governo per non andare incontro ad una valanga di ricorsi è quella di aumentare a 12mila le borse di studio. Ma occorrerebbe trovare circa 600/700 milioni di euro in più. Un'altra soluzione sarebbe quella di ripetere l'intera selezione ma per rifare il bando con tutti i visti necessari potrebbero occorrere sei mesi e a febbraio potrebbe scattare l'altra selezione. A questa hanno partecipato tutti coloro che erano già laureati entro lo scorso 30 settembre. Gli studenti chiedono che venga eliminato l'imbuto presente nella legislazione italiana: in Italia si laureano in medicina ogni anno da 6 a 7mila giovani. Che poi, per la specializzazione, devono superare un altro test a numero chiuso. I 12mila di quest'anno rappresentano i giovani laureati più coloro che non ce l'hanno fatta ad entrare in una scuola di specializzazione negli anni scorsi. Senza questo titolo, non è possibile esercitare la professione se non nelle guardie mediche e con le sostituzioni dei medici di base in ferie. Ecco perché la concorrenza è agguerrita.

Il pasticcio della specializzazione di Medicina. Lascia il responsabile dei test: “Atto doveroso”, scrive “La Stampa”. Scuse ai candidati, alle loro famiglie e al Ministero. “Ci rendiamo conto dell’errore”. Dopo le polemiche e la rabbia degli 11 mila candidati, cade la prima testa nello scandalo dei test di ingresso alle specializzazioni di Medicina annullati per i quiz invertiti. Emilio Ferrari, presidente del Consorzio universitario che ha preparato le prove, si è dimesso dopo essere stato scaricato dal ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, che aveva parlato di «grave errore». «È un atto dovuto da parte mia portare a termine questa operazione, dopo di che convocherò gli organi del Consorzio e rimetterò nelle loro mani il mio mandato perchè questo mi sembra un atto doveroso», annuncia Ferrari a RaiNews24. «Considereranno poi gli organi del consorzio il da farsi». La decisione, che fa seguito alle immediate ammissioni di responsabilità di ieri, potrebbe tuttavia non essere sufficiente a placare gli animi dei medici, che con le loro associazioni chiedono chiarimenti, indagini, e in qualche caso anche la “testa” dello stesso ministro. Angosciati anche gli oltre 11 mila candidati coinvolti, che in teoria dovrebbero ripetere le prove il 7 novembre, secondo modalità che il ministro dovrebbe ufficializzare domani, tra mille difficoltà pratiche e burocratiche. «Quello che purtroppo si è verificato - ha spiegato Ferrari a Rainews24 - è stato un errore di caricamento dei dati relativi alla parte comune dell’aerea medica, svolta il mercoledì, e quelli relativi all’area dei Servizi clinici, svolta due giorni dopo, c’è stato un caricamento incrociato nel blocco delle domande. Questo purtroppo è quello che si è verificato». «Mi sono sentito in dovere di porgere le scuse ai candidati - ha proseguito - alle loro famiglie e anche al ministero. È chiaro che è nostro dovere porre rimedio alla cosa, quindi ci faremo carico di quello che ci verrà richiesto. Per noi adesso l’importante è che la prova si svolga correttamente, molto probabilmente nella giornata di venerdì 7. A questo ci stiamo preparando, anzi posso dire che siamo già pronti. Questo è ora il nostro obiettivo». E ha ribadito: «Ci rendiamo conto dell’ errore». Il fatto è che l’errore in questione non è il primo, e che a farne le spese, stavolta, è stato il primo concorso nazionale per l’ammissione alle specializzazioni mediche che, almeno nelle intenzioni del governo, dovrebbe incoraggiare maggiori meritocrazia e trasparenza rispetto alle precedenti selezioni in ambito locale. Obiettivi che il ministro Giannini, in una intervista a Repubblica, ha confermato in pieno, pur constatando «un grave errore, un gravissimo errore materiale e umano» da parte del Cineca. Il ministro Giannini addita responsabilità, chiarisce, difende le sue scelte e promette di sanare le falle del sistema. Esclude, soprattutto, che questo errore possa mettere in discussione il concorsone nazionale per le specializzazioni di medicina: «Il test nazionale è il risultato di una valutazione negativa delle prove locali, che in più occasioni aveva dato adito a falle molto più gravi: non trasparenza, poco rigore nelle valutazioni. Il test nazionale», continua Giannini, «è la migliore scelta per la qualità e la sicurezza dell’accesso alle scuole di medicina». Un traguardo condiviso anche dai giovani medici dell’Anaao: «Continuiamo a credere che il concorso nazionale debba rappresentare la modalità di accesso alle specializzazioni, sempre che non vi siano altre strade da percorrere - affermano in una nota accorata in cui chiedono, oltre al risarcimento delle spese, che il ministro riferisca in Parlamento e poi si dimetta - ma allora deve prevedere controlli più rigorosi, tali da evitare queste incresciose irregolarità». Tra i medici c’è chi si spinge oltre, come l’Acoi, che propone il trasferimento delle competenze sulla formazione dei medici al ministero della Sanità, o come il presidente degli odontoiatri, che parla di sospetta «volontà di affossare la programmazione». Ipotesi, questa, recisamente respinta dal direttore del Cineca, Marco Lanzarini, che, a Tgcom24, esclude ogni ipotesi di «sabotaggio»: «È stato solo un errore materiale. Lo garantiamo al cento per cento». Un errore che potrebbe portare in futuro alla revoca del mandato da parte del ministero, messo sotto pressione anche dalla politica. Dopo le critiche di Forza Italia e Fdi, è stato oggi il deputato del Pd Filippo Crimì a chiedere di «perseguire i responsabili» affinchè «un metodo di selezione meritocratico non venga infangato a causa delle inefficienze amministrative».

Test annullato, il Miur fa dietrofront. «Le prove del 29 e 31 sono valide». A poche ore dalla manifestazione dei candidati e dopo una giornata di polemiche e accuse. Ordine dei medici: nebbia insopportabile, scrive Claudia Voltattorni e Valentina Santarpia su “Il Corriere della Sera”. Dopo una giornata di polemiche, il Miur fa dietrofront. «Le prove per l’accesso alle Scuole di specializzazione in Medicina del 29 e 31 ottobre non dovranno essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i test»: lo annuncia il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini nella tarda serata di lunedì, dopo aver riunito a Roma la Commissione nazionale incaricata questa estate di validare le domande del quiz. La Commissione ha vagliato i quesiti proposti ai candidati per l’Area Medica (29 ottobre) e quella dei Servizi Clinici (31 ottobre) stabilendo che, sia per l’una che per l’altra Area, 28 domande su 30 sono comunque valide ai fini della selezione. I settori scientifico-disciplinari di ciascuna Area sono infatti in larga parte comuni. A seguito di un confronto avuto con l’Avvocatura dello Stato e del verbale della Commissione si è deciso di procedere, dunque, con il ricalcolo del punteggio dei candidati neutralizzando le due domande per Area che sono state considerate non pertinenti dal gruppo di esperti.

Sventata la protesta?

«Questa soluzione - spiega Giannini - è il frutto di un approfondimento che ho richiesto da sabato convocando la Commissione nazionale e interpellando l’Avvocatura dello Stato per tutelare gli sforzi personali e anche economici dei candidati e delle loro famiglie a seguito del grave errore materiale commesso dal Cineca», conclude il ministro, ad un giorno dalla manifestazione indetta per mercoledì 5 novembre davanti al Miur dai giovani medici che la settimana scorsa hanno partecipato al primo concorso nazionale organizzato dal Miur per accedere alle oltre cinquemila borse di studio delle Scuole di specializzazione di Medicina che permetteranno loro di esercitare la professione. E quelli a cui da sabato è cambiata la vita, da quando cioè il ministero ha dichiarato nulle le prove di due su 4 giorni (29 e 31 ottobre) per l’inversione delle domande dell’area medica con quella dei servizi clinici. L’Associazione italiana giovani medici (Sigm) e il Comitato Nazionale Aspiranti Specializzandi ha ottenuto l’autorizzazione pr un sit-in davanti al ministero in viale Trastevere durante il quale verrà chiesto un incontro al ministro Stefania Giannini. La responsabilità dello scambio dei test è del Cineca, il consorzio interuniversitario che ha gestito il concorsone (12mila postazioni con pc in 442 sedi in tutta Italia sostenuto in contemporanea), i cui vertici domenica hanno annunciato le dimissioni. Ma la rivolta è partita e il caso ormai è esploso. Oltre all’annuncio di ricorsi e cause collettive. E’ intervenuto anche l’Ordine dei Medici che chiede «rispetto per i nostri giovani e per il loro impegno e le loro speranze» e parla di «un’insopportabile nebbia che ormai avvolge tutta la Formazione medica, dall’accesso alle Scuole di Medicina alla Formazione post lauream» e «questi errori nel sistema, che vanno tragicamente ad accumularsi, sono perfetti indicatori del baratro di una crisi senza uscita». Accuse anche dalla Cgil con Gianna Fracassi che dice: ««Il Miur non può pensare di rimediare al pasticcio rimettendo indietro le lancette dell’orologio: ripetere la prova nazionale, da noi fortemente voluta, non è sufficiente». Massimo Cozza, segretario nazionale Fp-Cgil Medici, sottolinea: «Non vogliamo tornare al passato: il concorso nazionale con un’unica graduatoria è frutto di una battaglia che ci ha visto impegnati in prima linea e che difenderemo nonostante l’inaudita incapacità dimostrata da chi doveva gestire il concorso. Certo non ci immaginavamo che una gestione quantomeno pressappochista trasformasse un successo in una pessima figura per il Ministero dell’Istruzione e per la pubblica amministrazione. Noi saremo al fianco dei giovani medici che hanno subito un danno e continueremo a batterci per una prova nazionale che abbia la garanzia di una procedura trasparente e rispetti le norme: Si premi realmente chi merita». E la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo) annuncia una lettera al presidente del Consiglio: «È certo che tutte le responsabilità coinvolte debbano assumere gli atti conseguenti, essendo in gioco la credibilità e la serietà delle istituzioni».

Test medicina, la Giannini: non saranno ripetuti. Il Ministero annuncia di aver trovato una soluzione, considerando effettivamente invalidanti solo due quesiti sui trenta dubbi. Il concorso viene dunque ritenuto valido con un minimo ricalcolo del punteggio. La beffa dei quiz mal posti e l'ira dei 12mila medici concorrenti. Ma resta la minaccia dei ricorsi, scrive “La Repubblica”. "Le prove per l'accesso alle Scuole di specializzazione in Medicina del 29 e 31 ottobre non dovranno essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i test". Lo annuncia a tarda sera una nota il ministro dell'Istruzione. Stefania Giannini che ha riunito a Roma la Commissione nazionale incaricata questa estate di validare le domande del quiz. "La Commissione -precisa la nota - ha vagliato i quesiti proposti ai candidati per l'Area Medica (29 ottobre) e quella dei Servizi Clinici (31 ottobre) stabilendo che, sia per l'una che per l'altra Area, 28 domande su 30 sono comunque valide ai fini della selezione. I settori scientifico-disciplinari di ciascuna Area sono infatti in larga parte comuni. A seguito di un confronto avuto con l'Avvocatura dello Stato e del verbale della Commissione si è deciso di procedere, dunque, con il ricalcolo del punteggio dei candidati neutralizzando le due domande per Area che sono state considerate non pertinenti dal gruppo di esperti". "Questa soluzione - spiega Giannini - è il frutto di un approfondimento che ho richiesto da sabato convocando la Commissione nazionale e interpellando l'Avvocatura dello Stato per tutelare gli sforzi personali e anche economici dei candidati e delle loro famiglie a seguito del grave errore materiale commesso dal Cineca", conclude il ministro. Poco meno di 48 ore convulse per trovare una soluzione dopo aver constatato senza dubbio un errore nei test e il conseguente annuncio della possibile ripetizione della prova.  che si è trasformato - ma ora probabilmente è stato evitato - in una beffa per ben 11.242 partecipanti su 12.168. "Il Consorzio universitario ha ammesso di aver fatto un grave errore, un gravissimo errore materiale e umano - aveva detto a caldo il ministro a Repubblica -. Ora dovranno capire bene al loro interno che cosa è successo e noi valuteremo il nostro rapporto con loro. Questa volta l'hanno fatta grossa". E ieri, infatti, si è dimesso il presidente del Cineca. Ora il ministero indica una via d'uscita, mentre - oltre alle reazione furibonde di medici concorrenti e famiglie - il rischio di una pioggia di ricorsi era sicura, e si vedrà se è stata evitata. Beffa di sicuro per il ministero (e per l'università italiana). Perché - malgrado le tante incertezze e i dubbi sul meccanismo di gestione delle graduatorie a concorso completato - questo era di fatto considerato il primo concorso della svolta per l'accesso alle scuole di specializzazione. Il primo concorso "anti-baroni", con una prova unica nazionale che segna il superamento dei concorsi locali gestiti dagli atenei.

"Io, candidato al test dei copioni". La lettera dello specializzando a Medicina. Riceviamo e pubblichiamo questa mail sul pasticcio del Cineca che costringe il Ministero dell'Istruzione a richiamare i candidati per un nuovo test, scrive “La Repubblica”.

"Gentile redazione, mi chiamo Jaro, ho trentacinque anni, due lauree ed una figlia. La scorsa settimana dopo un anno di attesa dall'agognata laurea in medicina, dopo slittamenti, cambi in corsa e proroghe, finalmente inizio il nuovissimo test di selezione. Mi presento come scritto da regolamento alle 8:30 nell'aula di informatica del liceo Castelnuovo. Mi ritengo fortunato, essendo uno dei pochi ad essere rimasto vicino casa. Non devo prenotare una camera di albergo e posso tornare a casa a dare una mano alla mia compagna che sta allattando la bimba di 3 mesi. Nella mia aula, composta perlopiù da medici del '79, conosco un medico legale, una tossicologa un urologa e due medici di medicina generale. Si, già specializzati. Con la coda tra le gambe e intimorito mi siedo alla mia postazione, e mi dico caspita sarà dura vincere con così tante persone che hanno un esperienza di almeno 5 anni come medici ospedalieri. La mia postazione è composta dal monitor, da una busta di plastica nera che contiene la tastiera rigorosamente controllata come se contenesse pepite d'oro e dal case del computer utilizzato come barriera visiva dal monitor dei concorrenti accanto. Una volta registrati non possiamo andare in bagno, regola rigorosamente rispettata fino all'ultimo minuto dell'ultimo giorno. Comincia la prova, mi rendo immediatamente conto che i miei 6 anni di studi verranno giudicati in base a quiz riguardo al nematode loa loa; a quali virus a rna; se lantigene faccia parte o meno del LPS. Insomma argomenti di importanza zero per un qualsiasi medico. Comincia la prova, finisce la prova. Appare il risultato. 32,6. Che schifo. Mi giro verso gli altri. Il mio voto non è il peggiore. Viene affisso il punteggio di ogni singolo candidato fuori dalla porte. Azz... il mio punteggio è nella parte alta della gaussiana. Torno a casa. Accendo il mio laptop. Cominciano ad arrivarmi notizie dei punteggi in tutta Italia, il mio è di 10/15 punti sotto media. Sono fuori sicuro. Mi faccio delle semplici domande. Le risposte le trovo nelle foto allegate. Ideare un concorso in cui le persone possono tranquillamente guardare dal computer accanto in aule in alcuni casi con 40/50/60 persone è una completa follia. La durata della prima prova di 110 minuti ha consentito là dove è stato possibile di utilizzare almeno un'ora per discutere ogni singola domanda. Morale: sorveglianza disomogenea, barriere visive disomogenee, tempi lunghissimi. Test non adatto a selezionare nessun essere umano dotato di cervello. Arrabbiato, deluso e preoccupato mi presento per i giorni successivi di prova dove mi dico che forse grazie alla mia precedente laurea triennale in tecniche di radiologia riuscirò a riprendere dei punti su persone con meno esperienza. Quella prova l'ho fatta bene. Poi il Cineca ed il Miur hanno sbagliato a distribuire la parte della macroarea.  Oggi mi chiedo quale sia il significato di Stato. Arrivederci. Ps. Nonostante non ci sia lavoro, il wellfare non esista e la precarietà sia ormai consolidata fate figli. I bambini sono incredibilmente profumati di buono. Lettera firmata".

La denuncia: Aule in cui si copia, niente controlli, risultati molto diversi da città a città. La mail di Claudia, che chiede un esame serio per la specializzazione medica, scrive Claudia d.C. su “Il Corriere della Sera”. Tra il 28/31 ottobre, circa 12000 medici abilitati hanno svolto il test di ingresso, ripartiti in 442 aule (in 117 sedi). Il test è stato strutturato sulla base di 110 domande a risposta chiusa (da scegliere fra quattro alternative). Ogni candidato aveva una propria postazione informatica per svolgere il test. Per un medico abilitato questo test è la via maestra per accedere alla scuola di specializzazione medica e poi esercitare la professione medica inserendosi nel Ssn. La scuola di specializzazione dura, peraltro, quattro/cinque anni ed è retribuita all’incirca 1800 euro mensili. Mi pare, quindi, superfluo sottolineare l’importanza fondamentale della regolarità e serietà del suddetto test al fine di garantire una selezione realmente basata sul merito piuttosto che sulla furbizia o sulla fortuna. Di seguito riporto un elenco delle irregolarità, manifeste o presunte, nelle quali mi sono imbattuta. Se l’argomento è, per voi, di interesse giornalistico, sono certo che potrete approfondire e verificare, facilmente, le suddette. Molte delle seguenti irregolarità sono addirittura reperibili nei verbali di aula. Al di là di questo, in mia opinione, la dimostrazione più evidente ed inconfutabile della irregolarità del test risiede nella disparità incredibile delle medie parziali conseguite dalle diverse aule. Basta controllare le liste di punteggi di aule particolarmente esemplificative, confrontando i risultati. I dati sono pubblici ed immagino sarà possibile chiedere al Miur i punteggi delle singole aule per stabilire un confronto e valutare la veridicità statistica dei risultati. Io lo farò di certo, prossimamente, e vi ringrazierei se voi poteste fare altrettanto. Nei file allegati ho oscurato i dati sensibili, nel caso ci fossero problemi di privacy. Infine:

1) La sorveglianza nelle 442 di aule ove si è svolto il test è stata, in molte sedi, inesistente ed ha permesso ai candidati di copiare dai colleghi buona parte del test. Avevamo chiesto ufficialmente al Miur l’intervento delle Forze dell’Ordine, invece tutto è stato dato in mano a personale non Ufficiale Pubblico che in numerosi casi ha non guardato o non voluto vedere scorrettezze e irregolarità.

2) Ai candidati è stata data la possibilità di scegliere la postazione da occupare, contrariamente a quanto indicato nel bando. Era possibile (direi molto semplice) occupare la postazione adiacente a quella di un amico o conoscente e svolgere gran parte del test assieme (vista di nuovo la carente sorveglianza);

3) Le postazioni erano troppo vicine. Era possibile per la maggior parte dei candidati leggere chiaramente il test delle persone circostanti;

4) Si sono verificati numerosi black-out o guasti ai computer, con differenti scelte da parte della Commissione di far ripetere la prova al singolo candidato o a tutta l’aula dopo ore in cui i candidati hanno potuto confrontarsi e migliorare quindi i propri punteggi;

5) A partire dal secondo giorno in molte sedi, contrariamente a quanto indicato dal bando, ai candidati è stato permesso di non consegnare il proprio telefono cellulare, da sigillare in busta;

6) In alcune sedi ai candidati era permesso, contrariamente a quanto in indicato dal bando, di andare in bagno durante le prove. In altre sedi alcuni candidati hanno dovuto invalidare la propria prova, come da regolamento, a causa dell’estrema urgenza di andare in bagno;

7) In alcune aule i computer erano addirittura collegati alla rete;

8) Il Cineca ha erroneamente invertito 2 delle 4 prove. Di conseguenza il Miur ha stabilito di annullare e ripetere solo le prove oggetto dell’errore il giorno 7 novembre. Non ritengo, ovviamente, che questa sia in alcun modo una “irregolarità”, ma semplicemente una ulteriore prova della completa incompetenza della organizzazione di tutto il concorso. Quello che chiedo è che a questa grave situazione venga dato il risalto mediatico che merita.

Penso che un giovane medico abbia il diritto di poter continuare la propria formazione con successo o meno solo in base ai propri meriti e capacità. Credo anche che sia nell’ interesse della comunità tutta usufruire, in futuro, di personale medico selezionato in base al merito piuttosto che, come ho detto, alla furbizia o alla fortuna. In fondo tutto quello che vorrei è partecipare ad un test regolare.

Il caso del test per le specializzazioni mediche è l’ultimo di una serie di "incidenti" che hanno scosso il mondo dell’università e il sistema dei test di ingresso. Tra baroni, bonus maturità e plichi scomparsi, Skuola.net ricorda i 7 episodi più controversi che hanno fatto infuriare gli studenti. Intanto mercoledì su spinta di un movimento studentesco, è stata organizzata una manifestazione a Roma: a Bari meeting point alle 2 di notte davanti al Policlinico, in piazza Giulio Cesare da dove partiranno i pullman per la capitale.

#7 SPECIALIZZAZIONI DA RIFARE – E' il più recente tra i "pasticci" quello riguardante la prova di ingresso per le specializzazioni in Medicina del 29 e 31 ottobre. Quest’anno  per la prima volta l’accesso alle specializzazioni mediche è gestito dal Miur a livello nazionale e non dai singoli atenei, scardinando il sistema dei cosiddetti "baroni" all’università. Tuttavia è stato riscontrato un grave errore nelle prove che ha reso necessario l’annullamento: sono stati invertiti i quesiti delle prove redatte dal Cineca del 29 ottobre con quelli del 31 ottobre. L’inversione ha riguardato esclusivamente le 30 domande comuni a ciascuna delle due Aree, Medica e dei Servizi Clinici.

#6 TEST DI MATEMATICA E CHIMICA – Al test di ingresso di Chimica alla Sapienza di Roma, nel questionario mancava la batteria di 10 domande di chimica. Il primo ad accorgersene si è alzato ed è andato a chiedere spiegazioni in segreteria. L'arcano è stato svelato: per un errore nella consegna del plico quel giorno in 20 si sono ritrovati a svolgere la prova di matematica al posto di chimica.

#5 IL GIALLO DEL PLICO SCOMPARSO – Il clamoroso caso della sparizione di un plico all’Università di Bari in occasione del test di ingresso a Medicina 2014 è stato poi spiegato riconducendolo a un errore di spedizione. Tuttavia l’avvenimento ha creato non poco scalpore mettendo in dubbio la regolarità del test e dell’efficienza delle procedure di sicurezza. Per questo e altri casi di irregolarità durante l’ultimo test di medicina il Tar del Lazio ha accettato il ricorso di migliaia di esclusi.

#4 I VINCITORI ANNUNCIATI – Nel 2013 i nomi dei vincitori e degli esclusi per il concorso pubblico per il reparto di Cardiologia de La Sapienza erano già conosciuti nell’ambiente, tanto che un aspirante specializzando avrebbe inviato una lettera a un quotidiano comunicando in anticipo i nomi dei vincitori del concorso. Quando sono effettivamente uscite le graduatorie, queste corrispondevano perfettamente a quelle previste dal "medico deluso".

#3 L’AVVENTURA DI PARMA E PAVIA – Nel 2013 un altro caso di annullamento del test di ingresso: quello per Professioni Sanitarie annullato a Parma e Pavia per via di errori all’interno del test. Nell’ateneo pavese, gli studenti hanno dovuto ripetere la prova di ammissione perchè le 60 domande contenevano quattro opzioni di risposta anzichè le cinque previste. A Parma, invece, si trattò di un errore del questionario: incongruenze tra il testo e i quiz relativi a un documento storico sull'agricoltura del '700. In quest’ultimo caso, fu ancora il Cineca a sbagliare.

#2 CARTE D’IDENTITA' SUI BANCHI – A Palermo gli aspiranti camici bianchi del 2013 si infuriarono per la violazione del segreto d’identità al test di ingresso di Medicina. Ai candidati fu chiesto infatti di compilare la scheda anagrafica prima dello svolgimento dei test e di tenerla esposta sul banco accanto al documento di riconoscimento. I giudici amministrativi palermitani dichiararono l’invalidità dei test ordinando di ammettere, anche in soprannumero, gli stessi ricorrenti al corso di laurea per l’anno accademico 2013-2014.

#1 BONUS MATURITA' ANNULLATO IN CORSA - Nessuno si aspettava che mentre in tutta Italia migliaia di studenti erano impegnati nel test di ingresso di Medicina, il Consiglio dei Ministri stava decidendo di abolire una volta per tutte il bonus maturità. Una volta usciti dalle aule, si scatenò la rabbia e le proteste delle aspiranti matricole che confidavano nel bonus per ottenere preziosi punti in più. Per risolvere la situazione si decise di ammettere tutti gli esclusi che, grazie al bonus, avrebbero ottenuto un punteggio valido per entrare.

I MEDICI DI FAMIGLIA ED IL CONCORSO TRUCCATO.

Medici di famiglia, Lorenzin apre "indagine" sul concorso truffa, scrive Corrado Zunino su “La Repubblica”. Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha deciso di muoversi sullo scandaloso concorso di Medicina generale svolto in tutta Italia mercoledì 17 settembre 2014. Richiamata dalle notizie allarmanti  - sedi sovraffollate, scarsi controlli, possibilità di  utilizzo di telefonini e libri - e da dettagli inviati da diversi candidati direttamente alla sua casella di posta elettronica e all'indirizzo Twitter, la Lorenzin ha chiesto agli Ordini dei medici regionali di inviarle tutte le segnalazioni. Il presidente dei giovani medici (Sigm), Walter Mazzucco, si è portato avanti con il lavoro e ha inviato al ministro e al presidente dell'Ordine dei medici una prima lista  -  controllata, con i denuncianti che utilizzano spesso nome e cognome - di ventitré casi, corredati con l'ormai famosa "gallery di Salerno": una serie di foto scattate (da uno smartphone) nell'aula grande dell'ospedale campano che immortalano persone intente a copiare. Basterebbe questo dossier per dichiarare nulla la prova di Medicina generale. Nelle denunce si legge: "Decine e decine di cellulari all'Hotel Ergife di Roma", e così alla facoltà di medicina di Padova. Prove "sovraffollate e senza controllo" in Friuli e commissari del test della Regione Sicilia che agli esaminandi dicono: "Ragazzi, copiate con moderazione". Nella quarta commissione siciliana si è assistito alla discussione tra candidati di un caso clinico coram populo, "con tanto di ampia gesticolazione". E poi vengono segnalate in Lombardia millecento persone stipate "a dieci centimetri una dall'altra, con scambio di posti per avvicinarsi agli amici", copiature in serie a Genova e per la prova toscana, smartphone accesi per 120 minuti a Bari, risposte multiple "date in comunità" a Torino.  I giovani medici invitano il ministro e le istituzioni competenti "a fare chiarezza e valutazioni prima che le graduatorie siano pubblicate". Federspecializzandi, l'associazione nazionale dei medici specializzandi, chiede la ripetizione del concorso. Rifare il test, si legge in una nota, "è un'eventualità necessaria a fronte delle numerose situazioni di irregolarità nello svolgimento del concorso". Ecco: "Riteniamo inaccettabile che l'accesso alla formazione in medicina generale, anziché basarsi sui principi della trasparenza, della meritocrazia, del premio dell'onestà dei candidati, si sia svolto in strutture e in un clima che rischiano di favorire i furbetti anziché i meglio preparati". Il sindacato dei medici italiani (Smi) annuncia un'azione giudiziaria collettiva: "Serve un intervento urgente" anche perché a ottobre ci sarà la prossima sessione di ammissione. "I giovani medici hanno diritto a concorsi basati sulla meritocrazia e non sulla truffocrazia".

Medici di famiglia, l'ultimo concorso bluff tra cellulari e compiti copiati, scrive Corrado Zunino su “La Repubblica”. Le denunce si accavallano sui social network: telefonini che trillano ripetutamente, candidati seduti in gruppo, discussioni ad alta voce sulle risposte. E molti hanno chiesto l'annullamento. Il suono del messaggino planato su WhatsApp rimbombava distinto nella sala dell'ospedale di Salerno, dove era in corso il concorso per diventare medici di famiglia. Una ragazza, in buona tranquillità, stava ricevendo le risposte del test sul suo smartphone e il presidente di commissione si limitava ad alzare la voce: "Spegnete i telefonini". Come, spegnete? Non ci devono stare i telefonini a un concorso pubblico che a 990 laureati e abilitati darà l'accesso a un corso di tre anni pagato 900 euro il mese, il viatico per la professione. Salerno è stato l'epicentro dell'ultimo multiconcorso scandaloso italiano, svolto la mattina di mercoledì 17 settembre 2014 in molte delle nostre città, le più importanti. Centomila aspiranti in tutto. In diverse sedi  -  a Salerno e a Palermo, a Roma e a Pescara, a Firenze, Padova, Milano  -  centinaia di testimoni, tutti tracimati con la loro indignazione sui social forum, hanno segnalato questo: candidati seduti uno a fianco all'altro a guardarsi reciprocamente il compito, a verificare, a copiare. Telefonini in mano per dialogare con l'esterno e cercare conferme con "google". Libri spalancati sul pavimento, per dare un'occhiata, prendere le cento risposte giuste alle domande del solito test multiplo. Nessun commissario, nelle sedi citate, a girare per la stanza, la palestra, la sala d'ospedale. Nessuno a controllare. "Una selezione così è indecente, qui si stanno scegliendo i migliori medici di base per i prossimi anni", racconta Francesco, aspirante generico di Salerno che all'uscita dai test  -  lui ci ha impiegato un'ora e cinque, giura senza aver copiato  -  ha immortalato ragazze bionde intente a guardare la compagna più preparata. Francesco ha fotografato l'impossibilità di una privacy da concorso, visto che tutte le sedie schierate erano occupate e che in un esame che si rispetti ogni seggiola attorno a un candidato deve essere vuota, a sinistra, a destra, dietro, davanti. Racconta ancora Francesco: "I 160 candidati di Salerno sono stati ospitati in uno stanzone che poteva contenerne 190, così siamo rimasti tutti ammucchiati, impossibile non sbirciare". I test, con le stesse domande uguali per tutti, proposte in un ordine diverso, sono stati consegnati a casaccio, "e così due compagni gomito a gomito si sono trovati con le stesse domande nello stesso ordine e le hanno confrontate. Ovunque mi girassi, c'erano persone che copiavano. E quando i presidenti hanno chiesto di spegnere i telefonini, ma non si sono alzati, i candidati hanno abbassato il volume a zero e hanno continuato a navigare". Il concorso, alla fine, lo ha vinto chi è stato più bravo a usare lo smartphone, non il medico più preparato. Twitter, e soprattutto Facebook, hanno fatto rimbalzare per un giorno intero le testimonianze e le foto dei trucchi. A Milano è andata proprio così. "Confermo pure da Firenze", si è letto. A Padova metà e metà: "Noi del gruppo che ha fatto l'esame a Legnaro eravamo sorvegliati a vista e se si chiacchierava si veniva cambiati di posto. Ho saputo, invece, che al policlinico è stato un mercato". Un racconto in presa diretta: "Più che un concorso è stato un compito in classe: tutti seduti vicini come nei banchi. C'era chi copiava, chi collaborava in gruppo e chi usava lo smartphone. I commissari non hanno visto niente, poverini, neppure le buste aperte. Non è strano che non ci siano stati codici identificativi? Lo scarso controllo ha permesso che una volta seduti si sia potuto scrivere sul modulo dell'anagrafica il nome di chi volevate, anche di un amico vicino... Qualcuno nei giorni scorsi diceva che era sicuro di passare al test e vincere la borsa di studio... Viva i magheggi, le raccomandazioni e soprattutto viva i furbi".  I candidati medici hanno inondato di racconti gli indirizzi tweet dei ministri Stefania Giannini (Università) e Beatrice Lorenzin (Sanità). Sono avvertite. Angelo, sul concorso in Campania, ha scritto: "Il compito lo facevano pure in gruppetti di otto candidati che collaboravano tranquillamente". Olmina, prima commissione ancora della Campania: "Una ragazza con i capelli lunghi, vicina alla finestra, leggeva a voce alta le domande, aveva l'auricolare, qualcuno dall'altra parte del telefono rispondeva". Danilo, dalla Sicilia: "Colleghi accanto a me utilizzavano cellulare e foglietti... C'era così tanto vocio che sembravamo in pescheria". Luisa da Palermo: "Si sedevano vicini, a gruppetti, gente che studiava insieme da mesi". Ha confermato Chiara: "Si poteva copiare dopo la chiusura del tempo". Maria, da Firenze: "Collaboravano anche in prima fila". Teresa: "Plichi aperti in parte e in parte chiusi, nessun controllo d'identità, nessun codice di riferimento". Gianluca: "Chi ha studiato e si è preparato sarà superato nei punteggi dalla meritocrazia 2.0, quella dello smartphone". Federica: "A Roma i carabinieri sono stati chiamati e comunque copiare da internet per un medico è un'indecenza". Elisa, da Milano, ha raccontato: "Da noi una ragazza si è alzata e ha comunicato alla commissione che c'era chi stava copiando a tempo scaduto. La commissione ha alzato la voce al microfono, mica ha annullato la prova". Margherita: "Io avevo accanto gruppi di studio che parlavano a voce così alta che ho dovuto fare il compito con i tappi alle orecchie". Monica dalla Calabria: "C'era gente che entrava e usciva dalla stanza". Diversi hanno chiesto l'annullamento del concorso, qualcuno ha promesso denunce alla magistratura. Elisabetta, 110 con lode alla Sapienza, testimone del mercato di Roma, ha scritto direttamente ai giornali. Questo: "Nell'aula dove mi trovavo eravamo tutti vicini, molti di noi avevano il compito con lo stesso ordine di domande. Il controllo della commissione non era assolutamente sufficiente. Alcuni candidati hanno utilizzato il telefono cellulare durante il compito, era possibile confrontarsi sulle risposte parlando tra di noi. Tranquillamente. Vi fareste curare dai medici di medicina generale che hanno vinto questo tipo di concorso?". Il compito deve essere annullato, dice. "Prima di fuggire all'estero, come tanti miei amici di corso, voglio provare a cambiare questo paese denunciando le scorrettezze che per omertà e pigrizia ci sentiamo abituati a sopportare".

“Telefonini all’esame e chi lo usava non veniva nemmeno punito”. Questa la testimonianza dei giovani medici che hanno preso parte al concorso pubblico per diventare medico di famiglia. Il concorso di selezione di Medicina generale della Regione Lazio si è svolto il 7 settembre all’hotel Ergife. Camilla Mozzetti sul Messaggero scrive: “«Sono rimasta allibita dalle condizioni in cui ci hanno fatto fare la prova», racconta Alessandra T. classe 1988 e una laurea in Medicina alla Sapienza con tanto di lode. «Nell’aula dove mi trovavo eravamo tutti vicini, il controllo della commissione non era assolutamente sufficiente a garantire la regolarità dello svolgimento e a impedire scorrettezze». «Cellulari usati sfacciatamente per passarsi le risposte – prosegue Marco C. – con i commissari a due passi che sono stati solo capaci di dire, prima dell’inizio delle prove, “cercate di non copiare”». «Hanno voluto la selezione – sbotta Giovanna R. – e non sono neanche capaci di far rispettare le regole, io ho studiato perché con questa professione non puoi giocare, altri hanno copiato e magari a fine ottobre seguiranno il corso»”. Un test che mette a disposizione 85 posti per i 1359 candidati: “A partecipare anche medici già specializzati in cardiologia o anestesia che, a causa del blocco del turn over e dei licenziamenti, non riescono a trovare lavoro”. E non stupisce dunque che i candidati siano pronti a segnalare la minima irregolarità perché l’accesso sia garantito a chi è il più preparato. La risposta della direzione regionale della salute del Lazio non si è fatta attendere: le prove si sono svolte regolarmente, assicurano: “Sei commissioni, tre in più rispetto al 2013. In una c’è stato persino un ritardo di un commissario e di uno studente che ha sbagliato stanza. Ma le prove, garantiscono, sono iniziate per tutti alle 10 e si sono svolte regolarmente.

Medici di famiglia: concorso farsa tra smartphone, libri e risposte copiate, scrive Alessandro Pignatelli su “Blogo Sfere”. Un concorso da annullare. Sono in tanti a chiederlo e ad avere scritto ai ministri Stefania Giannini (Università) e Beatrice Lorenzin (Sanità). Si è trattato effettivamente, secondo il racconto dei candidati, di una farsa. Che, però, dovrebbe premiare 990 laureati e abilitati, futuri medici di famiglia, regalandogli la possibilità di seguire un corso triennale da 900 euro al mese. Viatico per intraprendere poi la professione. Un concorso da annullare perché, un po' in tutte le sedi, chi ha usato whatsapp, chi il cellulare e gli auricolari, chi i libri aperti. Chi ha copiato dal vicino di banco. Chi, addirittura, ha fatto un gruppo di lavoro con 7 -8 persone vicine a darsi domande e risposte esatte. Le commissioni? Qualche alzata di voce, nessun annullamento della prova. Anche di fronte all'evidenza e alle denunce degli stessi candidati. Il concorso si è svolto mercoledì 17 settembre tra Salerno, Palermo, Roma, Pescara, Firenze, Padova e Milano. In tutto, 100 mila i candidati. Alcuni seduti uno di fianco all'altro quando, in un concorso pubblico, ci dovrebbe essere distanza a destra, a sinistra, dietro e davanti. Alcuni a parlare al telefonino, a controllare su Google le risposte. I meno tecnologici a sbirciare su libri aperti sul pavimento. In totale, erano cento le domande del test multiplo. Ogni compito doveva averle in ordine sparso, ma in alcuni casi si sono trovati due vicini di banco con lo stesso ordine di domande. Le battute ormai si sprecano: "Vincerà il concorso chi è stato più bravo a usare lo smartphone". Qualcuno ha fotografato e postato su Facebook e Twitter i trucchi utilizzati per rispondere esattamente. "Più che un concorso, è stato un compito in classe. Tutti seduti vicini come nei banchi. C'era chi copiava, chi collaborava in gruppo e chi usava il telefonino. I commissari non hanno visto niente, poverini, neppure le buste aperte. Non è strano che non ci siano codici identificativi? Lo scarso controllo ha permesso che una volta seduti sia sia potuto scrivere sul modulo dell'anagrafica il nome di chi volevate, anche di un amico vicino. Qualcuno nei giorni scorsi diceva che era sicuro di passare il test e vincere la borsa di studio. Viva i magheggi, le raccomandazioni e, soprattutto, viva i furbi". Casi curiosi? Tantissimi. In Campania, una ragazza vicino alla finestra leggeva a voce alta le domande, aveva l'auricolare e qualcuno dall'altra parte del telefono che rispondeva. Spesso, era possibile copiare alla chiusura del tempo. Molti i plichi aperti, nessun controllo d'identità o codice di riferimento. A Milano, una ragazza si è alzata e ha comunicato alla commissione che c'era chi stava copiando. La commissione ha alzato la voce al microfono, ma non ha annullato la prova. Un'altra candidata dice: "Io avevo accanto gruppi di studio che parlavano a voce così alta che ho dovuto fare il compito con i tappi alle orecchie". Tra promesse di denunce alla magistratura e richieste di annullamento del concorso, saranno ora i giudici e i ministri a decidere cosa fare. Un futuro medico di famiglia sintetizza: "Voi vi fareste curare da medici di medicina generale che hanno vinto questo tipo di concorso? Prima di fuggire all'estero come tanti miei amici, voglio provare a cambiare questi Paese, denunciando le scorrettezze che per omertà o per pigrizia ci sentiamo abituati a sopportare".

DALL’ACCESSO A NUMERO CHIUSO ALLE UNIVERSITA’ FINO ALLE LISTE D’ATTESA. IL RACKET DEI BARONI DELLA MEDICINA.

Il rettore indagato per i concorsi pilotati? Ai vertici della Sanità. La nomina è avvenuta mentre è sotto inchiesta dai magistrati del ministero della Giustizia per concussione e altri reati e «attenzionato» dal ministero dell’Università, scrive Gian Antonio Stella il 9 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". «Non sappia la tua destra ciò che fa la tua sinistra», consiglia il Vangelo di Matteo a chi fa l’elemosina. Ed ecco che al rettore di Tor Vergata Giuseppe Novelli, mentre è indagato dai magistrati del ministero della Giustizia per concussione e altri reati e «attenzionato» dal ministero dell’Università che potrebbe costituirsi parte civile, il ministero della Salute decide di elargire una «elemosina» deluxe, con fiocchi e controfiocchi. Cioè la nomina nel Consiglio Superiore di Sanità. Il «massimo organo di consulenza tecnico scientifico» del dicastero guidato da Beatrice Lorenzin. Ricordate? Tutto nasce dai ricorsi al Tar di due ricercatori, Pierpaolo Sileri di chirurgia generale e Giuliano Grüner di diritto amministrativo, inutilmente candidatisi a «procedure di chiamata come professori associati» (così si dice, in gergo) da cui erano usciti vincitori di qua il figlio di Ezio Gentileschi, già direttore della scuola di specializzazione in chirurgia generale a Tor Vergata, di là l’allievo prediletto del pro rettore vicario dell’università romana Claudio Franchini. Ricorsi accolti dal rettore come un’offesa personale: «A meeeeee!?!».

Interrogazioni parlamentari. E seguiti, dicono le denunce riprese da Roars.it, dalle Iene e dall’interrogazione parlamentare di Barbara Saltamartini, da fortissime pressioni perché i due ritirassero l’esposto. Al punto che la direttrice generale del policlinico di Tor Vergata, tirando in ballo il rettore, avrebbe detto a Pierpaolo Sileri: «Qui con lui sei morto». Ancora più pesante, se possibile, lo sfogo volgarotto contro Giuliano Grüner. Sfogo registrato, finito sul Fatto e poi nelle carte processuali con una mitragliata di 26 amputazioni del termine «cazzotto», diciamo così, «rafforzative del pensiero»: «Io non ne sapevo un (censura), perché nessuno ha alzato il (censura) di venirmelo a chiedere! Non è possibile all’università! Ma siamo matti qui dentro? Cioè, uno fa un ricorso contro il proprio rettore, e io non devo saperlo?». Ancora: «Lei sta sputando nel piatto in cui mangia! Sta facendo una causa contro il suo rettore, (censura)! Non è mai accaduto! Quando mi chiamava il mio rettore io tremavo, (censura)!». E via così. Fino a urlare: «O ritira il ricorso, o sparisca da qui!».

La sfuriata. Una sfuriata apocalittica e imbarazzante. Tanto da sollevare varie richieste di dimissioni e da spingere il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Mario Palazzi ad aprire un’inchiesta, raccogliere una serie di documenti e testimonianze per poi chiedere il rinvio a giudizio del rettore con l’accusa di tentata concussione e istigazione alla corruzione. Reati compiuti «abusando della posizione apicale rivestita e dei poteri da essa derivanti». Per carità, magari al processo che vedrà l’udienza preliminare il prossimo 19 febbraio il rettore riuscirà a cavarsela. Fino alla sentenza di terzo grado, si sa, è innocente come un cherubino. Auguri. Ma al di là dell’aspetto penale non sarebbe stato opportuno, per il ministero della Salute, sospendere quella nomina?

Pochi medici si spartiscono la torta della sanità. Impediscono l’accesso alla professione, limitando la concorrenza, e svolgono il doppio lavoro: pubblico e privato. Il lavoro presso gli ospedali a disposizione del lavoro presso lo studio privato. Intanto le liste d’attesa ingrossano, come le loro tasche: vuoi far prima? Paga…...Ed in Parlamento ognuno tutela la propria lobby.

Perché nessuno ha il coraggio di dire veramente come stanno le cose. Basta leggere il libro del  dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it, e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “CONCORSOPOLI". Libro facente parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

Per esercitare le funzioni dello Stato, anche se sono truccati, i concorsi pubblici stabiliscono già il numero chiuso per l’accesso alla funzione.

Per quanto riguarda l’esercizio delle professioni, i concorsi pubblici non prevedono il numero chiuso, anche perché la Costituzione non lo prevede, ma tant’è i criminali impuniti (per abuso d’ufficio, falso, associazione a delinquere, concussione e corruzione, ecc.) stabiliscono da sé ed a loro vantaggio un limite invalicabile di numero di idonei. Questo numero, sempre e comunque, riconducibile a principi familistici od amicali.

Per limitare la concorrenza tutti gli Ordini professionali (di stampo ed origine fascista, con il bene placido di destra e sinistra) adottano sistemi di limitazione della concorrenza, ledendo il libero mercato e ledendo il diritto dei cittadini impedendo l’accesso meritocratico.

Gli avvocati, ed altri Ordini, intervengono durante i concorsi pubblici di abilitazione, stabilendo impunemente un limite di abilitazione che non supera mai il 20-30% dei candidati e con giudizi arbitrari, in quanto le prove non sono sottoposte a correzione, così come, d'altronde, succede per il concorso dei magistrati.

Altre professioni, tra cui l’Ordine dei medici, interviene direttamente sui bandi di accesso ai corsi dell’università, stabilendo un risibile numero chiuso ed oltretutto con criticabili test d’accesso, che nulla hanno a che fare con la professione da svolgere. Viene il voltastomaco, non tanto per gli abusi che si commettono, ma come la massa non si renda conto che continua a votare in Parlamento persone che sono impegnati a perpetrare una ignominia contro il popolo e solo a vantaggio della loro casta o lobbies.

Forse alcuni non lo considerano un problema politico o di interesse generale di cui occuparsi, invece lo è. Se non altro perché va a toccare la nostra pelle, cui tutti teniamo in maniera particolare. Per questo motivo la questione del numero chiuso a medicina deve interessare tutti. Si tratta di uno sbarramento assurdo e dannoso che va abolito al più presto. Esso dovrebbe “selezionare” gli studenti più adatti a fare il medico chirurgo. Ma i test che dovrebbero avere questa funzione sono un’accozzaglia di domande strampalate che a tutto possono servire, meno che a selezionare chi ha attitudine o meno a fare il medico. E non ci si venga a parlare di esigenze didattiche. Almeno per i primi tre anni si tratta per lo più di andare a lezione. La pratica al letto del malato viene successivamente. E poi, oltre ai policlinici universitari ci sono un sacco di ospedali dove gli studenti possono andare a imparare. E poi il vero problema sono le scuole di specializzazione. Infatti, su 11 mila studenti che hanno superato i test questo anno e inizieranno il percorso di studi in Medicina riusciranno a laurearsi, fra sei anni, 8.500/9 mila studenti (l'80% degli iscritti si laurea infatti entro il primo anno fuori corso). I posti disponibili per le scuole di specializzazione sono invece 5 mila e quelli per medicina generale circa mille. Sono destinati a restare così senza un'occupazione qualificata 3 mila nuovi medici. Ne consegue che pochi medici si spartiscono la torta della sanità.

Le "liste di attesa" sono il più grave degli scandali tollerati. È il sistema "intramoenia" che degenera in abusi ormai risaputi e rende privata la struttura pubblica. Occorrono mesi per una visita, un esame o un intervento. Bastano ore o giorni, se si paga. «C'è un sistema per far presto, accetta?» solita domanda. È il sistema "intramoenia" che degenera in abusi ormai risaputi, che rende privata la sanità pubblica, che favorisce i malati ricchi sui malati poveri. Come mai qualche medico ha poco tempo per chi è in lista, ma tanto per chi stacca l'assegno? La crisi della sanità pubblica nasce con lo scandalo del doppio lavoro dei medici. Perché la sanità italiana è così negativa nonostante i costi sopportati dalla collettività? Una spiegazione c’è. I medici sono i soli dipendenti pubblici in Italia autorizzati a fare il doppio lavoro. Ci sarebbe in realtà il divieto generale, per tutti quanti, sancito dal vecchio regolamento del 1957, ma a furia di deroghe con le contrattazioni pubbliche, la casta dei medici tramite il proprio sindacato di categoria ha ottenuto il privilegio di poter tenere il piede in due scarpe. Il doppio lavoro legalizzato porta illustri nomignoli latini: intramoenia ed extramoenia. Con la prima, il medico ospedaliero può usare la struttura pubblica a proprio comodo per visite private a pagamento. Con la seconda, il medico pubblico può direttamente lavorare in privato, in cliniche o studi (che paradossalmente potrebbero lavorare in convenzione con l’ospedale per il quale lavora in pubblico!), teoricamente fuori dall’orario del servizio pubblico. Così i medici lavorano a cottimo, senza sosta, nel pubblico a raccogliere i frutti di ciò che hanno seminato con le lucrose visite private. Il paziente pagante viene ricevuto con cortesia e dignità per l’intervento nella struttura pubblica, naturalmente dopo la visitina privata di prassi, e con la benedizione del medico viene operato con impegno e dedizione. A questo punto per accedere alla professione medica ogni sistema è buono, anche quello truffaldino dei test d’accesso. Ma il fatto è che si persegue penalmente sempre e solo i poveri cristi e non i mafiosi fautori del sistema criminale per l’accesso alla professione.

IL NUMERO CHIUSO ALLE UNIVERSITA’. IL RACKET DEI BARONI.

Forse alcuni non lo considerano un problema politico o di interesse generale di cui occuparsi, scrive Paolo Danieli su “L’Officina. Ma invece lo è. Se non altro perché va a toccare la nostra pelle, cui tutti teniamo in maniera particolare. Eh già, perché quando c’è di mezzo la salute, la sanità, i medici in ultima analisi si va a incidere sulla vita delle persone, in termini di quantità e di qualità. Per questo motivo la questione del numero chiuso a medicina deve interessare tutti. Migliaia di giovani usciti dai licei si apprestano a fare il test d’ammissione a questa facoltà. Come rilevato più volte e da più parti si tratta di uno sbarramento assurdo e dannoso che va abolito al più presto. Esso dovrebbe “selezionare” gli studenti più adatti a fare il medico chirurgo. Ma i test che dovrebbero avere questa funzione ( impossibile ) sono una specie di rischiatutto, un’accozzaglia di domande strampalate che a tutto possono servire, meno che a selezionare chi ha attitudine o meno a fare il medico. Il risultato è che molti giovani che si sentono portati a fare il medico devono rinunciarvi per non essere stati capaci di rispondere a delle domandine che non c’entrano niente con l’attitudine a prendersi cura dei malati e del prossimo. Così la società si priva di intelligenze ed energie che potrebbero invece essere molto utili. E questo è un danno. Danno cui se ne aggiunge un altro: quello che fra qualche anno mancheranno i medici, perché quando andranno in pensione quelli della generazione che aveva alimentato la pletora medica, che poi tanto pletora non è vista la lunghezza delle liste d’attesa, non ce ne saranno abbastanza per soddisfare la richiesta di salute proveniente da una società sempre più vecchia. Senza contare che già adesso mancano i medici di certe specializzazioni (anestesisti, ortopedici, neurochirurghi, radiologi ecc.). Il numero chiuso veniva definito con un eufemismo “numero programmato“.

Appunto. Programmato su che cosa? Forse sulla popolazione di 20 anni fa. Non certo sulle esigenze di oggi, soprattutto considerate nella proiezione di quattro-cinque anni. E non ci si venga a parlare di esigenze didattiche. Almeno per i primi tre anni si tratta per lo più di andare a lezione. La pratica al letto del malato viene successivamente. E poi, oltre ai policlinici universitari ci sono un sacco di ospedali dove gli studenti possono andare a imparare. Lo si sempre fatto. E non risulta che si siano formati medici che andavano in giro ad ammazzare la gente! Insomma: il numero chiuso va abolito subito. E’ una vergogna. E’ un danno alla società.

E’ qualcosa di cui i suoi stessi sostenitori si dovranno pentire molto presto.

Come funziona il numero chiuso? Risponde Rosario Talarico  su “La Stampa”. In questi giorni si stanno svolgendo le selezioni per accedere ad alcuni corsi e facoltà universitarie:

Perché l’iscrizione non è libera?

Dagli anni Ottanta, in Italia è stato introdotto il sistema del cosiddetto «numero chiuso» per accedere a determinati corsi di laurea. L’idea è stata mutuata dagli Stati Uniti, dove la regolamentazione delle immatricolazioni era già in vigore. Lo scopo dei test di ammissione è quello di valutare l’attitudine degli aspiranti studenti alle materie di quella specifica facoltà.

Cosa si intende per numero programmato?

Vuol dire che è previsto l’accesso per un determinato numero di persone (quelle che supereranno il test e si troveranno nella parte alta della graduatoria). Per alcuni corsi di laurea il numero programmato è stabilito a livello nazionale. Funziona così per Medicina e chirurgia, Odontoiatria, Veterinaria, Architettura e Scienze della Formazione primaria. Anche le lauree triennali delle professioni sanitarie (infermiere, fisioterapista etc.) hanno il numero programmato. Ciò vuol dire in pratica che la data di svolgimento dei test e i programmi sono gli stessi in tutta Italia. Poi ci sono le università private o altre facoltà che decidono autonomamente date e modalità di svolgimento dei quiz.

Quanti studenti quest’anno sosterranno i test d’ingresso?

In totale le domande presentate in tutte le 41 università sono circa 97 mila, poco meno dei 98 mila dello scorso anno (-0.9%). Sono 77 mila gli iscritti alle prove di selezione per i corsi di laurea in medicina e chirurgia e odontoiatria, contro 11.104 posti messi a bando (10.173 medicina e 931 odontoiatria). Che vuol dire che solo un concorrente su 8 riuscirà ad entrare. Oltre a questi posti altre 15 mila domande sono confluite alle tre università non statali di Milano San Raffaele, Roma Campus e Roma Cattolica. Per le private la concorrenza è maggiore e si ha un vincitore su 30. Il 6 settembre il test toccherà invece agli studenti che aspirano a diventare architetti (8.720 posti). Il 10 ai futuri veterinari (918) e l’11 si chiude con gli studenti interessati a diventare infermieri, ostetrici, logopedisti, fisioterapisti...In tutto circa 27.000 posti per 22 profili professionali).

Perché i test d’ingresso sono stati introdotti anche in altre facoltà?

Gli sbarramenti all’ingresso sono stati istituiti per mantenere un alto profilo nella qualità della didattica. Ad esempio sono 1000 i candidati per i 50 posti alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa;

sempre a Pisa sono circa 9000 le aspiranti matricole che ad agosto si sono iscritte per accedere ai corsi a numero programmato dell’ateneo.

Quali sono le facoltà più richieste?

Secondo il Consiglio universitario nazionale (Cun), le università pubbliche più affollate di aspiranti giovani medici saranno Roma Sapienza 1 e 2 (7.830 domande), Milano Statale (4.013), Napoli Federico II (3.831), Torino (3.721 domande), Bari (3.493), Padova (3.218), Catania (3.154) e Palermo (3.122).

Come sono strutturati i test?

Si tratta di solito di batterie di domande (in genere tra 80 e 100 quesiti a risposta multipla) a cui rispondere entro un tempo dato (normalmente un’ora). Il contenuto è di tipo nozionistico e mira ad accertare la cultura generale sulla base dei programmi della scuola secondaria superiore e la predisposizione per le discipline specifiche dei corsi prescelti.

Quanto costa iscriversi alle prove d’ammissione?

Secondo una ricerca di Studenti.it, il 24% delle 1180 aspiranti matricole di facoltà a numero chiuso che ha partecipato al sondaggio non si è preparato del tutto e si è limitato a tentare la fortuna. Il 29% si è preparato studiando su libri e attraverso test online, il 23% solo sui libri mentre il 7% non ha speso soldi per l’acquisto di libri e si è preparato solo con i test online. Il 3% degli intervistati infine ha seguito un corso di preparazione, mentre solo il 6% ha investito su tutte le forme di preparazione a disposizione.

Scontro aperto sul numero chiuso. Ma non si è placata la polemica nei confronti del sistema del numero chiuso: il Codacons ha chiesto al premier Mario Monti e al ministro dell'Istruzione Francesco Profumo di eliminare le prove di ammissione e rendere libero l'accesso all'università. Solo uno studente su otto, però, riuscirà a realizzare il sogno di studiare per diventare medico o odontoiatra: i posti disponibili sono 10.173 per Medicina e circa 900 per Odontoiatria, e a contenderseli saranno in 77 mila. Sui test di ammissione pende però il rischio che la Corte costituzionale definisca incostituzionale il numero chiuso, come ha ricordato il Codacons che ha paventato la possibilità, in caso affermativo, di una class action per i non ammessi e per questo ha provveduto a diffidare il ministero dell'Istruzione chiedendo l'eliminazione dei test di ammissione. «Il numero chiuso all'università è assurdo e antistorico. Peraltro i test di ammissione, con domande magari di cultura generale, non selezionano certo quelli che saranno, per esempio, i medici migliori. Non si capisce, poi, perché qualche ora di test dovrebbe valere più del voto conseguito alla maturità, dopo un percorso durato ben cinque anni di studio. Per migliorare la qualità della nostra sanità la selezione andrebbe fatta durante gli anni universitari, attraverso esami più selettivi e non certo con un test di un centinaio di domande da risolvere in qualche ora», ha affermato il presidente del Codacons, Marco Donzelli. Inoltre, ha sottolineato l'associazione, è ormai accertato che non vi è un esubero di medici in Italia, e per questo vi sono assessori regionali alla sanità che hanno già chiesto l'eliminazione del numero chiuso.

Dal canto suo l'Unione degli universitari ha ribadito la sua contrarietà al numero chiuso e che è pronta a vigilare sul regolare andamento delle prove e preannuncia ricorsi in caso di irregolarità. Poi ci sarebbe un altro aspetto problematico, come ricordato da Andrea Lenzi, presidente della Conferenza permanente dei presidenti di Consiglio di corso di laurea magistrale in Medicina e Chirurgia e presidente del Consiglio universitario nazionale (Cun): «Il vero collo di bottiglia alle facoltà di medicina non sono tanto i quiz iniziali, ma l'accesso alle specializzazioni e ai posti di medicina generale messi a bando in Italia dal Servizio sanitario nazionale».

Infatti, su 11 mila studenti che supereranno i test questo anno e inizieranno il percorso di studi in Medicina riusciranno a laurearsi, fra sei anni, 8.500/9 mila studenti (l'80% degli iscritti si laurea infatti entro il primo anno fuori corso). I posti disponibili per le scuole di specializzazione sono invece 5 mila e quelli per medicina generale circa mille. Sono destinatari a restare così senza un'occupazione qualificata 3 mila nuovi medici.

PARLA L’EX PRIMARIO DI CAREGGI.

«Io, un Barone, vi spiego cosa è diventato il medico». Mauro Marchionni, l’ex primario di ginecologia di Careggi, spiega ad Alessio Gaggioli su “Il Corriere fiorentino”  che loro (i baroni) sono stati rovinati dal boom delle lauree.  Ai suoi tempi non c’erano i test.

E non c’era il numero chiuso, tanto gli iscritti al primo anno di medicina non erano mai più di cento. «Anche perché allora si poteva entrare solo se ti eri diplomato al liceo classico o scientifico». Mica roba da ridere. Erano la fine degli anni ’50, spesso, soprattutto nelle famiglie numerose, erano mamma e papà a spingere i figli verso gli istituti professionali: meno spese e meglio lavorare subito per contribuire. «Quelli come me, andavano all’Iti.

Ma io avevo solo un vantaggio: essere figlio unico», dice Mauro Marchionni, professore ordinario di ginecologia all’università di Firenze. Più di quarant’anni nella vecchia maternità di Careggi andata in pensione come lui, («ma non scriva in pensione, semmai in congedo, perché io continuo a lavorare e parecchio»). Ha fatto nascere e operato migliaia di persone, fiorentini e non. Lui che era figlio di un tranviere e che da solo è diventato un professore, un chirurgo affidabile e anche un barone. «Si barone, ma non nella sua accezione negativa. Perché chi è al primo posto è e dovrebbe essere un formatore, dovrebbe insegnare, tentare di lasciare allievi più bravi di lui. "Figliare". Ecco costui è il vero barone, non chi si fa i cavoli suoi, che bada solo ai soldi». Ecco allora il barone, l’analisi del barone che assiste all’ormai consueto assalto alla sempre più magra diligenza di Medicina. Alle polemiche sul numero chiuso, alla reale efficacia e pertinenza di quei test di cultura generale dove ieri è spuntato pure lo spread e dove negli anni scorsi si chiedeva di cosa era morto Ghandi o chi aveva scritto «Barbablu». Il barone che ha lasciato il servizio sanitario pubblico, un sistema con cui lo scontro con la burocrazia diventava ogni giorno più sfinente.

«Perché un medico oggi è sempre meno libero. Il potere è nelle mani dei burocrati, un primario ospedaliero è soprattutto un amministratore scelto dal direttore generale». Sempre dopo il concorso: «Che però sono una specie di selezione solo sulla capacità dirigenziale del medico che poi viene scelto dal direttore generale anche senza giustificarne il perché. Sui concorsi si potrebbe discutere tanto, sarebbe più giusto introdurre un altro principio piuttosto: chi sceglie male, paga. I primari sono valutati ogni cinque anni, qualcuno viene cacciato. Ma chi li ha scelti (il direttore generale dell’ospedale) non paga». E allora viva la burocrazia, la spersonalizzazione della figura del medico. Il paziente che nulla è più di un sintomo, di un numero, in nome del sacro e inevitabile principio del contenimento dei costi. È così? Il medico non è più il medico dei tempi di Marchionni? «La mia fu una scelta d’amore, non c’era un motivo preciso». Oggi è ancora una delle professioni più «sicure» e remunerative? È per questo che oltre 2 mila ragazzi ieri mattina erano a Careggi per fare i test? «A quei ragazzi direi attenzione perché avrete un compito difficilissimo.

Perché la medicina è ogni giorno più complessa e perché non bisogna mai dimenticare di essere dottori prima di tutto. Nel senso che con tutta la tecnologia che c’è oggi a disposizione i giovani medici tendono ad affidarsi solo di quello che gli dice una macchina. Il medico invece deve fare la diagnosi e la diagnosi è una sintesi culturale. La fai con il cervello, con il ragionamento mettendo insieme tutti i dati che le macchine ti forniscono. Poi i tempi sono cambiati e anche gli stipendi, oggi un medico ospedaliero di prima nomina prende circa duemila euro». E i quiz?

Il numero chiuso? Marchionni riflette e parte da lontano. Dagli anni «della pletora». Dagli anni ’75-’90 che «hanno tolto dignità ai medici, alla professione». Quando le porte di Medicina erano aperte a tutti. Quando gli specializzandi erano un esercito: «Fino a novembre ero direttore della scuola di ginecologia, in quegli anni abbiamo avuto anche 120-130 specializzandi. Ai miei tempi eravamo in sei, oggi con l’introduzione del numero chiuso il numero è sceso a 40». Gli «anni della pletora», li chiama Marchionni.

«Quando gli iscritti arrivarono ad essere anche 1.500 a Firenze. Noi eravamo un centinaio, oggi circa 300. Questi sono numeri che vanno abbastanza bene». È l’esercito dei 1.500 che ha creato il disastro. «Si laureavano in migliaia, una pletora, e fino ad oltre i 40 anni spesso si sono ritrovati sottoccupati, costretti a fare per anni la guardia medica, anche solo i prelievi, quindi un precariato enorme.

Ecco perché credo non sia giusto tornare indietro. La pletora dei medici ha leso la nostra dignità, ha dato più potere ai burocrati che oggi governano la sanità. È nata così la porcheria dei concorsi ospedalieri: metto tanti medici in fila e vedo quello che ci fa più interesse. Funzionava così fino a quando non è stato introdotto il numero chiuso». Gli anni di Marchionni erano gli anni in cui il numero dei medici era sufficiente. In cui Marchionni, promettente specializzando a Careggi, viene arruolato dal direttore dell’ospedale di Empoli. Mancava un ostetrico. «Avevo appena finito il primo anno. Facevo tre notti e un pomeriggio a Empoli e mi pagavano bene mentre intanto finivo la specializzazione a Careggi. Oggi i numeri sono tornati ad essere abbastanza coerenti con la richiesta, credo che tra una decina di anni avremo dei medici di valore perché così si riesce a fare una migliore selezione. Ma lo sa che oggi ci sono in giro ancora tanti specialisti in ginecologia che a oltre 40 anni tentano di entrare nelle strutture pubbliche quando c’è un concorso?». Come per la diagnosi, che alla fine, tocca solo e soltanto alla cultura, alla conoscenza, alla sensibilità del medico così è per i quiz. Marchionni quasi li considera un male necessario. Però pensa all’alternativa. «Nel momento in cui si deve fare una selezione non esiste un metodo perfetto. Lei mi chiede perché si è scelta la strada dei quiz? Perché altrimenti avrebbero potuto vincere sempre i figli dei soliti noti. I quiz sono di cultura generale?

Parlano di spread? Non puoi sottoporre a dei liceali delle domande di medicina. Non sono d’accordo con chi vorrebbe adottare la soluzione francese e cioè la selezione dopo il primo anno di frequenza. Così si creerebbe un esercito di delusi che per altro perdono anche un anno di studi. È difficile trovare una soluzione che garantisca equità, serietà e valutazione dell’individuo. Ma sarebbe importante studiare il modo di affiancare ai quiz la conoscenza delle qualità umane del candidato». Le doti con cui, dice Marchionni, si «fa questo mestiere». «Chi è introverso, impaziente, scontroso, non disposto a studiare tutta la vita è bene che non ci provi nemmeno. Il medico deve saper entrare in sintonia con la personalità del paziente». Che altrimenti oggi rischia di essere sempre più e solo un «sintomo».

LISTE D’ATTESA OD ESTORSIONE MEDICA?

Le "liste di attesa" sono il più grave degli scandali tollerati. È il sistema "intramoenia" che degenera in abusi ormai risaputi e rende privata la struttura pubblica. Occorrono mesi per una visita, un esame o un intervento. Bastano ore o giorni, se si paga. «C'è un sistema per far presto, accetta?» solita domanda. È il sistema "intramoenia" che degenera in abusi ormai risaputi, che rende privata la sanità pubblica, che favorisce i malati ricchi sui malati poveri. Come mai qualche medico ha poco tempo per chi è in lista, ma tanto per chi stacca l'assegno?

La crisi della sanità pubblica nasce con lo scandalo del doppio lavoro dei medici, scrive Grillo Parlante su “Oggi”. Perché la sanità italiana è così negativa? Non solo dopo i tagli del governo, ma anche prima nonostante i fiumi di soldi che venivano risucchiati dalle aziende ospedaliere. Come possono esserci tanti errori grossolani, sinistri incredibili a danno dei pazienti, liste d’attesa di mesi, se non di anni, nonostante lo Stato e le Regioni spendano cifre apocalittiche per gli stipendi dei tanti, tantissimi medici che prosperano nella sanità pubblica? Com’è possibile dover attendere tempi improponibili per una visita, tanto che se ci fosse qualcosa di grave alla visita si arriverebbe direttamente morti con il certificato del becchino? Una spiegazione c’è. I medici sono i soli dipendenti pubblici in Italia autorizzati a fare il doppio lavoro. Ci sarebbe in realtà il divieto generale, per tutti quanti, sancito dal vecchio regolamento del 1957, ma a furia di deroghe con le contrattazioni pubbliche, la casta dei medici tramite il proprio sindacato di categoria ha ottenuto il privilegio di poter tenere il piede in due scarpe. Il doppio lavoro legalizzato porta illustri nomignoli latini: intramoenia ed extramoenia. Con la prima, il medico ospedaliero può usare la struttura pubblica a proprio comodo per visite private a pagamento. Con la seconda, il medico pubblico può direttamente lavorare in privato, in cliniche o studi (che paradossalmente potrebbero lavorare in convenzione con l’ospedale per il quale lavora in pubblico!), teoricamente fuori dall’orario del servizio pubblico. Sono cose pazzesche: la riforma sanitaria ha previsto che la sanità pubblica debba fornire cure con pari dignità a tutti i cittadini, senza distinzione di classe sociale e reddito. Ma dove va a finire questa benedetta parità di diritti, se alcuni cittadini (forse più uguali degli altri), si rivolgono al medico pubblico privatamente? E’ evidente che la parità di diritti va a farsi benedire, e che il medico pubblico per forza privilegerà il cliente pagante, quello che fa la visita in privato, che paga e si assicura una corsia privilegiata, soprattutto al fine di saltare la lista d’attesa e farla in barba ai normali utenti che ingenuamente o per mancanza di mezzi possono a malapena permettersi il ticket. Certo si sa che i ricchi vanno a curarsi in clinica, magari all’estero, ma così vengono sovvertite le regole, la sanità pubblica funziona decentemente solo per quei clienti paganti che possono comprarsi tutta l’attenzione dei medici: gli altri che si arrangino. Così i medici lavorano a cottimo, senza sosta, nel pubblico a raccogliere i frutti di ciò che hanno seminato con le lucrose visite private. Il paziente pagante viene ricevuto con cortesia e dignità per l’intervento nella struttura pubblica, naturalmente dopo la visitina privata di prassi, e con la benedizione del medico viene operato con impegno e dedizione. Il povero che non può permettersi la costosa visita privata viene rimpallato per mesi da medici che danno la precedenza ai clienti paganti. Quando poi finalmente arriva il suo turno, ecco che arrivano i problemi. Per la lunghissima attesa, parte con una situazione già svantaggiata al limite della sopravvivenza, viene collocato in una corsia affollata mentre le stanzette sono tenute da parte per i paganti clienti del chirurgo, il cibo servito è scarso e di pessima qualità mentre chi paga può contare su maggiore qualità e cortesia. Le corsie dei non paganti sono affollate, rumorose, riposare dopo l’intervento è impossibile, la sveglia è fissata al mattino prestissimo, il medico fa il giro di corsa, non ha tempo perché deve andare dai suoi pazienti preferiti: quelli che pagano, e che torneranno da lui in privato, con il soldino in bocca, anche dopo l’intervento, forse a vita se il medico gliela racconta bene! E così arrivano i casi di malasanità. Ad esempio, il medico stremato da numerose visite private, che ha già dato il meglio di sé per i suoi clienti paganti, tiene per ultimi gli utenti squattrinati. Le sue forze e la sua attenzione sono scemate già dopo le prime 6 ore. Inizia ad operare i poveri alla 12° ora di lavoro.

Ed ecco i tubi e i ferri dimenticati in pancia, le suture che si aprono, la somministrazione dei farmaci lasciata all’infermiere di turno, la gamba sana amputata al posto di quella malata in cancrena, le cure del posto letto 1332 somministrate al numero 1223. E nelle corsie dopo il classico giro di controllo per misurare la febbre, dopo le 11 non si trova più un medico neanche a morire: letteralmente! Anzi si potrebbe pensare che certi medici, dopo aver speso tutte le energie dietro ai loro affarucci in cliniche private o con clienti paganti nel pubblico, alla fine si lascino andare stremati e trascorrano le ore migliori del servizio pubblico a riposarsi delle loro private fatiche.

Questo infelice connubio di pubblico e privato deve finire, e subito.

Ai medici va lasciato 1 mese di tempo per pensarci, poi devono scegliere: o nel pubblico o nel privato, ma non più tutte e due le cose! E una volta fatta la scelta, che resti quella per sempre: se si vieta al bidello di fare un secondo lavoro, non è ammissibile che possa farlo un medico, solo per guadagnare e riempirsi le tasche, alla faccia dell’equità della sanità pubblica e della correttezza e trasparenza della PA, per di più considerando gli interessi che ci sono in gioco!

LA TRUFFA DEI TEST D'AMMISSIONE. DA PARTE DI CHI: DI CHI IMPEDISCE L'ACCESSO O DI CHI CERCA LA SCORCIATOIA?

A questo punto per accedere alla professione medica ogni sistema è buono, anche quello truffaldino. Ma il fatto è che si persegue penalmente sempre e solo i poveri cristi e non i mafiosi fautori del sistema criminale per l’accesso alla professione.

Medicina, truffa dei test d'ammissione: sei arresti "eccellenti" e 27 indagati. Fino a 30mila euro per i risultati: il docente "mente" della banda riceveva i questionari via palmare e dava le risposte, scrive “Il Messaggero”. Sei persone - tra cui un noto professore ordinario della facoltà di Medicina di Bari - sono state arrestate dalla guardia di finanza nell'indagine su presunti test pilotati di ammissione alla facoltà di medicina-odontoiatria. Nel mirino degli inquirenti ci sono anche alcuni studenti, aspiranti matricole, che hanno sostenuto tali test all'ateneo di Verona e che avrebbero pagato ben 30mila euro per avere i risultati dei test e superare così la prova. L'inchiesta della magistratura barese. Le indagini sono state avviate in seguito ai controlli compiuti il 4 settembre del 2009, nelle sedi universitarie di Napoli, Foggia e Verona. Con le accuse, contestate a vario titolo, di associazione per delinquere finalizzata alla truffa al fine di commettere reati contro la pubblica amministrazione sono finiti agli arresti domiciliari il docente ordinario di odontostomatologia dell'università di Bari Felice Roberto Grassi, di 58 anni, ritenuto il capo dell'organizzazione, Andrea Ballini, di 36, tecnico informatico della stessa università; Francesco Miglionico, 50, odontotecnico e laureando in odontoiatria, all'epoca dei fatti assessore alle Attività produttive di Altamura (Bari); Amedeo Nardi, di 52, rappresentante di prodotti per l'ortodonzia; Giacomo Cuccovillo, e Marco Magdalone, entrambi 27enni ed universitari. Altre 27 persone tra docenti e dipendenti universitari, studenti e aspiranti matricole risultano poi indagate. Le indagini hanno visto l'utilizzo anche di alcuni infiltrati (aspiranti matricole dell'università di Napoli) che avevano il compito di fotografare il questionario. Il test ministeriale, infatti, è identico per tutti gli atenei e viene svolto lo stesso giorno in tutte le facoltà. L’università di Bari, però, dopo la precedente inchiesta del 2007, era corsa ai ripari schermando le aule dove si tenevano i test. «A Napoli, invece - spiega la procura di Bari - i controlli erano ancora, per così dire, "normali", i giovani aspiranti dentisti e i complici dell’organizzazione nascondevano il proprio cellulare, un palmare in grado di poter fotografare in maniera leggibile il test ministeriale, allacciandolo con una fascia elastica sulla gamba. Una volta entrati nell’aula e ottenuto il questionario, senza farsi notare lo fotografavano e lo inviavano alla centrale operativa di Altamura che faceva pervenire le domande al professore che, a sua volta, forniva le risposte da trasmettere poi all’aspirante medico-dentista, che sceglieva di svolgere il test in altre sedi universitarie». Era dotata di cinque computer, cinque telefoni palmari e tre accessi internet. L'accesso a questa struttura era permesso solo a 7 persone (tra i quali i sei arrestati) che elaboravano e inviavano via internet, sugli account di posta elettronica di ciascuno dei candidati da favorire, le risposte al questionario della prova di ammissione, ricevuto via internet dai complici che stavano eseguendo la medesima prova all'università di Napoli. Per l'intera organizzazione il giro d'affari sarebbe stato di circa 250mila euro. Per questo al professor Grassi sono stati sequestrati beni mobili e immobili per 240mila euro. Il 4 settembre 2009, nelle università di Napoli, Foggia e Verona al termine della prova d'esame alcuni candidati furono trovati in possesso di un telefonino utilizzato per ricevere le risposte. Le perquisizioni compiute dalla guardia di finanza fecero emergere la truffa. L'indagine riguarda dunque i test di ammissione ai corsi di laurea a numero chiuso in medicina e chirurgia-odontoiatria e protesi dentaria degli anni 2007/2008, 2008/2009 e 2009/2010.

Test truccati a medicina, sei arresti a Bari, invece scrive “Antenna Sud”. Nascondevano il telefonino allacciandolo con una fascia elastica alla gamba. Fotografavano il questionario e lo inviavano alla centrale operativa di Altamura dove il prof rispondeva alle domande e rimandava il test all’aspirante medico. Un vero e proprio sistema criminale quello scoperto dalla procura di Bari, che ha portato all’arresto di 6 persone, tra cui l’ex presidente del corso di laurea in protesi dentaria dell’Università di Bari, Felice Roberto Grassi. Ogni test d’ammissione alla facoltà di Odontoiatria faceva entrare nelle casse dell’organizzazione 30mila euro. Ad eseguire i sei arresti, tutti ai domiciliari, i militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Bari. Gli indagati sono accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere finalizzata alla truffa ai danni della Pubblica Amministrazione. Oltre al professor Grassi, sono stati arrestati Andrea Ballini, tecnico informatico dell’Università di Bari; Francesco Miglionico, odontotecnico di Altamura, all’epoca dei fatti assessore comunale alle Attività produttive; Amedeo Nardi, rappresentante di prodotti per l’ortodonzia; gli studenti Giacomo Cuccovillo e Marco Magdalone. Altre 27 persone tra docenti e dipendenti universitari, studenti e aspiranti matricole risultano indagate. L’inchiesta è stata avviata nel 2009, dopo controlli nelle sedi universitarie di Napoli, Foggia e Verona. Il test ministeriale è identico per tutti gli atenei e viene svolto lo stesso giorno in tutte le facoltà. L’Università di Bari, però, dopo la precedente inchiesta del 2007, era corsa ai ripari schermando totalmente le aule dove si tenevano i test. A Napoli, invece, i controlli erano ancora, per così dire, “normali”. I giovani aspiranti dentisti e i complici dell’organizzazione, guidati dal professor Grassi, avevano quindi escogitato il sofisticato sistema informatico per passare domande e risposte. Centrale operativa dell’organizzazione era la casa altamurana dell’ex assessore Miglionico, dotata di cinque computer, cinque telefoni palmari e tre distinti accessi internet. Il bottino accertato ammonterebbe a 250mila euro, sequestrati per equivalente al professor Grassi, tra cui anche una Ferrari.

PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONI NEI CONCORSI PUBBLICI E NELLE ABILITAZIONI DI STATO.

Pavia, supera il test ma lo annullano perché è difficile. Concorso da rifare. Alla selezione per un posto nell’Asl si sfidano in 64. L’unica idonea non viene presa: «Prova troppo complessa, da rifare». Lei fa ricorso: si vuole favorire qualcuno, scrive Luigi Ferrarella il 24 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Troppo brava per essere assunta, così la prossima volta impara a rispondere esattamente alle domande «troppo difficili». Su 64 candidati è l’unica giudicata «idonea» dalle prove d’esame per un posto di coadiutore amministrativo da assegnare al Dipartimento Prevenzione Veterinaria, quindi vince il concorso pubblico bandito dall’azienda sanitaria locale di Pavia: ma non viene assunta perché appunto l’«Azienda Tutela Salute» pavese annulla il concorso, e ordina di farne uno nuovo, con il surreale e postumo argomento che le domande sarebbero state «viziate» da «eccessiva complessità». Michael Young, il sociologo britannico di matrice laburista autore nel 1958 del manifesto «L’avvento della meritocrazia», si rivolterebbe nella tomba a vedere la chirurgica precisione burocratica con la quale 52 pagine di un decreto dell’Ats di Pavia sembrano incaricarsi di dimostrare plasticamente che meritocrazia continua a essere solo una parola della quale riempirsi la bocca ai convegni. In aprile l’azienda sanitaria di Pavia bandisce un concorso per un ruolo amministrativo nel settore veterinario. Gli ammessi alla graduatoria sono 64, e svolgono l’esame (con «idoneità» fissata a 6 punti su un massimo di 9) in tre convocazioni il 16-17-18 maggio, rispondendo a tre blocchi di domande. All’esito della procedura di selezione, la Commissione d’esame dichiara «idonea» una sola candidata, la 39enne D.C., con 8 punti. C’era un posto da coprire, c’è una persona selezionata per assumere quel ruolo, sembrerebbe tutto semplice. E invece no. In un trionfo burocratico di cinque «visto che», tre «richiamato che», quattro «preso atto che», un «esaminato», un «acquisiti» i pareri dei direttori sanitario-amministrativo-sociosanitario, e due «ritenuto che», ecco che «a tutela dell’interesse pubblico» un decreto del direttore generale stabilisce «necessario procedere all’annullamento in autotutela degli atti endoprocedimentali», e dispone «il rinnovo della fase valutativa della procedura nei confronti» di tutti i «candidati presenti alle tre convocazioni» di maggio: «al fine da un lato di assicurare il superamento del vizio rilevato, e dall’altro di garantire il rispetto del principio di conservazione degli atti giuridici e di divieto di aggravamento del procedimento». E quale sarebbe il grave «vizio rilevato» che imporrebbe l’annullamento del concorso? Dubbi di esami truccati? Errori nelle tracce? Irregolarità tra i Commissari? Macché. Si annulla tutto perché «le domande formulate dalla Commissione esaminatrice nell’ambito delle tre convocazioni non rispettano, in termini di eccessiva complessità, le indicazioni del bando per quanto attiene alle prove di idoneità in esso contenute, con conseguente violazione della lex specialis che il bando medesimo costituisce». Ma cosa veniva chiesto di così tremendo? A occhio e croce cose non esattamente da Premio Nobel, ma quesiti (rispettivamente da 2 minuti di risposta, 5 minuti e 5 minuti) su conoscenze basilari per un operatore amministrativo nel settore veterinario. E cioè elementi essenziali di anagrafe zootecnica (come il codice allevamento, documenti di trasporto, registro di carico e scarico); saper utilizzare Word per inviare alcuni tipi di lettere di contestazione di contributi evasi; e saper usare Excel per predisporre un elenco di aziende con suini e avicoli, da inviare ai vari veterinari per i controlli. «Ma quale tutela dell’interesse pubblico», obiettano gli avvocati Valeria Sergi e Stefano Nespor che ora faranno ricorso al Tar per conto della ragazza: «La tutela dell’interesse pubblico consiste nell’attribuire il posto a concorso al candidato più meritevole, l’unico che ha ottenuto l’idoneità», anzi in teoria «risultato ancor più meritorio tenuto conto della (pretesa) “eccessiva complessità” delle prove. Al contrario, la decisione assunta non tutela alcun interesse pubblico, ma semmai l’interesse di candidati palesemente non meritevoli di provare nuovamente a ottenere il posto a disposizione (e non c’è dubbio che qualcuno di questi riuscirà, con le nuove prove, a ottenerlo). Senza contare che il costo di una nuova selezione graverà sull’Azienda e, quindi, sui contribuenti».

Il nepotismo a Cinque Stelle. Eliminare una classe dirigente considerata in larga misura corrotta, collusa e inadeguata è il primo passo se davvero si vogliono cambiare le cose. Ma sostituirla con le fidanzate, i figli o i congiunti dei colleghi di partito non ci sembra il modo migliore, scrive Sergio Rizzo il 5 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Nelle ricostruzioni delle mappe del potere grillino in questi giorni successivi alle amministrative prevale la caratteristica familiare. Lunghissimo e sorprendente risulta l’elenco di consiglieri, assessori, presidenti di circoscrizione e presunti loro collaboratori che hanno fra di loro vincoli di parentela, senza dire dei rapporti coniugali o equipollenti. Succede nelle migliori famiglie politiche, si sa. E spesso sono gli stessi esponenti del Movimento 5 stelle a stigmatizzare (giustamente, aggiungiamo) la commistione fra relazioni parentali e amministrative, come nel recente caso del figlio del governatore della Campania, Vincenzo De Luca, quando si è profilato il suo approdo alla giunta comunale salernitana con un importante incarico. A maggior ragione, quindi, la straordinaria rete di relazioni familiari in quella che ormai è una vera e propria nomenclatura grillina non può non suscitare qualche riflessione. La prima è la già mancanza di una classe dirigente, conseguenza in parte della rapidità con cui il Movimento si è affermato, ma anche della inesistenza di palestre dove formarla (la rete a questo serve a poco). Carenza che costringe a curiosi ripescaggi di figure anche piuttosto usurate nei ruoli tecnici, e in mancanza di alternative può innescare la suggestione di ricorrere alle uniche persone di cui ci si può fidare, in un clima di generale diffidenza verso tutto ciò che non è il Movimento. E chi se non i familiari, che magari condividono pure la medesima fede politica. Ma indipendentemente, temiamo, da capacità e competenze. Chi fa l’esame al marito per stabilire se è adatto a fare il capo di gabinetto della moglie? Eliminare una classe dirigente considerata in larga misura corrotta, collusa e inadeguata è il primo passo se davvero si vogliono cambiare le cose. Ma sostituirla con le fidanzate, i figli o i congiunti dei colleghi di partito non ci sembra il modo migliore. Anche con le migliori intenzioni si chiama sempre allo stesso modo: nepotismo.

I veleni romani dei Cinque Stelle. La battaglia per i posti di potere. Tra i dirigenti del Movimento c’è chi vuole mettere sotto controllo la sindaca e il suo «raggio magico». E nelle scelte chiave non manca il familismo, scrive Alessandro Trocino l’1 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. «Tutto bene», giura una nota ufficiale, «basta gossip, stiamo lavorando per voi». Eppure volano i coltelli in una guerra tra quelli che, se si parlasse di Pd, verrebbero definitivi «capibastone» e «correnti». Invece siamo tra i 5 Stelle. Epicentro del terremoto, Roma. Qui Virginia Raggi, trionfatrice alle urne, stenta a far nascere la giunta, anche a causa di risentimenti e invidie. Tra i dirigenti nazionali c’è chi vuole mettere sotto tutela la neosindaca e il suo «raggio magico». Ad aumentare entropia e tensione, le accuse di dossieraggi, il malumore crescente dei senatori e lo sconcerto di molti per la deriva familistica del MoVimento, dove amori, amicizie e poltrone sono sempre più intrecciati in un circolo non proprio virtuoso. I fronti son ben definiti. Da una parte c’è Virginia Raggi, sostenuta da Alessandro Di Battista. Dall’altra, le deputate romane mandate ad aiutare (e controllare) il sindaco, Paola Taverna e Roberta Lombardi, che appoggiavano lo sfidante della Raggi, Marcello De Vito. Punto di riferimento nazionale nel direttivo, Luigi Di Maio. La Raggi ha potuto fare poco in questi primi giorni, ma quel poco ha subito innervosito: le nomine di Daniele Frongia a capo di gabinetto «dimezzato» (causa legge Severino) e del vice Raffaele Marra. Siccome la purezza in politica è arte astratta, sono venuti fuori (grazie a una «manina» interna, dicono i rumors) precedenti imbarazzanti per l’ortodossia a 5 Stelle: Marra ha collaborato con Gianni Alemanno e Renata Polverini; Frongia, rivela Andrea Augello, fu collaboratore della giunta Storace. Di Maio minimizza: «Chi ha dimostrato competenze dia una mano». Poi definisce «fumettesche», con ardito neologismo, le indiscrezioni della stampa. Ma che ci sia una guerra di potere è palese. La Raggi vuole mani libere. Per questo vorrebbe nominare portavoce il fedelissimo Augusto Rubei. Non è dello stesso parere la Comunicazione a 5 Stelle, che vorrebbe un suo uomo all’Avana. La Lombardi, intanto, infiamma le chat interne, mettendo in dubbio la qualità delle scelte e chiedendo assessori fedeli. A dispetto dei tanto sbandierati metodi meritocratici, i 5 Stelle sin dalla nascita sono endogamici. Un gruppo apparentemente aperto, nel quale dilaga il familismo. Nel pacchetto che doveva portare De Vito a diventare vice (diventerà, forse, capogruppo), è prevista la nomina della moglie Giovanna Tadonio a mini assessore al terzo municipio. Nello staff romano potrebbe entrare Francesco Silvestri, ex collaboratore del senatore Giovanni Endrizzi ed ex fidanzato di Ilaria Loquenzi, capo comunicazione alla Camera. La Loquenzi fu portata dalla Lombardi. I casi di coppie sono molti: Di Maio-Virgulti, Nesci-Nuti, Giordano-Mantero, Taverna-Vignaroli. Così come i casi di parenti e amici assunti come collaboratori. Barbara Lezzi aveva assunto la figlia del suo compagno, Libera. Wilma Moronese ha preso come collaboratore il compagno. Il senatore Andra Cioffi ha assunto Alessandra Manzin, fidanzata di Paolo Adamo, dei social network del Senato. Una Parentopoli? La senatrice Paola Nugnes, un giorno disse: «Quando scegliamo il nostro esercito, i soldati devono essere fedeli». I risultati non sono sempre all’altezza delle aspettative. Molte fedeltà sono crollate e gli ex sono avvelenati. L’ex capo della Comunicazione Claudio Messora ha rilanciato un articolo che immagina un inedito asse di Di Maio con i poteri forti, Mario Monti e la Trilateral (è seguita denuncia M5S). Serenella Fucksia spiega: «Con Gianroberto Casaleggio c’era un’umanità che non c’è più. Ora c’è una deriva di ragazzetti senza un minimo di etica e di idealità, gente arida. Dovevano combattere la casta, la stanno solo sostituendo». Vero o falso, il clima peggiora e i senatori friggono. Persino ortodossi come Vito Crimi e Nicola Morra sono irritati. La mozione dei senatori che chiede l’uscita dalla Nato è stata ampiamente rimaneggiata dai deputati, provocando gravi malumori. Intanto, la giunta è ferma. Qualcuno già teme un «effetto Pizzarotti», con una presa di distanza del Movimento dalla Raggi (e viceversa), sul modello di quello che è accaduto a Parma. Scenario decisamente infausto, ma soprattutto prematuro. Per ora siamo alle schermaglie. E alle mani avanti del deputato Danilo Toninelli: «Sicuramente commetteremo errori, ma saranno in buona fede».

Mogli assessori e figliastri portaborse: dilaga la Parentopoli a Cinque Stelle. De Vito “ricompensato”: la consorte verso il Terzo Municipio. Così deputati e senatori sono riusciti a sistemare i famigliari, scrive Ilario Lombardo il 2 luglio 2016 su “La Stampa”. «Quando scegliamo il nostro esercito, i soldati devono essere fedeli». La massima degna di Sun Tzu è di Paola Nugnes, senatrice con le 5 Stelle cucite sul petto. E quale fedeltà migliore di chi è sempre al tuo fianco, amico, parente, compagno? Il M5S è un po’ famiglia, un po’ clan, un po’ due cuori e una capanna. C’è chi sotto il vessillo di Beppe Grillo si è dato il primo bacio, chi ha trasformato la passione di coppia in passione politica.

Mogli, mariti, figli e fidanzati Scoppia la parentopoli grillina. Ecco tutti gli intrecci del Movimento, scrive Daniele Di Mario il 5 luglio 2016 su “Il Tempo”. Lotta tra capibastone, guerra fra correnti, incarichi e ruoli per mogli, fidanzati, amici. Il MoVimento 5 Stelle vince, si struttura, diventa partito insomma. E dei partiti mutua tutto, ma proprio tutto. Comprese lotte intestine e «parentopoli». Dietro le difficolta della seindaca di Roma Virginia Raggi di comporre la giunta si celano, infatti, i dissidi tra correnti. Da un lato Alessandro Di Battista, sponsor della Raggi, dall’altra Roberta Lombardi e Paola Taverna, controllori della sindaca e vicine a Marcello De Vito. Ma sulle relazioni pericolose che inciampa il MoVimento 5 Stelle. Dietro la nomina - poi revocata - di Daniele Frongia a capo di gabinetto c’è il forte legame personale tra l’ex consigliere comunale e la Raggi. Così come nei Municipi i legami familiari abbondano. Giovanna Tadonio, moglie di De Vito, è infatti in predicato di entrare come assessore alla Legalità nella giunta del Municipio III guidata dalla minisindaca Roberta Capoccioni. Nell’esecutivo VII Municipio (Appio-Cinecittà) ha invece trovato casa Veronica Mammi, fidanzata del consigliere comunale Enrico Stefano e già assistente della parlamentare grillina Federica Daga: la presidente Lozzi l’ha scelta per occuparsi di Politiche sociali. Insomma, nonostante Il Tempo abbia rivelato quanto i Municipi pesino sul bilancio comunale i presidenti del M5S non sembrano diversi da quelli degli altri partiti. Anzi. Un caso curioso poi è rappresentato dall’VIII Municipio (Garbatella-Montagnola). Il minisindaco Pace sta attingendo alla mailing list pentastellata per varare la propria giunta. Tra gli eletti in Consiglio municipale, intanto, spuntano fuori rapporti di parentela di ogni tipo. Nel parlamentino di via Benedetto Croce hanno infatti ottenuto uno scranno Teresa Leonardi (40 preferenze) ed Eleonora Chisena (91 voti), madre e figlia. Ma c’è gloria anche per Giuseppe Morazzano (41 preferenze) e Luca Morazzano (34 voti), padre e figlio. Delle due l’una: o la passione pentastellata è un affare di famiglia e coinvolge generazioni diverse o la difficoltà di chiudere le liste ha messo a dura prova la fantasia dei vertici grillini. Ma il familismo travalica i confini del Grande raccordo anulare e arriva anche in provincia. Per la precisione a Genzano, Comune dei Castelli Romani dove i pentastellati si sono imposti alle ultime amministrative, come del resto a Marino, Nettuno e Anguillara. In Consiglio comunale a Genzano sono stati eletti Elena Mercuri e Luigi Nasoni, moglie e marito che hanno approfittato alla grande della doppia preferenza di genere. Entra in Comune genzanese anche Daniela Fattori, sorella dell’omonima senatrice pentastellata. Insomma, nel MoVimento 5 Stelle il familismo dilaga. Nello staff romano potrebbe entrare Francesco Silvestri, ex collaboratore del senatore Giovanni Endrizzi ed ex fidanzato di Ilaria Loquenzi, capo comunicazione alla Camera. La Loquenzi fu portata dalla Lombardi. I casi di coppie, del resto, sono molti: Di Maio-Virgulti, Nesci-Nuti, Giordano-Mantero, Taverna-Vignaroli. Così come i casi di parenti e amici assunti come collaboratori. Barbara Lezzi aveva assunto la figlia del suo compagno, Libera. Wilma Moronese ha preso come collaboratore il compagno Giuseppe Rondelli. Il senatore Andra Cioffi ha assunto Alessandra Manzin, fidanzata di Paolo Adamo, uomo della Casaleggio e assistente in Senato di Rocco Casalino, con delega ai social network. I risultati non sembrano però sempre all’altezza delle aspettative. Anche perché quando i rapporti finiscono vengono a galla i veleni. L’ex capo della comunicazione Claudio Messora ha rilanciato un articolo che immagina un inedito asse di Di Maio con i poteri forti, Mario Monti e la Trilateral. Attacco al quale è seguita una denuncia del MoVimento 5 Stelle. Serenella Fucksia, come riportato qualche giorno fa dal Corriere della Sera, spiega: «Con Gianroberto Casaleggio c’era un’umanità che non c’è più. Ora c’è una deriva di ragazzetti senza un minimo di etica e di idealità, gente arida. Dovevano combattere la casta, la stanno solo sostituendo». Insomma, il clima all’interno del non partito che è cresciuto diventando partito vero e proprio, con tutti i suoi difetti, peggiora di giorno in giorno. Secondo alcune indiscrezioni giornalistiche a essere irritati sarebbero anche i grillini di più stretta osservanza, come Vito Crimi e Nicola Morra. Tra litigi e malumori, intanto la giunta Raggi è ancora in alto mare. E le prime nomine effettuate dalla sindaca di Roma - Daniele Frongia e Raffaele Marra - bloccate dal minidirettorio e da Beppe Grillo in persona, che hanno imposto alla Raggi di revocarle.

Tutto questo per dimostrare che la raccomandazione è bipartizan.

SAGHE FAMILIARI. Alfano, Pizza, Boschi e gli altri "fratelli di". Con l'inchiesta romana Labirinto siamo all'apoteosi: il fratello di Pizza che si vanta di aver fatto assumere il fratello di Angelino. Ma nell'enciclopedia del "tengo famiglia", il capitolo è lungo. E spesso dolente, scrive Susanna Turco il 6 luglio 2016 su “L’Espresso”. L’ultimo giro è in fondo un raddoppio da capogiro: Raffaele, fratello dell’ex sottosegretario e proprietario del simbolo Dc Giuseppe Pizza, che si vanta al telefono di aver fatto assumere alle Poste Alessandro, il fratello del ministro Alfano. Roba quasi da scomodare i doppi di Borges. L’altro Pizza. L’altro Alfano. E così, complice l’ultima inchiesta romana su appalti e tangenti, spunta nel pacco delle intercettazioni l’annosa categoria dei fratelli. Meno frequente per la verità nella grande enciclopedia dell’italico “tengo famiglia”, un capitolo minore. Forse però più dolente. Perché poi se dietro ogni “figlio di” vi è necessariamente un padre (o una madre), insomma un sistema francamente piramidale, nel caso dei fratelli vi è spesso qualcosa di obtorto, concorrente, al limite ostile. Parallelo forse, paritario quasi mai. Insomma, senza tirare in ballo Romolo e Remo: c’è ne è di solito uno solo che la spunta. “Mio fratello Raffaele? Ovviamente lo conosco, ma non c’è mai stata una grande comunanza fra noi. E raramente passo per il suo ufficio”, spiega ad ogni buon conto, a Repubblica, l’ex sottosegretario di Berlusconi Giuseppe Pizza, che comunque è indagato (il fratello è in galera). Mentre Alfano, prontissimo a difendere il padre dal fango (“barbarie, è malato”, ma “quell’uomo lo conosco bene perché è mio padre”), di Alessandro dice poco o niente: mentre la Stampa lo chiama “il fratello scomodo”, ne ricorda la laurea a 44 anni e qualche pasticcio, Angelino si limita a protestare per le intercettazioni “usate a fini politici”, che “non riguardano me, bensì terze e quarte persone. Persone che non vedo e non sento da anni”. Per carità: non alluderà mica anche al fratello? Perché poi anche questo, può accadere. “L’ultima volta che ci siamo visti è stato sette anni fa, e la volta prima altri sei”, disse una volta il dantista Vittorio Sermonti, parlando addolorato di suo fratello maggiore Rutilio: “Ma non abbiamo mai veramente litigato. Semplicemente non ne potevo più di sentire le stesse stupidaggini”. Insomma lo spettacolo davvero raro è quello di assistere al cuore oltre l’ostacolo che mostrò una volta Alberto Dell’Utri, fratello gemello di Marcello, in Publitalia dal 1983, nel giorno in cui questi tornò dal Libano per scontare la condanna definitiva: “La condanna? Una assoluta ingiustizia”; il “tentativo di fuga? Erano solo congetture, mi sembra che non fosse vero niente. Impossibile che fosse una fuga. Conosco mio fratello”. Rari anche gli slanci come quello che ebbe nel 2012 il sindaco leghista di Arona, Alberto Gusmeroli, determinato a nominare assessore il fratello Marco, prima di scoprire che, ahilui, la legge lo impedisce: “Mi dispiace proprio”. Più spesso, c’è un fratello più in ombra che va in scia di quello in luce. Volente o nolente, con benefici o senza: perché poi un vantaggio vero è a volte da dimostrare. Mentre per dire Emanuele, fratello della ministra Boschi, faceva la gavetta in banca insieme al padre, Pier Francesco Boschi, il minore, è stato così bravo da trovare lavoro a 27 anni, grazie a curriculum e laurea, nella cooperativa muratori e cementisti di Ravenna. E se il fratello della presidente Laura Boldrini, Andrea, pittore professionista, è riuscito ad avere una personale al Maxxi di Roma, si è dovuto però pure beccare una serie di articolacci dalla stampa di centrodestra. E il fratello minore di Beatrice Lorenzin, Lorenzo, poliziotto al Reparto mobile, che cura il collegio elettorale della sorella (Ostia e Acilia), è costretto da un paio d’anni a smentire la notizia di far parte della Direzione dell’Ncd: se pure ci è stato, ora comunque non più. A volte il fratello sostiene e così si fa strada: Claudio de Magistris, fratello di Luigi, si è trasformato nel giro di sette anni da organizzatore di eventi a spin doctor del sindaco di Napoli e ora avrà un ruolo nel suo movimento politico. In altri, tira giù: come nella vicenda giudiziaria che ha coinvolto in Emilia i fratelli Errani, costando a Vasco la poltrona di governatore.  In alcuni casi, ma rari, è il fratello a superare il fratello: Fulvio Martusciello, prima di diventare il volto (e le preferenze) di una lunga stagione di Forza Italia in Campania, era il “fratello piccolo di Antonio”, dirigente di Publitalia, colui che lo spinse in campo. E chissà come andrà il futuro a Silvio Cuffaro: col fratello ex governatore Totò in carcere, si è fatto rieleggere sindaco a Raffadali, provincia di Agrigento, sia pure per soli otto voti di scarto. Pur sempre un inizio.

La rete di potere intorno ad Angelino Alfano. Tra moglie e avvocati, giro d'affari da capogiro. Incarichi pubblici, posti di potere nelle banche, cattedre universitarie e le immancabili consulenze. Da Andrea Gemma ai fratelli Clarizia, passando per la consorte del ministro dell'Interno, ecco i nomi e cognomi degli angeli di Angelino, scrive Emiliano Fittipaldi il 16 aprile 2015 su “L’Espresso”. Frank Cavallo, il "facilitatore" di Maurizio Lupi arrestato un mese fa per corruzione, conosce Andrea Gemma solo di fama. Sa che è un avvocato romano, che insegna all’università, che è vicinissimo ad Angelino Alfano. Ma sa pure che è l’uomo giusto per risolvere certi problemi. Così, quando un suo amico imprenditore si vede recapitare un’interdittiva antimafia dalla prefettura di Udine e gli confida che ha scelto Gemma per difendersi, Cavallo telefona al giovane avvocato per sollecitarlo: «Professore, volevo dirti che hai nelle mani le palle di Claudio De Eccher», ironizza lo scorso luglio Frank col legale, senza sapere di essere intercettato dai pm di Firenze. «Frank! Io ti ringrazio della tua raccomandazione affettuosa, del tuo, come dire, consiglio...», risponde Andrea. «Perché noi non ci conosciamo tanto bene, ma ho sempre trovato in te un atteggiamento di grande benevolenza, simpatia, disponibilità nei miei confronti». La fiducia di Frank è ben riposta: in 35 giorni Gemma risolve il casino, e ottiene dal Tar del Friuli una sentenza che sospende l’interdittiva antimafia e critica pesantemente la decisione del prefetto. Un trionfo per lui e per De Eccher, a cui però viene un mezzo infarto tre mesi dopo, quando riceve la parcella del suo nuovo legale: 650 mila euro. «Frank! E che madonna! Sto’ Gemma è un delinquente! Una roba allucinante Frank! Cioè, io in 40 anni non ho mai visto una roba del genere! Persona pessima eh... pessima!». L’imprenditore forse non conosce il mercato: i servigi dei “Mr Wolf”, soprattutto di quelli bravi, costano caro. E Andrea Gemma non è certo un avvocato qualsiasi, ma la punta di diamante di una rete di potere gigantesca, una lobby compatta e sconosciuta che ha nel ministro Angelino Alfano uno dei suoi cardini principali, e nei professionisti Renato e Angelo Clarizia due incursori fenomenali. Un gruppo i cui interessi spaziano da incarichi pubblici da centinaia di migliaia di euro a cattedre di importanti università, dal business delle curatele fallimentari alle poltrone di cda di partecipate come Eni. In un intreccio di rapporti professionali e amicali, di scambi e di favori, che coinvolgono non solo banchieri e avvocati, ma anche il ministro dell’Interno e sua moglie Tiziana Miceli. Andiamo con ordine, partendo dall’inizio. Spulciando vecchie carte dell’università di Palermo, si disegna il profilo di un’amicizia antica. «Andrea Gemma sta ad Alfano come Marco Carrai sta a Matteo Renzi», raccontano dalla Sicilia. In realtà, se la coppia di Firenze s’è conosciuta ai tempi dei boyscout, l’avvocato e il ministro dell’Interno si sono incontrati dopo la laurea in giurisprudenza, che il primo ha preso alla Luiss di Roma e il secondo alla Cattolica di Milano. Entrambi figli d’arte (Angelino è il rampollo di un notabile della Dc di Agrigento, Gemma di Sergio, avvocato con studio avviatissimo nella Capitale), le loro strade si incrociano grazie a Salvatore “Savino” Mazzamuto e alla professoressa Rosalba Alessi, due mammasantissima di diritto privato a Palermo. È falso, come hanno scritto alcuni giornali, che Gemma avesse conosciuto Alfano perché suo tutor ai tempi dell’università. Ma è certo che nel 1998 - nonostante i tanti impegni politici (al tempo Angelino era presidente del gruppo di Forza Italia all’Assemblea regionale siciliana) - il futuro segretario di Ncd riesce a trovare il tempo per vincere un dottorato in “Diritto d’impresa”, tenuto proprio dalla Alessi. I due ragazzi di belle speranze si conoscono allora (Gemma e Mazzamuto scriveranno due libri insieme) e si piacciono subito. Moderati ma ambiziosi, scrivono qualche articolo su “Europa e diritto privato” (rivista diretta da Mazzamuto, la Alessi è nel comitato scientifico) e promettono di non lasciarsi più. Finora nessuno dei due ha tradito il giuramento. Se Angelino scala rapidamente posizioni in Forza Italia e diventa prima ministro poi delfino «senza quid» di Berlusconi, Andrea alla politica preferisce gli affari e la carriera accademica. Leggenda vuole che Gemma sia un ragazzo prodigio che s’è fatto da solo. In realtà il talento è ereditato dal padre Sergio, un professionista assai affermato negli ambienti che contano della Città eterna, liquidatore di decine di aziende, ex consigliere di amministrazione della Banca del Mezzogiorno e della Unicredit Medio Credito, sindaco e presidente di collegi sindacali di aziende pubbliche come Equitalia Giustizia, Trenitalia, Fs Logistica e Sogin. Un curriculum sterminato, a cui nell’ottobre 2011 aggiunge anche l’incarico di commissario straordinario della Banca commerciale di San Marino. Sul Monte Titano Gemma senior viene chiamato da due vecchi amici, il professore Renato Clarizia, ordinario di diritto privato all’Università Roma Tre e presidente della Banca centrale della piccola Repubblica, e da Mario Giannini, braccio destro di Clarizia e fratello di Giancarlo, l’ex potente presidente dell’Isvap. Quella a San Marino per Gemma sarà un’esperienza sfortunata: si dimetterà infatti dopo nemmeno due mesi di lavoro; ufficialmente per «motivi personali», in realtà perché travolto da uno scandalo finanziario di cui - ancora oggi - non sono chiari i contorni. È un fatto che Gemma nel dicembre 2011, nonostante sulla banca gravasse un regime di blocco dei pagamenti, autorizzò un bonifico da oltre un milione di euro verso la Finanziaria Infrastrutture, gestita dall’ex segretaria di Giancarlo Galan Claudia Minutillo. Le polemiche investirono in pieno anche Clarizia, ma il prof è ancora saldo al suo posto. Di poltrone, in realtà, Clarizia ne ha due. Quella in banca e quella dietro la cattedra all’ateneo Roma Tre, università in cui Gemma junior è diventato ricercatore nel 2003. Clarizia, inoltre, è anche il segretario della commissione d’esame che l’8 novembre 2013 gli ha assegnato una nuova, prestigiosa cattedra da associato in diritto privato a Roma Tre. “L’Espresso” ha letto il verbale della procedura, scoprendo che al bando dell’ateneo ha fatto domanda un solo candidato. A chi piace vincere facile? Ma a Gemma, naturalmente, che da un anno e mezzo somma la nuova docenza e quella ottenuta nel 2006 all’Università di Palermo. Andrea conosce assai bene non solo il suo mentore Renato Clarizia, ma anche il fratello Angelo, altro avvocato di fama con origini salernitane. Da anni i due professionisti lavorano a braccetto, e da poco hanno anche vinto (con un raggruppamento temporaneo d’impresa) l’importantissima gara per i servizi legali dell’Expo da 630 mila euro. Un colpaccio, solo l’ultimo di una lunga serie: leggendo un’ordinanza del Tar Lazio della fine 2011, infatti, risulta che Angelo Clarizia ha ottenuto consulenze legali pure per la Valtur, di cui Gemma era diventato commissario straordinario qualche settimana prima. E quando Andrea, lo scorso 3 febbraio, non è potuto andare a difendere il partito di Alfano (da una recente sentenza del Consiglio di Stato risulta che Gemma difende anche l’Ncd), ha mandato proprio il socio d’affari Angelo a rappresentare gli interessi del Nuovo centro destra. Ma non è tutto. Spulciando una deliberazione del comune di Lacco Ameno, a Ischia, si scopre che con lo studio di Angelo Clarizia ha lavorato anche la moglie di Alfano, l’avvocato Tiziana Miceli: i due fino al 2014 hanno infatti curato gli interessi di una società (la Serit) di cui Gemma è commissario straordinario. «L’avvocato Miceli tiene a precisare che l’unica consulenza da lei svolta a favore di una pubblica amministrazione, ad oggi, è quella ricevuta dall’assessore alla Sanità della Regione Sicilia nel 2003-2004», si legge in una richiesta di risarcimento danni mandata a “l’Espresso” tre anni fa. In realtà - come dimostrano alcune carte del Tar Sicilia - la moglie di Angelino ha difeso altri enti pubblici, come il comune di Casteltermini, un’azienda ospedaliera di Palermo, l’Istituto autonomo Case popolari di Palermo (guidato fino al 2001 dal forzista Diego Cammarata) e la provincia di Agrigento, incarico assegnatole nel 2006 quando il presidente era Vincenzo Fontana, attualmente deputato regionale in Sicilia dell’Ncd. Oggi la Miceli è titolare di uno studio romano poco conosciuto (la “RM Associati”, con sede a Piazza Navona), che non ha un sito internet e non ama farsi pubblicità sul web. Nella RM, oltre a Tiziana, c’è un altro avvocato di Angelino, Fabio Roscioli. Dopo gli incarichi in Sicilia sembra che le cose stiano andando bene anche nella capitale: non solo nel 2010 Tiziana ha guadagnato 229 mila euro (la moglie del ministro dell’Interno ha dato il consenso per pubblicare la dichiarazione dei redditi solo quell’anno), “l’Espresso” ha scoperto che la Miceli tra fine 2014 e inizio 2015 s’è aggiudicata dalla Consap (la concessionaria dei servizi assicurativi pubblici controllata dal ministero dell’Economia) ben cinque consulenze nuove di zecca. Gli importi, si legge nelle determine firmate dall’amministratore delegato Mauro Masi (ex dg della Rai in quota berlusconiana) «saranno quantificati all’esito delle attività». Speriamo, per le casse pubbliche, non siano troppo alti. Intanto Andrea, una volta guadagnata la cattedra e puntellata l’alleanza con i Clarizia, comincia a darsi da fare anche con il suo studio legale. Come il padre ha buone entrature nel settore pubblico: così, giovanissimo, nel 2008, il capo dell’Isvap Giancarlo Giannini (poi indagato per corruzione nell’affaire Ligresti) lo nomina commissario liquidatore di Alpi Assicurazioni, incarico a cui ne seguiranno una mezza dozzina. Alfano, diventato Guardasigilli, lo chiama pure al ministero della Giustizia a fare «il soggetto attuatore giuridico del Piano Carceri», ovviamente a cachet. Ma il legale con la faccia d’angelo deve alla politica anche un’altra poltrona di peso: il 18 ottobre 2011 il ministro del Pdl Paolo Romani decide di promuoverlo come commissario straordinario della Valtur, azienda stritolata dalla crisi e dalle vicende giudiziarie della famiglia Patti. La nomina sembra quantomeno inopportuna: il papà di Gemma, Sergio, era stato infatti presidente del collegio sindacale del colosso dei Patti tra il 1999 e il 2002. Per la cronaca Alfano - diventato segretario del Pdl qualche settimana prima della nomina dell’amico - ad agosto 2011 aveva trascorso le vacanze proprio in un villaggio Valtur della Grecia, godendo di uno sconto di 3.500 euro. Grazie, sostenne qualcuno, all’amicizia con i Patti. «Alfano non ha intrattenuto nessun rapporto con Carmelo Patti sebbene lo abbia conosciuto», spiegò furioso il suo avvocato Roscioli, oggi socio della moglie. «In occasione di alcuni soggiorni ha semplicemente conseguito sconti previsti da catalogo o normalmente praticati a personaggi pubblici». Gemma e Angelino sono tipi che vanno dritti per la loro strada. Così nel 2013 Andrea per volontà dell’ex prefetto di Palermo Giuseppe Caruso (nominato nel 2010 dal governo Berlusconi e poi diventato direttore dell’Agenzia dei beni confiscati alla mafia) diventa pure commissario dell’Immobiliare Strasburgo, un colosso che gestisce le proprietà (valgono centinaia di milioni) confiscate ai boss della famiglia Piazza. Passano pochi mesi, e Alfano mette il fedelissimo nella lista dei consiglieri della più importante azienda pubblica del paese, l’Eni, con un compenso da 80 mila euro lordi l’anno più bonus (che per il 2014 si avvicinano ai 50 mila euro). Angelino è uno che non si dimentica mai degli amici che stima. Così il professor Mazzamuto, antiche (e scolorite) simpatie di sinistra, trasferitosi anche lui all’Università Roma Tre, nel 2008 diventa consigliere personale del ministro della Giustizia. Arrivato Mario Monti a Palazzo Chigi, Angelino riesce a sponsorizzarlo addirittura come sottosegretario alla Giustizia (alcuni ricordano ancora quando si prese i fischi della Camera per essere intervenuto parlando con le mani in tasca), mentre nel 2013 - quando Alfano è vicepremier del governo Letta - lo convoca come suo «consigliere giuridico» con un bonus (recitano i documenti ufficiali) da 50 mila euro l’anno. Oggi Mazzamuto è passato all’Interno, dove ha ottenuto l’ennesimo incarico come «consigliere per le politiche della formazione». Stavolta, pare, a titolo gratuito. Anche la Alessi (che Stefania Giannini ha incontrato qualche giorno fa per discutere del pasticcio dell’abilitazione nazionale di diritto privato, «mi ha dato solo un suo parere», spiega il titolare dell’Istruzione) grazie a qualche succoso incarico pubblico è riuscita ad arrotondare il suo stipendio accademico: nel lontano 1999 la professoressa fu nominata dall’allora assessore all’Industria della Regione Sicilia Giuseppe Castiglione (al tempo vicino all’Udeur, oggi braccio destro di Alfano in Sicilia e sottosegretario dell’Ncd sotto inchiesta) come commissario liquidatore di vecchi carrozzoni improduttivi, tra cui l’Ente minerario siciliano e l’Ente siciliano per la promozione industriale. Sono passati 15 anni, ma le società e Alessi sono ancora lì: facendo i conti della serva (sappiamo che nel 2006 prendeva 44 mila euro per ogni ente, scesi nel 2012 a 33 mila), la prof di Angelino ha incassato circa un milione in tre lustri. Non male davvero, per due società morte che nessuno sembra voler seppellire.

Consulenze pubbliche alla moglie di Alfano. E l'avvocato del ministro vince l'appalto Expo. Mauro Masi, l'ex dg Rai a capo della Consap, ha girato almeno cinque incarichi a Tiziana Miceli, la consorte di Angelino. Andrea Gemma, avvocato dell'Ncd e fedelissimo di Alfano piazzato all'Eni, ha vinto un bando da 630 mila euro. Ecco la rete di interessi del titolare dell'Interno. Che replica: "Mistificazioni". Ma non smentisce, scrive Emiliano Fittipaldi il 16 aprile 2015 su “L’Espresso”. Che Angelino Alfano sia un ministro miracolato (dal caso dell'espulsione illegittima della dissidente Alma Shalabayeva alle manganellate della polizia agli operai delle acciaierie di Terni, in due anni appena il Parlamento ha già votato - e respinto - due richieste di dimissioni) è cosa nota. Meno nota, invece, è la rete di "relazioni pericolose" del titolare dell'Interno, e l'intreccio di interessi politici e economici che "L'Espresso" è in grado di raccontare per la prima volta. Partendo dalla moglie del ministro dell'Interno Angelino Alfano, Tiziana Miceli, che ha appena avuto cinque consulenze dalla Consap, la concessionaria dei servizi assicurativi pubblici controllata dal ministero dell'Economia che fornisce servizi al ministero dell'Interno e a quello dello Sviluppo Economico. In una dichiarazione firmata il 24 febbraio 2014 la Miceli dichiara di essere già «titolare di incarichi di assistenza legale conferiti da Consap», ma tra fine 2014 e l'inizio del 2015 lo studio della Miceli (il poco conosciuto RM-Associati, di cui risulta socio anche Fabio Roscioli, avvocato di Alfano) ha ottenuto altri cinque incarichi, l'ultimo a fine gennaio. La moglie di Angelino è stata assunto grazie a una delibera firmata da Mauro Masi, amministratore delegato della Consap ed ex direttore generale della Rai ai tempi del governo Berlusconi, boiardo vicino al centro destra che il governo di Matteo Renzi ha persino promosso qualche mese fa, confermandolo sulla poltrona di ad e concedendogli anche quella da presidente. «Gli importi» della consulenza della Miceli, si legge nelle determine, «saranno quantificati all'esito delle attività». Speriamo, per le casse pubbliche, non siano troppo alti. Non è tutto. La Miceli in passato ha ottenuto altri incarichi da alcune amministrazioni pubbliche siciliane (dalla provincia di Palermo all'Istituto autonomo case popolari di Palermo) sempre controllate dal centro destra, mentre nel 2014 la moglie di Angelino risulta aver difeso anche gli interessi di una società (la Serit) insieme al collega Angelo Clarizia. Non un avvocato qualsiasi, Clarizia: è infatti socio in affari di Andrea Gemma, amico storico di Alfano e altro vertice di peso della sua rete relazionale, in passato consigliere ministeriale a cachet e oggi membro del cda dell'Eni e commissario liquidatore di aziende importanti come la Valtur. Gemma e Clarizia sono legatissimi: i loro studi hanno di recente anche vinto un appalto per i servizi legali dell'Expo (da 630 mila euro) e, in barba a qualsiasi conflitto di interessi potenziale, "L'Espresso" ha scoperto che da poco i due hanno difeso anche gli interessi del Nuovo Centro Destra, il partito del ministro dell'Interno.

Ore 19: Il ministro Alfano ha voluto replicare al nostro articolo. Qui il suo commento e la nostra replica. "Purtroppo L'Espresso insiste e ci ricasca: non appagato dalla recente condanna per diffamazione subita in Tribunale - dove mi è stato riconosciuto il danno subito - replica il disegno denigratorio nei confronti miei e di mia moglie. Come al solito, "L'Espresso" costruisce scenari mistificatori e suggestivi. Ancora una volta questo organo di disinformazione mirata si esercita nel tentativo vano, ma non per questo meno grave, di gettare discredito, e non soltanto sulla mia persona''. ''Ci rivedremo, mio malgrado, di fronte a un Tribunale che saprà individuare tra persone defunte date per vive, circostanze false, notizie irrilevanti, fatti comici, errori marchiani e astruse manipolazioni della realtà, tutti gli elementi del doloso e reiterato intento diffamatorio".

La nostra risposta. Prendiamo atto della dichiarazione del ministro Alfano. Che però non smentisce nessuna delle circostanze documentate che abbiamo descritto nell'inchiesta. Nel frattempo l'ad della Consap Mauro Masi ha ammesso pubblicamente che Tiziana Miceli lavora per la sua società dal 2011. E.F.

Ore 17, venerdì 17: Mauro Masi replica alla nostra inchiesta. Egregio Direttore, faccio riferimento all’ articolo “Gli Angeli di Angelino” apparso sull’ Espresso oggi in edicola. In qualità di Amministratore Delegato e Presidente della Consap SpA ho il dovere di precisare che la Consap non ha mai affidato incarichi di consulenza professionale all’Avv. Tiziana Miceli. L’Avv. Tiziana Miceli è stata esclusivamente affidataria di alcuni incarichi di patrocinio legale per conto di Consap in procedimenti che vedevano coinvolta la società in sede giudiziale. Incarichi peraltro indicati pubblicamente (come tutti quelli che riguardano la Società) sul sito di Consap SpA. E’ inoltre doveroso precisare che l’Avv. Miceli ha sottoscritto sin dal 28 settembre 2011 la convenzione tipo che Consap applica a tutti gli avvocati che difendono la società sull’intero territorio nazionale, e che prevede un abbattimento degli onorari almeno del 25% rispetto ai limiti tariffari minimi previsti della legge professionale vigente con evidente vantaggio per Consap anche nel caso, come quelli che riguardano l’Avv. Miceli, di cause relative ad importi molto modesti. Invio i migliori saluti e Le auguro buon lavoro. Mauro Masi, ad Consap.

La nostra risposta. Ringraziamo Mauro Masi per la gentile precisazione. Sottile è la differenza tra consulenza professionale e incarico legale: giudichino i lettori. Scopriamo grazie a lui che la moglie del ministro dell'Interno Angelino Alfano Tiziana Miceli ha ottenuto incarichi presso la Consap già a partire dal 2011. E.F.

I pasticci di casa Alfano tra pacchi di curriculum e falsi esami di laurea. Padre, figli, mogli: la rete di rapporti della famiglia siciliana vissuta all'ombra della Dc, scrive Anna Maria Greco, Giovedì 7/07/2016, su “Il Giornale”. Che famiglia, la famiglia Alfano. Ad Agrigento coltiva i suoi sogni di scalata sociale all'ombra del potere politico, allora incarnato dalla Dc, la Balena bianca che tutti fagocita e con la quale il professor Angelo, docente di licei, diventa consigliere comunale e assessore, legato alla corrente di Calogero Mannino. Poi in Fi, nel Pdl e nell'Udc, dove il figlio Angelino costruisce la sua carriera salendo ai vertici del partito e dei vari governi. Ma anche chi in politica non s'impegnava direttamente, vive nell'ombra di quel potere. Nell'ultima inchiesta «Labirinto» viene fuori dalle intercettazioni telefoniche prima il nome di Alessandro, fratello minore del ministro dell'Interno e leader Ncd, assunto a Postecom sembra con qualche spintarella interessata di troppo, che già ha alle spalle una serie di «infortuni». Poi quello di papà Angelo, descritto alle prese con una serie di raccomandazioni, 80 dicono le intercettate, sempre alle Poste. Se si allarga lo sguardo agli acquisiti della famiglia, si scopre che di chiacchiere, sospetti e polemiche ce ne sono stati parecchi anche su di loro. Ne ha suscitati la moglie di Angelino Alfano, l'avvocato Tiziana Miceli, per una serie di consulenze di cui si è occupato il suo studio, comprese quelle che dal 2011 le ha affidato la Consap, concessionaria dei servizi assicurativi pubblici controllata dal ministero dell'Economia. La moglie di Alessandro Alfano, invece, lavora nell'ufficio comunicazione del gruppo Ncd della Camera. La giovane Flavia Montana è di Lampedusa, l'isola siciliana primo approdo dei profughi. E il padre Lorenzo, ex assessore al Bilancio del comune, finisce nel 2014 al centro di una dura polemica, perché deve andare a dirigere il centro di accoglienza per gli immigrati, chiuso in precedenza per lo scandalo della doccia antiscabbia ripresa dalle tv e passato dalla cooperativa Sisifo alla Confederazione nazionale delle Misericordie, dopo un negoziato della prefettura di Agrigento. Lorenzo Montana dice che è stato scelto per le sue «qualità personali, umane, professionali e intellettuali», ma i più sono convinti che ci sia lo zampino del parente ministro dell'Interno. Così, il suocero di Alfano junior è costretto a rinunciare al vertice del Cspa. Alessandro è quello che nella famiglia ha il curriculum più ricco di guai. Lo descrivono come ben diverso per carattere dal primogenito serioso. Più estroverso e gaudente, sembra che non si preoccupi molto di mettere in imbarazzo il ministro suo fratello, sgomitando nella sua ombra e pretendendo sempre di più. Classe '65, laurea triennale in Economia a 44 anni con sospetti di esami comprati, in ogni posto dove arriva provoca guai e difficoltà. Contestazioni per il concorso come segretario generale della Camera di Commercio di Trapani lo costringono a lasciare dopo qualche mese. Poi chiede il reintegro che gli viene negato. Contestazioni dopo la nomina a dirigente di Postecom del 2013 (quella di cui si occupa l'inchiesta), costringono l'amministratore Massimo Sarmi ad un audit interno di verificare. Arriva la conferma, ma 2 anni dopo viene trasferito a Poste tributi, mentre cambia il vertice ed arriva Francesco Caio. Altro trasferimento a Poste e lui fa causa all'azienda per dequalificazione. Si trova un accordo, ma a settembre scorso finisce a Palermo, Area immobiliare Sud. Senza poteri di spesa, ad occuparsi della pulizia degli uffici postali.

LA CRICCA DELLE NOMINE. Il Labirinto della corruzione: politica e affari all’ombra del Parlamento. Blitz della Guardia di Finanza con 24 persone finite in manette. Al centro del groviglio di interessi tra imprenditoria e Palazzo il faccendiere Raffaele Pizza, fratello dell’ex sottosegretario Giuseppe, e Antonio Marotta, parlamentare alfaniano, ex membro del Csm, scrive Michele Sasso il 4 luglio 2016 su “L’Espresso”. Il Labirinto è quello di un «sistema affaristico-criminale». E in questo caso il nome dell’operazione della Guardia di finanza calza a pennello: corruzione, riciclaggio delle mazzette, truffa ai danni dello Stato, appropriazione indebita e creazione di un’associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale. All’alba è scattato il blitz degli uomini delle Fiamme Gialle con 24 persone arrestate (di cui 12 ai domiciliari), 50 indagati e nel corso dei controlli sono stati sequestrati beni e quote societarie per 1 milioni e duecentomila euro. Tra gli indagati ci sono Raffaele Pizza, il fratello di Giuseppe, l’ex sottosegretario all’Istruzione, che rivendica la titolarità del simbolo originale della Democrazia Cristiana, partito di cui è segretario. Sotto il simbolo dello scudo crociato anche un altro indagato, Antonio Marotta, eletto nel 2013 tra le fila del Popolo della Libertà in quota Dc e poi passato tra gli uomini di Angelino Alfano nel Nuovo Centrodestra. Il 68enne Marotta è un avvocato penalista che grazie alla politica è arrivato nelle stanze del potere: nel 2002 è stato nominato componente del Consiglio superiore della magistratura dal Parlamento in seduta comune, con 589 voti in quota centrodestra capeggiato dall’Udc, ricoprendo vari incarichi. Dopo tre anni, sempre grazie all’Udc di Casini, entra per la prima volta in Parlamento. Ora è indagato per traffico d’influenza illecita – ma i pm avevano chiesto senza successo al gip la misura cautelare per corruzione e associazione a delinquere – è accusato di aver aiutato nelle attività di illecita intermediazione lo stesso Pizza. «È un equivoco - ha commentato a caldo Marotta - Io credo di essere al di fuori di tutto al cento per cento». Nel labirinto di fatture false, vorticosi giri di denaro per oltre dieci milioni di euro (emesse per creare fondi neri e riserve occulte di denaro), ci sono anche controlli fiscali ammorbiditi e corsie preferenziali per agevolare le pratiche si sono immersi gli investigatori scoprendo operazioni sospette e fatturazioni false o sovraffaturazioni per aggirare il fisco messe in cantiere da un consulente tributario. Dal professionista sono partiti per arrivare fino alla mente del gruppo Raffaele Pizza. Conoscere «qualcuno» a Roma, si sa, è determinante. E quel qualcuno nella zona grigia tra affari, politica e lobby è il faccendiere fratello del politico calabrese di lungo corso, Giuseppe, ex sottosegretario all’istruzione del governo Berlusconi, che ancora oggi rivendica il simbolo della Democrazia Cristiana. Dopo anni di battaglie giudiziarie per tenersi il simbolo dell’ex balena bianca ridotta ad acciuga di voti, oggi è anche lui finito nell’inchiesta come indagato per riciclaggio. Raffaele Pizza, adoperando i suoi legami stabili con il mondo della politica, rappresentava lo snodo cruciale degli affari con gli enti pubblici, svolgendo secondo gli investigatori «un'incessante e prezzolata opera di intermediazione tra i suoi interessi e quelli di imprenditori senza scrupolo» allo scopo di aggiudicarsi gare di forniture. Molti dei contatti venivano portati avanti nello studio di Pizza in via Lucina, alle spalle del Parlamento, dove sarebbe avvenuto anche lo scambio di denaro in varie occasioni. A cento passi dal cuore delle istituzioni, la rete sarebbe riuscita a ottenere appalti per la fornitura di servizi e beni di diversi enti statali e anche di alcuni ministeri. Commesse vinte grazie al pagamento di tangenti, smistate senza paura a destra e a manca. E spesso realizzate con prestazioni e materiali di qualità inferiore a quanto previsto. Inoltre alcuni degli appartenenti all'associazione per delinquere si sarebbero occupati di fornire documentazione fittizia per creare i fondi neri destinati ad alimentare le tangenti. Pizza, con il nome in codice «Polifemo» non è nuovo alle cronache giudiziarie. Dieci anni fa è stato arrestato dal Pm Henry John Woodcock nell'ambito dell'inchiesta su una serie di truffe a imprenditori. In dieci ore di interrogatori, l'uomo ne aveva raccontate di tutti i colori. Che Ilaria Alpi era stata «vittima della sua superficialità al 100 per cento» ed era stata ammazzata dai somali perché «aveva scoperto il passaggio strategico di materiale importantissimo, piccolo ed occultabile», cioè uranio partito forse dalla Basilicata. Che «il Dc9 Itavia l'hanno abbattuto gli italiani» in una sera di guerra fra aerei libici, americani e italiani. Che sulla scomparsa di Emanuela Orlandi «non c'è mai stata nessuna attività di indagine seria». E poi ore e ore di «rivelazioni» sulla massoneria, i servizi segreti, i signori della guerra somali... La parte più succosa, però, è la chiusura della notizia d'agenzia Ansa dell’epoca: «Nei due interrogatori, Pizza si definisce rappresentante del governo somalo, "agente provocatore", consulente storico, consulente, bibliografo, "scambiatore di notizie", analista, venditore di informazioni e anche "truffatore ma non musulmano", quando ricorda che è stato vicepresidente dell'Associazione musulmana italiana». Prometteva una terra di nessuno dove ogni traffico era possibile, dalla droga ai rifiuti tossici. E grazie ai suoi contatti incassava tangenti milionarie per business mai conclusi. Sfruttando le sue entrature nel Corno d'Africa, vendeva abitualmente informazioni, cercando di infilarsi, secondo la ricostruzione dei magistrati, in un altro affare lucroso: il traffico d'armi.

La cricca delle nomine. "Così ho fatto assumere il fratello di Alfano alle Poste". Il documento. L'incontro di Pizza con Berlusconi, la raccomandazione per il congiunto del ministro e il piano per la designazione di un generale nei Servizi, scrive Giuseppe Scarpa e Fabio Tonacci il 5 luglio 2016 su “La Repubblica”. Non c'è dubbio, l'uomo delle relazioni "ad altissimo livello", quello che può ammorbidire una commissione d'appalto o mettere la parola giusta con il direttore giusto, è Raffaele Pizza. La mente dell'associazione a delinquere, secondo i magistrati romani. Ha costruito una ragnatela, attorno a sé. È il profondo conoscitore dei salotti buoni del potere, l'instancabile tessitore di trame. I finanzieri del Nucleo Speciale di Polizia Valutaria lo ascoltano per mesi e mesi parlare e straparlare al telefono e nel suo ufficio di via Lucina, a due passi da Montecitorio. Di Angelino Alfano e di suo fratello assunto alle Poste Italiane, di Vittorio Crecco l'ex dg dell'Inps, di Silvio Berlusconi, di Antonio Cannalire il braccio destro di Ponzellini in Bpm. Gran parte delle intercettazioni sono contenute nella richiesta di arresto dei pm Paolo Ielo e Stefano Fava, di cui Repubblica è venuta in possesso. È il 9 gennaio del 2015. I finanzieri registrano una conversazione tra Pizza e Davide Tedesco, collaboratore politico del ministro dell'Interno Alfano. "Pizza - scrivono le fiamme gialle - sostiene di aver facilitato, grazie ai suoi rapporti con l'ex amministratore Massimo Sarmi, l'assunzione del fratello del ministro in una società del Gruppo Poste".

Pizza: "Angelino lo considero una persona perbene un amico... se gli posso dare una mano... mi ha chiamato il fratello per farmi gli auguri...tu devi sapere che lui come massimo (di stipendio, ndr) poteva avere 170.000 euro... no... io gli ho fatto avere 160.000. Tant'è che Sarmi stesso glie l'ha detto ad Angelino: io ho tolto 10.000 euro d'accordo con Lino (il soprannome di Pizza, ndr), per poi evitare. Adesso va dicendo che la colpa è la mia, che l'ho fottuto perché non gli ho fatto dare i 170.000 euro... cioé gliel'ho pure spiegato... poi te li facciamo recuperare...sai come si dice ogni volta... stai attento... però il motivo che non arriviamo a 170 è per evitare che poi dice cazzo te danno fino all'ultima lira. Diecimila euro magari te li recuperi diversamente".

Tedesco: "Ma di chi parlava?"

Pizza: "Hai la mia parola d'onore che questo (Alessandro Alfano, il fratello del ministro, ndr) va dicendo in giro che io l'ho fottuto. Perciò io ho paura... dico... cazzo te faccio avere un lavoro... aoh... m'avve a fare u monumento... mo a minchia la colpa mia che quistu dice che (incomprensibile) 10.000 euro in più... che è stata una scelta politica come tu sai".

Tedesco: "Oculata e condivisibile".

Pizza: "E condivisa... no ma… io glie l'ho fatto dire da Sarmi al fratello davanti a me".

Il faccendiere Raffaele Pizza ha un modo particolare di chiamare Vittorio Crecco, l'ex dg dell'Inps dal 2004 al 2009. "Il mitico". C'è un perché, e lui lo spiega al telefono parlando con il senatore di Ncd Guido Viceconte, ex sottosegretario al ministero dei Trasporti. "È la prima volta che me capita uno che viene nominato dalla destra e dalla sinistra". Crecco, racconta Pizza, sarebbe diventato dg dell'Inps grazie all'interessamento di Silvio Berlusconi. A presentarlo all'allora Cavaliere sarebbe stato, ancora una volta, lui.

Pizza: "Sono un grande amico del Senatore Bonferroni e lui mi ruppe i coglioni, diceva: dobbiamo andare ad Arcore, ti devo presentare il Cavaliere perché deve fare una grande cosa, aprire i call center. Io gli dissi: ok ci vengo, e ci portai Agostino Ragosa, che poi è diventato direttore generale dell'Agenda digitale e prima era responsabile grazie a me della parte informatica delle Poste. E anche Vittorio Crecco, che era responsabile dell'informatica dell'Inps. Crecco dice al Cavaliere di dare un milione di lire ai pensionati e gli fece tutta l'operazione sette o otto mesi prima delle elezioni. Il Cavaliere è impazzito, di fronte alla proposta, e questo gli manda quanto sarebbe costata perché ce l'aveva lui. E quindi nasce questa operazione del milione di lire alle pensioni. Ad un certo punto ci fu un "Porta a Porta" famoso, quello in cui ci fu il famoso contratto con gli italiani. Questo (Berlusconi, ndr) mi rompeva i coglioni attraverso Valentini (riferimento a Valentino Valentini, braccio destro dell'ex premier per i rapporti con l'estero), e io prima che finisse di registrare la cosa di Porta a Porta gli porto un dossier che mi ricordo a quadri. Lo diedi a Valentino (dicendogli) di darlo al Presidente. Quando lui cominciò a parlare del milione di lire, tutto questo e il resto, quello gli dice "quanto costerebbe?", e questo "zaaac". E Vittorio in cambio diventò Direttore Generale dell'Inps. Poi lui è bravissimo, lo fece rinominare da Franco Marini quand'era Presidente del Senato. Tant'è che lo chiamavano "mitico", perché è la prima volta che me capita uno che viene nominato dalla destra e dalla sinistra. È un genio assoluto".

Viceconte: "Adesso lui dove sta?"

Pizza: "Adesso lui è in pensione, è stato 10 anni....ma lui ha cambiato l'Inps".

Pizza si dimostra uomo capace di avere un'influenza pure sulle nomine degli apparati militari e dell'intelligence. Tanto che gli arriva una richiesta da un "non meglio specificato generale del corpo per una collocazione pressoi i servizi di informazione". È quanto capta una cimice dei finanzieri del Valutario il 9 gennaio 2015, nel corso di una conversazione con tale Danilo Lucangeli.

Lucangeli: "Allora Cannalire (Antonio, il manager vicino a Massimo Ponzellini, ex presidente di Banca Popolare di Milano, ndr) mi parlava di questo suo amico del Generale della Finanza che li vorrebbe".

Pizza: "Che vorrebbe?"

Lucangeli: "Il vice Comandante generale della Finanza".

Pizza: "Che vuole?"

Lucangeli: "Vorrebbe in qualche modo cercare se è possibile, ho detto, la collocazione con Manenti (Alberto, l'attuale direttore dell'Aise, ndr).

Pizza: "Con Ma... io non posso! potrei fare una cosa diversa, provare a presentarglielo. Se ci riesco, e se mi dà l'ok Alfano".

Con manager di Transcom, interessato agli appalti dell'Inps, Pizza si incontra nel suo ufficio il 20 gennaio 2015.

Pizza: "Stai tranquillo che per un altro anno l'avemo scappottato...capito io Damato anche".

Boggio: "Ho sentito Boeri, era un..."

Pizza: "Boeri ci penso io quand'è il momento, è amico di... ma siamo a livelli altissimi.... con Sarmi se gli dico una cosa la fa... capito, non rompesse il cazzo... quand'è il momento, io sono in grado di intervenire, amico amico suo proprio.... è anche una persona di grandi qualità".

Attraverso intercettazioni "casuali" e "fortuite", viene ascoltato anche il parlamentare di Area Popolare Antonio Marotta, molto vicino ad Alfano.

Il 5 marzo del 2015 Marotta è a colloquio con un alto ufficiale dell'Arma. Il colonnello - che non è stato identificato - chiede una mano all'esponente dell'Ncd per ottenere un trasferimento, e il deputato si mostra disponibile.

Marotta: "Mi dica che è successo?"

Colonnello: "Volevo dirle se c'era, siccome adesso inizieranno a chiamare per comandi, e io mi sono proposto, ho già fatto diciamo degli interventi. Nel caso in cui non ce la faccia da solo, se c'erano delle possibilità dei contatti, nel caso... che so...".

Marotta: "Si decide in questo momento e io... tramite... ma poi io parlo indirettamente con il comandante generale. Tramite qualche amico comune".

Marotta è stato nel 2002 membro laico del Csm in quota Udc. È stato anche vicepresidente di un paio di commissioni, all'interno del Consiglio. Quei giorni se li ricorda bene, e con nostalgia. Con l'imprenditore Luigi Esposito, nell'ufficio di Pizza, si lascia andare a uno sfogo. È scontento di fare il deputato, e vorrebbe tornare al Csm "trattandosi - scrive il giudice - di un luogo in cui si esercita il vero potere".

Marotta: "Devono passare i quattro anni, perché sennò non ci posso tornare, no? Se potevo rimanere lì me ne fottevo di venire a fare il deputato a perdere tempo qua, che cazzo me ne sfottevo. Stavo tanto bene là, il potere là è immenso, là è potere pieno, non so se rendo l'idea. Ci sono interessi, sono grossi interessi non avete proprio idea".

Il 12 dicembre 2014 Benedetti, ritenuta una delle menti del sistema di società cartiere e fatture false, commenta le nuove nomine decise dal governo Renzi. "Io con tutti gli amici che c'avevo m'ha levato un sacco di possibilità... perché levà Sarmi, tenere Croff... c'ha messo quel coglione di che quello non se po'. Dopo tanti anni vanno sotto con il bilancio le Poste...Caio, là... l'Agenzia delle Entrate ce doveva mette un amico ed è uscita fuori sta Orlandi, che è un'allieva de Visco, il ministro la... ma tutti de sinistra e quasi tutti toscani, gente che non se conosce e te devi rifà da capo tutte le grotte (fonetico)".

La rapida carriera di Alessandro Antonio Alfano, fratello di Angelino: docente alla Sapienza prima ancora di laurearsi, scrive "La Stampa" il 6/07/2016. Una carriera tutta in discesa, quella di Alessandro Antonio Alfano, fratello del ministro dell'Interno Angelino. E' quanto ricostruisce un articolo de La Stampa. Secondo il quotidiano torinese infatti, il fratello del ministro è riuscito a diventare docente all'Università Sapienza di Roma ancor prima di laurearsi. Nel 2008 non si è ancora laureato, il titolo triennale in economia e finanze lo conseguirà solo nel 2009, e già risulta docente del laboratorio di «Principi e strumenti di marketing» presso la Facoltà di comunicazione alla Sapienza di Roma. Non finisce qui: Dopo poco partecipa al concorso per diventare segretario generale della Camera di commercio di Trapani. Lo vince, ma nel giro di qualche mese è costretto a lasciare per «cause di forza maggiore». Gli viene contestata la veridicità di alcuni punti inseriti nel curriculum, interviene la Guardia di finanza che sequestra tutta la documentazione e si scopre che il fratello del ministro ha autocertificato un incarico, quello di direttore regionale di Confcommercio Sicilia, che non ha mai ricoperto. Era semplicemente distaccato presso la Confcommercio regionale in veste di direttore provinciale di Agrigento. Alfano jr viene poi nominato in Postecom dove arriva senza concorso, grazie all'intercessione di Raffaele Pizza, l'uomo al centro dell'inchiesta della Procura di Roma su appalti e assunzioni sospette. "Prende servizio il 2 settembre 2013, qualifica di dirigente e compenso fissato in 170mila euro lordi all’anno che l’ad del Poste, Massimo Sarmi, taglia a 160mila", riporta la Stampa.

La stupefacente carriera di Alessandro Antonio Alfano, scrive il 6/07/2016 “Giornalettismo”. La Stampa racconta il percorso professionale del fratello del ministro dell'Interno. Alessandro Antonio Alfano è il fratello del ministro degli Interni, Angelino. I loro nomi sono emersi nell’inchiesta che riguarda Raffaele Pizza, in un’intercettazione relativa all’assunzione di Alessandro Alfano alle Poste, che sarebbe stata spinta dal titolare del Viminale. La Stampa ha dedicato un ritratto alla carriera di Alessandro Antonio Alfano, che ha tratti sicuramente peculiari, che in diversi casi hanno messi in imbarazzo il fratello Angelino. Paolo Baroni e Francesco Grignetti raccontano su La Stampa di mercoledì 6 luglio 2016 il percorso professionale di Alessandro Antonio Alfano. Attualmente dirigente nelle Poste, il fratello del leader di NCD si è laureato a 34 anni (edit: in un primo momento in questo pezzo era segnalato 44 anni, come veniva riportato dal quotidiano La Stampa, che ha poi ammesso l’errore). Nato nel 1975, nel 2009 ha conseguito una laurea triennale in economia e finanza. L’anno prima, nel 2008, non ancora laureato, è già però docente alla Sapienza di Roma in un laboratorio sui principi e strumenti del marketing. Dopo la laurea Alessandro Alfano partecipa al concorso, come unico concorrente, per diventare segretario generale della Camera di Commercio di Trapani. Vinto il concorso, dopo poco è costretto a lasciare per una falsa autocertificazione sul suo curriculum. Alessandro Alfano aveva inserito nel suo CV un incarico, direttore generale di Confcommercio Sicilia, mai effettivamente svolto. Nel 2013 Alessandro Antonio Alfano viene assunto in Postecom. Raffaele Pizza si vanta al telefono di aver fatto diventare il fratello dell’allora segretario del Pdl dirigente in Poste, come rimarca La Stampa. Il compenso di Alfano è pari a 170 mila euro lordi, che l’Ad Sarmi tagli a 160 mila. Dopo soli due anni Alessandro Alfano, intanto oggetto di numerose interrogazioni parlamentari, è spostato a un altro ufficio in Poste. Ne nasce una causa di lavoro, poi risolta grazie al trasferimento a un nuovo incarico in Sicilia come responsabile degli immobili regionali.

“Così ho fatto assumere il fratello di Alfano”. Replica del ministro: soltanto scarti giudiziari. Tangenti nei ministeri, il faccendiere Pizza intercettato tira in ballo il titolare dell’Interno. Cinque Stelle all’attacco: spieghi al Parlamento e al Paese. Lui: uso delle carte a fini politici. Caio (Poste): valuteremo la situazione, scrive il 5/07/2016 Antonio Pitoni su “La Stampa”. Nell’ufficio di Via in Lucina, a due passi da Montecitorio, il faccendiere Raffaele Pizza, fratello dell’ex sottosegretario all’Istruzione dell’ultimo governo Berlusconi e segretario della Dc Giuseppe, intratteneva rapporti di peso e coltivava relazioni influenti. «Sfruttando i legami stabili con influenti uomini politici, spesso titolari di altissime cariche istituzionali», scrive il gip di Roma Giuseppina Guglielmi nell’ordinanza di custodia cautelare che lo ha spedito in carcere insieme ad altre 11 persone (altre 12 ai domiciliari) nell’ambito dell’inchiesta «Labirinto» coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Stefano Roco Fava. E’ lì, nella prestigiosa sede del centro storico, che Raffaele Pizza parla delle sue entrature mentre i militari del Nucleo Speciale di Polizia Valutaria lo intercettano. Il 9 gennaio del 2015. Pizza conversa con Davide Tedesco, collaboratore del ministro dell’Interno Angelino Alfano. E sostiene, annotano le Fiamme Gialle, «di aver facilitato, grazie ai suoi rapporti con l’ex amministratore Massimo Sarmi, l’assunzione del fratello del ministro in una società del Gruppo Poste». 

Pizza: «Angelino lo considero una persona perbene un amico... se gli posso dare una mano... mi ha chiamato il fratello per farmi gli auguri... tu devi sapere che lui come massimo (di stipendio, ndr) poteva avere 170.000 euro... no... io gli ho fatto avere 160.000. Tant’è che Sarmi stesso glie l’ha detto ad Angelino: io ho tolto 10.000 euro d’accordo con Lino (il soprannome di Pizza, ndr), per poi evitare. Adesso va dicendo che la colpa è la mia, che l’ho fottuto perché non gli ho fatto dare i 170.000 euro... cioè gliel’ho pure spiegato... poi te li facciamo recuperare... sai come si dice ogni volta... stai attento... però il motivo che non arriviamo a 170 è per evitare che poi dice cazzo te danno fino all’ultima lira. Diecimila euro magari te li recuperi diversamente». Al che Tedesco sbotta: «Ma non lo dice come è entrato lì il “sistema” per gestire gli appalti». 

La segretaria intercettata: “Il padre di Alfano mi ha mandato 80 curriculum per le assunzioni”. Le carte dell’inchiesta: «Gli abbiamo sistemato la famiglia», scrive “La Stampa” il 5/07/2016

Dopo il fratello, spunta anche il padre del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, nelle carte dell’inchiesta “Labirinto” portata avanti dalla procura di Roma. L’uomo, a quanto riferito nel corso di una conversazione intercettata e contenuta nella richiesta di arresti del pm, avrebbe mandato 80 curriculum per presunte assunzioni a Poste Italiane. A colloquio il 17 maggio del 2015 sono Marzia Capaccio, indagata, segretaria del faccendiere Raffaele Pizza ed un’altra persona, Elisabetta C. Le due donne sembrano lamentarsi per qualcosa che il ministro non avrebbe fatto. 

CAPACCIO: «Io ti ho spiegato cosa ci ha fatto a noi Angelino...» 

ELISABETTA: «E...lo so...lo so...lo so...». 

CAPACCIO: «Cioè noi gli abbiamo sistemato la famiglia...questo doveva fare una cosa....la sera prima...mi ha chiamato suo padre...mi ha mandato ottanta curriculum... ottanta....».

ELISABETTA: «Aiuto....aiuto...». 

CAPACCIO: «Ottanta.... e dicendomi...non ti preoccupare....tu buttali dentro...la situazione la gestiamo noi...e il fratello comunque è un funzionario di Poste....anzi è un amministratore delegato di Poste...».

ELISABETTA: «Sì..sì..lo so..lo so...». 

CAPACCIO: «E questo è un danno che ha fatto il mio capo (ndr. Pizza)...io lo sputerei in faccia solo per questo...». 

ELISABETTA: «Vabbè...tanto ce ne sono tanti Marzia...è inutile dirsi...questo è il sistema purtroppo...».

CAPACCIO: «Sì ma io l’avevo già capito questo guardava solo ai cazzi suoi...glielo avevo già detto...io a differenza tua non mi faccio coinvolgere più di tanto, perchè cerco di razionalizzare un attimo di più e di valutare le persone che ho davanti...cosa che il mio capo...purtroppo in alcune circostanze nonostante la sua esperienza non è in grado di fare...». 

In precedenza era emersa un’altra intercettazione, questa volta tra Raffaele Pizza e un collaboratore del ministro, Davide Tedesco. In questa il faccendiere sosteneva di aver facilitato, grazie ad i suoi rapporti con l’ex amministratore Massimo Sarmi, l’assunzione del fratello del titolare del Viminale in una società del Gruppo Poste. 

Quell'incarico a Pizza costato al Viminale 82 mila euro. Giuseppe Pizza, ex sottosegretario, è stato collaboratore dell'ufficio comunicazione del ministero di Alfano. Per due anni. Con un compenso annuo di 41.600 euro. È scritto negli elenchi dei collaboratori e consulenti del ministro. Dove spunta anche la società della cricca utilizzata per i suoi affari. Ora è indagato per riciclaggio con il fratello faccendiere Raffaele (agli arresti) e il deputato Ncd Marotta, scrive Giovanni Tizian il 6 luglio 2016 su “L’Espresso”. Il primo contratto con il Viminale, Giuseppe Pizza, lo ha firmato il primo settembre 2013. Alla casella durata incarico si legge «fine mandato governativo». L'anno successivo, però, pur risultando ancora tra gli otto fortunati prescelti dell'ufficio stampa e comunicazione nella stessa casella compare la date di fine incarico: 21 febbraio 2014. Per questi due anni trascorsi al ministero l'uomo che ha lottato per tenersi il simbolo della Dc ha ricevuto un compenso annuo di oltre 41.600 euro. Giuseppe Pizza è ora indagato per riciclaggio nell'inchiesta Labirinto della procura di Roma. Non solo. Nel documento letto da “l'Espresso” relativo all'incarico del 2014 spunta la società Piao. In pratica Pizza indica quale altro incarico ricoperto il ruolo che ha nella società di via della Cellulosa 25 a Roma, nei cui uffici, hanno scoperto i detective delle fiamme gialle, il «sodalizio riceveva ingenti flussi di denaro pubblico senza realizzare alcuna lavorazione, riscuotendo ingenti somme di denaro contante dai privati corruttori presso l’ufficio della PIAO». In uno dei capi di imputazione dei pm, le date di coinvolgimento della Piao, la società utilizzata per gli affari della cricca, partono fin dal 2013. Anno in cui l'ex sottosegretario Pizza lavorava per il ministero, nell'ufficio stampa. Nei giorni scorsi gli uomini del nucleo valutario della Guardia di finanza hanno eseguito 24 ordini di custodia cautelare, centinaia di perquisizioni, cinque misure interdittive (obbligo di dimora e divieto di attività professionale) e sequestrato più di 1,2 milioni di euro tra immobili, conti correnti e quote societarie a carico di altrettanti indagati, gravemente indiziati dei reati di associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale, corruzione e riciclaggio, truffa ai danni dello Stato e appropriazione indebita. Complessivamente sono 50 tra arrestati e indagati. Al centro della rete criminale proprio il fratello di Giuseppe Pizza, Raffaele. Faccendiere che poteva contare su contatti di altissimo livello istituzionale. Secondo gli inquirenti è lui che decide e influenza appalti in enti e ministeri. Raffaele Pizza è uno dei protagonisti, inoltre, dell'intercettazione in cui si vanta di aver fatto assumere il fratello del ministro Alfano alle Poste. Ne parla con un fedelissimo di Angelino, Davide Tedesco: lo spin doctor agrigentino cresciuto di pari passo con la carriere del capo del Viminale e del Nuovo centro destra. Davide Tedesco, quindi, è stato da sempre un collaboratore di Alfano. Così come Giuseppe Pizza. Pizza parla dell'assunzione del fratello del ministro con Davide Tedesco. E' più che un collaboratore del ministro: è l'uomo fidato che ha registrato il marchio Ncd e cura la comunicazione. Da assessore ad Agrigento è sbarcato a Roma. Dove ha ottenuto anche incarichi al Viminale e ancora prima al ministero della Giustizia. Mentre il primo, però, non risulta indagato, il secondo, già sottosegretario all'Istruzione nel governo Berlusconi, è uno dei volti di primo piano di questa cricca affamata di appalti e mazzette. A finire sul registro degli indagati anche Antonio Marotta, Ncd ed ex membro del Csm. Proprio ieri il ministro rispondendo alle prime intercettazioni che lo tiravano in ballo, ha definito i dialoghi «scarti giudiziari di un'inchiesta che non lo riguarda». Precisando, poi, di non sentire da anni le persone che lo citano. Circostanza, questa, smentita dai fatti riportati nelle informative degli investigatori e nelle carte dei magistrati. Perché Alfano, evidentemente, conosce Giuseppe Pizza. Il decreto di nomina è ministeriale. Così come conosce molto bene il suo spin doctor Davide Tedesco, che pur non essendo indagato è colui il quale riceve le confidenze del faccendiere arresto e fratello dell'ex collaboratore del ministero. Fino al 2014, perciò, Giuseppe Pizza entrava e usciva dal palazzo ministeriale in qualità di collaboratore. E questo è un fatto. Non proprio uno scarto d'indagine. Se poi, questo, viene letto insieme a un'intercettazione riportata nella richiesta di arresto dei pm di Roma, i contorni della cricca si fanno ancora più nitidi. A parlare sono sempre Raffaele Pizza e Davide Tedesco. Dice il faccendiere: «Io ad Angelino glie lo dissi chiaro...da questo momento ti prego...perché Angelino tu non sai il passato...Angelino mi...quando lui ancora era...non era diciamo quello che era diventato...mi chiese una mano se poteva essere lui la mediazione con il Cavaliere della DC...eh...e io...da grande persona corretta...dissi va bene...ho detto vieni...tanto è vero che lui mi ha accompagnato un sacco di volte con...dal Cavaliere...no...questo ti volevo dire...tant'è che una volta misero qualche difficoltà per difendere me...no difendere me...perchè io al Cavaliere l'avevo mandato a cagare....io...io presi...intanto mi aveva...mi aveva offerto dei soldi e io gli ho detto che non faccio il cameriere de nessuno». A questo punto della conversazione Pizza quantifica la proposta economica di Silvio Berlusconi e descrive le reazioni di Alfano: «E io i soldi...sono ricco de mio...io non faccio (inc)...lui è rimasto...perciò poi è nato il rapporto con me...io penso che sia stato l'unico... lui mi ha offerto un milione di euro...mica pensi delle lire...a Lì ma di chi cazzo ti credi di rivolge...e chiediglielo a (inc) se ti dico le cazzate...è amico tuo...poi una volta mi sono trovato a parlare...ma di che cazzo stai parlando...chiaramente...(inc) in volgare...per rimanere educato...perchè sono una persona educata...il quale Angelino aveva capito che io...cioè...eravamo...io assettato cà...Angelino vicino a mia...u Cavaliere difronte...e a destra c'era...come si chiamava Bondi?....quando ancora Angelino era un ragazzo di bottega...e allora io...il Cavaliere diceva le cose e io...gli ribattevo...Angelino che l'avevo...che capiva...dice "Presidente"...che u (inc) si bloccò invece...non lo pozzo dimenticare...perchè dice "non ti mettere in mezzo in queste cose». In pratica, stando al racconto del faccendiere e fratello dell'ex collaboratore di Alfano, i rapporti con l'attuale ministro dell'Interno erano solidi.

Se il pesce comincia a puzzare dalla testa…Ecco come la massa emula…

Il concorso del ministero è una "bufala" di quiz. Quesiti ridicoli o errati. Il Mibact cerca 500 nuovi funzionari per arte e cultura. Ma i test sono pieni di strafalcioni, scrive Simonetta Caminiti, Venerdì 29/07/2016, su "Il Giornale”. Non solo l'obiettivo è centrare con una crocetta l'informazione esatta fra tre alternative; non solo non è richiesto sebbene si tratti di un concorso che farà dei candidati migliori nuovi funzionari nelle arti e nella cultura di analizzare e sviluppare, ma solo di sfruttare un caleidoscopio di nozioni sparse: le nozioni in questione sono anche, clamorosamente, sbagliate. Di che parliamo? Del concorso pubblico bandito dal Mibact (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo) per la selezione di 500 nuovi funzionari: le preselezioni sono iniziate martedì 26 luglio e andranno avanti fino al 4 agosto. I candidati sono 19.479 e i quesiti 4.600. Ma molti dei quiz impiegati nel concorso presentano degli strafalcioni. I bronzi di Riace sono in marmo, in legno o in bronzo? Certo, qualcuno si starà chiedendo se nei quiz era richiesto anche il colore del «cavallo bianco di Napoleone», come vuole un vecchio indovinello per bambini. Addirittura, qua e là nelle tre alternative di qualche quesito, non è presente la risposta esatta. Si domanda al candidato se «I banchi lignei (plutei) della Biblioteca michelangiolesca a Firenze furono realizzati da: a. Giorgio Vasari; b. Baccio Bandinelli; c. Giovanni Battista Tasso e Antonio di Marco di Giano, detto il Carota». Ma le alternative sono tutte e tre errate: secondo Giorgio Vasari, furono realizzati dagli intagliatori Giovan Battista del Cinque e Ciapino. Ancora, tra i quesiti ci sono informazioni di questa caratura: «Come è denominato il complesso delle più grandi Terme della Roma antica costruito tra il 298 e il 300 d.C. e costituente oggi una delle sedi del Museo Nazionale Romano?». Risposte possibili: «a. Terme di Diocleziano; b. Terme di Stigliano; c. Terme di Saturnia». Buona parte dei quesiti contiene definizioni tratte da Wikipedia; la maggior parte una porzione forse eccessiva verte su Roma. «Ma una volta accettata la prassi, che almeno la compilazione delle domande sia rigorosa», commentano gli esperti del gruppo Emergenza Cultura, critici verso le politiche culturali del governo Renzi e del ministro Franceschini. Indignati, come una parte dei candidati, per il macroscopico paradosso di simili domande in un importante concorso che ha al suo nucleo la cultura. In un altro quesito si richiede con tre alternative l'autore della statua bronzea del Pugilatore conservata al Museo Nazionale Romano: ma quella statua, un autore certo e noto, non lo ha mai avuto. Un concorso, quello del Mibact, che ha visto concorrere soprattutto donne (il 70%); 3.623 i concorrenti per un ruolo di funzionario architetto e 4.700 per l'ambito della promozione e comunicazione. 3.286 gli archeologi, 2.416 gli storici dell'arte. Seguono archivisti, restauratori, aspiranti bibliotecari, pochi antropologi e demo-etnoantropologi. Soprattutto laziali, i candidati: e l'1.01% degli iscritti al concorso proviene dall'estero. Niente posti destinati a Calabria, Campania e Puglia. Nonostante le polemiche, il quiz del ministero viene rivendicato come una grande chance dal ministro Franceschini: «Dopo 9 anni ha dichiarato il ministro il Mibact torna finalmente ad assumere». È il Formez a occuparsi del concorso e ha anche stilato la classifica della provenienza dei candidati. Speranze e delusioni fermentano sul web, dove imperversa il tormentone, il quiz giudicato più divertente dagli stessi candidati. Cosa fa Lucio Dalla nella scultura di Carmine Susinni, esposta anche all'Expo di Milano? È fermo in piedi col clarinetto, parla con un gatto, o sta seduto su una panchina? Spassoso. Ma non esattamente una priorità.

Università, chi giudica i giudici? Si scrive su Scuola di vita de "Il Corriere della Sera" a cura di Carlotta De Leo il 5 settembre 2016. Pubblichiamo la lettera di Gilda Policastro, ricercatrice, sulla selezione all’interno delle università e i nuovi criteri di valutazione Anvur. "Chi giudica i giudici? Come si valutano le competenze, si attribuiscono incarichi, quando l’autorevolezza di chi giudica è dubbia? Un esempio sistemico di come le vecchie strutture autoritarie abbiano perduto credibilità pur continuando a perpetuarsi e autolegittimarsi al loro interno è l’università attuale, oscillante tra il vecchio baronato, in cui le carriere venivano predeterminate su principi localistici e gerarchici, e il nuovo criterio della valutazione, che si picca di scegliere i più meritevoli sulla base di tradizionali concorsi e regolari bandi pubblici, pur restando nei fatti entro l’alveo della cooptazione (che in altri sistemi, come quello angloamericano o francese, è istituzionale e regolare). Forse non tutti sanno come funzionano i concorsi universitari in Italia: si bandiscono dei posti, si assegnano a un candidato che sa – mesi o forse anni prima – di dover vincere, a scapito di altri concorrenti che o ignari o ostinati si iscrivono comunque e vengono poi sottoposti all’umiliazione di un colloquio che può tradursi in una farsa o addirittura accanimento (specie quando il candidato designato non abbia grandi crediti). La recente Abilitazione nazionale sembrava voler spezzare il vincolo delle investiture baronali, a partire dai cosiddetti criteri oggettivi, il curriculum premiato in base a parametri chiari e condivisi, dalle mediane all’impact factor alle peer review. Il problema è che vi si pone mano, a quelle leggi o regole o indicazioni di massima che siano, con molta più discrezionalità e meno discrezione che nei decenni in cui la casta dei baroni veniva contestata in nome della qualità che riusciva, pur con molte deroghe e oscillazioni, a garantire. L’idoneità attribuita secondo i nuovi criteri Anvur da ormai un biennio a una non larghissima percentuale di candidati, non è valsa poi come requisito preferenziale in nessuno dei concorsi (apparentemente) liberi che si sono nel frattempo banditi con molta parsimonia nelle sedi universitarie di tutta Italia e ha funzionato esclusivamente come veicolo di messa in regola degli scatti di carriera, aggirando le lungaggini dei concorsi tradizionali. Diversa sorte hanno i candidati degli attuali concorsi della scuola o dei beni culturali, per i quali abilitazioni e titoli professionali riconosciuti e certificati costituiscono condizione preliminare irrinunciabile anche solo per concorrere, figurarsi per vincere. All’università si ricomincia sempre daccapo, come nel supplizio di Sisifo: tutto quello che si produce, in termini di titoli e pubblicazioni, può non essere ritenuto sufficiente, a dispetto della valutazione abilitante ed essere giudicato insoddisfacente a conquistare un accesso alle posizioni previste (prima e seconda fascia, docente ordinario o associato), a seconda degli umori o delle simpatie del singolo commissario, di volta in volta, caso per caso. Caso che molto spesso coincide con una commissione protetta, incline al designato e ostile ai concorrenti anche ove favoriti in partenza dall’idoneità e persino da parte degli stessi membri della commissione incaricata di attribuire quella stessa qualifica in prima istanza: possono, nel frattempo, ad arbitrio e capriccio personale, aver cambiato idea, tali membri, sul medesimo candidato e sul singolo titolo specifico. Si dirà: è sempre accaduto, le scelte sono suscettibili di errori e ripensamenti, l’uomo è fallibile, il giudizio è comunque insindacabile, tanto che gli avvocati sconsigliano ai candidati bistrattati dalle commissioni dei concorsi cosiddetti blindati di ricorrere, perché i tribunali sono conservativi e non si metteranno certo a sindacare nel merito dei giudizi individuali. Si può ricorrere, invece, in presenza di errori materiali, e spesso ve ne sono di marchiani (incarichi che cambiano sede e durata, titoli che vengono inizialmente considerati e poi dimenticati nei giudizi comparativi e altre astrusità o raggiri), ma in quel caso è sconsigliabile per un aspetto meramente economico: il candidato aspirante docente di solito non gode di stipendio, meno ancora di 7-8 mila euro in esubero da devolvere in cause e risarcimenti eventuali. Perciò si procede, il sistema si autolegittima nell’acquiescenza o nell’ignoranza generale, nessuno è contento, i docenti che perdono allievi brillanti e meritevoli per strada, chi deve rinunciare perché non può consentirsi di aspettare il concorso del 2040 in cui forse gli toccherà una miglior sorte, mentre impilando titoli, pubblicazioni, competenze certificate si sente parcheggiato come Baggio ai mondiali del ‘94. I concorsi sono materia di narrazione infinita e argomento di geremiadi ricorrenti da parte degli esclusi: anni fa Nicola Gardini ne raccontava nel pamphlet I baroni da un comodo scranno a Oxford, rivoltando la scarpa con tutta la suola, altro che sassolini. Anche Walter Siti in Scuola di nudo si mostrava tutt’altro che amabile col sistema universitario, marchiando le nefandezze dei suoi personaggi con identità ed epiteti bestiali. Ma no, non possiamo continuare con le narrazioni amusing dell’atteggiamento dimesso imposto a candidati con più titoli in curriculum dei loro esaminatori e che non devono in nessun caso però mostrarsi agguerriti o pronti al contraddittorio, pena la  mortificazione di giudizi dove tutto può essere svalutato o trascurato a dispetto di altri precedenti e differenti giudizi sulla medesima produzione scientifica e a tutto vantaggio del designato, il quale dal canto suo potrà serenamente fregiarsi di soli titoli editi in edizioni semiclandestine o self-publishing.  E non diremo dei commissari che si barricano dentro col vincitore annunciato, dopo aver platealmente premesso che il concorso si sarebbe svolto a porte aperte “per la regolarità della procedura”, o dei docenti che entrano intimidatori nelle stanze in cui è riunita una commissione di cui non fanno parte ma che sta per giudicare il loro candidato, infine sorvoleremo sui colloqui che non corrispondono ai criteri enunciati dai bandi, prevedendo l’accertamento di competenze del tutto aliene da quelle previste dal ruolo per cui si concorre (come nel caso di un colloquio in francese per l’assegnazione di un posto da ricercatore di Letteratura italiana in un dipartimento di Studi americani: “perché la favorita l’inglese non lo sa”). E trascuriamo anche il fatto che siano già pronte a insediarsi nuove commissioni strapagate per sfornare ulteriori abilitati che come i precedenti a nulla potranno far valere il titolo conseguito, se non a trascriverlo in curricula che non verranno mai esaminati al dettaglio, figurarsi considerati di un qualche peso o valore. D’altra parte abbiamo delle vite lunghissime e garantite, possiamo ben consentirci di moltiplicare la forza lavoro e le sue aspettative, senza sforzarci nel frattempo di liberare o creare in tempi accettabili a programmarsi non dirò un futuro ma un presente appena superiore alla sopravvivenza posti, occasioni, percorsi puliti e realmente concorrenziali. Non resta che provare a rispondere alla domanda iniziale: chi giudica coloro che giudicano e perché il loro operato è insindacabile, anche ove mostrino incompetenza o malafede? A qualcuno, me compresa, non piace ridurre una questione pubblica a un esercizio di controllo: che ci rimanga almeno di poter ridere, se la pietà per costoro non riesce a prevalere, quando leggiamo quei verbali lacunosi, imprecisi e scritti male che al di là dei criteri di merito sfacciatamente disattesi proprio non ce la fanno a sembrare qualcosa di diverso da una presa in giro.

Università, concorsi truffa: “Bocciati i migliori per far passare i raccomandati”. La Legge Gelmini avrebbe dovuto eliminare il problema delle "spintarelle" nei bandi per diventare professori, ma - secondo la segnalazione di uno dei partecipanti che pubblichiamo integralmente - ha soltanto peggiorato la situazione, scrive "Il Fatto Quotidiano il 15 novembre 2013. Bocciare i più bravi per fare passare i raccomandati. La Legge Gelmini avrebbe dovuto eliminare il problema delle “spintarelle” nei concorsi locali per diventare professore, introducendo la cosiddetta abilitazione nazionale per spostare la valutazione dei candidati a livello nazionale. Ma, secondo la segnalazione di un ricercatore di organizzazione aziendale, ha soltanto peggiorato la situazione. L’aspirante idoneo, che ha rivelato la sua identità a ilfattoquotidiano.it ma preferisce restare anonimo, racconta di avere scoperto di non avere passato il concorso nel settore 13 B3-organizzazione aziendale grazie all’anticipazione dei risultati, che di per sé rappresenta una violazione del segreto professionale richiesto ai commissari. E spiega come con la nuova riforma le pressioni sulla commissione non si limitano più alle raccomandazioni per fare passare qualcuno, ma viene anche chiesto ai commissari di bocciare i candidati più bravi, che altrimenti rischierebbero di ostacolare i raccomandati nella selezione successiva a livello locale. Ecco la segnalazione che abbiamo ricevuto: “In occasione dell’annuale convegno dell’Associazione Italiana di Economia Aziendale (AIDEA) tenutosi a Lecce il 19, 20 e 21 sono stati anticipati i risultati dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) nel settore concorsuale 13 B3 – Organizzazione Aziendale che saranno ufficializzati il prossimo 30 novembre. La notizia ha fatto il giro d’Italia in pochi minuti (potenza dei cellulari e di internet) e cosi la notizia dell’esito, è diventata praticamente di dominio pubblico. Il fatto che questo rappresenti una violazione alle disposizioni amministrative e penali previste dall’ordinamento a tutela del “segreto d’ufficio” (art. 15 del D.P.R. n.3 del 1957 e art 326 C.P) non sembra importare. Ma cos’è l’Abilitazione Scientifica Nazionale? La legge 240/2011, detta legge Gelmini, introduce la cosiddetta abilitazione nazionale. Ossia, al fine di rimediare alle “combine” dei concorsi locali (si vedano gli scandali di Bari, Messina e un’altra decina di università Italiane equamente sparse sul territorio nazionale). La legge ha spostato la valutazione dei candidati a livello centrale, ossia nazionale, in modo da evitare che interessi locali (parentopoli e varie) potessero influire sulla valutazione di chi si sottopone a un concorso pubblico. Lodevole l’idea, pessima la sua applicazione. In pratica per legge 5 commissari decidono del futuro di centinaia di persone: gli aspiranti idonei. E’ facile immaginare a quali pressioni i commissari siano stati sottoposti da parte di chi aveva un allievo sotto esame e non solo. In più, in raggruppamenti piccoli come quello di Organizzazione Aziendale, è altamente probabile che i commissari si trovino a valutare i propri allievi, di qui potete immaginare le negoziazioni e gli scambi di favore che ne scaturiscono. Il quadro che sta emergendo dalle anticipazioni ed indiscrezioni è quello di un sistema in cui, alla fine, non è cambiato assolutamente nulla. I giornali hanno già riportato il caso della commissione di diritto costituzionale dove uno dei commissari si è dimesso denunciando “una regia occulta ed esterna” volta a pilotare i risultati della commissione. Il caso, mi sembra non isolato. Almeno a giudicare dalle notizie della commissione di Organizzazione Aziendale. Il sistema infatti sembra aver trovato il modo di sfruttare a suo favore la nuova procedura. Soprattutto in quei settori “piccoli” con poche centinaia di afferenti. Secondo un meccanismo tipicamente italiano, il sistema ha elaborato la pratica secondo la quale, oltre a raccomandare o spingere candidature per un esito positivo, si fanno arrivare alla commissione le “raccomandazioni a-contrario”. Ossia si fa pressione per “bloccare” eventuali candidati scomodi. Ma Perché scomodi? Va detto che l’abilitazione nazionale non è un concorso. La commissione deve decidere solo se un candidato ha un curriculum che soddisfa criteri generali di qualità (che la stessa commissione deve aver dichiarato e pubblicato). Quindi chi ottiene l’abilitazione non ottiene un posto, ma solo “il titolo” di potenziale associato o ordinario che lo abilita appunto a partecipare ad un eventuale futuro concorso o selezione di una qualche università Italiana. Per diventare veramente associato o ordinario (e progredire nella carriera), Il candidato ha quindi due possibilità: o viene “promosso” per meriti dalla sua università oppure deve partecipare ad un concorso bandito dalla sua o da un’altra università. E qui si svela il gioco. Se voglio continuare a gestire le chiamate e le carriere a livello locale non posso permettere che dalla commissione nazionale escano solo quelli bravi. Devono uscire quelli che servono. Soprattutto ora, dove con il blocco del turn-over, i posti a disposizione sono pochi, anzi pochissimi. Per completare il quadro con e tra quelli che servono ci sono anche quelli bravi (così posso dire: vedete che è stato premiato il merito?) dietro cui nascondere tutto il resto. E allora perché rischiare e violare la legge anticipando gli esiti? Per tre ragioni: 1. Certezza dell’impunità. A chi interessa un fatto del genere? A nessuno. In fondo non hanno ucciso nessuno. Hanno semmai evitato a molti l’angoscia del dubbio. 2. Strategia. Si fanno sapere ora i risultati, soprattutto per quelli da togliere di mezzo. In questo modo gli interessati si arrabbiano oggi, ma non possono fare nulla perché il risultato non è ufficiale. Quindi i “trombati” passano uno o due mesi a cercare di capire perché sono stati fregati, ma non possono fare nulla perché in realtà sanno ma non potrebbero/dovrebbero sapere. Alla fine dopo due mesi di frustrazione ufficializzano il risultato e i trombati sono già troppo stanchi e amareggiati per fare qualsiasi cosa. Si rassegnano, imprecano contro quest’Italia che non funziona e amen! 3. Gestione del potere. Sapere ora che ci sono un certo numero di abilitati dà la possibilità di negoziare le “chiamate” e l’allocazione delle risorse (che ricordiamo che i posti sono pochi, quindi prima mi muovo meglio mi trovo). Se oggi so prima degli altri che il mio allievo ha l’abilitazione, posso andare dal direttore di dipartimento o dal rettore e iniziare la negoziazione prima degli altri. Quindi, la morale per l’università qual è: “lasciate ogni speranza o voi che entrate”. Amen. Con affetto, Uno dei tanti partecipanti all’ennesima farsa di questa vostra povera Italia”.

Insegnamento scolastico. Cose strane al concorsone. Concorso scuola, le denunce sul web: “È caos, chiamati i carabinieri”. Il Miur: “Tutto regolare”. Nel giorno delle prime prove scritte segnalate irregolarità a Roma e Palermo: «Mancano le commissioni». La replica: «Non ci risulta». E i sindacati proclamano lo sciopero generale. L’entrata di alcuni partecipanti al «concorsone» per la scuola al liceo Virgilio, Roma, scrive il 28/04/2016 Lidia Catalano su “La Stampa”. Si è aperto tra le polemiche e qualche denuncia il primo giorno del concorso scuola 2016. Questa mattina alle 8 i primi 1.356 candidati si sono presentati nelle sedi previste dagli uffici scolastici regionali per rispondere agli 8 quesiti, per la prima volta al computer. I primi a cimentarsi con lo scritto sono stati i professori di Storia dell’arte, Scienze, tecnologie e tecniche agrarie, Laboratorio di liuteria, Design del libro, Scienze e tecnologie nautiche e Laboratorio di scienze e tecnologie meccaniche. Ma la partenza - denunciano le associazioni dei precari - è stata tutta in salita. Sui social network molti hanno segnalato che è stato richiesto l’intervento delle forze dell’ordine per mettere a verbale l’assenza della commissione esaminatrice e delle griglie di valutazione. I disordini sono stati segnalati in particolare all’Istituto Virgilio di Roma e al Mario Rutelli di Palermo. Il ministero però ha smentito le irregolarità: «Smettiamola, il concorso è partito regolarmente», ha dichiarato all’Ansa il Miur. Sono oltre 165mila i candidati che si contenderanno le 63mila cattedre bandite dal Ministero dell’Istruzione. Le prove scritte durano 150 minuti e prevedono 6 quesiti a risposta aperta più due domande in lingua straniera. Tra i partecipanti, oltre otto su dieci sono donne e l’età media è di 38,6 anni. Si tratta in maggioranza di candidati in possesso del Tfa (Tirocinio formativo attivo) e del Pas (il percorso abilitante speciale riservato agli insegnanti con tre anni di esperienza). Insomma, chi arriva al concorso ha già superato una selezione durissima, con esami e discussione della tesi finale. Il calendario degli scritti si chiuderà il 31 maggio con il test per la scuola dell’infanzia.  I paletti di accesso al concorso imposti dalla Buona Scuola hanno fatto insorgere i non abilitati, che hanno presentato una pioggia di ricorsi al Tar e hanno fatto storcere il naso anche agli stessi abilitati: «Ci hanno già giudicati, cos’altro dobbiamo dimostrare?», è il commento più diffuso tra gli iscritti ai gruppi Facebook «No concorso». Il Miur ha dovuto fare i conti anche con una serie di intoppi burocratici, come la penuria di commissari, l’assenza di griglie di valutazione univoche o la polemica sulla pubblicazione tardiva del bando, prevista entro l’1 dicembre e slittata al 29 febbraio.  Questa mattina il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini è intervenuta ai microfoni di Rainews24: «Sono prove innovative, tengono conto che gli aspiranti docenti sono tutti abilitati e quindi abbiamo già avuto modo di controllare verificare le loro competenze la loro conoscenza delle materie su cui si presentano. Quello che ci interessa è verificare come sanno insegnare, quindi sia nell’orale che nello scritto sarà prevalente la metodologia, la volontà di vedere se saranno dei buoni insegnanti». «Credo - ha detto il ministro - che sia storicamente il concorso più grande che la scuola italiana abbia organizzato, finalmente si torna alla Costituzione dopo tantissimi anni in cui i concorsi erano stati bloccati». In merito ai ricorsi il ministro ha spiegato: «Ci sono stati alcuni ricorsi parliamo di unità su centosessantacinquemila domande inoltrate quindi un numero piccolissimo».  Intanto i sindacati della scuola - Cgil, Cisl, Uil e Snals - hanno proclamato per il 23 maggio uno sciopero generale. L’annuncio è arrivato nel corso di una manifestazione a Montecitorio cui hanno partecipato le sigle insieme a docenti, Ata e dirigenti provenienti da tutta Italia, per «raccontare la loro idea di scuola: «Una scuola vera, fatta di partecipazione, collegialità, autonomia e contrattazione, una scuola che valorizza tutte le professionalità e ascolta i bisogni di tutto il personale che vi lavora ogni giorno». L’annuncio non è piaciuto al ministero. «Trovo singolare proclamare uno sciopero contro un governo che assume ed annunciarlo nel giorno in cui parte un concorso da 63.712 posti - è il commento di Giannini - Ricordo che questo è un governo che investe sull’istruzione 3 miliardi di euro in più all’anno».

I commissari del Concorsone pagati 50 centesimi a esame. «La nuova legge? È inutile», scrive Gian Antonio Stella il 18 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. A cento giorni dalla denuncia del caso, mancano i decreti attuativi. Meglio raccogliere pomodori. Cento giorni dopo aver chiesto provocatoriamente se fosse peggio il caporalato agricolo che paga gli schiavi nei campi 2 euro l’ora o il caporalato statale che ai commissari del concorsone voleva dare 1 euro e 5 cent, abbiamo la risposta. Lo Stato, per ora, non dà lezioni neppure agli schiavisti. E l’ingaggio di 63mila docenti, a due mesi dall’apertura delle scuole, è sempre più complicato. Matteo Renzi c’entra e non c’entra. Dopo aver letto il 9 aprile la denuncia del Corriere, nata da quella di «Tuttoscuola», sulla difficoltà di trovare tutti i membri necessari per le commissioni di esame anche a causa di paghe da fame («50 centesimi di euro pari a mezzo caffè per la correzione di ogni elaborato e 50 centesimi di euro per ogni candidato esaminato all’orale») il premier era infatti andato (giustamente) su tutte le furie esigendo che l’Economia e l’Istruzione mettessero subito una pezza alla figuraccia. Lunedì 11 aprile il governo annunciava «un immediato intervento riparatorio». E già il giorno dopo, riconosce la rivista, il ministero dell’Economia chiese a quello dell’Istruzione «i dati necessari per quantificare l’onere finanziario e corrispondere all’impegno assunto dal premier. La macchina amministrativa pertanto si mosse con tempestività, dietro la diretta sollecitazione del capo dell’esecutivo». Imperativo: «massima urgenza». Il problema, come ricorda il periodico di Giovanni Vinciguerra, «è che serve una legge per modificare il compenso. Il 20 aprile il sottosegretario Faraone annuncia il raddoppio dei compensi per gli incarichi (un’integrazione di 8 milioni sui fondi stanziati). E dichiara che il Governo ha presentato un emendamento a un decreto legge in fase di conversione». La strada parlamentare «più rapida possibile». Il Senato accoglie l’emendamento «e il 12 maggio (un mese dopo le dichiarazioni del premier) approva in prima lettura le legge. Si passa alla Camera, che il 25 maggio approva definitivamente la legge, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 28 maggio. Il 29 maggio entra in vigore. Sono passati 49 giorni da quando il premier aveva preso la decisione». Ma non è finita. L’emendamento prevede «che entro un mese dall’entrata in vigore della legge venga emanato un decreto interministeriale di applicazione». Ma come: non ci era stato promesso mille volte il superamento dei decreti attuativi («ne abbiamo trovati in eredità 889», sbuffò Maria Elena Boschi) promettendo leggi e leggine «auto-applicative»? Macché. Anzi, quel mese di tempo scadeva il 28 giugno. Pochi giorni e ne scadrà un altro. E magari Renzi, alle prese con altre grane, è pure convinto che ormai quella pratica sia sbrigata… Morale: cento giorni, in scadenza esattamente oggi, non sono bastati a fare chiarezza neppure su un caso specifico, «minore» e relativamente semplice la cui soluzione era invocata da tutto l’arco parlamentare, da destra a sinistra, grillini compresi. E meno male che, per ordine del premier in persona, era stata decisa la «massima urgenza»…Cento giorni: quelli sufficienti a Napoleone (evaso dall’Elba, sbarcato a Cannes e tornato trionfante a Parigi in un mese) per riprendersi la Francia, fare una nuova costituzione, convocare su questa e vincere il plebiscito, riordinare un esercito di 300 mila uomini, attaccare i prussiani, invadere il Belgio e sfidare il Duca di Wellington a Waterloo… Per carità, i tempi della democrazia saranno anche sacri ma qui c’è qualcosa che non va. Tanto più che la chiarezza sulla (magra) mercede, ricorda Tuttoscuola, «doveva servire anche a incentivare dirigenti scolastici e docenti con determinati requisiti a farsi avanti per l’incarico di commissario». A quelle condizioni, «pochi erano votati al sacrificio». E pochi, nell’incertezza sui compensi (quanti? a chi? quando?), sono rimasti. Intanto, ricorda la rivista in uscita, «le prove scritte si sono concluse. Da settimane si tengono le prove orali di molte classi di concorso, e gli uffici scolastici regionali ancora si affannano a cercare i commissari». E questo, dicevamo, a meno di due mesi dall’inizio del nuovo anno scolastico che dovrebbe vedere l’ingresso, dalle materne alle superiori, di quei 63.712 nuovi docenti in corso di selezione tra i 165.578 candidati, alcuni dei quali «avevano presentato più di una domanda di partecipazione». Non bastasse, per alcune materie son previste prove tecniche e comunque tra la pubblicazione di chi ha passato gli scritti e gli orali devono passare «almeno 20 giorni». Risultato: «visti i tempi delle procedure», il termine utile per le graduatorie, che dovevano essere definite entro il 31 agosto, è stato spostato al 15 settembre. Auguri. Tanto più che per una ventina di queste graduatorie «si sono rese necessarie prove scritte suppletive per effetto di un’ordinanza di sospensiva del Tar che ha accolto il ricorso di candidati esclusi». Ma quante graduatorie saranno definite in ritardo, «dispiegando la loro efficacia soltanto dal 2017-18?». Tuttoscuola è pessimista: «Certamente arriveranno fuori tempo massimo i concorsi di scuola dell’infanzia e scuola primaria per posti comuni, che riguardano circa la metà dei candidati». Auguri bis. Peggio: giovedì scorso Stefania Giannini ha dovuto firmare un’ordinanza: poiché «in alcune regioni non è stato possibile reperire un numero sufficiente di presidenti, commissari e componenti aggregati per l’accertamento delle conoscenze informatiche e delle competenze linguistiche», i responsabili regionali per questi settori possono «prescindere dai requisiti» fissati dal Decreto ministeriale «ferma restando la conferma in ruolo». Se proprio non ce la fanno neppure in questo caso, cioè con la precettazione e l’abbuono dei requisiti («ad esempio almeno 5 anni di ruolo: in teoria sarebbero possibili commissari anche i neo-assunti», spiega Vinciguerra) potranno «ricorrere con proprio decreto motivato alla nomina di componenti aggregati assicurando la partecipazione alle commissioni giudicatrici di esperti di comprovata competenza». Cioè gente presa, par di capire, sul libero mercato. Scommettiamo? C’è chi sta già scrivendo i ricorsi…

I prof interrogati al concorsone dalla collega bocciata allo scritto. Ma l’insegnante chiamata a fare la commissaria rifiuta: «L’etica va rispettata». Antonella Scilef, 51 anni, otto anni da supplente alle spalle, è una delle migliaia di bocciati alle prove scritte del concorso per professori, scrive Valentina Santarpia il 29 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". «Sono stata giudicata un’imbecille: forse lo sono, ma allora non sono neanche in grado di giudicare i miei colleghi. Va bene tutto, ma c’è un’etica da rispettare, quello che sta succedendo è profondamente sbagliato». Antonella Scilef, 51 anni, otto anni da supplente alle spalle, è una delle migliaia di bocciati alle prove scritte del concorso per professori. Ma nello stesso giorno in cui ha appreso di non essere stata ammessa agli orali per insegnare francese alle superiori, è stata chiamata dalla segreteria della sua scuola- l’istituto alberghiero di La Spezia- per essere parte della commissione che avrebbe giudicato i colleghi candidati che ce l’avevano fatta. Un paradosso, dovuto probabilmente al fatto che la segreteria non era a conoscenza dell’esito dell’esame, ma era a caccia di commissari, come in molte altre regioni, dove le paghe basse hanno portato a un boom di dimissioni: «E infatti ho detto subito di no, non ci ho pensato un secondo», racconta ancora incredula la professoressa, laureata in Lingue e letterature moderne, abilitata all’insegnamento da un Tfa (Tirocinio formativo attivo) nel 2013, già insegnante all’Einaudi Chiodo da tre anni con contratti annuali. La candidata bocciata che diventa commissario: «Come posso essere io a giudicare gli altri?» «Se non sono abbastanza brava da aver superato la prova scritta per diventare insegnante a tempo indeterminato, come posso permettermi di giudicare i miei colleghi? Meritano di essere valutati da professori superiori, non di pari livello, o addirittura inferiori, come sono io evidentemente. Che io sia un’imbecille ci sta, posso anche accettarlo- insiste sconfortata - ma chi ce l’ha fatta merita trasparenza e giustizia». È il ritornello che vanno ripetendo da giorni i candidati alla nuova selezione per docenti: falcidiati alle prove scritte (le prime stime, al ribasso, parlano del 50% di bocciati sui 165 mila candidati che concorrono per 65 mila posti), hanno iniziato a confrontarsi sui social network e hanno scoperto che in moltissime classi di concorso si stanno verificando pasticci, incongruenze, irregolarità. Ci sono classi di concorso- come quella per insegnare Filosofia alle medie in Calabria- dove nessuno è stato ammesso agli orali. Altre - come Musica- dove i prof candidati erano in concorrenza con i commissari, aspiranti supplenti sulle stesse cattedre. Altre ancora- vedi i Laboratorio di Tecnologia e Microbiologia- dove al posto delle prove venivano svolte delle relazioni scritte. Ma anche software malfunzionanti, domande inesistenti nei programmi, intere commissioni dimissionarie in Toscana e in Lombardia. «Siamo tutti abilitati: qualcosa non ha funzionato». «Ho sempre rispettato le regole, ma qui le hanno capovolte». Manie di persecuzione, come dicono le malelingue? Antonella non ne soffre: «Io ho sempre accettato i giudizi, anche stavolta non ho nemmeno fatto la richiesta di accesso agli atti, e non so se la farò. Ho sempre rispettato le regole, ho due figlie di 17 e 12 anni a cui mi sono dedicata prima di decidermi di tentare la strade dell’insegnamento, e che hanno sempre frequentato la scuola pubblica, in cui io credo profondamente. Ma in questo caso le regole sono cambiate sotto i nostri occhi. Se non ho superato il concorso, allora chi ha sbagliato? Chi mi ha formato e mi ha dato un’abilitazione, con tanto di esame e saldo di 1200 euro finale? La formazione allora in Italia non funziona? Il sistema di abilitazione?». Eppure Antonella non s è neanche fermata ai canali ufficiali, pur di essere preparata: oltre alle frequenti visite in Francia per mantenere la dimestichezza con la lingua, ha conseguito un diploma privato all’Alliance: «Ho preso 89,5 su 100 per il livello B2, non mi sembra poco. Se entro in una classe so di avere una responsabilità». «Sarò brava per fare la supplente?» Perciò quando l’hanno chiamata per fare la commissaria, non ha avuto neanche la minima tentazione di rivalsa: «No, neanche per un attimo. Siamo tutti sullo stesso barcone. C’è una solidarietà, c’è un’etica da rispettare, ci resta solo questo a cui aggrapparci. Io resterò probabilmente senza lavoro- e qui la voce si spezza- Butterò all’anno anni e anni di studio e impegno, non vedrò più i miei ragazzi: ma pazienza, prenderò la disoccupazione, o magari mi chiameranno come supplente». Ed è questo, lo spettro che aleggia sul concorso, che insieme al maxi piano di assunzioni - 90 mila assunti finora su 103 mila promessi- avrebbe dovuto mettere fine alla supplentite: in realtà ci sono già centinaia di cattedre che, anche promuovendo tutti gli ammessi agli orali, resteranno scoperte. A coprirle saranno i supplenti: i bocciati, per capirci. «Per un posto a tempo determinato- commenta amara Antonella- forse non sarò più tanto imbecille».

Concorso prof nel caos: bocciata allo scritto chiamata a fare il commissario all’orale. L'ennesimo pasticcio sul concorsone per professori. A Palermo, per la classe di sostegno per le scuole medie, sono stati persi i codici con cui vengono abbinati i compiti agli aspiranti professori. I candidati sono stati convocati per riconoscere il proprio compito, ma molti si sono rifiutati, scrive Valentina Santarpia il 18 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”.

1. La candidata bocciata che diventa commissario. Non era tanto brava da essere ammessa agli orali, ma lo è per giudicare gli altri candidati. L’ennesima beffa del concorsone prof viene raccontata sulle pagine di Orizzonte scuola. La candidata di cui parla il sito specializzato in aggiornamenti sul mondo dell’insegnamento è in possesso di abilitazione TFA I ciclo, ma ha già alle spalle vari anni di precariato nella scuola e può vantare varie certificazioni nel proprio curriculum. Deve essere stato proprio questo a indurre l’Ufficio scolastico regionale - alla disperata ricerca di commissari - a sceglierla, probabilmente come commissario aggregato, per far parte della commissione giudicatrice. Peccato però che l’aspirante prof, essendo stata bocciata agli scritti, abbia preferito declinare l’offerta.

2. Nessun filosofo promosso in Calabria. Nessun ammesso alle prove orali per la casse di concorso di Filosofia e Scienze umane in Calabria. È l’ennesima beffa di questo concorso per professori, certificata dalla commissione che due giorni fa a Vibo Valentia si è riunita per sancire che non ci saranno gli orali per i prof di filosofia, e che tutti i posti a disposizione saranno quindi coperti da supplenti. «Mi rifiuto di pensare che i miei colleghi in questo caso tutti siano impreparati», scrive un’aspirante professoressa, che parla di «mattanza».

3. Palermo, codici «spariti» nella classe di sostegno. Quando si sono visti arrivare la mail per la convocazione a scuola, si sono stupiti non poco i candidati nella classe di concorso al sostegno nelle scuole medie a Palermo. «Nessuna possibilità di delega», c'era scritto nella mail di invito a presentarsi a scuola. Ma quando hanno scoperto il motivo, sono rimasti più che basiti: i commissari hanno chiesto loro di riconoscere i propri compiti, perché- dopo la correzione- sono stati «persi» i codici che permettono l'abbinamento del compito al candidato, e quindi nessuno era più in grado di associare il voto al candidato, e di stilare la classifica per l'ammissione agli orali. È successo il finimondo. Anche se la commissione ha presentato una regolare denuncia per furto contro ignoti, moltissimi candidati si sono rifiutati di riconoscere la prova, e hanno chiesto l'annullamento. Altri invece lo hanno fatto, sperando di accelerare la procedura e far andare avanti il concorso. Cosa succederà? Per ora non si sa.

4. Record di bocciati. Quello di Palermo è solo l'ultimo pasticcio di un concorso contestatissimo, dove le segnalazioni di pasticci e irregolarità si moltiplicano giorno dopo giorno. Secondo una prima stima sui dati parziali degli uffici scolastici regionali, solo il 55% dei candidato è stato promosso alle prove scritte. Un'alta percentuale di bocciati, dunque, per motivi che potrebbero non avere a che fare con la giusta severità delle commissioni, ma con procedure e organizzazioni inadatte a giudicare in maniera imparziale. È il caso della gaffe dell’ufficio scolastico regionale lombardo, che ha commesso errori nell’associare un gruppo di docenti della classe di concorso A051: dopo la richiesta di accesso agli atti, è stato ammesso l’errore e sono stati ammessi tutti agli orali con il punteggio minimo. Ma i candidati colpiti - circa 90 persone tra Piemonte, Liguria e Lombardia - sono intenzionati a chiedere l’annullamento della prova: «Questo non è un torneo di bocce».

5. Lombardia: ci sono tre commissari con lo stesso cognome. È solo uno dei casi strani del concorsone per professori, segnalati dai docenti abilitati che stanno tentando di superarlo per conquistare l’agognata cattedra. La commissione lombarda per la casse A28, di matematica e scienze, è cambiata per l’ennesima volta. Stavolta, dopo la rinuncia della commissaria Daniela Songini, è stata nominata la professoressa Claudia Panzeri, docente presso l’istituto comprensivo Lecco 4, che -guarda caso- ha lo stesso cognome della presidente, Anna Panzeri, dirigente scolastico dell’IC di Oggiono, e di un’altra commissaria, Chiara Panzeri, docente presso il Parini di Lecco, e aggregata sia di spagnolo che di francese che di tedesco. «È normale che la commissione A028 Lombardia continui a cambiare e che nell’ultima versione ci siano tre commissari con lo stesso cognome evidentemente imparentati?? In tutto questo non sappiamo ancora quando sosterremo la prova pratica», dice Paolo Conforti.

6. Toscana e Veneto: dimissioni in massa e commissari introvabili. In Toscana l’intera commissione della classe di concorso A31 ha rassegnato le proprie dimissioni. Le motivazioni non sono state ancora chiarite, ma è probabile che stia accadendo qualcosa di simile a quanto, da settimane, sta succedendo in Veneto per quanto riguarda la classe di concorso della scuola primaria: ancora una volta un commissario ha rassegnato le proprie dimissioni e si è alla ricerca di chi potrà sostituirlo. Sembra sia ritenuto lesivo della dignità docente lavorare come commissario a circa 2 euro all’ora: una cifra che tra l’altro non è neanche stata confermata dai decreti attuativi, e che quindi potrebbe essere rivista al ribasso. In più, dati i ritardi, questi docenti dovrebbero rinunciare alle proprie ferie: in Campania, ad esempio, gli orali si terranno anche in pieno mese di agosto. Il Miur potrebbe correre ai ripari chiamando docenti universitari o esperti del settore. Ma il ricorso è dietro l’angolo.

7. Il software che cancella le risposte. A proposito di ricorso, sono proprio i ricorrenti di Adida, un’associazione nata partendo dai professori bocciati e arrabbiati, a segnalare alcune delle anomalie delle prove concorsuali, che avrebbero inficiato la loro validità. Tanto è vero che hanno già pronta una denuncia, firmata da oltre 400 insegnanti, per chiedere l’annullamento del concorso. Una di queste riguarda lo svolgimento della prova computerizzata, che prevedeva l’utilizzo di un supporto elettronico dotato di uno specifico software per l’esecuzione della prova, uguale su tutti i PC e per tutti i candidati. «Oltre ad essere state date errate istruzioni sul loro funzionamento, inducendo gran parte dei candidati a commettere errori compromettenti ai fini del risultato, anomalie importanti si sono verificate anche per ciò che attiene tali software», secondo quanto si segnala nella denuncia che sta per essere presentata alla Procura. Un esempio su tutti? Non vi erano informazioni che premendo il tasto «indietro» sul supporto elettronico, che normalmente viene utilizzato per rileggere le risposte date, il testo già scritto veniva cancellato. Ovviamente ciò ha comportato per molti candidati un’ulteriore perdita di tempo perché hanno dovuto riscrivere le risposte che il software ha erroneamente eliminato, le hanno dovute riscrivere. In alcuni casi i candidati hanno preteso che il disguido venisse verbalizzato.

8. Le griglie di valutazione: queste sconosciute. La quasi totalità dei candidati lamenta l’assenza delle griglie di valutazione con cui si sarebbero dovuti stabilire i parametri di utilizzo per le valutazioni delle prove previste dal bando e svolte dai candidati interessati. L’assenza di griglie ha interessato l’intero territorio nazionale, generando legittimi dubbi sulla regolarità delle procedure. In una sede di Bologna, dopo l’ingresso in aula, ma prima dell’inizio della prova, i candidati hanno chiesto gli atti di nomina dei commissari agli stessi e le griglie di valutazione. «Nulla di tutto ciò è stato fornito prima dell’inizio della prova», si legge nella denuncia.

9. La domanda che non c’è. A Torino si svolgeva la prova di arte e storia dell’arte quando i candidati hanno segnalato l’assenza di supplenti della commissione giudicatrice. Ma, soprattutto, che una delle domande presenti nel test (la n.4), non risultava citata in alcun libro di testo e nemmeno nelle indicazioni nazionali, nè tantomeno nei programmi ministeriali.

10. Musicisti senza abilitazione. Nella prova di Concorso AD02 (area disciplinare umanistica-linguistica-musicale), si segnala che hanno partecipato alla selezione anche persone non abilitate, che era invece una condizione necessaria indicata nel bando ministeriale. I candidati privi del requisito dell’abilitazione non avrebbero potuto prendervi parte. Ed invece, risultavano regolarmente inseriti nell’elenco dei partecipanti e hanno svolto, altrettanto regolarmente, le prove previste per la selezione, senza averne assolutamente titolo e senza neanche essere stati ammessi da un tribunale amministrativo previo ricorso.

11. Le aule «casuali». Gli elenchi dei concorrenti partecipanti alle classi di concorso per i docenti candidati all’insegnamento presso le scuole primaria e dell’infanzia della provincia di Roma, presentavano delle importanti singolarità. Gli elenchi in cui si stabiliva l’assegnazione dei candidati alle aule dove si tenevano le prove, secondo quanto stabilito dal bando di concorso, seguivano l’ordine alfabetico. L’assegnazione presso le aule per lo svolgimento delle prove, in alcuni casi, e quindi per alcune persone, non rispettava però il criterio dell’ordine imposto dal bando. L’ordine alfabetico per alcune pagine viene interrotto, e capitava di ritrovare candidati in classi uguali, senza un’apparente criterio logico che legittimasse tale assegnazione.

12. Matite o penne? Il 16 giugno 2016 si svolgevano le prove concorsuali per la classe A60 di tecnologia in Veneto: e anche qui «si sono verificati dei fatti poco chiari», spiega Valeria Bruccola di Adida. Ai candidati era stato consigliato di portare del materiale specifico per lo svolgimento di tali (matite, squadrette, compasso, temperino e gomma). Molti concorrenti hanno portato materiale diversi da quelli indicati (es. colori e penne). In alcune sedi le commissioni hanno lasciato libertà di utilizzo, mentre in altre no. Anche l’atteggiamento dei commissari era molto diverso in base alle situazioni. Non sono stati fatti depositare i telefoni cellulari, e come se non bastasse, alcuni candidati hanno scritto il proprio nome sul compito prima di essere consegnato, cosa assolutamente vietata.

13. Una prova «poco» pratica. Nell’allegato A del Bando (Prove e programmi d’esame), a pag. 96 viene chiaramente indicato come deve svolgersi la prova pratica per la classe A050 - Scienze Naturali, Chimiche e Biologiche. Nel testo originale sono chiaramente indicati due prerequisiti: esecuzione e interdisciplinarietà riferita ai campi delle Scienze Naturali, Chimiche e Biologiche. Tranne che in Sardegna, le prove non sono state né eseguite né interdisciplinari. In Abruzzo, ad esempio, non c’erano materiali per far fare la prova a tutti i candidati, che quindi hanno dovuto scrivere una relazione. «Come sarà stata valutata la nostra prova pratica, che di pratico non ha avuto niente???», si chiede una docente. In un altro caso i candidati hanno svolto la prova pratica di laboratorio in gruppo collaborando reciprocamente. «Nel mio caso specifico, l’esperienza di laboratorio da sostenere era il saggio alla fiamma di due sali noti- racconta una delle insegnanti bocciata nel Lazio- Convinta di dover svolgere l’intero esperimento in totale autonomia, mi sono ritrovata a svolgere una parte dell’esperimento: il tecnico del laboratorio ha acceso il becco Bunsen, una collega ha preparato il sale da saggiare e una seconda collega ha eseguito la pulizia del filo di platino e il saggio alla fiamma del primo sale; la prima collega ha poi preparato il secondo sale e io ho eseguito la pulizia di un secondo filo e il saggio alla fiamma del secondo sale. Concluso l’esperimento siamo stati mandati in un’aula per scrivere la relazione».

Ecco le storie dei prof bocciati al concorsone: dal tenore pugliese all’insegnante di francese. Da Milano a Napoli è record di non ammessi all’orale. Migliaia di cattedre finiranno ai supplenti, scrive Valentina Santarpia il 15 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

1. «Siamo tutti abilitati: qualcosa non ha funzionato». Anche se non ci sono ancora risultati ufficiali sul territorio nazionale, i primi resoconti degli uffici scolastici regionali somigliano a bollettini di guerra. In Emilia-Romagna su 37 candidati per i laboratori di Scienze e tecnologie meccaniche, ammessi agli orali in 16. In Lombardia 7 su 68 iscritti hanno superato la prima prova per il Laboratorio di scienze e tecnologie chimiche. I posti banditi sono 51. Sul sostegno è una débâcle: in Sardegna per 18 posti alle superiori ammesso un solo candidato alla prova orale, in Piemonte alla primaria ce l’hanno fatta in 130 su 333. «Le prime stime parlano del 55% degli ammessi», dice Rosa Sigillò, coordinatrice di Mida precari. Le cattedre scoperte dovranno essere assegnate a supplenti, in barba alle promesse del governo. Sui social corre la rabbia, ed è pronto un esposto per contestare malfunzionamenti e incongruenze delle prove. «Siamo tutti preparati e abilitati — spiega Valeria Bruccola, dell’associazione Adida —. Qualcosa non ha funzionato».

2. Il tenore respinto alla prova di canto: «Spartito impossibile». Dai palchi dei teatri lirici di tutto il mondo alla bocciatura alla prova di canto per il concorso per insegnanti a Modena. Quella di Gianni Coletta, 40 anni, tenore, pugliese, diplomato al conservatorio di Monopoli e poi specializzato all’istituto Vecchi di Modena, è una storia paradossale. «Avevo deciso di fare il concorso come insegnante di canto nei licei musicali perché la carriera da concertista era troppo pesante, ora che ho due bimbi e mi pesa viaggiare tanto. È dal 2006 che lavoro a scuola. Mai avrei creduto di essere bocciato alla prova pratica»: eppure è andata così. «Mi hanno dato il giorno prima un brano di repertorio contemporaneo da preparare, era un pezzo difficilissimo, sette pagine di spartito: ho studiato e credo di aver fatto una buona esibizione. Invece mi sono trovato tra i non ammessi: sono stati promossi in 10 per 5 regioni. E ho scoperto che altri candidati, che neanche si sono mai esibiti, avevano avuto in sorte brani più facili».

3. La prof di francese: «Otto anni in cattedra e mi hanno bocciata». Da otto anni si sveglia alle 4.50 per raggiungere la «sua» scuola, quella di Gaggio Montano, a un’ora e mezza da Bologna, dove vive da quando si è trasferita da Catania. Adriana Severino, 38 anni, siciliana, è una insegnante di francese, laureata in lingue, specializzata e abilitata con un Pas (un Percorso abilitante speciale), ma per i commissari del concorsone non è abbastanza brava da conquistare una cattedra. «Studio da una vita, mi sono preparata al concorso mentre lavoravo, con grandi sacrifici, ma quando ho saputo che in Lombardia per una classe di concorso sono stati ammessi all’orale anche insegnanti che non avevano partecipato agli scritti (c’è un’indagine in corso su questo caso, ndr) ho capito che il concorso non è stato organizzato bene e ho chiesto l’accesso agli atti, voglio vederci chiaro». Intanto, «ho incontrato un ex alunno che non studiava francese da anni e ricordava tutto quello che aveva imparato con me: è la mia rivincita».

4. Rosa Borsellino, l’insegnante di sostegno super-specializzata. Sessantaquattro ammessi su 240 candidati: e i posti a disposizione sono 62. È successo a Palermo, dove gli insegnanti di sostegno, come in molte altre parti d’Italia, sono stati letteralmente falcidiati alla prova scritta. Le malelingue sussurrano che sia normale, dato che per entrare nel mondo della scuola in passato molti aspiranti professori si sono buttati sul sostegno, senza avere di base la preparazione necessaria. Ma per Rosa Borsellino non è stato così: lei, a 31 anni, è laureata in Pedagogia, ha superato sia il Tfa (Tirocinio formativo attivo) che il corso di sostegno, abilitandosi per insegnare anche Filosofia e Scienze umane e acquisendo un corso di specializzazione biennale che le ha dato sei punti nelle graduatorie. «Quando mi hanno chiamata per lavorare sul sostegno a Livorno, mi sono trasferita dalla Sicilia senza pensarci un attimo. Ma adesso pensavo col concorso di stabilizzarmi: e invece sono stata bocciata. Per me le domande erano tutte facili, anche i quesiti in inglese erano fattibili, ma ho la sensazione che abbiano proprio deciso di stroncarci senza pietà. Conosco tanti che hanno partecipato alla prova scritta, e non ce l’ha fatta nessuno di loro. Mi sembra impossibile. Ho chiesto l’accesso agli atti, voglio capire cosa è andato storto».

5. Luana Sigrùn, 35 anni: «Domande sbagliate». Laureata a Catania, abilitata ad insegnare francese alle superiori alla Ca’ Foscari di Venezia, vincitrice di borse di studio al centro linguistico in Francia e al ministero degli Affari esteri, denuncia: «Mi sono resa conto che le domande erano sbagliate: formulate male e con errori linguistici e di contenuto. Ho anche scritto una lettera insieme ai miei colleghi, protocollata dall’Usr, inviata anche a un avvocato: non so ancora gli esiti degli scritti, ma sono convinta di essere stata bocciata, proprio per l’incongruenza dei quesiti per la D05 in Piemonte. «La presidente della commissione era un insegnante di tedesco!», conclude amara.

6. Silvia Del Re, insegnante di francese. «Sono laureata in lingue e letterature straniere con 110 e lode e abilitata da un Tirocinio formativo attivo per la classe di concorso A246, per insegnare francese alle medie e alle superiori: ma sono stata bocciata allo scritto dagli stessi professori che hanno fatto i corsi del Tfa». Secondo Silvia Del Re, di Pescara, 34 anni, «la beffa» è che gli stessi professori che l’hanno bocciata l’avevano esaminata dandole sempre il massimo dei voti e complimentandosi con lei. «Il tutto mentre aspettavo il mio terzo figlio. Sono disposta a tutto per avere giustizia». Silvia ha già alle sue spalle due anni di supplenze continuative, con incarichi annuali, ed era stata anche chiamata a svolgere il ruolo di commissario agli esami di maturità, incarico che ha dovuto rifiutare per prepararsi per il concorso. Ma adesso rischia di non tornare in cattedra.

7. Antonietta Sgambati, insegnava in Svizzera. Abilitata in Svizzera e in Italia, ma non dalla «terribile» commissione del concorsone dell'Emilia Romagna, a cui aveva partecipato per insegnare francese alle superiori. «Sono stata bocciata, ad una prova assurda, dove le griglie di valutazione usate dalla commissione sono state pubblicate due giorni la pubblicazione degli esiti degli scritti, anche se la data di protocollo coincide con quella della pubblicazione dei risultati!», racconta, in attesa di avere accesso agli atti e di capire, attraverso un avvocato, se la sua prova è stata correttamente valutata. Antonietta è nata 36 anni fa a Marsicovetere (PZ), si è laureata a Salerno in Lingue con 110/110 e lode. Nel 2004 si è trasferita in Svizzera, a San Gallo (cantone germanofono) dove ha insegnato italiano per stranieri e francese presso scuole pubbliche e private, sia medie che superiori. Una tra tutte, l'Institut auf dem Rosenberg, prestigiosa boarding school elvetica, che all'interno ha una sezione italiana legalmente riconosciuta dal governo italiano. Nel 2012 è rientrata in Italia per conseguire l'abilitazione all'insegnamento tramite TFA, e così si è iscritta alle graduatorie di istituto di seconda fascia. Quando poi è uscito il bando di concorso pensava di poter far valere il servizio prestato in Svizzera, ma il governo italiano non lo ha riconosciuto in quanto non svolto nella comunità europea. «Ad ogni modo, negli ultimi due anni ho lavorato sempre presso la stessa scuola: l'Ipssar Pellegrino Artusi di Riolo Terme- racconta Antonietta - È un istituto professionale ma i ragazzi sono meravigliosi, in due classi sono riuscita a fare anche due moduli di letteratura e sono orgogliosa di aver svolto in una quinta proprio Zola, e in particolare modo di aver letto con loro il brano relativo all'importanza della rivendicazione dei propri diritti in Germinal «Du pain du pain»! I miei ragazzi mi danno tanto, sono soddisfazioni intangibili con cui nessun bonus potrà mai essere alla pari. Vorrei poter tornare da loro a settembre e dirgli: dai ragazzi impegno e studio!». Ma, se non dovesse essere rivista la sua posizione, non potrà farlo.  

Concorsi pubblici truccati nelle Forze Armate. Concorsi nelle forze armate: dopo la bufera sui 9 bandi truccati, salteranno 11.463 posti? Nel mirino della procura di Napoli sono finiti 9 selezioni per irregolarità: quali le conseguenze? Scrive Blastingnews.com" il 18 dicembre 2016. Dopo la maxi-inchiesta della procura di Napoli sulle prove d'esame per l'acceso a molti concorsi nelle forze armate si è aperta una voragine in cui non si salva neanche uno dei 9 bandi pubblici indetti fra tra il luglio del 2015 e il maggio del 2016. Erano destinati ad arruolare 11.463 unità tra carabinieri in ferma breve, ferma quadriennale nell'Esercito, nell’Aeronautica, nella Capitaneria di Porto, nella Marina Militare, allievi marescialli del ruolo ispettori dell’Arma e allievi agenti della Polizia di stato e Penitenziaria. Le indagini finora condotte hanno infatti fatto emergere uno perfetto quadro criminoso dove in sostanza le ingerenze da parte anche di interni ai corpi armati ha causato una vistosa disparità di trattamento fra chi conosceva tutte le risposte dei test e chi invece è stato escluso dalle prove senza una concreta ragione. Fra le irregolarità riscontrate nei 9 concorsi è emersa anche un evidente ingerenza da parte di esponenti dell'Esercito e della Finanza, che sono stati arrestati con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla truffa, all’induzione indebita a dare o promettere utilità, alla corruzione per istigazione e alla concussione. La guardia di finanza di Napoli e i pm, dopo le testimonianze e le segnalazioni di alcuni candidati, sulla poca trasparenza anche al momento dell’espletamento della prova hanno ritenuto che ci fossero «fondati motivi» per sospettare che i concorsi fossero viziati. Così dopo il sequestro di tutte la documentazione inerente le selezioni pubbliche fra cui i provvedimenti di nomina delle commissioni e la scoperta di un sistema che incentivava a barare il sospetto è diventato certezza. Il risultato della maxi inchiesta ha condotto il capo della polizia Franco Gabrielli a decretare l’invalidità delle prove scritte dell’ultimo concorso dei 559 allievi di polizia ribattezzato ‘concorso truffa o miracoloso’. Allora infatti circa 195 candidati non avevano fatto neppure un errore alla prima prova scritta. Un risultato abbastanza sensazionale. Sono state infatti proprio le denunce e i ricorsi di molti candidati che hanno spinto il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno ad annullare la prima prova concorsuale, disponendone quindi la ripetizione. Le anomalie riscontate secondo Gabrielli sono state troppo evidenti, tanto che la procura di Napoli già a luglio aprì una fascicolo che portò in tutto a 24 iscrizioni nel registro degli indagati. La domanda che molti si pongono è se la stessa sorte del concorso dei 559 allievi agenti potrebbe toccare anche alle altre 9 selezioni e a quello per 400 aspiranti agenti della Penitenziaria che è stato infatti bloccato. In questo caso a finire agli arresti sono state 9 persone accusate di aver prospettato falsamente ad alcuni candidati la possibilità di influire su pubblici ufficiali previa dazione di denaro, ai quali hanno garantito un intervento finalizzato a superare il concorso della Polizia Penitenziaria. Alla faccia dei tutti gli altri candidati onesti che hanno preferito studiare per cercare di arrivare a quel posto fisso in divisa. Le conseguenze delle irregolarità riscontrate potrebbero quindi portare all'annullamento delle prove espletate nei 9 concorsi indetti negli ultimi 2 anni in Polizia Penitenziaria, Guardia di Finanza, Carabinieri, Esercito. Tutto da rifare dunque? Gli idonei vincitori sia per merito personale sia grazie anche a quell’aiutino fornito da terzi perderebbero quindi la possibilità di ricoprire uno dei 11.463 posti a disposizione, salvo dover ripetere di nuovo gli esami qualora venissero banditi nuovi concorsi, così come sta accadendo per quello dei 559 allievi agenti di polizia di stato. 

NAPOLI: 50 MILA EURO PER VINCERE I CONCORSI DELL’ESERCITO. ORGANIZZAZIONE ILLEGALE PROMETTE DI VINCERE I CONCORSI DELL’ESERCITO, scrive “CongedatiFolgore” il 6 luglio 2016. La Finanza ha perquisito uffici e abitazioni di 14 persone, tra cui un generale in pensione, indagate per concussione per induzione e millantato credito. Si tratta di una inchiesta del pm Stefania Buda a lei affidata dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino. Sembra, da alcuni esposti, che alcuni concorsi banditi negli ultimi mesi siano stati truccati per favorire chi versava un pizzo. Secondo i meccanismi di selezione, sembrerebbe impossibile che persone appartenenti all’Esercito possano riuscire a truccare i concorsi. Presumibilmente si potrebbe trattare di millantatori. Il reato finale configurato potrebbe essere quello della concussione per induzione e, ovviamente, il millantato credito. Nelle caserme dove prestano servizi i militari indagati (tutti sottufficiali) hanno ispezionato scrivanie e armadietti. Il materiale sarà esaminato nelle prossime settimane, ma al momento i primi riscontri sarebbero già emersi. Sarebbe stato trovato un tariffario per le persone interessate a superare il concorso: si andava da poche migliaia di euro fino a 10 o 20mila; in un caso anche 50.000. Si tratta dei concorsi VFP1, che consentono di prorogare il servizio o di partecipare alle selezioni per la polizia o altri Corpi

Quella del pm Buda non è l’unica inchiesta che mira a far luce su presunte irregolarità nei concorsi per le Forze armate. Il pm della Dda Maria Di Mauro, infatti, sta approfondendo alcuni concorsi per entrare nell’Arma dei carabinieri.

Cinquantamila euro per superare il concorso: 14 indagati. La guardia di finanza sta effettuando numerose perquisizioni, scrive “Otto pagine” il 6 luglio 2016. Cinquantamila euro per indossare una divisa. Questa era la tangente da pagare per superare il concorso nelle forze armate. Sotto inchiesta ci sono 14 persone, tra cui un generale dell’esercito, un finanziere e alcuni sottufficiali delle forze armate. L’inchiesta della procura di Napoli parte da una denuncia di un giovane. Ora la guardia di finanza sta effettuando una serie di perquisizioni tra case e uffici degli indagati. I pm procedono sia per il reato di concussione per induzione, sia per millantato credito. Gli inquirenti infatti vogliono accettare se le richieste di denaro, generalmente comprese fra i 10mila o 20mila euro, fossero realmente dirette ad alterare l’esito del concorso o se, al contrario, si sia trattato di un raggiro organizzato alle spalle degli aspiranti militari e deliro congiunti. Le perquisizioni hanno riguardato anche quattro scuole private che preparano i candidati al concorso. Dopo la prima denuncia l’inchiesta è andata avanti con interrogatori e acquisizioni di documenti. Dal lavoro degli investigatori è emerso che le famiglie erano disposte ad impegnare tutti i loro risparmi pur di ottenere un posto di lavoro per il figlio. All’esame c’è molto materiale: decine di computer, telefoni cellulari, comprese le memorie e i messaggi whatsapp.  

“Concorsi truccati per l’Esercito”, diecimila euro per conoscere l’algoritmo e superare il test: arrestati quattro militari. In tutto gli indagati dalla Procura di Napoli sono sette, tra cui un finanziere, accusati a vario titolo di corruzione per aver fornito "informazioni riservate". Si indaga su un'altra cinquantina di candidati che potrebbero aver passato il quiz grazie alla "formula magica" che consentiva di rispondere correttamente a tutte le domande, di cui il Fatto.it aveva già dato conto. Forze armate: "Parte lesa, condanniamo e garantiamo massima collaborazione", scrive il 19 luglio 2016 "Il Fatto Quotidiano". Diecimila euro in cambio della “formula magica” per superare il test e conquistare così un posto fisso nell’Esercito italiano. E’ questa – secondo la Procura di Napoli Nord – la somma che un operaio della provincia di Napoli ha consegnato ad alcuni militari per ottenere informazioni “riservate” sul concorso di accesso e una loro “segnalazione” per la figlia nelle prove del concorso per il reclutamento 2015. Secondo gli investigatori, gli indagati avevano messo in piedi un ampio e articolato “sistema” di acquisizione di informazioni e atti riservati relativi ai test di accesso e di “segnalazioni” per il superamento del concorso, sfruttando una fitta rete di relazioni personali. A inizio luglio, ilfattoquotidiano.it era riuscito a leggere l’algoritmo – sequestrato durante le indagini – grazie al quale si poteva rispondere correttamente a tutte le domande del quiz e superare il concorso con successo. A quattro di questi militari stamani la Guardia di Finanza ha notificato un’ordinanza cautelare (due agli arresti domiciliari; due sospesi per un anno dal servizio) per associazione per delinquere finalizzata alla commissione di più delitti di corruzione. Stessa ipotesi di reato – si apprende dalla Procura di Napoli Nord – per un appartenente alla Guardia di Finanza, colpito dalla misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, e per altre due persone. L’ordinanza, emessa dal gip di Napoli Nord, è stata eseguita dai finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria di Napoli. Le Fiamme gialle stanno facendo perquisizioni personali e locali alla ricerca di eventuali prove relative alle posizioni di un’altra cinquantina di candidati che – secondo l’ipotesi investigativa – si sarebbero rivolti agli stessi militari per superare il concorso. In una nota l’Esercito scrive di aver “immediatamente avviato le procedure di sospensione per i militari coinvolti nell’indagine e si dichiara parte lesa. L’Esercito altresì dichiara la massima fiducia negli inquirenti e ha disposto ai propri uffici di continuare a dare la massima collaborazione all’autorità giudiziaria”. Inoltre “si riserva l’adozione di ogni provvedimento utile a tutelare la propria immagine. Si ribadisce comunque, la ferma condanna di tali condotte e la netta presa di distanza da chiunque abbia osservato un qualsiasi atteggiamento immorale nonché illegale, che lede fortemente la dignità e l’onore dell’Esercito e di tutti i suoi militari che quotidianamente con onestà e professionalità svolgono il proprio devoto servizio alla Nazione, in Italia e all’estero, anche a rischio della propria vita”.

 “Concorsi truccati per l’Esercito”, decifrato l’algoritmo per vincere il quiz e assicurarsi il posto fisso. La "formula magica" è stata trovata nel corso di una delle circa 40 perquisizioni compiute su ordine della Procura di Napoli. Ed è stata letta dal Fatto.it. Non era di facile decrittazione, ma se imparata a memoria "funzionava", assicurano gli inquirenti. Il costo era di 50.000 euro, scrive Vincenzo Iurillo l'8 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". E’ un foglio A4, scritto a penna in orizzontale. Con sopra scarabocchiata, con sufficiente chiarezza, una formula matematica. Un algoritmo. Mandato a memoria, farebbe vincere il concorso nell’Esercito e fa conquistare l’agognato posto fisso nelle forze dell’ordine, perché traccerebbe il percorso vincente attraverso lo slalom dei quiz a risposta multipla. Ilfattoquotidiano.it è riuscito a vederlo e a leggerlo. E’ stato appena acquisito agli atti dell’inchiesta condotta dalla Finanza di Napoli sui concorsi truccati. Lo hanno trovato nel corso di una delle circa 40 perquisizioni compiute nei giorni scorsi su ordine del pm Stefania Buda, che sta coordinando il lavoro investigativo e mettendo in ordine i tasselli del puzzle. L’algoritmo non è di semplice decrittazione: l’allievo concorrente deve ricordare l’ultima cifra della domanda (ad esempio, per il quesito 83, il numero 3), poi aggiungere il numero di lettere della prima parola della domanda precedente, più una serie di variabili e di x che cambiavano a seconda se la domanda era di numero pari o dispari, e in quel caso il conteggio attraverso il quale arrivare alla risposta esatta andava letto da sinistra a destra in un caso, da destra a sinistra nell’altro. Ed è proprio sulle "variabili" che si concludeva la trattativa tra la rete degli indagati e i ‘clienti’ che puntavano a vincere il concorso attraverso la scorciatoia dell’imbroglio. La ‘x’, insomma l’ultima parte della formula magica, veniva fornita solo a chi pagava l’ultima rata del ‘pacchetto’ da 50.000 euro. “Funzionava”, assicurano fonti inquirenti. Quasi certe che questa rete di mediatori finita sotto inchiesta, aveva agganci in qualche ganglo intermedio intorno all’organizzazione dei concorsi per entrare nelle forze armate, oppure in qualche tecnico informatico. Per ora sono solo supposizioni investigative, pm e finanzieri lavorano alla ricerca di riscontri. L’algoritmo è scritto a mano, forse sotto dettatura. Non è quindi detto che chi lo abbia scritto ne sia anche l’autore. Potrebbe anche averlo copiato da chi lo aveva "messo in vendita": perché di questi tempi un investimento di 50.000 euro per avere un posto fisso e sicuro sino alla pensione, sono un ottimo investimento.

Il metodo di correzione negli esami di Stato o nei concorsi pubblici è sempre lo stesso: si dichiarano corretti i compiti che non sono stati nemmeno visionati. Per attestare ciò detto non si abbisogna di microfoni o micro spie nelle segrete stanze delle commissioni e dei "Compari". Basta verificare i tempi di correzione se siano sufficienti e controllare le prove se e come sono state corrette, anche in relazione alle altre prove ritenute idonee. I Tar di tutta Italia ne scrivono di nefandezze commesse. Nel ribellarsi, però, non si caverà un ragno dal buco: perchè così fan tutti!! Giudicanti, ingiudicati.

L’inchiesta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce inascoltate di centinaia di migliaia di candidati estromessi di tutta Italia.

Parliamo della Magistratura. E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti). Ne consegue una constatazione ovvia, per quanto dolorosa, che nulla toglie al merito – a volte condotto fino all'eroismo – di singoli magistrati che sacrificano le loro giornate e a volte la loro vita per compiere al meglio un dovere esigentissimo: la constatazione è che di tanti singoli magistrati ci si può fidare, della magistratura come «sistema» no. Essa è parte del problema generale dell'inefficienza di una macchina statale e burocratica che rappresenta il vero male oscuro (mica tanto oscuro) dell'Azienda Italia. Pensare che questa magistratura, così com'è, sia la soluzione al problema generale della cattiva amministrazione è quantomeno ingenuo. I vizi del nostro pubblico impiego – talmente eclatanti da essere meritatamente tema costate della commedia all'italiana – ricorrono tutti anche nella «casta delle toghe»: clientelismo, furbettismo, «demeritocrazia», pressappochismo. Bisognerebbe riformare la magistratura: ma non può farlo nessuno, se non essa stessa. Chi ci prova dall'esterno – compreso Renzi – viene respinto con perdite e anatemi. E immediatamente comincia a temere, forse a torto forse no, rappresaglie. Allora che la magistratura si autoriformi. Piercamillo Davigo, il segretario dell'Associazione magistrati, è certo un magistrato duro, serio e severo. Non sarà contento che le nuove leve della categoria siano selezionate grazie ai geroglifici che segnano sui compiti per farli riconoscere dagli esaminatori imbroglioni.

Cuori, truffe e mazzette: è la farsa “concorsoni”. Trucchetti - I compiti dei vincitori dell’ultimo esame per la magistratura sono pieni di strani segni (alla faccia dell’anonimato). Per Bankitalia le selezioni pubbliche costano 1,4 miliardi l’anno, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Luigi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”.

Ma in magistratura è sempre stato così!

Anno 2015. Atto Camera Interrogazione a risposta in commissione 5-06088 presentato da COLLETTI Andrea testo di Venerdì 17 luglio 2015, seduta n. 464 COLLETTI. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che: il concorso in magistratura è uno degli esami più difficili per i laureati in giurisprudenza, che richiede anni di preparazione e ciò è giustificato dalla importanza e della delicatezza del lavoro che i vincitori saranno chiamati a svolgere, nonché dalla relativa retribuzione; all'esito dell'ultimo 2015, tenutosi nelle giornate del 7, 8 e 10 luglio 2015, è emersa da fonti di stampa una gravissima denuncia, relativa alla seconda giornata in cui sono state svolte le prove, e segnatamente, alla assegnazione della traccia in materia di diritto civile. Parrebbe, infatti, che la formulazione della detta traccia sia stata pilotata al fine di favorire i partecipanti di uno dei costosi corsi privati di preparazione al concorso. Circostanza, questa, che pare confermata dal fatto che gli stessi organizzatori del corso in questione, poche ore dopo la lettura della traccia, esultavano: «Centrato l'argomento» e, in ottica pubblicitaria, segnalavano la forma «praticamente identica» rispetto ad una traccia affrontata dai docenti del loro corso di preparazione. Ad insospettire i partecipanti è stato soprattutto l'oggetto della prova: «Negoziazione degli strumenti finanziari, alea contrattuale e funzione speculativa. Profili di meritevolezza». Un argomento molto particolare, molto specifico, al confine con il diritto bancario e dei valori immobiliari, che però era stato trattato proprio in uno dei costosi corsi di preparazione all'esame; relativamente a questa vicenda il Codacons, dopo aver ricevuto decine di segnalazioni, ha deciso di raccogliere e spedire il materiale al Ministero della giustizia, al Consiglio Superiore della magistratura e alla procura di Roma. Tra le segnalazioni, se ne trovano di dettagliatissime: «Vi segnalo che due commissari, il professor Agostino Meale e il professor Fernando Greco, collaborano con due case editrici «collegate» a un noto corso di preparazione per il concorso in magistratura. Vi chiedo se queste nomine siano state opportune e se non vi siano motivi di astensione»; sempre da fonti di stampa, si desume che già in passato il concorso in magistratura ha subito forti critiche in relazione alla mancanza di trasparenza nei confronti dei partecipanti –: se il Ministro interrogato sia a conoscenza dei fatti di cui in premessa e ritenga legittima la possibilità che nella commissione del concorso della magistratura 2015 vi siano soggetti che collaborano con case editrici «collegate» a uno dei costosi corsi privati per il concorso in magistratura; se il Ministro sia intenzionato ad intraprendere delle iniziative volte a verificare la fondatezza dei fatti denunciati, ad impedire il verificarsi di situazioni analoghe e se, nel frattempo, ritenga necessario annullare la seconda prova del concorso in questione. (5-06088).

E poi... Anno 2014. Concorso magistratura 2014, “Irregolarità”. Piovono denunce, rischio annullamento. Torna a far discutere il concorsone che aveva rischiato di slittare per il ricorso di un candidato invalido. Dopo le prove alla Fiera di Roma fioccano segnalazioni su codici vietati, tracce già disponibili, commissari compiacenti. Tutto da verificare, ma alcuni candidati varcano la soglia della Procura e il Codacons chiede i verbali. E il Ministero, imbarazzato, per ora tace, scrive Thomas Mackinson il 4 luglio 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. Si presentano in 7mila, affamatissimi di un posto tra i 365 in palio. Ma qualcosa va storto. Segnalazione dopo segnalazione, prende piede il sospetto che anche gli aspiranti magistrati della Repubblica commettano illeciti d’ogni tipo pur di diventarlo: smartphone imboscati con cui farsi dettare le risposte, tracce diffuse in anteprima da alcuni rispetto alla dettatura per tutti, codici commentati introdotti abusivamente fino al classico compito collettivo. Peggio, i magistrati chiamati a vigilare sulla correttezza della prova, secondo le testimonianze, avrebbero fatto spallucce delle tante segnalazioni rese dai partecipanti, omettendo di prendere gli opportuni provvedimenti, e perfino di verbalizzarle. Insomma, un putiferio sul concorso dei magistrati. E proprio mentre si torna a parlare di riforma della giustizia. Il concorso incriminato è quello per ordinari della Magistratura che aveva già fatto notizia per il rischio che saltasse tutto, dopo il ricorso di un ragazzo disabile impossibilitato a partecipare alle prove per tre giorni consecutivi (poi scongiurato da una sentenza lampo del Consiglio di Stato). Ma evidentemente il concorso è destinato a fare ancora notizia e forse a saltare davvero, stavolta per annullamento. Bandito con decreto il 30 ottobre 2013 è stato preso d’assalto con 20mila domande. Le prove scritte si sono tenute per tre giorni, 25, 26 e 27 giugno 2014, alla Fiera di Roma. L’ultima, quella di venerdì, sarebbe stata scandita da una serie di irregolarità tali da spingere alcuni candidati a varcare la soglia della Procura di Roma, il Codacons a chiedere i verbali della commissione, molti altri “aspiranti” a organizzare via web una protesta che potrebbe portare in piazza un sacco di gente, il 7 luglio. Sullo sfondo il Ministero che, contattato, non ha saputo fornire alcuna conferma o smentita circa i fatti. Restano una collezione di testimonianze che fioccano da ogni parte e alimentano la polemica, soprattutto sul web. Ad esempio sul sito miniterno.it che è il ricettacolo dei commenti pre e post e degli affanni dei concorsisti dilagano ricostruzioni e testimonianze che si spingono alla “parente del commissario con la traccia già scritta in bagno”. Ma c’è anche chi sta raccogliendo testimonianze circostanziate e non anonime, che saranno utili a chi vorrà vederci chiaro. Un giornalista del Corriere Università, Raffaele Nappi, le sta collezionando una ad una visto che di prove documentali (tracce audio-video) anche le vittime dei brogli non ne hanno potute produrre per mancanza di quei supporti che, invece, sembra impazzassero tra i colleghi meno onesti. I problemi sembra abbiano riguardato i padiglioni 3 e 4. “Più di uno aveva codici commentati” e con tanto di timbro del commissario, racconta ad esempio Fabrizio Ruggeri. Che aggiunge: “I candidati con i codici commentati sono stati espulsi. Pertanto, se, a fronte di una irregolarità così macroscopica sono stati espulsi i candidati, è evidente che la Commissione giudicatrice ha ripristinato la regolarità del concorso”. “Ho visto alcuni candidati fare il compito a gruppetti, e la commissione invece di intervenire ha solo chiesto di fare meno rumore”, racconta Giovanni R. Una candidata racconta che, a fronte di nessun controllo su alcuni, ad altri veniva effettuata una perquisizione corporale da criminali di strada, parti intime comprese. Altre testimonianze ancora potranno arrivare dagli avvocati dello studio Santi Delia e Michele Bonetti a loro volta hanno ricevuto diverse segnalazioni e in seguito il mandato da parte di un gruppo di candidati per presentare istanza di accesso al Ministero della Giustizia per chiedere copia dei verbali di concorso. Sullo stesso fronte si muove poi il Codacons che circostanzia la sua azione al caso, l’unico per ora che sembra trovare riscontri netti, di tre candidati in possesso di codici commentati. “Qualora risultasse accertato quanto denunciato – spiega l’associazione in una nota – si determinerebbero serie e gravi responsabilità sia per i 3 candidati autori dell’illecito sia per i membri della Commissione, qualora non abbiano adottato le misure previste dalla legge nei confronti dei tre candidati scorretti”. Insieme a tutto il resto, è un’altra vicenda da chiarire.

Quel concorso per magistrati e la rabbia dei candidati: “Questa volta abbiamo toccato il fondo”, scrive il 4 luglio 2014 Raffaele Nappi su “Corriere Università”. “Irregolarità inaccettabili. Mi auguro che la vicenda finisca in prima pagina, ma dopo aver capito a cosa possono arrivare la corruzione e il disprezzo per la funzione pubblica, dubito che una riedizione del concorso segua comunque la regolarità”. Piovono denunce sul concorso per magistrati che si è tenuto alla Fiera di Roma il 25, 26 e 27 giugno. Perquisizioni alle candidate fin dentro le mutande, codici commentati in possesso di alcuni concorsisti, commissioni distratte, svolgimenti a “gruppetti”, fogli con tracce che circolano prima di essere dettate. Questa volta, assicurano i candidati, pare si sia toccato davvero il fondo. Partiamo dall’inizio. Il 30 ottobre 2013, con un apposito decreto, l’ex ministro Annamaria Cancellieri ha firmato un bando di concorso per 365 posti di magistrato ordinario. Termine di scadenza per la domanda 9 dicembre 2013. Le prove scritte si sono tenute a Roma, presso la Fiera Roma, nei giorni 25, 26 e 27 giugno 2014. Sono 20.787 le domande di partecipazione, di cui 6.776 inviate con PEC e 14.011 inviate online. Tante, tantissime le segnalazioni raccolte dai candidati: “Sono state compiute irregolarità inaccettabili e di una gravità che probabilmente molti dei concorrenti neanche hanno compreso appieno. Mi auguro che la vicenda davvero finisca in prima pagina, ma dopo aver capito a cosa possono arrivare la corruzione e il disprezzo per la funzione pubblica, dubito che una riedizione del concorso segua comunque la regolarità. Si è prospettata anche la possibilità di un annullamento del concorso: sembra davvero un’ipotesi molto difficile, ma è fondamentale che se ne parli”. “Al padiglione 3 – racconta A. C. – sono state espulse alcune persone poiché avevano codici commentati ammessi per l’abilitazione di avvocato vidimati dalla commissione, che si è giustificata dicendo: “È stata una svista”. Un’altra candidata, invece, è stata trovata con fogli del Ministero con tre schemi di tre tracce diverse addirittura prima che la stessa commissione dettasse la traccia di Amministrativo. Ciò vuol dire che le tracce escono prima della dettatura, ma solo per gli eletti”. Molti candidati chiedono di rimanere anonimi, per paura di ritorsioni. Su Facebook, inoltre, è nato un gruppo che raccoglie idee e proteste. “Sono andata a fare il concorso dopo ben 8 anni dall’ultima volta: ho trovato tutto molto peggio di come l’avevo lasciato, i controlli per niente rigorosi, ed una calca mostruosa!” – racconta un’altra concorsista. Diversi candidati si lamentano del fatto che qualcuno è stato trovato in possesso di codici commentati. Eppure, due giorni prima delle prove, la commissione ha convocato tutti per analizzare dettagliatamente ogni singolo testo, ed apporvi il timbro ministeriale. “Chi ha sbagliato è chi ha fatto passare i codici – racconta D. I. – Nel padiglione 3 erano in più di uno coloro che avevamo i codici commentati. La cosa che fa più specie è l’assoluta grossolanità del modo in cui sono entrati. Ora mi domando e vi domando: quanti codici a cui avran cambiato la copertina sono entrati e non sarebbero dovuti entrare? Certo è che, visto il sistema si può risalire anche al commissario che ha messo il timbro. (Sempre che i codici non siano entrati nottetempo con l’aiuto di qualche inserviente che ha messo il timbro) …”. “Secondo me questi codici non hanno passato nessun controllo e sono entrati tra il primo e il secondo giorno di prova – commenta un altro candidato –. Questi furbacchioni (e credo sia evidente a chi mi riferisca) pensano che basti mettere alcuni timbri sui codici non ammessi per scaricare qualsiasi colpa sui commissari. Non posso e non voglio credere che ci sia il coinvolgimento dei commissari, quindi non trovo altre spiegazioni. Spero di non sbagliarmi”. La rabbia, intanto, sale. “Si dice che ci fossero un numero infinito di raccomandati – racconta S. C. -. Tutto questo mi fa schifo. Io non sono figlia di nessuno, ho rinunciato a tutto per venire a Roma. Se davvero c’erano personaggi con le tracce in anticipo auguro loro di vergognarsi a vita! So solo che io ingenuamente sono stata perquisita in modo disgustoso e c’era pure un poliziotto uomo: io come una cretina con le lacrime agli occhi ho detto: cosa dovrei avere? Tutto ciò mi fa schifo”. “Io sono tra quelli che hanno consegnato con tanta rabbia, soprattutto pensando ai sacrifici fatti e ai miei piccoli bimbi. Non ho parole”. Già dall’inizio delle prove, si sono contati i primi disagi. L’ingresso dei candidati, infatti, era previsto per le ore 8. All’articolo 3 del Decreto 7 marzo 2014 (Diario delle prove scritte del concorso a 365 posti di magistrato ordinario indetto con d.m. 30 ottobre 2013) si legge: “L’ingresso dei candidati sarà consentito fino alle ore 9.00; successivamente verranno chiusi i cancelli esterni e saranno ammessi all’esame solo i candidati presenti all’interno degli stessi”. Ma le cose sembrano essere andate diversamente. “Sono arrivata a Fiera di Roma molto presto. L’inizio delle prove era previsto per le 9 – racconta G., una candidata –. Ho fatto la fila il primo giorno dalle 8 alle 11:30. Hanno dettato la traccia di civile alle 12. E’ stato un massacro: tre ore in piedi per entrare. Il secondo giorno, giovedì 26 giugno, la traccia è stata dettata intorno alle 11:30, sempre con due ore e mezza di ritardo. Il terzo giorno, venerdì, ci sono stati parecchi casini: la tracia è stata dettata dopo le 12:30!”. Anche da dislocazione nei padiglioni era anomala. La lettera D era assieme alla Z, la L con la E… Scorso concorso la d era assieme la a b e c, com’è nell’ordine naturale”. Il regolamento, poi, vieta assolutamente ai candidati di parlare tra loro. All’articolo 4, del Decreto 7 marzo 2014, ancora, si legge: “E’ loro rigorosamente inibito, durante tutto il tempo di svolgimento delle prove, di conferire verbalmente con i presenti o di scambiare con questi qualsiasi comunicazione per iscritto, come pure di comunicare in qualunque modo con estranei”. Il concorso in questione è stato avvolto dalle polemiche anche per la questione di un ragazzo disabile che, dovendo fare la dialisi, ha chiesto lo spostamento delle prove fissate per 3 giorni di fila. Ha fatto presente il suo problema al ministero nei tempi e nei modi corretti. Al Ministero sarebbe stato sufficiente che modificassero le date delle prove e tutto si sarebbe potuto svolgere regolarmente, nella piena legalità e soprattutto nel pieno rispetto dei diritti della persona disabile in questione. E invece no. Il TAR del Lazio ha fatto sospendere il concorso, venendo incontro all’istanza presentata dal ragazzo disabile. Il 9 giugno 2014, però, ecco la risposta del ministero che, con un decreto monocratico del Consiglio di Stato (il 2435), blocca l’istanza di sospensione del Tar. Il concorso si fa e le date rimangono quelle, in barba al ragazzo disabile ed alla legge che prevede che ci siano per tutti condizioni di parità per accedere ai concorsi pubblici. La questione, però, non è ancora finita. Il 10 luglio si pronuncerà il Consiglio di Stato sulla questione, anche se difficilmente ribalterà la sentenza. Il 13 ottobre, però, toccherà di nuovo al TAR esprimersi. Il Codacons, intanto, ha deciso di intervenire nelle procedure selettive: è stata fatta richiesta di visionare i verbali della giornata di venerdì 27 giugno in particolare, perché i commissari verosimilmente non hanno espulso i candidati scorretti, violando chiaramente le regole. Il Ministero, al momento, non ha ancora chiarito la questione. Restano solo una serie di polemiche, che si scatenano soprattutto sul web. E la rabbia, mischiata alla delusione, dei candidati che hanno passato mesi e mesi di studio sui libri per presentarsi pronti. Raffaele Nappi

E poi... Anno 2008. "Quel concorso da giudice: tutto truccato". Il racconto a "Il Giornale" di una candidata che ha partecipato al concorso di Milano: Ho visto troppe irregolarità. Sui banchi codici commentati o intere enciclopedie. Decine le denunce. Il ministero ha aperto un’inchiesta, scrive Luca Fazzo, Giovedì 27/11/2008, su “Il Giornale”. «Una scena che non dimenticherò facilmente. Marasma totale, candidati che chissà come erano riusciti a portarsi appresso intere enciclopedie giuridiche, nessuno che sapeva che pesci pigliare, e in mezzo al caos un membro della commissione che strillava “Fermate quello spelacchiato che incita le persone”. Sembrava di essere al mercato, non al concorso per una delle professioni più delicate della nostra società». Questo è il racconto di V. che ha trent’anni e - per motivi che spiegherà più avanti - non vuole vedere il suo nome sui giornali. Ma il suo nome ce l’ha il ministro della Giustizia Angiolino Alfano, in calce all’accorata lettera che V. gli ha mandato per raccontargli le condizioni surreali in cui si è svolto a Milano, dal 19 al 21 novembre, il concorso per 500 posti da magistrato. Delle decine di testimonianze come quella di V. si dovranno occupare in diversi. Il ministero, che ha avviato una inchiesta interna. Il Consiglio superiore della magistratura che - su richiesta dei Movimenti riuniti e di Md - stamattina aprirà una sua indagine. E la Procura della Repubblica di Milano sul cui tavolo sono arrivati gli esposti che alcuni candidati inferociti si sono precipitati a depositare dopo avere rinunciato a portare avanti la prova. «Io non voglio buttarla in politica», dice V., «non voglio ipotizzare che ci fossero forme di corruzione o di connivenza. Non sta a me accertarlo. A noi spetta denunciare le irregolarità macroscopiche che erano sotto gli occhi di tutti e che la commissione ha fatto finta di non vedere. Adesso leggo che il ministero per fare luce sulla vicenda ha chiesto una relazione al presidente della commissione. Che obiettività ci si può aspettare? Perché non vengono sentiti anche i candidati?». Tema dello scandalo: l’introduzione - da parte di numerosi candidati all’oceanica prova d’esame convocata presso la Fiera di Milano - di vietatissimi codici commentati. Tradotto per i profani: agli esami per magistrato i temi riguardano faccende astruse («diritto di abitazione del coniuge superstite e della tutela del legittimario nel caso di atti simulati da parte del de cuius», recitava una traccia di settimana scorsa) cui i candidati debbono rispondere basandosi unicamente sui testi di legge, e non sui codici assai diffusi in commercio che, in fondo alle pagine, forniscono le risposte a ogni dubbio. Peccato che alla Fiera di Milano i codici del secondo tipo circolassero quasi liberamente. Risultato: sollevazione degli onesti, assalto alla presidenza, la prova che si blocca, riparte, finisce a notte inoltrata tra urla di «vergogna, buffoni», minacce, metà dei 5.600 candidati che abbandonano senza consegnare il compito. Come è stato possibile? Il presidente della commissione d’esame, il consigliere di Cassazione Maurizio Fumo, rifiuta ogni spiegazione. Così per ricostruire i fatti - che rischiano di portare all’annullamento della prova - bisogna affidarsi al racconto di V. e degli altri candidati. «La mia non è una denuncia anonima - dice V. - il ministro ha il mio nome in mano. Ma io quell’esame voglio riprovare a affrontarlo, stanno per essere banditi altri 350 posti. E se il mio nome girasse ne uscirei enormemente penalizzata». Che una aspirante magistrata sia convinta che il «sistema» si vendicherebbe della sua denuncia civile la dice lunga sull’aria che tira. V. non si dichiara ancora ufficialmente una disillusa, ma poco ci manca. «Io da sei anni non faccio altro che prepararmi per questo concorso. Voglio fare il magistrato, e credo che lo farei bene. Non ho aspirazioni missionarie, non ho una visione giustizialista della società. Ma credo che ogni società abbia bisogno di una cultura delle regole, e che per questo servano magistrati equilibrati e preparati. Io credo di essere entrambe le cose. Consideravo il concorso per magistratura l’ultima trincea della meritocrazia, evidentemente mi sbagliavo. All’idea che questo concorso premi i furbi che “ci hanno provato” mi sento profondamente indignata». «Abbiamo passato un giorno intero - racconta - a fare controllare i testi di cui chiedevamo di servirci. A me hanno tolto persino i segnapagine. Il giorno dell’esame ci sono ragazze che si sono viste perquisire anche la busta dei Tampax. I controlli, insomma, sembravano seri. E invece quando siamo entrati nell’aula è arrivata la sorpresa. C’erano candidati che avevano sul banco, con tanto di autorizzazione, codici commentati, manuali di diritto, enciclopedie. A quel punto è partita la protesta». Ma chi è stato, a permettere l’ingresso dei testi vietati? «I controlli li facevano i vigilantes, gli stessi che poi giravano tra i banchi. Non so chi li abbia istruiti. Ma so che un codice semplice si distingue facilmente da uno commentato: c’è scritto in copertina, e uno è alto un terzo dell’altro. Impossibile non accorgersene». E allora? Come è stato possibile? «Non lo so. Era una situazione surreale. E il presidente diceva: la prova va avanti, non è successo niente. Nei due giorni successivi il concorso è andato avanti così, chi copiava dai testi e chi si arrangiava in qualche modo. Se provavi a guardare il banco del vicino quello ti saltava in testa: cosa vuoi, fatti i fatti tuoi, vattene». Ed era il concorso da cui sarebbero usciti i magistrati di domani.

Parliamo della Guardia di Finanza: Lo dice il maresciallo capo della Finanza Antonio Izzo ai genitori di un aspirante finanziere, mentre davanti a un caffè illustra la proposta indecente: 1500 euro in cambio del superamento dei test attitudinali per il figlio. “Signora, questa è una cosa normale. Voi pensate che non ci siano persone corrotte? Qui tutto il sistema è corrotto”, scrive Vincenzo Iurillo su “Il Fatto Quotidiano” del 14 dicembre 2015. «Non si entra in Guardia di Finanza se non per queste vie». È la frase che il maresciallo della Gdf Bruno Corosu ha pronunciato, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno" del 24 marzo 2015. Un finanziere romano e alcuni aspiranti marescialli avevano in casa copia dei test a risposta multipla del concorso svolto a Bari nell’aprile scorso. Lo hanno scoperto i militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanzi di Bari durante le perquisizioni disposte dalla magistratura barese nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Bari dove si ipotizzano i reati di corruzione e rivelazione di segreti d’ufficio nei confronti di sette persone, tra finanzieri in servizio e ex militari, tutti romani, e partecipanti al concorso per 297 posti da allievo maresciallo nella Guardia di finanza, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 2 dicembre 2013.

Parliamo della Polizia Penitenziaria. Concorso agenti polizia penitenziaria a Roma: scoperti dal servizio di sorveglianza durante i controlli. Tutto per un posto in carcere. Anche, magari, rischiando il carcere stesso. 88 persone tra gli undicimila uomini e le duemila donne partecipanti al concorso per agenti della polizia penitenziaria, tenutosi a Roma tra il 20 e il 22 aprile, sono state indagate e denunciate a piede libero: le operazioni di controllo effettuate dalla task force di vigilanza tra i banchi della Nuova Fiera di Roma hanno infatti portato a scoprire materiale con cui i presunti furbetti cercavano di passare il test a pieni voti. Ne scrive il 26 aprile 2016 il Messaggero con Michela Allegri.

E poi, non poteva mancare lo scandalo per la Polizia di Stato.

Parliamo della Polizia di Stato. Concorso Polizia da rifare, nemmeno un errore per duecento candidati. Gabrielli annulla la prova: “Troppe anomalie”. Tra coloro che hanno risposto correttamente a tutte le domande quasi tutti sono residenti in Campania: e la società che ha vinto l’appalto del ministero dell’Interno per compilare i quiz ha sede legale in provincia di Caserta, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 15 dicembre 2016. Ottanta domande e nemmeno un errore per quasi duecento candidati. Un’anomalia troppo evidente che ha spinto il capo della Polizia Franco Gabrielli ad annullare il concorso per 559 allievi agenti della Polizia di Stato che adesso è da rifare. Con un provvedimento firmato dal suo capo segreteria, Gabrielli ha infatti invalidato le prove scritte che si sono tenute il 4, 5 e 6 maggio scorsi. Non solo, perché nelle prossime ore scatterà anche “l’avvicendamento” del personale dell’ufficio del Dipartimento che si occupa dei concorsi. E intanto la magistratura ha aperto un’indagine. Già nei mesi scorsi, diversi candidati che hanno partecipato alla prova – riservata ai Vfp, i volontari in forma breve, vale a dire i militari distaccati nelle forze di polizia – hanno aperto delle pagine Facebook per promuovere un ricorso collettivo. I sospetti sono concentrati sulla prima prova del concorso, quella riservata ai quiz di cultura generale. Quasi duecento candidati hanno infatti ottenuto il punteggio massimo, non sbagliando neanche una delle ottanta risposte, mentre altri 140 circa hanno fatto un solo errore e un centinaio ne ha commessi due. Tra coloro che hanno risposto in maniera corretta a tutte le domande, inoltre, quasi tutti risultano residenti in Campania: e la società che ha vinto l’appalto del ministero dell’Interno per la somministrazione delle domande – dunque il soggetto che materialmente ha predisposto i quiz – ha sede legale in provincia di Caserta. Quanto basta per far scattare i controlli da parte del Dipartimento. Gabrielli ha infatti nominato una commissione di verifica sull’andamento del concorso affinché venissero effettuati i “dovuti accertamenti” in base ai quali, qualora fossero state riscontrare “irregolarità”, sarebbero stati “adottati i provvedimenti del caso”. Le verifiche interne e l’inchiesta della procura hanno probabilmente riscontrato queste irregolarità visto che ieri il capo della segreteria del Dipartimento Enzo Calabria ha inviato la circolare con il quale comunica la decisione di Gabrielli di annullare il concorso. “A seguito delle indagini da parte dell’autorità giudiziaria che evidenziano la concreta possibilità che la prova scritta del concorso in oggetto sia stata inficiata da circostanze tali da non garantire la regolarità degli esami – scrive Calabria – il signor capo della Polizia, Direttore generale della pubblica sicurezza, al fine di salvaguardare gli interessi pubblici volti a garantire l’imparzialità delle operazioni di selezione, si è determinato a revocare il decreto di nomina della commissione esaminatrice del concorso e le operazioni della prova scritta e i relativi esiti”. Nelle prossime ore inoltre, molto probabilmente salteranno diverse poltrone all’ufficio concorsi, composto da alcune decine di persone e attualmente guidato dal vice prefetto Giancarlo Dionisi. “Con determinazioni in corso – si legge infatti nella circolare – si procederà ad un avvicendamento del personale dell’Ufficio attività concorsuali”. Ma che fine fa il concorso? Con un ulteriore provvedimento di Gabrielli, verrà nominata una nuova commissione esaminatrice cui spetterà “ripetere la prova scritta e gli altri successivi adempimenti per la conclusione del concorso”. Prova alla quale potranno partecipare “esclusivamente i candidati presenti alle prove effettuate nei giorni 4, 5 e 6 maggio 2016”. “Saranno adottate stringenti misure di carattere organizzativo al fine di contrarre al massimo i tempi di svolgimento del concorso in argomento e dei concorsi successivi – conclude la circolare – per velocizzare l’immissione sul territorio di nuove risorse umane”.

 Polizia, concorso sospetto: troppi vincitori campani, scrive Daniela De Crescenzo l’8 giugno 2016 su “Il Mattino”. In rete già parlano di «concorso miracoloso». Ma c’è anche chi lo ha soprannominato «concorso truffa»: è quello per selezionare 559 allievi agenti della polizia di Stato. La prima prova si è tenuta il 13 maggio e ben 194 candidati non hanno sbagliato nemmeno una delle ottanta risposte, un record. 134 hanno commesso un solo errore e 93 ne hanno commessi 2. In totale 421 persone che si sono cimentate su un test a risposta chiusa di cui non era stata in precedenza pubblicata la banca dati risultando praticamente infallibili. Basta guardare il grafico dei risultati per notare un’impennata finale in corrispondenza proprio delle votazioni più alte, quelle superiori al 9. Un risultato definito da molti sospetto e che ha fatto scattare una serie di segnalazioni all’Authority anticorruzione guidata da Raffaele Cantone che le sta verificando. Intanto il diario degli accertamenti dell’idoneità fisica, psichica ed attitudinale è stato rinviato e dovrebbe essere pubblicato il 17 giugno. Una brutta storia che si va ad aggiungere a quella del concorso per allievi agenti Polizia Penitenziaria: anche in quell’occasione i risultati avevano dato adito a dubbi tanto che il Dap ha momentaneamente sospeso il concorso. In quell’occasione, però, un centinaio di candidati furono espulsi perché sorpresi a consultare cellulari, tablet e bignamini. Non solo: il Silp Cgil ha pubblicato sul suo sito l’elenco nominativo dei candidati ammessi alla prova fisica: «Una anomalia visto che i nomi degli idonei sono protetti dalla normativa sulla privacy e quindi ogni candidato ha accesso solo alla propria posizione», spiega l’avvocato Francesco Leone che sta preparando una raffica di ricorsi. Ma da questa prima enumerazione si evidenza anche un’altra anomalia: gli ammessi sono quasi tutti campani. Il segretario campano dello stesso sindacato Silp, Tommaso Delli Paoli «dopo una attenta e dinamica riflessione, denuncia lo stato di confusione in cui versa, ormai da anni, l’ufficio per le attività concorsuali, situazione questa diventata ormai insostenibile» e chiede quindi una «attività ispettiva del preposto ufficio». La protesta sale anche in rete: si sono formati anche dei gruppi su Facebook ed è partita una raccolta di firme per chiedere lo stop alle prove. Il sindacato autonomo AdP si è rivolto a Raffaele Cantone, ma anche al ministro Angelino Alfano, raccogliendo le proteste Movimento Militari in Congedo. Non è una prima volta che si grida all’imbroglio in occasione di concorsi pubblici: un fatto analogo è accaduto di recente anche con il concorso per agenti di polizia penitenziaria. In seguito a numerose segnalazioni, il DAP ha deciso di sospendere il concorso, durante il quale furono anche espulsi un centinaio di candidati pizzicati a consultare smartphone, tablet ecc.

ATTO CAMERA. Interrogazione a risposta scritta 4-14042 presentato da MOLTENI Nicola, testo di Venerdì 5 agosto 2016, seduta n. 668. MOLTENI. — Al Ministro dell'interno, al Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione. — Per sapere – premesso che: 

è in corso di svolgimento il concorso interno per 1400 vice ispettori della polizia di Stato, concorso bandito nel mese di settembre 2013, per il quale sono state presentate circa 22.000 domande. Dopo una prima prova preselettiva svolta il 16 giugno 2014 ed articolata con 80 quesiti a scelta multipla su ben cinque materie di diritto, superata da circa 7000 candidati, il 29 gennaio 2015 si è svolta la prova scritta, consistente nella stesura di un elaborato di diritto penale che verteva sulla descrizione della struttura del reato e sulle cause di giustificazione e che si riteneva superata con il punteggio di 35/50. Quasi un anno dopo, il 17 dicembre 2015, sono stati resi noti i risultati della prova scritta e, anche tenendo conto della semplicità della tratta proposta per agenti ed ufficiali di p.g. in servizio da almeno 12 anni, sin da subito numerosissimi candidati esclusi e quasi tutte le organizzazioni sindacali della polizia di Stato, hanno ravvisato delle anomalie che sono state prontamente illustrate al dipartimento della polizia di Stato ed al signor Ministro dell'interno; 

con grande sorpresa si è appreso che la commissione ha ritenuto di ammettere alla successiva prova orale solo 2127 candidati. Ciò che spicca è la presenza tra gli idonei alla prova scritta di oltre 1400 candidati ex aequo, tutti con punteggio di 35/50, ovvero 2/3 degli idonei tutti giudicati nello stesso singolo cinquantesimo corrispondente al minimo punteggio utile all'ammissione alla prova orale. Di più, spicca un numero spropositato di temi valutati con i punteggi di 28 e 25, a fronte di nessun elaborato valutato 34 e di appena 73 candidati il cui elaborato è stato valutato con un punteggio compreso tra 30 e 33, come se si fosse passati da un 7 pieno attribuito ad oltre 1400 candidati ad un voto compreso tra 5 e 5,5 per quasi tutti gli altri. La rilevante e curiosa anomalia statistica è stata in seguito certificata dal professor Alessandro Polli, docente di statistica economica presso l'università La Sapienza di Roma, come scientificamente impossibile; 

alla luce di quanto sopra, i candidati esclusi, riunitisi in un'associazione denominata «Tutela & Trasparenza», hanno acquisito tutti gli atti del procedimento amministrativo, compresi tutti gli elaborati che la commissione ha giudicato idonei. L'analisi del materiale in argomento, ha fatto emergere un gran numero di elaborati che, pur valutati idonei, non risultano assolutamente migliori di tantissimi altri valutati non idonei, come se la linea di demarcazione tra idoneo e non idoneo non fosse stata uniformemente applicata; 

tra gli elaborati giudicati idonei ne spiccano alcuni con grossolani errori grammaticali, come nei casi di candidati che scrivono a, o oppure anno senza la h, perquoto con la q, coscenza senza la i, endicap al posto di handicap, distinsione con la s, leggittimo con 2 g, l'ascriminante anziché la scriminante, un azione ed un omissione senza apostrofo, e altro; 

altri elaborati giudicati idonei, al netto della pedissequa copiatura di vari articoli del codice penale e della Costituzione, constano di poche righe di testo (in un caso ne sono state contate appena 17!); dunque, per ottenere l'idoneità, ai candidati esclusi sarebbe bastato trascrivere gli articoli del codice penale; 

numerosissimi sono i casi di elaborati giudicati idonei nonostante la presenza di errori concettuali di diritto come nel caso di candidati che confondono l'elemento soggettivo del reato col soggetto attivo, che citano tra gli elementi essenziali della struttura del reato il precetto e la sanzione, che letteralmente scrivono «Il reato è una norma prevista dalla legge», che non sanno cosa sia la causalità al punto da scrivere sempre casualità, che, demolendo le basi del diritto penali, civile ed amministrativo, scrivono che i reati si distinguono in illeciti civili e amministrativi per diverse nature delle sanzioni (delitti e contravvenzioni); 

il giudizio della commissione che ha valutato idoneo un elaborato in cui è scritto: «all'uscita della banca se il rapinatore non impugna l'arma direttamente non si è autorizzati a sparargli ad altezza petto bensì alle gambe per evitargli la fuga» appare, all'interrogante se non irragionevole, arbitrario; 

è davvero singolare, per non dire sospetto, il fatto che tra gli elaborati giudicati idonei ve ne siano numerosi per larghi tratti identici a documenti presenti in rete o a libri di testo; 

uno degli elaborati giudicati idonei è risultato addirittura sovrapponibile per il 90 per cento ad un testo reperibile su internet, mentre un altro è apparso del tutto identico ai passaggi di ben 7 diversi documenti presenti in rete, tra i quali una tesi di laurea, tutto questo nonostante, come è ovvio, non si potessero consultare libri di testo né si potesse accedere al web durante le prove d'esame; 

la commissione ha peraltro espulso ben 38 candidati durante la prova ed ha annullato altri 38 elaborati in sede di correzione in quanto copiati; 

è infine a dir poco curioso il fatto che tra gli elaborati giudicati idonei ve ne siano alcuni con segni e diciture che non avrebbero motivo di essere presenti sul compito, come nel caso dei candidati che hanno scritto: mi dispiace non sono riuscito a trascrivere il testo in bella copia oppure si ringrazia per l'attenzione o ancora nota per il funzionario che valuterà: per mancanza di tempo lo svolgimento della traccia continua nel foglio della brutta copia contrassegnata dal numero di pagina 6 oppure sono spiacente ho ultimato il tempo, si voglia leggere l'ultima parte dell'elaborato sulle ultime due pagine della brutta copia contrassegnate. Grazie scusate; 

in considerazione di quanto emerso, e sommariamente qui riprodotto, sono centinaia i poliziotti che, ritenendosi danneggiati, hanno presentato ricorso al Tar o al Presidente della Repubblica, sobbarcandosi anche delle spese notevoli se rapportate alle retribuzioni e stabilendo una sorta di record per numero di 7 ricorsi ai concorsi pubblici, immobilizzando il Tar del Lazio; 

un numero ancora maggiore di candidati, anch'essi ritenendosi discriminati – dopo che il Capo della polizia prefetto Alessandro Pansa aveva assicurato la trattazione di tutte le istanze di rivalutazione degli elaborati di coloro che si ritenevano danneggiati – ha presentato un'istanza di ricorrezione del proprio elaborato; 

le prime 120 istanze di ricorrezione di cui sopra, esaminate dalla stessa commissione in due sessioni da 6 ore ciascuna, sono state rispedite tutte al mittente con la conferma del giudizio espresso, questo nonostante ognuno degli istanti avesse chiesto un giudizio in comparazione con un congruo numero di elaborati evidentemente non rispondenti ai criteri di valutazione; 

non poche appaiono le anomalie proprio riguardo alla composizione della commissione esaminatrice, presieduta da un prefetto a.r. da oltre tre anni, nonostante la normativa richiamata nel bando prevedesse che non potesse essere nominato presidente di commissione un prefetto a.r. da oltre tre anni; un suo componente, inoltre, era anche l'autore del testo di preparazione al concorso, di cui era coautore un consigliere del TAR del Lazio, stesso organo amministrativo deputato a giudicare i ricorsi; altri componenti non erano neppure laureati in Legge, in antitesi alle previsioni normative in materia di concorsi che prevedono che i componenti delle commissioni per i concorsi pubblici debbano essere scelti tra esperti nelle materie d'esame; 

nonostante tutto quanto precede, il concorso in argomento si è svolto in maniera spedita e anche nella prova orale ed in quella attitudinale si sono registrate delle anomalie; 

la prova orale, ad esempio, è stata caratterizzata da due diverse sessioni (mattutina e pomeridiana) che si sono svolte nella stessa giornata, ma la delibera del giudizio viene comunicata solo alla fine della seconda sessione e diversi candidati esclusi hanno lamentato anche qui delle evidenti disparità di trattamento; 

ancor più evidenti sono le contraddizioni emerse nella prova attitudinale, che è stata svolta malgrado al concorso partecipassero agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria aventi almeno 12 anni di servizio, da tempo anche assegnati ad incarichi superiori, visto che nel ruolo degli ispettori, proprio a causa dei «mancati concorsi», vi è una carenza di organico di circa 11.000 unità; 

ciò nonostante, dopo aver superato una prova preselettiva, una prova scritta ed una prova orale, alcuni candidati sono stati esclusi dal concorso in seguito a tali «accertamenti» che, pare, spesso hanno riguardato aspetti personali poco attinenti con il solo ruolo da ispettore –: 

se nello svolgimento del concorso di cui in premessa sia stato e sarà garantito il precetto costituzionale di cui all'articolo 97, comma 1: «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione», atteso che il primo passo per l'attuazione del disposto costituzionale è legato a procedure di cristallina trasparenza per il reclutamento ed indefettibile certezza di preparazione dei candidati ai concorsi pubblici; 

quali iniziative il Governo assumerà in merito al prossimo corso di formazione per vice ispettore della polizia di Stato visto che, qualora fossero confermate le circostanze generalizzate in premessa, sarebbero state violate le norme sulla trasparenza nei concorsi pubblici; 

quali iniziative vorrà intraprendere il Governo, atteso che nel ruolo degli ispettori della polizia di Stato vi è una carenza organica di oltre 11.000 posti; 

quali iniziative vorrà prendere il Governo in ragione del fatto che l'imminente riordino delle carriere suggerirebbe di considerare l'ampliamento del numero dei candidati da ammettere al corso di formazione per vice ispettore della polizia di Stato; 

quali iniziative vorrà intraprendere il Governo per approntare una tutela in favore di quella parte di uomini e donne della polizia di Stato che dovesse risultare ingiustamente esclusa dal concorso; 

se il Governo non ritenga opportuno assumere iniziative per pervenire comunque ad un riequilibrio organico del ruolo degli ispettori, garantendo altresì, a tutti i candidati che saranno ritenuti meritevoli, una posizione di equità in adesione ai princìpi di cui agli articoli 3 e 97 della nostra Costituzione. (4-14042) 

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta n. 4-13538 presentata da Tofalo Angelo. Martedì 21 giugno 2016, seduta n. 639. TOFALO. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'Interno. — Per sapere – premesso che:

è in corso di svolgimento il concorso interno per 1400 vice ispettori della polizia di Stato, concorso bandito nel mese di settembre 2013, per il quale sono state presentate circa 22.000 domande;

sembrerebbe che l'analisi dei compiti non sia stata uniforme, alla luce di quanto emerso dai candidati esclusi che hanno acquisito tutti gli atti del procedimento amministrativo, compresi tutti gli elaborati che la commissione ha giudicato idonei;

sembrerebbe che ci siano anomalie anche nella composizione della commissione che ha corretto i compiti;

se sia stato e sarà garantito il precetto costituzionale di cui all'articolo 97, comma 1, secondo il quale «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati secondo il quale il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione»;

quali determinazioni ed iniziative intendano intraprendere in merito al prossimo corso di formazione per vice ispettore della polizia di Stato visto che, da quanto emerge, sembrerebbero essere state disattese le norme sulla trasparenza nei concorsi pubblici e sulla formazione della commissione;

quali determinazioni ed iniziative intenda intraprendere il Ministro interrogato, atteso che nel ruolo degli ispettori della polizia di Stato vi è una carenza organica di oltre 11.000 posti, ossia oltre il 50 per cento della pianta organica. (4-13538)

Concorso Vice Ispettori: gli esclusi devono avere delle risposte, scrive Il Sap Nazionale il 21 marzo 2016. I candidati non idonei alla prova scritta del concorso per 1.400 posti da Vice Ispettore devono avere delle risposte e tanti dei loro elaborati risultano non essere inferiori di altri che hanno superato l’esame. E’ quanto emerge con chiarezza dalla lettera inviata il 18 marzo 2016 dal SAP al Capo della Polizia Alessandro Pansa e per conoscenza al Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Secondo il SAP non è accettabile che i numerosi colleghi risultati non idonei alla prova scritta del concorso siano così bistrattati anche quando, dopo il difficilissimo accesso agli atti, hanno scoperto le carte e le hanno messe sul tavolo. Documenti che sono stati analizzati dallo stesso Sindacato, il quale condivide quanto è stato rappresentato da molti degli esclusi. Non c’è mai stata una manifestazione di dissenso così forte. Basti pensare che è stata costituita anche un’associazione chiamata “Tutela e Trasparenza” con l’obiettivo di tutelare i colleghi esclusi ingiustamente dalla prova scritta. La stessa associazione ha ricordato che la pubblica amministrazione deve assicurare il rispetto dei principi costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità, senza dimenticare il principio di trasparenza che deve valere anche per gli appartenenti alla Polizia di Stato. Il SAP auspica che l’Amministrazione riveda i temi giudicati non idonei e rivaluti quelli che effettivamente risultano meritevoli di consentire l’accesso alle prove orali. Da ultimo, e forse la cosa più importante, l’Amministrazione deve valutare un allargamento dei posti previsti dall’attuale bando, che avrebbe costi esigui e non paragonabili con quelli abnormi che si dovranno affrontare con il concorso esterno.

L’incontro organizzato dall’associazione “Tutela & Trasparenza” che si è svolto lunedì 7 marzo 2016 a Milano presso Hotel Galles, relativa all’esito dell’accesso agli atti della prova scritta per 1400 v.isp, è stato un autentico successo di pubblico. Il Presidente Walter Massimiliani ha approfondito il discorso, ricostruendo per intero gli avvenimenti che hanno portato all’incontro e, dopo aver precisato che non si tratta di una guerra a coloro che sono stati ritenuti idonei alla prova scritta ma semplicemente di una richiesta di equità di giudizio, ha mostrato alcuni dei numerosi elaborati che sono stati analizzati e per i quali sono state rilevate evidenti criticità sotto vari punti di vista, in particolare:

presenza di elaborati con segni o frasi non inerenti lo svolgimento della traccia;

elaborati con ampi passi identici a testi o link presenti sulla rete;

elaborati con contenuti palesemente inadatti e scarsi dal punto di vista sintattico grammaticale e/o di concetti giuridici. L’Avvocato Leone il 28 gennaio 2016 ha preso parte all’importante incontro/dibattito svoltosi all’Hotel Holiday Inn di Cava de’ Tirreni (SA) in merito al ricorso per il Concorso Interno per 1400 Vice Ispettori della Polizia di Stato, organizzato dalla Associazione di agenti “Tutela e Trasparenza”. Tantissimi i presenti accorsi presso la sede designata, per cercare di approfondire dal punto di vista giuridico il bando di concorso, che presenta una serie di criticità degne di nota, nonché la fase di correzione e di valutazione degli elaborati che, in modo manifesto, appare illogico e illegittimo.

Al fine di consentire di capire di cosa stiamo parlando descrivo brevemente il concorso in argomento: nel mese di giugno 2014 si è svolta una prova preselettiva articolata con nr. 80 quiz a risposta multipla su 5 materie d’esame (diritto penale, procedura penale, diritto amministrativo, diritto civile, diritto costituzionale) cui hanno partecipato 22mila candidati ed alla quale sono risultati idonei 7032 candidati;

nel mese di gennaio 2015 si è svolta una prova scritta consistente nella stesura di un elaborato di diritto penale, conclusa da 6355 candidati ed alla quale sono risultati idonei 2127 candidati che hanno riportato una votazione superiore a 35/50.

Il 17 dicembre 2015, a distanza di 11 mesi dalla prova scritta, è stata diffusa una lista degli idonei che sin da subito a suscitato forti dubbi di correttezza per la distribuzione dei voti. Infatti oltre 2/3 degli idonei (più di 1400) hanno superato la prova con il voto di 35/50; nessun candidato ha conseguito 34/50 e solo in 73 hanno conseguito la sufficienza compresa tra 30/50 e 33/50. Inoltre una gran parte dei candidati sono stati valutati non idonei con il voto di 25/50 e 28/50. Si evidenzia che l’associazione “Tutela & Trasparenza”, ha effettuato un accesso agli atti straordinario e storico richiedendo ed ottenendo TUTTI i 2127 elaborati dei candidati idonei e TUTTI gli atti endoprocedimentali. L’analisi di tale materiale effettuata con una task force di colleghi poliziotti che in dieci giorni ha controllato tutti gli elaborati, ha permesso di scoprire delle considerevoli anomalie, in particolare:

numerosissimi elaborati con palesi errori sintattico grammaticali diffusi;

numerosissimi elaborati con palesi errori concettuali grossolani e confusione su elementi basilari di diritto penale tali da stravolgerne completamente le basi;

numerosi elaborati singolarmente identici a libri di testo e/o da documenti rinvenuti sulla rete internet;

alcuni elaborati con segni o con messaggi di testo rivolti alla commissione come: SI RINGRAZIA PER L’ATTENZIONE, NOTA PER IL FUNZIONARIO CHE CORREGGE, SCUSATE PER LA CALLIGRAFIA E GRAZIE et.

Il lavoro dell’associazione non si è comunque esaurito in tale fase, sono stati infatti presentati circa 400 ricorsi al TAR, circa 50 al Presidente della Repubblica e circa 150 istanze di ricorrezione al Dipartimento di P.S., tali numeri hanno di fatto bloccato le udienze in Camera di Consiglio al TAR Lazio al punto che ad oggi non risultano ancora calendarizzati la maggior parte dei ricorsi.

D'altronde di cosa parliamo: è tutta “Cosa nostra”. Si sa la famiglia in Italia è sacra.

Parliamo del Corpo Forestale. Amici e parenti la grande famiglia della Forestale. E’ sempre una notizia attuale e quindi utile leggere l’articolo de “La Stampa” del 13 maggio 2009 riguardo il Corpo Forestale. I figli di dirigenti e comandanti alla corte di papà. Bravi. Anzi, bravissimi. Ma non c’erano dubbi, visto che spesso la sapienza passa di padre in figlio. E così, da una parte il caso, dall’altro le conoscenze e le tante doti è accaduto che tra i 500 vincitori al concorso allievi per il Corpo forestale, molti tra questi sono figli di comandanti, dirigenti, uomini di stretta vicinanza del capo del Corpo, Cesare Patrone. Il fato, infatti, è stato così generoso nei loro confronti, che molti di costoro sono stati, addirittura, assegnati nelle stazioni dove comandano i loro capo famiglia. Non sfugge, infatti, che la sorte abbia riservato a Matteo Colleselli la stazione di Candaten proprio nell’area dove papà, comanda la regione Veneto; e così è accaduto a Stefano Piastrelli figlio del capo di Perugia, o a Massimiliano Giusti discendente diretto del numero due della regione Umbria. Ma le regalie della dea bendata non finiscono qui. Tanto che a trarne beneficio è toccato pure a Matteo Palmieri, «omonimo» del capo della segreteria del Corpo e destinato in Puglia, terra d’origine, a Francesco Polci (figlio del vice comandante d’Abruzzo assegnato a Chieti), a Massimo Priori (omonimo del caposervizio del personale assegnato a Livorno), a Vittorio Scarpelli (figlio del dirigente del servizio ispettivo assegnato nel vicino Abruzzo), nonché al figlio del comandante di Taranto, Pasquale Silletti, assegnato alla stazione di Cassano Murge a Bari, a Dante Stabile, parente del capo di Napoli finito alla stazione di Boscoreale in Campania. E’ chiaro, però, che la fortuna non poteva girare a tutti. Ma dove non osò la sorte, giunsero i «pizzini» del patronato: per Alfonso, figlio di Rosetta, per Emidio figlio di Cesarina di zio Antonio, o per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria. E ancora, per Massimiliano, cugino di Rosetta, ma anche per Paolo che è nel cuore di zio Domenico e altri. Del resto si sa, in Italia le cose marciano spedite solo se stanno veramente a cuore a qualcuno. E tra le camicie verdi del Corpo Forestale la regola, stavolta, non fa eccezione. I capisaldi sembrano tre: l’ambiente e il soccorso, il rispetto della legge ma anche la famiglia. Non a caso, infatti, a capo del Corpo è finito Cesare Patrone, figlio dell’ex geometra della Forestale, Michele. Al suo fianco ci sono anche il fratello Amato (sovrintendente), la moglie di quest’ultimo Serena Pandolfini (sovrintendente), Domenico, zio del capo ma ora in quiescenza, dalla fulgida carriera e la figlia di quest’ultimo Rosa, primo dirigente del Corpo, la quale classificatasi quarta al concorso da primo dirigente (i posti erano tre) si è vista riconoscere dall’amministrazione il ruolo, ma senza arretrati per la decorrenza della nomina dal 1 gennaio 2002 (data del posto vacante), secondo quanto stabilito dall’ufficio centrale del bilancio del Ministero. Nomina sì, dunque, ma senza «indennizzo». Ma per la serie, la speranza è l’ultima a morire, ecco che in soccorso di Rosa Patrone, la Camera ha approvato un emendamentino ad hoc che si «applica anche agli idonei nominati, nell’anno 2008, nelle qualifiche dirigenziali» e che risarcisce e stabilisce anche le quantificazioni economiche: oltre 177mila euro per il 2008, 24mila per il 2009 e altri 24 mila per il 2010. Insomma, un indennizzo niente male, che desta non pochi malumori. Così come destano sorpresa i risultati del concorso per 182 posti da vice ispettore. Dopo la prova scritta tra i primi posti a piazzarsi ci sono i più stretti collaboratori del capo del Corpo. Uomini certamente brillanti e qualificati come il suo autista Domenico Zilli (voto 30 su 30), Marco Giurissich della segreteria (30/30), Amato Patrone, fratello del capo (30/30), Noemi La Motta, segretaria del capo (29,5/30), Serena Pandolfini, la cognata di Patrone (29,5/30), Claudio Bernardini, segreteria della cugina del capo del corpo (29/30), Cristiano De Michelis, assistente del capo (29/30), Quintilia Pomponi, segreteria della cugina del capo (29/30), Vania La Motta, sorella di Noemi, cognata di Zilli l’autista del capo. Tanta conoscenza e bravura, nelle prove scritte, ha stupito il parlamentare del Pdl, Marco Zacchera che in una interrogazione spiega «che dall’esame dei 50 concorrenti che hanno superato il punteggio di 28/30 appaiono alcune anomalie, ovvero che ben 32 di essi hanno sede di lavoro a Roma, molti negli uffici dell’ispettorato generale, mentre altri 8 hanno sede di lavoro in Calabria e solo 10 nel resto d’Italia», e quindi chiede «di accertare se i testi dei quiz siano stati resi pubblici a nicchie» e se non si ritenga di «dover sospendere il concorso». Niente da fare, ovviamente. Il concorso va avanti, così come procede spedita anche un’altra interrogazione. Stavolta, a siglarla è il parlamentare leghista, Maurizio Fugatti al quale non sfugge che «dei 29 candidati che hanno riportato voti tra il 29 e il 30, ben 21 provengono dal medesimo ispettorato generale». Attitudini spiccate? Chissà. Di certo, nemmeno Fugatti sembra capacitarsi di «un personale così altamente qualificato in servizio all’ispettorato - scrive - e che sarebbe consigliabile correggere tale squilibrio sul territorio nazionale, assegnando a compiti territoriali almeno parte delle migliori risorse ora collocate a mansioni amministrative». Ma nonostante ciò al Corpo si guarda avanti. L’attenzione nelle ultime ore è rivolta a tutta una serie di promozioni varate in una delle riunioni del cda della Forestale presieduto dal ministro Zaia. Anche qui, la fortuna ha lasciato il segno. Tangibile, ma solo per pochi, «posandosi» sui fascicoli di nove candidati, otto dei quali del nord Italia e Veneto, che così hanno ottenuto il punteggio massimo pur non avendo alcuni titolo speciale valutabile.

Polizia penitenziaria, concorso con il trucco: 90 denunciati. Lo rivela il sindacato Fns-Cisl: nel giorno della prova scritta i partecipanti sono stati colti sul fatto con radiotrasmittenti, auricolari e bracciali contenenti risposte alle domande. Sequestrati gli «aiuti». L’esame, valido per 400 posti, non è stato annullato, scrive il 26 aprile 2016 "Il Corriere della Sera”. Neanche agli esami di maturità si è mai arrivati a tanto: candidati in possesso di radiotrasmittenti, auricolari, bracciali contenenti risposte alle domande e colti sul fatto il giorno della prova scritta per il concorso per allievi agenti penitenziari. Tutti gli «aiuti» illegali sono stati sequestrati da una apposita task force di vigilanza, schierata alla prova di esame che si è tenuta a Roma il 20 aprile scorso. La denuncia è della sigla sindacale Cisl Fns (Federazione nazionale sicurezza), secondo la quale una novantina di autori della tentata truffa sono stati già segnalati all’autorità giudiziaria. Il concorso si è svolto alla Nuova Fiera di Roma il 20, 21 e 22 aprile. Vi hanno partecipato 11 mila uomini per 300 posti e duemila donne per cento posti. I dubbi su possibili irregolarità erano emersi già nei giorni precedenti, visto che voci in merito giravano da qualche tempo: per questo l’amministrazione penitenziaria aveva disposto una task force composta da agenti del Nic (Nucleo investigativo centrale) e da due commissari. Tutte e tre i giorni le operazioni di controllo e sequestro del materiale, svolte da personale della polizia penitenziaria, hanno molto allungato i normali tempi di svolgimento del concorso, che si sono protratti fino all’una di notte e addirittura fino alle tre di notte l’ultimo giorno. Diversi partecipanti sono stati denunciati a piede libero e a loro volta hanno fatto i nomi di altre persone. Il concorso non è stato annullato.

Roma, trovate radiotrasmittenti al concorso agenti penitenziari, in 50 avevano già le risposte, scrive “Il Messaggero” il 26 aprile 2016. Radiotrasmittenti, auricolari, bracciali contenenti le risposte, cellulari contraffatti, cover dei telefonini con all'interno le soluzioni. C'era un pò di tutto al concorso per agente penitenziario che si è svolto a Roma, complesso della nuova Fiera, il 20, 21 e 22 aprile scorsi. A scoprire la vicenda è stata la stessa amministrazione penitenziaria, che avendo captato da una serie di rumors già prima delle prove, ha predisposto un'apposita task force, formata da uomini del Nic, il Nucleo investigativo centrale, e da due commissari, scelti appositamente tra quanti non avessero partecipato in precedenza ad attività di controllo nei concorsi per agenti carcerari. Il caso è emerso dopo la segnalazione di un sindacato di polizia, la Cisl Fns, che ha reso nota l'apertura di un'indagine da parte dell'autorità giudiziaria per individuare i responsabili. E, dalle prime ricostruzioni, emerge che sarebbero una novantina - 88, secondo le prime indicazioni - gli indagati, e tra questi una cinquantina di persone trovate in possesso delle risposte d'esame. Ma i contorni e l'esatto quadro delle responsabilità sono ancora da chiarire, anche rispetto a un punto molto delicato: l'eventuale pagamento di denaro per ottenere gli aiuti. Le verifiche non sono solo sul piano penale, ma anche su quello amministrativo. Non a caso, lo stesso ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha immediatamente chiesto una relazione urgente sul caso al capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. Al concorso - che al momento non è stato annullato - hanno partecipato 11mila uomini per 300 posti e 2mila donne per cento posti. Tutte e tre i giorni di prova, le operazioni di controllo e sequestro del materiale, svolte da personale della polizia penitenziaria, hanno molto allungato i normali tempi di svolgimento del concorso, che si sono protratti fino all'una di notte e addirittura fino alle tre di notte l'ultimo giorno. Molti dei partecipanti, denunciati a piede libero, hanno a loro volta fatto i nomi di altre persone coinvolte. L'indagine della Procura di Roma dovrà chiarire se elementi del sistema penitenziario, non solo e non tanto a livello centrale, ma anche nelle diramazioni territoriali, abbiano avuto un ruolo e se ci siano figure esterne coinvolte. E andrà accertato se sono fondate talune indiscrezioni secondo cui partecipanti al concorso abbiamo pagato somme di denaro- fino a 25mila, secondo le stesse indiscrezioni - per ottenere aiuti e soluzioni anticipate delle prove d'esame.

Avvocati, De Tilla (Anai): “gli esami di avvocato sono una lotteria”, scrive "AGENPARL") il 29 febbraio 2016. Numero programmato all’Università, con selezione al quarto anno e successivo anno specialistico: l’Associazione nazionale avvocati propone un diverso percorso selettivo per arrivare alla pratica della professione forense. «Bisogna cominciare dall’Università con un numero programmato in uscita da selezionare al quarto anno con un successivo anno specialistico per la professione forense. Ha illustrato il presidente Anai Maurizio De Tilla – Dovrà poi seguire un anno e mezzo di tirocinio serio e continuativo, alternato ad una formazione adeguata (di tipo francese) finanziata possibilmente dallo Stato. L’esame di abilitazione finale è il sigillo finale di un percorso rigoroso in base ad una scelta definitiva per il professionista. Tutto ciò porterà ad una sensibile riduzione degli iscritti agli albi, ma non c’è altra soluzione allo scottante problema dell’accesso». «Un tempo i giovani laureati in giurisprudenza, dopo la pratica forense che durava un anno, accedevano ad un esame selettivo e si affacciavano alla professione forense con il titolo di procuratore legale – ha continuato De Tilla – Dopo sei anni diventavano avvocati. Gli avvocati non erano più di quarantamila. Oggi, si accede direttamente, dopo diciotto mesi di pratica, all’esame di avvocato, con esami di abilitazione che sono, più che una prova selettiva, una lotteria per la disuguaglianza delle sedi e delle Commissioni esaminatrici che correggono gli scritti e procedono con un metodo incrociato con gli esami orali effettuati in altri Distretti. Si susseguono disparati giudizi di valutazione nella correzione degli scritti, combinati a non poche copiature, oltre che a raccomandazioni agli orali. Recentemente è stato accertato che una fonte diffusa per dare un buon esito agli scritti è data dall’uso durante gli esami di siti appositamente attrezzati al fine di offrire un aiuto ai partecipanti. Gli esami di abilitazione non sono, quindi, più attendibili». Di qui secondo l’Anai, la necessità di riformare integralmente e subito il percorso per l’accesso alla professione di avvocato, che parta dal numero programmato all’Università con un percorso selettivo che non si affidi solo alla lotteria dell’esame di abilitazione finale.

Parliamo della Avvocatura. E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in avvocatura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dal dr Antonio Giangrande, che ha provato sulla sua pelle per ben 17 anni l’ignominia e la gogna di non essere all’altezza per una funzione meritatissima. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. Ha scritto dei saggi in base alla sua esperienza. Ha pubblicato dei video per chi non vuol leggere. Per questo gli hanno inibito la professione di avvocato e, addirittura, processato per aver denunciato e scritto cose che tutti sanno.

Potevano bastare questi esempi per dimostrare l’illibatezza dei nostri tutori della legalità? Certo che no!!

Sotto inchiesta gli esami da avvocato. Oltre sessanta indagati con l’accusa di falso: hanno copiato il compito da un sito internet specializzato in legge, scrive Alfonso T. Guerritore il 18 dicembre 2016 su “La Città di Salerno". Sono oltre sessanta gli aspiranti avvocati che la Procura di Nocera Inferiore ha messo sotto inchiesta per l’esame di stato svoltosi nel dicembre del 2015 all’Università degli studi di Salerno, negli spazi del campus di Fisciano. Sono indagati con l’accusa di falso in concorso, per aver tentato di ingannare la commissione d’esame copiando gli elaborati da un sito internet. L’indagine è arrivata all’attenzione degli uffici giudiziari di Nocera dopo il passaggio a Salerno, trasferita per competenza territoriale perché nel dicembre dello scorso anno il territorio della Valle dell’Irno era già passato dalla giurisdizione del Tribunale di Salerno a quella di Nocera. La segnalazione agli inquirenti del capoluogo era partita da Brescia, distretto di Corte d’Appello che era stato incaricato tramite sorteggio delle correzioni degli oltre mille compiti scritti svolti a Salerno. È stato nel corso di quelle correzioni che ci si è accorti che sessanta compiti (65 secondo le indiscrezioni) erano del tutto uguali. Quella copiatura pedissequa, senza modifiche che potessero introdurre elementi di originalità, ha tradito gli esaminandi, mettendo i commissari sulle tracce di un telefono cellulare da cui sarebbe partita la connessione internet per il sito che metteva a disposizione lo svolgimento delle tracce d’esame. La notizia ha provocato non poca agitazione nei corridoi del palazzo di giustizia nocerino, visto che tra gli autori dei compiti sospetti vi sono un sottufficiale dei carabinieri, il figlio di un magistrato e un ufficiale della Guardia di Finanza. Le assegnazioni del corposo filone riguardano due diversi uffici, affidati ai sostituti procuratori Giuseppe Cacciapuoti ed Ernesto Caggiano, i quali potrebbero esaminare separatamente le posizioni degli aspiranti avvocati, aprendo distinti fascicoli d’inchiesta. Seppure al momento i dettagli dell’indagine restino sottoposti al segreto istruttorio, l’allerta è già scattata per il folto gruppo di praticanti approdati l’anno scorso al difficile scoglio dell’esame di abilitazione alla professione, alcuni già “falciati” nel corso delle passate sessioni. Lo scandalo 2015, che nei prossimi giorni sarà sottoposto a ulteriori approfondimenti, è una sorta di aggiornamento di una storia che si ripete a intervalli regolari. Esplode all’indomani della sessione di esame del 2016, anch’essa interessata da lamentele, chiacchiere su brogli veri e presunti e ipotesi di successivi esposti. La scena di ogni sessione d’esame vede le aule presidiate da commissari e controllori, il silenzio dell’attesa e il terno al lotto delle tracce, con richieste di aiuto all’esterno per affrontare la stesura di atti, ricorsi e trattazioni nei diversi ambiti del lavoro legale. Nel mirino, come sempre, ci sono le assistenze tramite web e telefonini, con il divieto di comunicazione via cellulare, il sequestro di apparecchi smart e le temute sospensioni all’istante per gli esaminandi colti in fallo. «È uno schifo, ancora una volta. I controlli e i divieti non valgono per tutti», commenta una praticante reduce dalla sessione 2016 che si impone anonimato e riservatezza. Non si escludono, anche per quest’anno, esposti, azioni legali e richieste di controllo, con la coda dei ricorsi a ingolfare l’exitus ufficiale della prova. Il riferimento delle lamentele, neanche troppo velate, va dritto al monitoraggio severo delle schiere di esaminandi che prevederebbe, al solito, una muraglia di controlli nelle aule individuate per le prove, ma con falle che secondo alcuni sarebbero previste ad hoc per favorire e lasciar correre gli aiuti ai soliti noti. L’inchiesta giudiziaria è soltanto agli inizi, ma già ha suscitato clamore tra le migliaia di iscritti e aspiranti all’ambìto e inflazionato ordine professionale dell’avvocatura. Il dito di ogni candidato, prima ancora di conoscere l’esito finale, prima di ogni ulteriore ed eventuale inchiesta, punta sui favoritismi.

Le Cronache svela come i praticanti hanno copiato l’esame di avvocato, scrive il 18 dicembre 2016 "Salerno Notizie". La prova di civile sulle successioni e un’altra prova di penale sarebbero state tra quelle più taroccate dalla sessantina di aspiranti avvocati nell’esame scritto del dicembre dello scorso anno. Interi parti copiate ed un atto giudiziario scaricato da internet per la prova della terza giornata. I commissari della corte d’Appello di Brescia, chiamati a correggere i compiti dei 800 candidati circa, provenienti dal distretto salernitano, si sono accorti delle prove scritte copiate, molte allo stesso modo da diversi esaminandi, e hanno segnalato alla Procura di Salerno quanto avevano appurato. Lo scrive il quotidiano Le Cronache oggi in edicola e il primo a dare la notizia relativa all’esame del 2015 taroccato. La sessantina di candidati delle prove del 2015, quelle corrette entro giugno di quest’anno – scrive Le Cronache – , non sarebbero, quasi tutti, tra i 210 salernitani ammessi agli orali. Evidentemente, non è stata molto fruttuosa la pratica forense fatta presso lo studio di qualche noto papà o zio avvocato, di cui ci si poteva vantare tanto. Come diceva il padre della genetica Gregor Mendel “I libri studiati dai padri non si ereditano se non sugli scaffali”. Cosi anche se il papà è un magistrato a Nocera Inferiore o se sei un sottufficiale dei carabinieri in servizio a Nocera Inferiore. Intanto, ieri si sono diffuse notizie false e cioè che le indagini riguardassero le prove scritte sostenute quest’anno, svolte poche ore fa. Una voce diffusasi perchè diverse decine di candidati sarebbero stati riconosciuti per avere il telefonino con sé durante la prova pur se non consentito. E sarebbe proprio il telefonino “l’arma del delitto” nel caso dei compiti copiati nel 2015 all’università di Salerno. In altri concorsi, sono state svolte indagini anche abbinando i nomi dei “copiatori” ai loro posti a sedere per stabilire se i compiti da copiare siano passati di mano in mano e chi fosse presente a vigilare e quali legami avesse con i candidati. Intanto la sessantina di compiti la procura di Salerno l’ha inviata nei giorni scorsi alla procura di Nocera Inferiore competente per Fisciano, dove ha sede l’Università di Salerno e dove si sono svolti gli esami scritti per superare l’abilitazione all’esercizio della professione forense ed essere iscritto all’ordine degli avvocati. Probabilmente, le indagini saranno affidate a un magistrato di provata esperienza anche per fugare ogni dubbio su ipotetici favori per la presenza del figlio di un collega o di un sottufficiale dell’Arma dei carabinieri.

Tra bocciati record e correzioni fantasma, i praticanti avvocato chiedono trasparenza sull'esame. A Palermo nasce il movimento #praticantealzalatesta. I ragazzi scrivono al ministro della Giustizia Orlando per chiedere trasparenza nella correzione dei compiti, scrive Nadia Ferrigo il 9/07/2016 su “La Stampa”. «C’è qualcuno che sa svolgere la prova di penale? Lei? Bene. Posso fotocopiare il suo compito, così lo passo a un ragazzo che proprio non sa niente?». La surreale richiesta è stata rivolta a uno dei candidati alla seconda prova del concorso di avvocatura della Corte d’Appello di Palermo: una tra le tante scorrettezze che hanno convinto gli aspiranti togati a reagire con il movimento#praticantealzalatesta. «Ho rifiutato di consegnare il mio compito perché fosse fotocopiato e distribuito agli altri candidati - racconta uno dei portavoce del movimento che ha scelto di parlare a nome del gruppo -. Solo 404 su 1.122 hanno superato lo scritto, tra questi a nche una ragazza che ha firmato il compito. È inaccettabile. Il ricorso per poter accedere agli atti è una scelta individuale, ma vogliamo far sentire la nostra voce: a Palermo come nel resto d’Italia, l’esame da avvocato è un calvario dall’esito incerto». Anche il preside della facoltà di Giurisprudenza siciliana Camilleri in un’intervista al quotidiano La Repubblica ha affermato che trai bocciati ci sono anche alcuni laureati dell’università di Palermo risultati i migliori durante l’ultimo concorso in magistratura. Per diventare avvocato, oltre a un praticantato di due anni, bisogna superare una prova scritta divisa in tre parti: parere di diritto civile, penale e la redazione di un atto. Gli esami sono a dicembre, la correzione arriva solo a giugno, da settembre si inizia con gli orali: una trafila che in tutto dura un anno e mezzo. Quest’anno la media delle di chi è passato agli orali è ancora più bassa che in passato, poco più di un terzo: il capoluogo con più promossi è Torino, circa il 58 per cento, a Milano invece sono appena il 35 per cento, a Napoli il 29 per cento.  Con il blog #praticantealzalatesta e una lettera al ministro della Giustizia Andrea Orlando i praticanti palermitani chiedono più trasparenza nella correzione dei compiti. A oggi non esistono tabelle di valutazione, nè criteri: chi chiede di rivedere gli scritti nella stragrande maggioranza dei casi si trova davanti a pagine immacolate, senza nessuna correzione. Oltre a una risposta del ministro che ancora non è arrivata, tra gli intenti del blog c’è creare una rete tra i praticanti: le perplessità e le difficoltà, a Palermo come a Milano, sono sempre le stesse. Le storie sono tante, ma è difficile trovare chi ha voglia di esporsi. Claudia, nome di fantasia, 31 anni, si è laureata con ottimi voti all’università di Pavia e lavora da quattro anni in uno studio milanese: per lei è la quarta bocciatura. «Ho sempre richiesto di vedere i miei compiti, sperando di poter imparare dai miei errori. Ma non ho trovato nessuna correzione, niente di niente. Li ho fatti leggere ad alcuni avvocati, per tutti erano assolutamente validi. La sensazione è quella di partecipare a una lotteria». Stessa storia, ma con un finale diverso per Alberto, altro nome di fantasia, praticante nel foro di Torino e ora diventato abogado in Spagna: la normativa europea consente infatti di prendere l’abilitazione in un qualsiasi paese europeo, per poi chiederne l’abilitazione anche in Italia. Cosìproliferano i professionisti dell’esame in trasferta. «Non ne vado fiero, sto aspettando il riconoscimento del titolo anche in Italia - racconta Alberto -. Dopo sei anni da praticante, dopo aver frequentato ogni corso di preparazione possibile con un gran dispendio di soldi ed energia senza successo, per me ormai l’esame era diventato un incubo».  

Test per avvocato, i post della vergogna: «Cambiate le parole altrimenti annullano». Nel forum del sito che aiutava i candidati, decine di richieste, tracce e commenti, scrive Titti Beneduce il 27 febbraio 2016 su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Si chiama mininterno.net, ma con il ministero dell’Interno non c’entra nulla. È il sito, invece, su cui quelli che partecipano a concorsi pubblici cercano non solo sostegno morale o dritte, ma proprio le tracce dei temi. In modo da poter copiare. Su mininterno.net, lo scorso dicembre, la chat degli aspiranti avvocati era rovente. Il giorno 15, primo degli scritti, fin dalle otto del mattino si percepiva l’impazienza di procurarsi l’argomento del compito. Erano familiari, fidanzati e amici dei candidati che si preparavano a confezionare i temi, mentre gli aspiranti avvocati, col cellulare silenziato e nascosto, attendevano fiduciosi:

«Forza ragazzi! Qualcuno ha novità?»

«Ancora credo non abbiano dettato in nessuna sede!»

«Postate le tracce al più presto che vi aiuto»

«Ci sono anche io per aiutare!»

«Buongiorno a tutti ragazzi! anch’io per il terzo anno consecutivo sono qui a prestare il mio aiuto... C’è nessuno dalla Basilicata? Lo scorso anno fu tra le prime a dettare».

«Ciao ragazzi, anche io sono qui per aiutare, per la mia compagna che lo fa a Napoli. Condividerò appena ho info. Unione fa la forza!»

Qualcuno dissente: «Ma fatemi capire la gente è con i cellulari dentro quindi e li usa? Solite cose all’italiana...»

E viene coperto di insulti: «Ma perché non ti vai a fare un giro? ma guarda te... fatti i fatti tuoi e sparisci. Solite cose all’italiana? Dici? Ma ti rendi conto che questo non è un concorso pubblico ma una mera abilitazione... Abilitazione che per altri ordini è automatica o quasi. Per noi avvocati deve essere invece uno stress e uno strazio completo sia fisico sia psichico. Ma vai va’... sei un povero, povero povero e non aggiungo altro per decenza».

Quando gli insulti si fanno più pesanti, la persona replica così: «Sono avvocato dal 19 novembre di quest’anno e lo scorso anno non ho copiato da nessuna parte (mi sono portata solo le maschere); il mio fidanzato oggi è a fare lo scritto dopo essere stato ingiustamente bocciato all’orale ma di certo non ha portato con sé il cellulare né io lo aiuterò da fuori. È una questione di decenza anche se si tratta di una buffonata. Poi ognuno fa quello che vuole ma non la trovo una cosa corretta. Se non mi credete vi do nome e cognome e controllate voi stessi se ho superato o meno lo scritto».

Molti ammettono che l’esame è «una farsa»: «Se gli esami fossero svolti correttamente, a cominciare da chi dovrebbe controllare all’interno dei padiglioni e invece spesso chiude un occhio, altre volte invece li sbarra entrambi, beh nessuno oggi sarebbe qui. Evidentemente quest’esame è una farsa, ma tant’è esiste e va superato».

La prima traccia viene postata alla 10.40, la seconda alle 11.03. Poco dopo arrivano anche i temi, che parenti e amici smisteranno prontamente ai candidati. Non mancano le raccomandazioni: «Soluzione traccia 2. Eventualmente decidete, non copiatela identica, mi raccomando».

«Ragazzi, cambiate le parole altrimenti si rischia l’annullamento del compito...».

La discussione continua fino a sera per riprendere il mattino successivo. Qualcuno ancora dissente: «Due temi così facili e c’è anche chi fotografa in aula? Dove siamo arrivati. E questi saranno gli avvocati del futuro?»

Altri si preoccupano di cancellare i post «compromettenti», in un italiano da brividi: «Poiché la finalità era aiutarci a superare l’esame e te ne siamo davvero grati - e l’anno scorso sono stati annullati migliaia di compiti riportando l’indirizzo della pagina da cui era stato copiato l’esame - volevo chiederti di eliminare il commento della traccia cosicché da non essere motivo di espulsione».

Come diventare avvocato copiando all’esame. Bufera sul concorso di Napoli. Noi nel 2009 avevamo già documentato i controlli inesistenti, scrive Antonio Crispino e lo documenta su Corriere TV il 25 febbraio 2016. «Milano smaschera Napoli», «Trento smaschera Potenza», «Catania smaschera Lecce». Periodicamente sui giornali si leggono titoli di questo tipo. Si riferiscono alle prove d’esame che le commissioni di turno annullano agli aspiranti avvocati che si cimentano con l’esame di Stato. Perché risultano essere elaborati copiati dalla prima all’ultima parola. I candidati di una regione, infatti, sono esaminati da una commissione di provenienza territoriale diversa, scelta tramite sorteggio dal ministero della Giustizia. «Il 20% dei compiti consegnati a Napoli sono risultati copiati» scriveva il Corriere del Mezzogiorno riferendosi alle sedute del 15-16 e 17 dicembre scorso dove si presentarono circa 6000 aspiranti avvocato. Una percentuale che nella realtà è anche più alta a giudicare da quello che avevamo documentato già nel 2009 a Roma. È il 16 dicembre e all’hotel Ergife si svolge la seconda prova scritta per diventare avvocato. Le domande devono essere presentate per via telematica sul sito della Giustizia ma questo non impedisce di entrare anche senza aver fatto nulla di tutto ciò. Come facciamo noi. Saltiamo i controlli (abbastanza di manica larga, la calca all’ingresso ci agevola) e entriamo nell’aula con migliaia di candidati. Del resto già il fatto che riusciamo a varcare l’ingresso con una telecamera la dice lunga. Non tutti si presentano, basta occupare un posto vacante. Su ogni banco c’è un’etichetta con il nome dell’aspirante avvocato prenotato. Poco prima di iniziare è facile individuare quelli che mancano. E così fingiamo di essere praticanti e ci sediamo, non prima di aver sfilato qualche foglio protocollo dagli altri banchi. Sono forniti tassativamente dalla commissione e hanno un timbro in alto a destra che ne certifica la provenienza. Prima di aprire le buste con le tracce un commissario passa per vedere se ognuno ha il suo foglio timbrato. Potremmo essere chiunque. Anche un familiare, un amico di un candidato venuto per aiutare il parente o l’amico. O magari sostituirci a un’altra persona. Ma a giudicare da quello che vediamo nemmeno ce ne sarebbe bisogno. Ci fingiamo avvocati per un giorno, facciamo l’esame, copiamo e nessuno ci controlla. Dopo la dettatura della traccia (quando andiamo noi si svolge la prova di diritto penale) iniziano le consultazioni. Poi il passaggio dei vari testi, codici, riassunti, appunti. Di tutto di più. Chi proprio non riuscisse a parlare con tranquillità in aula può sempre recarsi nei bagni dove si forma una specie di commissione consultiva. Noi siamo fortunati. Il vicino di sedia è preparato ed è quello che si preoccupa di dare le dritte a tutti gli altri. Noi chiediamo di più: «Mi detti il compito? Non ho fatto la pratica e non so niente». Aspettiamo che svolga il suo e poi inizia la dettatura. Dopo appena tre ore abbiamo il nostro tema bello e fatto. Nel frattempo gli altri si scambiano di tutto. C’è persino un ragazzo con un auricolare. Siamo un po’ distanti e non riusciamo a capire se sia a telefono con qualcuno. Ogni tanto tasta la mano sull’orecchio. Anche la consegna deve passare al vaglio della commissione. Ma quando decidiamo di aver visto abbastanza, prendiamo borsa, telefono e telecamera e andiamo via.

Avvocati, bufera sul concorso. Annullate due prove su dieci. I compiti di Napoli corretti a Milano, risulterebbero copiati da un sito web specializzato, scrive Patrizio Mannu su "Il Corriere del Mezzogiorno" il 24 febbraio 2016. Copia copiella e se si tratta della versione di latino al liceo, passi. Ma se parliamo d’una prova d’esame per diventare avvocato, be’, allora la cosa si complica. E parecchio. Tanto che il concorso potrebbe arrivare in Procura, fino — nell’ipotesi peggiore — per essere annullato. Accade tutto a Milano, sede di corte d’Appello, che quest’anno esamina gli elaborati dei candidati di Napoli alla professione di avvocato. Ebbene, fino ad oggi, «alla quarta settimana di correzione — spiega al Corriere del Mezzogiorno una fonte qualificata — il 20 per cento degli elaborati risulta copiato». Il ministero dell’Interno è stato avvisato; i compiti fino a oggi sgamati, annullati. La bufera è soltanto all’inizio. Il 15, 16 e 17 dicembre dello scorso anno, circa 6.000 aspiranti avvocato si presentano alla Mostra d’Oltremare; 4.400 quelli residenti nel territorio di competenza della Corte di Appello di Napoli (in queste settimane esaminati a Milano). Sono ai cancelli dalle 6 del mattino, fa freddo, e la fila la si vede già da viale Augusto. Entrano e prendono posto nei banchi. Davanti a loro tre prove: un parere in tema di Diritto civile; uno in Penale, il terzo è un atto a scelta fra Civile, Penale e Amministrativo. Si comincia: si sfogliano i Codici, si mordicchiano le penne; terminata la prova, tutti gli scritti sono raccolti, imballati e inviati a Milano per le verifiche incrociate fra Corti d’Appello: quella meneghina opera su quella partenopea. Da qualche anno gli abbinamenti si sorteggiano, in maniera tale da evitare percentuali bulgare di promossi. Quando non era così, ci sono stati casi come quello storico di Catanzaro con il 95% dei promossi. Insomma, le correzioni cominciano il primo di febbraio. Al lavoro 15 sottocommissioni da 10 membri ciascuna, si dovrebbe terminare (a meno di altre sorprese) a metà aprile. È a 900 chilometri di distanza da Napoli che si scopre il fattaccio. «Abbiamo notato — racconta la nostra fonte — che una buona parte dei compiti consegnati era copiata. Non parliamo di ispirazione, ma di una copiatura furibonda. Parola per parola, virgola su virgola. Alcuni temi erano evidentemente uguali fra loro, e questo tutto sommato è comprensibile, ma la stragrande maggioranza dei testi era stato preso da un sito: mininterno.net, che ha pubblicato le tracce e poi le soluzioni. Oggi, soltanto per fare un esempio, su 10 elaborati esaminati, 2 erano copiati». Ecco il raggiro. Chiariamo subito: il sito mininterno.net non è del dicastero guidato da Alfano, né in alcun modo gestito dallo stesso. È un portale come tanti se ne trovano sul web, specializzati e pronti alla soffiata. Operazione utilissima e a buon fine «visto che — spiega la fonte — un quarto d’ora dopo la lettura delle tracce, le medesime sono state postate sul sito. Un’ora e mezza più tardi anche le soluzioni». E dal web al foglio di protocollo come ci sono arrivate? Più della preparazione potè lo smartphone. «È chiaro — spiega ancora la fonte — che i candidati hanno utilizzato i cellulari di ultima generazione per collegarsi al web e scaricare le soluzioni». Un cellulare in “classe”? Evidentemente sì. La prova, come detto, s’è tenuta a Napoli, i controlli, semmai le perquisizioni, avrebbero dovuto farli qui; probabilmente non tutto avrà funzionato. «Ricordo — afferma ancora la fonte — che quando fui in commissione d’esame in una precedente prova, noi a Milano controllammo finanche negli zaini». Evidentemente tutto questo non è stato, simm’e Napule paisà. Tutte le prove scritte risultate copiate sono state immediatamente annullate. Il 20%, fino a ora, dei candidati non vestirà la toga grazie a questo concorso. «Per intanto — racconta la fonte — abbiamo allertato l’ispettore ministeriale (ce n’è uno per ogni sessione di verifica) e messo a verbale le irregolarità riscontrate. Ora il ministero della Giustizia dovrà decidere cosa fare e come intervenire». Teoricamente le strade sono molteplici: il blocco dell’esame in attesa di verifiche; l’annullamento, addirittura, dell’intero concorso; l’allertamento della Procura. Insomma, sarebbe tutto da rifare. I furbetti del compitino sono avvisati.

Test copiati all’esame per avvocati. «Niente fondi per controlli efficaci». De Carolis, presidente della Corte d’Appello di Napoli, ammette: «Situazione frustrante» continua Patrizio Mannu su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sempre colpa dei denari, che sono pochi; anzi, non ci sono proprio. E senza quelli, niente metal detector, niente controlli. Così la fanno franca i furbetti del compitino; la bufera è quella che ha investito l’esame per avvocato tenutosi a Napoli alla fine dello scorso anno: le prime correzioni delle prove — sotto verifica in questi giorni a Milano — hanno evidenziato che il 20% dei test risulta copiato da un sito web. Copiato perché — ipotizza una delle commissioni meneghine (sono 15 quelle alle prese con gli scritti dei 4.400 aspiranti avvocato napoletani) — in aula sarebbero stati introdotti degli smartphone, cosa vietatissima, con i quali scaricare le giuste risposte. «Evidentemente qualcosa non ha funzionato nei controlli», aveva detto ieri una fonte qualificata al Corriere del Mezzogiorno. L’Ordine degli avvocati di Napoli è pronto a dare a Cesare quel che è di Cesare. «Devo precisare — spiega in un comunicato il presidente Armando Rossi — che l’organizzazione degli esami di avvocato è di competenza esclusiva delle Corti d’Appello. L’Ordine si limita soltanto all’indicazione e designazione di parte dei componenti delle commissioni di esame, che vengono scelti tra gli avvocati iscritti alle giurisdizioni superiori, con esperienza almeno ventennale, vera espressione della prestigiosa avvocatura napoletana».

Presidente Giuseppe De Carolis, lei è a capo della Corte di Appello di Napoli. L’organizzazione è di sua competenza. Dunque?

«È vero. È la Corte di Appello a sovrintendere gli aspetti organizzativi dell’esame, di concerto con la commissione, presieduta da un avvocato. Per l’espletamento dei controlli ci avvaliamo delle forze dell’ordine che presidiano gli ingressi, ognuno con una propria competenza sulla zona assegnata».

E fin qui siamo alla procedura da manuale. Il fatto è che sembrerebbe che in aula siano stati introdotti dei cellulari, con i quali sarebbero state scaricate le risposte ai test.

«Il problema è questo: Internet. Interrompere la connessione al web. Con il presidente della commissione avevamo pensato di schermare l’intera zona (quella della Mostra d’Oltremare, dove si sono svolte le prove, ndr) in maniera tale da non essere raggiunta dal segnale».

E perché non l’avete fatto?

«Da un lato, perché non abbiamo un budget talmente ampio da permetterci di coprire i costi. Dall’altro, perché i tecnici ci hanno spiegato che era impossibile farlo in così poco tempo. Troppo complicato».

Complicazioni che hanno allargato le maglie dei controlli, nei quali è passato più di un cellulare...

«Posso immaginare. Ma le ho detto...».

Sa quanto è costato approntare la tre giorni di esami?

«Non ricordo, per essere più preciso dovrei chiedere ai miei uffici».

Presidente, va bene la complicazione di schermare le sale. Si potevano installare dei metal detector sullo stile degli aeroporti.

«Ci abbiamo pensato e sarebbe stato l’ideale. Ma ripeto, come Corte di Appello non abbiamo tante risorse. Tenga conto, che filtrare attraverso i metal detector i candidati avrebbe comportato un dispendio di tempo enorme. Sarebbero dovuti arrivare quattro o cinque ore prima».

Tuttavia mi sa che anche le perquisizioni hanno lasciato qualche varco.

«Guardi, le forze dell’ordine hanno fatto quel che potevano. Ma tenga conto che perquisire minuziosamente 6.000 persone, cioè i candidati, poi i commissari e i vari addetti non è cosa facilissima. Se su 6.000 persone qualche cellulare è sfuggito è possibile. Tenuto conto delle situazioni che ho spiegato. Pensi che anche in Tribunale, nonostante i controlli qualcosa sfugge. Ricorda la polemica di qualche tempo fa al tribunale di Milano?».

Presidente, la vedo allargare le braccia. S’abbandona ad un fatalismo frustrante.

«Sì, certo è frustrante. Che dirle? facciamo il fuoco con la legna che abbiamo».

Secondo lei due compiti copiati su dieci è una percentuale alta? E dico: parliamo di aspiranti avvocato, di chi in futuro dovrà essere garante del Diritto e della legalità.

«Le ripeto, è una storia frustrante. Non so se due compiti copiati su dieci è una percentuale alta. Bisogna capire da dove si parte. E potrei ribaltare: è almeno consolante che otto candidati sono stati onesti».

C’è una via d’uscita?

«Svolgere la prova in una unica sede, come accade per il concorso in Magistratura. Il ministero ne assuma l’intera responsabilità, operando a livello nazionale e appostando anche risorse».

Quali esiti avrà la bufera, è tutto da vedere. Per adesso tutte le prove scritte risultate copiate sono state immediatamente annullate. La commissione milanese ha allertato l’ispettore ministeriale (ce n’è uno per ogni sessione di verifica) e messo a verbale le irregolarità riscontrate. Ora il ministero della Giustizia dovrà decidere cosa fare e come intervenire. Teoricamente le strade sono molteplici: il blocco dell’esame in attesa di verifiche; l’annullamento, addirittura, dell’intero concorso; l’allertamento della Procura. Insomma, sarebbe tutto da rifare. I furbetti del compitino sono avvisati.

Esami di avvocato, l’opinione di Orazio Abbamonte su “Il Roma”. Sono giorni che sui quotidiani cittadini, a seguito d'uno scoop del Corriere del Mezzogiorno, s'è sviluppato un singolare dibattito sull'esame d'abilitazione all'esercizio della professione d'avvocato. In breve: risulterebbe che una cospicua percentuale degli elaborati presentati dai candidati come opera propria, forse il 20 %, sarebbe stata mutuata pedissequamente da una chat, una delle tante e ben note dove filantropici esperti pubblicano in tempo reale lo svolgimento delle prove sottoposte agli aspiranti togati. Addirittura, la notizia è di ieri, niente di meno che la Procura della Repubblica partenopea avrebbe manifestato l'intenzione d'approfondire il tema per verificare la configurabilità d'ipotesi di reato. Molti hanno fatto le mostre della meraviglia quando hanno appreso della vicenda; altri hanno preferito minimizzare, ascrivere i casi alla categoria dell'eccezione; altri ancora hanno stabilito improbabili comparazioni con diverse professioni del mondo giuridico, i notai ed i magistrati. Insomma, solite esibizioni nostrane, non molto diverse da quelle ciclicamente animate dalla scoperta di malati in barella o dell'assenteismo negli uffici. Qualche giorno di battage e poi tutto resta com'era. Perché del fenomeno si guardano sempre gli effetti e giammai le cause, sarebbe troppo scomodo perché poi bisognerebbe intervenire. Non credo di dover temere la scure degli inquirenti cittadini se rendo una testimonianza dell'effettività delle cose, non foss'altro per il tempo, lungo ahimé, trascorso. Gli esami d'avvocato, una volta si definivano di procuratore, in partibus infidelium, vale a dire da Napoli in giù (ma anche un po' più in su) sono sempre stati una gran bailamme. Ricordo d'averli sostenuti in quel di Potenza, per due ragioni: perché i risultati si avevano in tempi ragionevoli (in città, all'epoca, erano necessari anche più di due anni d'attesa, solo per le prove scritte) e perché a Napoli non era nemmeno ipotizzabile provarsi a pensare: forse copiare era soluzione necessitata, tale e tanta era la confusione che regnava durante lo svolgimento delle prove, generalmente allestite in strutture destinate normalmente ad attività sportive. Dire che si copiasse è poco: in realtà, quel che veniva fuori era il frutto della collaborazione di distretti di candidati, spontaneamente sviluppantesi per ragioni logistiche, con tanto d'ufficiali di collegamento fra distretti per gli opportuni confronti. Ed ovviamente non mancavano le fonti, vale a dire maree di fotocopie, rimpicciolite alla bisogna, che venivano cavate da ogni anfratto dell'abbigliamento, singolarmente sovrabbondante, che candidati e candidate – talora simulanti l'imminente procreazione – usavano indossare per l'evenienza. Oggi, evidentemente le cose sono mutate, grazie alla tecnologia che ha reso superflui i travestimenti. Ma mutate negli strumenti, non nella sostanza. Io non ho mai svolto funzioni da commissario, se non in quel del Molise su indicazione della mia Università e molti anni or sono. Non mi sono mai proposto né mai il mio Consiglio dell'Ordine ha mai creduto di chiedermelo, indicando colleghi certamente più idonei. Quindi non posso sapere per scienza diretta quanto accade oggi. Per scienza diretta no, ma indiretta ho anch'io le mie esperienze e mi limito a dire che non ho provato alcuna meraviglia circa l'accaduto. Conosco l'ambiente professionale e ciò che quell'esame produce, sicché tante ipocrite reazioni mi paiono del tutto fuor di luogo. Per la semplice ragione che la selezione tale non è, indipendentemente dal fatto che l'esame lo si superi copiando o concependo il proprio compitino. Sono cose banali, che non si sa perché nessuno osa dire. Ed in luogo della forza della ragione, interviene quella della Procura. Cosicché tutto rimarrà come prima, fino alla prossima sorpresa.  

Esame di avvocato e lo scandalo ciclico delle copiature. L’Opinione del dr Antonio Giangrande, scrittore, blogger e youtuber. Bufera sul concorso di Napoli. Noi nel 2009 avevamo già documentato i controlli inesistenti su Roma, scrive Antonio Crispino e lo documenta su Corriere TV il 25 febbraio 2016. «Milano smaschera Napoli», «Trento smaschera Potenza», «Catania smaschera Lecce». Periodicamente sui giornali si leggono titoli di questo tipo. Si riferiscono alle prove d’esame che le commissioni di turno annullano agli aspiranti avvocati che si cimentano con l’esame di Stato. Perché risultano essere elaborati copiati dalla prima all’ultima parola. I candidati di una regione, infatti, sono esaminati da una commissione di provenienza territoriale diversa, scelta tramite sorteggio dal ministero della Giustizia. Basta prendersela con qualche candidato per giustificare l’incapacità di tutti. Da sempre si copia tra candidati o si detta da parte dei commissari. Certo che nè giornalisti, né magistrati osano verificare quello che di ignobile succede dentro le stanze buie e segrete dove si riuniscono le commissioni di esame. Da arrestare tutti. I compiti sono dichiarati falsamente letti e corretti: cosa non vera. Giornalisti e magistrati verifichino i tempi dedicati al singolo elaborato rispetto ai tempi di apertura e chiusura del verbale e verifichino sugli elaborati quanti errori sono stati corretti. Ho scritto un libro per dimostrare che da sempre l’esame forense è truccato ed ho scritto un altro libro per dimostra che tutti i concorsi pubblici sono truccati, anche quello per magistrati. In questo caso coloro che sono stati abilitati con tale sistema, commissioni di esame e magistrati inquirenti e giudicanti, hanno il coraggio di perseguire?

Da quanto analiticamente già espresso e motivato si denota che violazione di legge, eccesso di potere e motivi di opportunità viziano qualsiasi valutazione negativa adottata dalla commissione d’esame giudicante, ancorchè in presenza di una capacità espositiva pregna di corretta applicazione di sintassi, grammatica ed ampia conoscenza di norme e principi di diritto dimostrata dal candidato in tutti e tre i compiti resi.

1.     Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa, rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte d’Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità, (spesso fino al doppio) per tempo e luogo d’esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%, nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le sottocommissioni del Nord Italia. I Candidati sperano nella buona sorte dell’assegnazione. La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.

2.     Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.

3.     Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella materia di riferimento.

4.     Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione.

5.     Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.

6.     Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della Commissione d’esame centrale e si contesta contestualmente l’assenza del presidente della Iª sottocommissione.

7.     Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito.

Puglia, la beffa dei ricercatori: vincono il bando per essere assunti, ma alla fine vengono presi altri. I precari avevano partecipato al bando regionale “Future in Research” per 170 posti proponendo i loro progetti. I nuovi assunti con contratto triennale da 150mila euro non saranno però loro, scrive Francesca Russi il 7 febbraio 2016 su “La Repubblica”. Partecipano a un bando regionale destinato ai ricercatori pugliesi precari e propongono il loro progetto. La loro idea viene selezionata da una commissione nazionale e vince il concorso. Ma non c’è nessun premio in palio per loro. Anzi. I progetti migliori ottengono un finanziamento da 26 milioni di euro che consente ai quattro atenei pugliesi di assumere tramite concorso 170 ricercatori. La beffa, però, è che i nuovi assunti, con contratto triennale da 150mila euro, non saranno gli autori del progetto. È il pasticcio del concorso "Future in Research", destinato alle “eccellenze della ricerca pugliese”, bandito a dicembre 2013 dall’Agenzia regionale per la tecnologia e l’innovazione. In ballo ci sono 26 milioni del Fondo europeo per lo sviluppo e la coesione per favorire il “ricambio generazionale” nelle università pugliesi, che così potranno assumere 170 ricercatori a tempo determinato. I partecipanti al bando sono tenuti a indicare nel progetto “un unico dipartimento universitario per le attività di ricerca”. A ottobre 2014, dopo una selezione fatta da una commissione con docenti provenienti da tutta Italia, viene pubblicata la graduatoria regionale. Si passa così alla seconda fase dove nulla è scontato. “Anche perché – racconta Antonio Giampietro, uno dei ricercatori beffati - al momento del bando ci avevano fatto firmare una rinuncia ai diritti economici sull’idea e chi è precario purtroppo firma pur di partecipare”. La Regione rilascia ai dipartimenti indicati delle quattro università pugliesi (80 posti soltanto a Bari) le idee migliori su cui bandire, a fine 2015, il concorso per reclutare i ricercatori. Un concorso per titoli e pubblicazioni, però, nazionale a cui si presentano precari da tutta Italia. “Succede che ogni commissione d’esame stabilisce i criteri di selezione – spiega Giampietro, ricercatore di letteratura italiana contemporanea – senza dare in molti casi un maggior punteggio a chi aveva vinto il progetto. Io mi sono trovato a competere con altri sette ricercatori tutti più grandi di me dagli 8 ai 13 anni con una carriera più lunga e più pubblicazioni. Così mi sono trovato nella situazione di aver passato una selezione senza vincere nulla: abbiamo regalato le nostre idee e 150mila euro a qualcun altro. Intanto continuo a lavorare gratis, cerco di arrangiarmi con contrattini esterni perché se una commissione nazionale mi ha detto che ho delle idee buone e che sono capace di fare il ricercatore ne vale la pena”. Come lui sono in tanti i ricercatori beffati. “È finita così per quasi il 30 per cento dei partecipanti” fa i conti Giampietro. “Vale così poco la paternità di un’idea?”, si chiedono ora gli esclusi.

Ordine dei giornalisti, all’esame il metal detector ferma i reggiseni. Ragazze costrette a toglierlo. L'improbabile scena allo scritto per diventare professionisti. Il presidente dell'Ordine lo aveva persino scritto nel vademecum: "Evitate quella marca con i gancetti magnetici". Per le malcapitate previsto un separè. E molto imbarazzo, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 5 febbraio 2016. Roma, Hotel Ergife. Ritrovo alle ore 8.30 per uno degli appuntamenti più importanti della vita lavorativa: l’esame da giornalista professionista. Peccato che per i 180 candidati, ed in particolare le quasi 90 donne iscritte alla sessione, ci sia un ostacolo in più da superare: il terribile metal detector attraverso cui passare prima di arrivare in aula, che non perdona pc, smartphone e tablet che potrebbe avvantaggiare gli aspiranti reporter durante la prova. Ma che suona all’impazzata anche per qualsiasi oggetto di metallo, scatenando un caos che dura ore. Rallentamenti e disagi per tutti i candidati, già sotto stress per l’importanza della prova. Imbarazzi soprattutto per le ragazze, però. Perché se agli uomini è bastato togliersi orologi, catenine e braccialetti, in certi i casi anche le scarpe, per le donne il problema è stato un po’ più “intimo”: il metal detector si è rivelato particolarmente sensibile ai gancetti dei reggiseno, in particolare di quelli a chiusura magnetica tanto in voga di recente. Il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino, lo aveva detto nel vademecum di preparazione: nel glossario inviato a tutti gli iscritti c’era un’apposita sezione intitolata “reggiseno”. “Ecco che infilo la testa nella ghigliottina. Premesso che non lo indosso (sono pure dimagrito, da ultimo), una signora magistrato mi informa che la chiusura magnetica del reggiseno prodotto da una diffusissima marca… molto intima (niente pubblicità) fa impazzire il metal detector. Mi scuso con le colleghe, ma questo so e questo dico senza osare indicare rimedi (sono anche un po’ bacchettone e parlare di certe cose mi imbarazza)”. L’avvertimento evidentemente non è servito: forse non tutte avevano letto, molte assicurano che il metal detector ha fatto le bizze anche con i semplici gancetti. Sta di fatto che per sostenere l’esame la maggior parte delle candidate ha dovuto improvvisare una specie di spogliarello. Via il reggiseno, davanti ad una pattuglia di ispettori formata da soli uomini. Visto che il problema si era già verificato in passato, stavolta nella sala delle ispezioni era stato approntato un piccolo separè dietro cui cambiarsi. Non proprio un baluardo di riservatezza, giusto due pannelli posizionati un po’ maldestramente accanto ai tavoli dove tutti i candidati, ragazzi compresi, dovevano lasciare borse e cappotti (qualcuno attardandosi un po’ più del dovuto per godersi lo “spettacolo”…). Almeno un passo avanti rispetto all’ultima volta, quando era stato chiesto di sfilarsi il reggiseno da sotto il maglione davanti a tutti. In certi casi, però, neanche lo striptease ha risolto la questione, col metal detector che continuava a suonare e illuminarsi allo sfilare delle ragazze senza biancheria. Col povero Iacopino che, accorso al perdurare dell’intoppo, si rivolgeva timido alla malcapitata dicendo: “Avvicinati che ti dico un segreto nell’orecchio”, alludendo al problema del reggiseno. E la ragazza, molto più esasperata che imbarazzata: “Presidente, è da un pezzo che me lo sono tolto il reggiseno, ma continua a suonare”, sventolando il capo di biancheria. Dopo due ore e mezza di code e lamentele, tutti sono riusciti a superare il temuto ostacolo. E in un paio di casi proprio irrisolvibili gli ispettori hanno deciso di chiudere un occhio. L’esame è cominciato alle 11.45 ed è finito sei ore dopo. Per i risultati ci vorranno una ventina di giorni, poi a marzo gli idonei dovranno sostenere la prova orale. L’ultima per diventare professionisti, stavolta senza bisogno di spogliarsi.

Giornalisti, ecco quanto costa essere professionisti, scrive Eleonora Bianchini il 7 dicembre 2013 su "Il Fatto Quotidiano". Ho finito il praticantato al Fatto Quotidiano.it. Fatto l’esame, passato, giornalista professionista. Evviva. Siamo partiti, più o meno, in 300 allo scritto e siamo arrivati in 170 all’orale. Insieme a noi c’erano parecchi disoccupati e precari, magari con una famiglia a carico. Ho fatto qualche calcolo su quanto ho speso per questo esame. Senza polemiche o strumentalizzazioni, si tratta di cifre oggettive che dimostrano quanto la professione costi cara anche in un periodo di crisi, tagli ai giornali, licenziamenti e disoccupazione. Vediamo:

- Corso a Fiuggi (obbligatorio per accedere all’esame per chi non ha fatto una scuola di giornalismo o non ha potuto seguire il corso organizzato presso l’ordine regionale): 450 euro;

- Tassa d’esame: 400 euro;

- Posta certificata obbligatoria: 15,73 euro.

Passo lo scritto e, quindi, accedo all’orale. Promossa, ma i costi non sono finiti. Una volta portato all’Ordine regionale di appartenenza il documento che attesta il superamento dell’esame, bisogna pagare (leggi):

- Tassa d’ammissione: 100 euro;

- Costo della tessera: 16 euro;

- Marca da bollo: 16 euro;

- (chi prima non era già pubblicista deve aggiungere 168 euro come “tasse di concessioni governative”).

Così siamo già a 997 euro, centesimi esclusi. E meno male che ero già pubblicista. Poi ci sono le spese vive per chi non abita a Roma e si deve spostare per sostenere scritto e (se va bene) orale. Due prove che coincidono spesso anche con due notti di albergo. Quindi:

- Viaggi Milano/Roma, 2 andate e ritorno: mettiamo che una persona sia fortunata e trovi una tariffa economy per il Frecciarossa a 49 euro. Moltiplichiamo per 4: 196 euro;

- Albergo: 50 a notte. Totale: 100 euro.

Escludiamo il costo delle raccomandate postali, visto che ho mandato tutto via pec (ed è l’unico uso che ho fatto di quella casella di posta creata ad hoc per l’esame di Stato) e i 100 euro circa che dovrò pagare a gennaio, come tutti gli anni, per la tassa annuale di iscrizione all’Ordine. Il mio totale è più o meno di 1.293 euro. Per tanti, uno stipendio. Per chi non ha uno stipendio, un salasso. E senza contare che, in teoria, chi è iscritto all’albo da meno di 10 anni viene cancellato dopo due anni di inattività. O almeno, così dice una regola dell’Ordine.

Formalismi del cazzo. COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME DI AVVOCATO PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA PER 17 ANNI SONO DICHIARATI TALI. DEVI SUBIRE E DEVI PURE TACERE, IN QUANTO NON VI E' RIMEDIO GIUDIZIARIO O AMMINISTRATIVO.

Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 dal dr Antonio Giangrande contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante tutti gli altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo con identiche doglianze hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti,  R.G. n. 1647 del 2012, e dell'avv. Angelo Vantaggiato, R.G. n. 1469 del 2012, in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza, perchè, a detta della Corte per il primo: "Infatti, il parere di diritto penale risulta estremamente sintetico, sostanziandosi in una pagina e mezza, limitandosi a riportare gli articoli di legge, relativi ad un solo reato ipotizzabile nella fattispecie in esame, e la relativa giurisprudenza". Oppure per il secondo: "Passando al vaglio della prova sostenuta dal ricorrente, non sono ravvisabili i profili di erroneità della valutazione denunciati in quanto il parere di diritto civile risulta estremamente sintetico tanto che lo stesso ricorrente dichiara di non aver “avuto modo di completare definitivamente l’elaborato” (p. 7 del ricorso); elaborato che si sostanzia in una facciata e mezza e si limita a riportare gli articoli con la relativa giurisprudenza". Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar è stato oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente. Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti!

Alcune puntualizzazioni sul Diritto di Cronaca, Diritto di Critica, Privacy e Copyright.

In seguito al ricevimento di minacce velate o addirittura palesi nascoste dietro disquisizioni giuridiche, per ledere il mio diritto di cronaca e di critica e non essendoci ragioni valide per farlo se non quelle soggettive dell’istante di soprassedere ad un problema di interesse pubblico, che era tale fino a sua abilitazione avvenuta, tengo a precisare che la cortesia di acconsentire a qualsivoglia richiesta è nel mio dna, così come anche il mio essere refrattario alle intimidazioni e, quindi, al pari loro si palesa quanto segue. Quanto riferito in questa pagina riguarda solo l'inchiesta svolta sull'operato della giustizia amministrativa a Lecce e le sue ricadute sull'esame di abilitazione all'avvocatura, con conseguente danno a scapito degli utenti, in violazione del principio di legalità, imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione. I riferimenti ad atti pubblici ed a persone ivi citate, non hanno alcuna valenza diffamatoria e sono solo corollario di prova per l'inchiesta. Le persone citate, in forza di norme di legge, non devono sentirsi danneggiate. Ogni minaccia di tutela arbitraria dei propri diritti da parte delle persone citate al fine di porre censura in tutto o in parte del contenuto del presente dossier o vogliano spiegare un velo di omertà su come si svolge l'abilitazione forense sarà inteso come stalking o violenza privata, se non addirittura tentativo di estorsione mafiosa. In tal caso ci si costringe a rivolgerci alle autorità competenti.

Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza.

Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)".

La nuova normativa concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;

può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;

può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;

non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili.

Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa.'''

Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar è stato oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente. Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti! 

Parliamo del notariato. Notai, quante strane sviste nel concorso. Svarioni e cantonate, alcune anche molto gravi: ma i candidati sono promossi lo stesso. Sull'esame per entrare nell'Ordine si allungano ombre, scrive Francesca Sironi il 19 dicembre 2016 su “L’Espresso”. È lo sbarramento all’ingresso dell’ultima ambizione di casta. Il passaggio obbligato per l’accesso a una categoria che - seppur lamenti crisi - rimane in testa alle classifiche di reddito, con 200 mila euro all’anno dichiarati in media dai suoi professionisti. È il traguardo di lunghi studi e dura gavetta, ma soprattutto la prova che tributa il ruolo di pubblico ufficiale a chi firmerà atti, registri e documenti sancendone l’autenticità con il sigillo della Repubblica. Sul concorso notarile si addensano quindi molte speranze. Ma ora anche nuove domande. Almeno a leggere quanto rileva una denuncia che ipotizza reati sul bando per 300 nuovi notai indetto nel settembre del 2014 - di cui gli esami scritti si sono svolti l’anno scorso, e gli orali sono andati avanti fino allo scorso 6 dicembre. Dopo aver chiesto l’accesso alle correzioni d’esame, a cui aveva partecipato lei stessa, l’autrice dell’esposto si è trovata tra le mani decine di compiti in parte irregolari, testi redatti con imprecisioni tali, segnala nell’esposto, da renderli nulli secondo la legge in almeno dieci casi, ma a cui sono stati assegnati ugualmente voti sufficienti a traghettare i candidati verso il traguardo della nomina a notai, ormai prossima. Nell’elenco ci sono inciampi evidenti anche per chi non ha dimestichezza con gli strumenti del mestiere - come un atto in cui un sordomuto, «legge ad alta voce» le proprie disposizioni per l’eredità - e altri più tecnici, ma significativi per chi proprio in quella tecnica fa risiedere parte della specificità di un ruolo ancora saldamente nelle mani di meno di cinquemila persone nell’intero paese. Fra gli altri, un candidato sarebbe stato ammesso all’orale pur avendo all’interno del proprio elaborato una pagina scritta a mano con una calligrafia diversa da tutto il resto del suo testo.

Stesso compito, due grafie completamente diverse. L’indagine giudiziaria avviata in seguito alla denuncia è stata chiusa nell’arco di pochi mesi, e i pm della procura di Perugia titolari dell’inchiesta e competenti perché coinvolti otto magistrati romani che fanno parte della commissione, hanno chiesto al gip l’archiviazione. Decisione alla quale si è opposta la denunciante che ha segnalato al giudice, che ancora deve decidere, altri errori presenti negli elaborati. E pure nuovi quesiti sulla validità di giudizi formulati dalla commissione del concorso.

Il concorso notarile è «una delle selezioni più serie e meritocratiche d’Italia», afferma Gianluca Abbate, consigliere nazionale dell’ordine: «Lo monitoriamo perché il numero di professionisti resti limitato». E spiega: «Ci stiamo adeguando alle norme sulla concorrenza che prevedono l’ingresso di altri 800 notai in ruolo attraverso gli ultimi due esami». E aggiunge che vengono selezionati in modo «del tutto imparziale, come ora accade». L’esame per entrare nella ridotta schiera è un test in cui bisogna «dimostrare una perfetta conoscenza delle tecniche redazionali dell’atto pubblico, oltre che della teoria legale», spiegava il notaio Lodovico Genghini ai suoi studenti. «Io stesso la prima volta sono stato bocciato perché avevo dimenticato un formalismo», racconta Ludovico Capuano, ex presidente dei giovani notai: «Certo, non era una questione di contenuto, solo un dettaglio. Ma rendeva il documento invalido nella sua ufficialità. Per cui hanno fatto bene a rimandarmi». Se lo dice lui, che ha rappresentato la categoria al Senato nella discussione per l’ultimo decreto legge sulla concorrenza, è così che andrebbero allora lette le irregolarità evidenziate nella relazione sul bando del 2014. Nella denuncia alla procura di Perugia viene fatto riferimento a oltre dieci elaborati che andrebbero considerati nulli perché inciampano in errori evidenti, si spiega nell’esposto, se confrontati con la legge notarile. E invece hanno ricevuto voti di 35, 37, 38 punti ciascuno, abbastanza da portare i candidati all’orale. Altri 70 presenterebbero insufficienze meno gravi, ma comunque rilevabili.

Il cliente sordomuto "ha dato lettura ad alta voce". Alcune si concentrano sulla traccia con la quale i commissari chiedevano ai duemila partecipanti al concorso di sviluppare le volontà sul testamento di un ricco possidente, un uomo che non aveva la possibilità di udire e parlare. Ed ecco: c’è chi dimentica di citare subito l’interprete, scrivendo che «il comparente dichiara di essere sordomuto e di saper leggere e scrivere»; chi scorda di far sottoscrivere l’atto anche al testimone-traduttore; chi pur spiegando che «d’ora in poi ogni dichiarazione resa e ricevuta dal signor T. s’intende effettuata a mezzo dell’interprete», ci tiene a precisare quella lettura "ad alta voce" nelle battute finali. Altre inesattezze riguardano invece la liquidazione di un patrimonio immobiliare: in diversi compiti mancano, o sono errati, i riferimenti a planimetrie e catasto. Per una «parziale omissione» simile a quella in cui cadono alcuni dei candidati promossi, per dire, un notaio di Roma ha dovuto subire a giugno una sanzione disciplinare da 214 mila euro, per 415 atti zoppi. Formalismi?

Sulla denuncia (rivelatasi così accurata da far riconoscere ai commissari, ad esempio, la trascrizione sbagliata di un voto, che è stato poi corretto al ribasso nel verbale) viene avviata un’indagine. Gli investigatori prendono copia dei compiti. E interrogano il vicepresidente della commissione, un consigliere della corte d’appello, che alle domande sugli errori evidenziati nell’esposto risponde: «Non posso escludere che possano esservi state sviste, o interpretazioni non perfettamente collimanti», ma sulla valutazione delle stesse, dice, andrebbe sentito un notaio, e lui non lo è. L’indagine viene chiusa presto, senza che nessun notaio venga sentito, e viene richiesta l’archiviazione; ora è stata depositata un’opposizione alla decisione della procura. Intanto, i praticanti promossi stanno per diventare effettivi notai. Fra loro non mancano i “figli di” - «questa della casta ereditaria è una leggenda», ribatte, sul tema, il Consiglio dell’Ordine: «L’82 per cento dei notai non è figlio di notaio» - fra i promossi con le presunte irregolarità l’erede di un celebre notaio non manca. Come d’altronde fra gli esaminatori. «È stata una bella esperienza, far parte della commissione, ma mi sono stancata molto», racconta un notaio che faceva parte della squadra dei valutatori. «Siamo stati tutti molto attenti a che non ci fossero pressioni», dice, su eventuali favoritismi. «Sono andata proprio per verificare questo», aggiunge. «Certo, può capitare che qualcuno ce l’abbia fatta e qualcun altro no, pur con lo stesso errore, magari», precisa. «Ma se è successo è stato per stanchezza e per stress: ci hanno messo molta pressione sul far presto. Io sono stata accurata al massimo, ma non sempre alla fine della giornata riesci ad avere la stessa lucidità». Insomma, sarebbe stato solo affaticamento da controllo - in 12 mesi - di mille e trecento elaborati, dice il commissario. Tale da non far riconoscere imprecisioni sulle quali «non c’è spazio interpretativo», secondo la candidata che ha denunciato: «Perché la legge notarile a riguardo è incontrovertibile». Sui forum dei praticanti notai rimbalzano nel frattempo i dubbi di sempre. Tra la frenesia per gli scritti che si sono appena conclusi in vista dell’ingresso di altri 500 notai, l’entusiasmo, gli auguri. E le memorie dei test precedenti.

Un compito con omissione dell'ora di sottoscrizione. «Io c’ero, certo, e chi se lo dimentica», ricorda il giovane notaio Capuano. Il riferimento è al concorso del 2010, quando l’intera platea dei candidati si sollevò perché una delle tracce assegnate ai presenti era simile, troppo simile, a un tema già sottoposto ai propri studenti da una scuola notarile di Roma. Gli scritti vennero sospesi. Le prove ri-assegnate. Polemiche, dibattiti, ricorsi. Poi, più nulla. Di nuovo, nel 2013, un notaio che era stato nominato commissario d’esame venne sostituito dopo un commento su Facebook in cui aveva scritto: «Ne ho già le scatole piene»; aggiungendo: «Però non è che passa così, succede un casino che il tifone delle Filippine è una tenera brezza», e a un ragazzo che gli chiedeva notizie su quei messaggi di rabbia rispondeva: «Bisogna dare le tracce per le teste di c…, io sono di impiccio», e ancora: «Dico solo che deve essere utilizzata una pista da spazzaneve, io non faccio al caso, rompo troppo i c...». Ora nessuno si è esposto in questi termini. Ma quelle sviste, tali da rendere, nella pratica legale, l’atto “nullo”, sviste rilevate ad alcuni, mentre ad altri no, restano indicate nell’esposto. «Occorre distinguere la fortuna dalle scorciatoie», scriveva in Rete un avvocato. A chiedere invece agli interessati cosa dovrebbe cambiare, di questo titanico esame, tutti sollevano in primo piano la questione del limite di tre consegne a persona: ogni aspirante notaio infatti può tentare il concorso, consegnando gli scritti, soltanto tre volte, oltre che prima dei 50 anni. È un modo, spiegano, per selezionare meglio i partecipanti ed evitare correzioni-monstre di elaborati imprecisi: solo l’organizzazione delle abilitazioni forensi e del concorso per notaio nel 2014 è costata al ministero della Giustizia un milione e 500mila euro. Il limite dei tre tentativi andrebbe tolto, però, dice ad esempio il consigliere Abbate, per dare maggiore serenità agli studenti. «Meglio sostituirlo con cinque partecipazioni», commentano i giovani. Mentre il notaio Genghini arriva a proporre la correzione dei compiti in teleconferenza, per non obbligare i singoli commissari a muoversi ogni volta. Ma soprattutto una correzione dei compiti in forma pubblica, accessibile a tutti. Farebbe bene ai notai, dice. E alla trasparenza. 

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

Le stranezze del concorso di Polizia: dubbi e perplessità sulla correttezza dell’esame, scrive Anonimo su "Oggi" del 23 settembre 2013. Il sottoscritto è un ex vfp1 dell’Esercito Italiano in congedo che ha partecipato quest’anno al concorso per il reclutamento di 964 Allievi Agenti della Polizia di Stato, e che vorrebbe rimanere anonimo nonostante la disponibilità per eventuali repliche o risposte via mail. Come tutti sanno il servizio militare obbligatorio è stato abolito da oltre 10 anni e con esso anche gli “ausiliari” nelle Forze dell’Ordine, perciò il reclutamento per il personale della Polizia di Stato Carabinieri Finanza Penitenziaria e via dicendo, è soggetto al requisito essenziale dell’aver svolto almeno 1 anno come vfp1 nelle Forze Armate…Come (quasi) ogni anno la Polizia di Stato bandisce i concorsi pubblici per Agenti rivolto, come descritto in precedenza, esclusivamente ai vfp1 in servizio o in congedo. Anche quest’anno il concorso è uscito (non senza polemiche in quanto coprirà solo una piccola parte dei pensionamenti, con relativo aumento di sotto-organico per la Polizia di Stato), per la precisione indetto sulla Gazzetta Ufficiale 4° Serie Speciale “Concorsi Pubblici”. Avendo partecipato al quiz di cultura generale (il primo step del concorso) mi sento di dovere, anche se a distanza di qualche mese, di segnalarVi alcune incongruenze o lacune o cose strane (qualunque termine anche penale può essere considerato idoneo a descrivere tali cose) che sono accadute durante tale quiz, con riferimento al giorno in cui il sottoscritto ha effettuato il test ovvero il 13 giugno alle ore 14:00 presso l’Aeroporto Militare di Guidonia. Breve premessa… Dopo gli anni “sporchi” della corruzione dilagante degli anni passati, in tutti i concorsi pubblici sono stati istituiti dei metodi e dei dispositivi di sicurezza volti ad assicurare la massima trasparenza e meritocrazia all’interno degli stessi, che sono senza dubbio una ottima occasione per far valere la preparazione culturale del “libero cittadino in libero Stato”. Gli essenziali di essi possono essere elencati e descritti in questa modalità:

-1-Codici a barre applicati sui “fogli risposte”;

-2-Libertà di scegliere il banco su cui effettuare la prova;

-3-Estrazione casuale dei quesiti da parte di un candidato qualsiasi scelto a sorteggio;

-4-Correzione ottica mediante sistema informatizzato e pistola ottica dei “fogli risposte” vigilata da un candidato scelto a sorteggio.

Il sottoscritto, lungi dal voler creare polemiche sterili ed alimentare il sospetto ed il terrorismo psicologico che regna sui concorsi pubblici, Vi sta scrivendo poichè nessuno di questi fondamentali dispositivi e tecniche di meritocrazia sono stati applicati nel concorso per 964 Allievi Agenti della Polizia di Stato bandito nel c.a..Nello specifico desidero descrivere analiticamente tutte le lacune in merito ai dispositivi elencati in precedenza. Punto 1. I codici a barre erano presenti sotto forma di rettangoli di carta autoadesiva e venivano consegnati al candidato che doveva poi autonomamente apporli sul “foglio risposte” e sul “foglio anagrafico” (talloncino riservato ai dati personali del candidato quali Cognome Nome Nascita Residenza et cetera). Tuttavia TUTTI gli aspiranti (me compreso), in TUTTE le diverse sedi geografiche di esame e di TUTTE le sessioni, indistintamente e senza dubbi o incertezze di sorta; hanno lamentato (vocalmente alla vigilanza e sul famoso social network Facebook) lo scandaloso fatto che gli stessi codici a barre SI STACCAVANO senza che ci fossero motivi di sorta. In pratica, la colla che permetteva la auto-adesività dello stesso era scarsa. Taluni potrebbero affrontare questa mancanza con una semplice risata, ma se osserviamo l’avvenimento sotto una più attenta lente di ingrandimento potremmo tranquillamente denunciare che, con qualsiasi tipo di “raccomandazione” o aiuto tipici della dilagante corruzione italiana che ogni anno la Corte dei Conti denuncia nel suo rapporto consuntivo al Parlamento, i codici a barre sono asportabili e sostituibili con una immensa quanto truffaldina facilità. Dato che il compito degli inquirenti di tutto il mondo è quello di indagare oltre la superficialità e diffidare della buona fede o della mancanza in generale, sarebbe già solamente questo un validissimo motivo per sostenere che gli esiti degli accertamenti culturali di questo concorso possono essere facilmente alterati e modificati a piacimento staccando il codice a barre che non aderisce, sostituendo il foglio risposte con uno compilato in modo esatto al 100%, ed apponendolo ad esso senza che nessuno noti alcuna discrepanza o non-originalità del foglio risposte. Punto 2. Nel concorso pubblico per VFP4 Esercito al quale partecipano un numero ben più alto di candidati rispetto a quello per la Polizia di Stato, e in generale ad ogni concorso pubblico che rispetti l’”anonimato fisico” e la meritocrazia dei partecipanti, il banco dove ogni candidato deve completare il quiz è a scelta dello stesso, fatta salva la consuetudine (peraltro non indicata dai bandi di concorso quindi totalmente priva di valore legale) di procedere per “riempimento” onde evitare il verificarsi di banchi vuoti. Tutto ciò nel concorso in oggetto non avveniva. Infatti veniva consegnato ad ogni candidato un tesserino da apporre nell’indumento che lo stesso indossava in modo ben visibile sul petto, volto ad indicare con esattezza il numero di banco verso cui doveva dirigersi e sedersi per effettuare il quiz (a Guidonia era un enorme Hangar aeronautico). Da ciò è quindi facilmente individuabile il sospetto che, coloro che hanno intenzione di alterare il concorso mediante aiuto altrui, possano essere facilmente individuati nel bel mezzo della folla. Punto 3. Adesso ci troviamo di fronte probabilmente alla più grossa truffa e mancanza del concorso in oggetto. In ogni concorso che si rispetti, dalla banca dati (tutte le 5.000 domande che il Ministero poteva usare per somministrare a gruppi di 80 domande a quiz) vengono (solitamente per l’alto numero di quesiti totali) pre-stampati dei moduli contenenti 80 quiz ognuno, tanti sono quelli contenuti in ogni singolo questionario per la prima prova di cultura generale, che la Polizia di Stato identifica tramite le lettere dell’alfabeto (perciò quiz A, quiz B, quiz C, quiz D, et cetera) per poi somministrarle giorno per giorno, sessione per sessione alla totalità degli aspiranti da sottoporre a questionario ogni giorno. Per esempio, giorno 4 Settembre ore 8.00 per tutti il quiz A, 4 Settembre ore 14:00 per tutti quiz C, 5 Settembre ore 8:00 per tutti quiz E, 5 Settembre ore 14:00 quiz B, 6 Settembre ore 8:00 quiz D, 6 Settembre ore 14:00 quiz F, 7 Settembre ore 8:00 quiz H, et cetera. Il tutto avviene come di consueto e come nel concorso per VFP4 Esercito, il giorno stesso mediante un’urna contenente le lettere sotto forma di sfere ad opera di un candidato qualsiasi e sotto l’attento occhio della Commissione e di tutti gli altri aspiranti che si godono la scena mediante un televisore messo in ogni aula di esame, o comunque sotto registrazione audiovisiva. Anche questo elementare sistema di anonimato dei quesiti d’esame, è venuto meno in questo concorso. Agli aspiranti veniva semplicemente comunicato mediante microfono che il quiz scelto era stato il questionario “X” senza che nessuno di loro potesse verificare nulla od partecipare alle operazioni di estrazione casuale dello stesso. Infine il punto 4, fratello del punto 3. Lo stesso candidato scelto a caso tra i partecipanti, nel concorso VFP4 Esercito e in altri, assiste fisicamente alla correzione obiettiva ed informatizzata dei fogli risposte che avviene mediante pistola ottica, vigilando che i correttori non commettano nessun tipo di errore di lettura o falsificazione o simili. Ancora una volta tutto questo non avveniva poichè nessun candidato ha mai fatto presente di essere stato presente a tale correzione, ne mai nessun candidato è stato scelto a sorte per questo compito. Questo fatto permette di fantasticare sui possibili “magheggi” che avrebbero potuto essere messi in atto durante la correzione dei quiz. Gentili destinatari di questa mail… Penso di aver descritto con sufficiente esaustività ed analiticità le lacune del Concorso per 964 Allievi Agenti della Polizia di Stato 2013. Mi permetto solo una ultima considerazione, che non vuole essere polemica o atto di accusa nei confronti di nessuno. Nel nostro amato Paese, credo che qualunque cittadino onesto o meno desideri che ci siano degli operatori di Polizia, tutori dell’Ordine Pubblico e della legalità sotto ogni forma, preparati e meritevoli. Non sto polemizzando ne accusando che qualcuno dei vincitori del concorso in oggetto o dei passati possa non esserlo con dolo, ne che la Pubblica Amministrazione sia corrotta. Bensì Vi sto solo denunciando un ventaglio di lacune che potrebbero tranquillamente essere sfruttate e usate a favore o a sfavore di taluni candidati in futuro. Mi auspico che le problematiche evidenziate in questa email possano essere messe in risalto all’opinione pubblica e ai vertici della altrettanto Pubblica Amministrazione mediante i Vostri autorevoli quotidiani e testate giornalistiche, poichè uno Stato Democratico e di Diritto non può assolutamente permettersi certe oscenità e mancanze. Distinti saluti. Anonimo.

Concorso Vice Ispettori Polizia di Stato, scoperte nuove irregolarità, scrive l'avv. Francesco Leone il 2 febbraio 2016. Proseguono in tutta Italia gli incontri/dibattiti dedicati al Concorso per Vice Ispettori della Polizia di Stato. Come vi abbiamo annunciato nelle scorse news, infatti, si riscontrano delle illegittimità all’interno del bando di concorso, durante lo svolgimento della prova, durante la fase di correzione, nella formulazione del giudizio. Analizzando a fondo la questione ci siamo accorti che proprio nella formulazione del giudizio fornito dalla Commissione emergono numerose criticità. Occorre, a ben vedere, puntare il dito contro l’utilizzo di formule di stile e sulla mancata parametrazione del giudizio ai criteri di valutazione. Inoltre, da alcuni compiti si desume una valutazione illogica e contraddittoria. Il Ministero dell’Interno, stante il caos creatosi sulla questione, è intervenuto con una circolare, attraverso la quale ha precisato che gli interessati potranno presentare istanza di riesame alla Commissione Esaminatrice. Tuttavia, è doveroso precisare come difficilmente giungeranno risposte utili entro il 15 febbraio 2016, data di scadenza per la presentazione del ricorso al Tar. La sensazione, dunque, è che l’Amministrazione voglia concretamente prendere tempo, tempo che non resterebbe, però, ai ricorrenti. Peraltro, grazie alle nostre riunioni sul territorio nazionale, abbiamo evidenziato delle nuove possibili gravi irregolarità anche durante lo svolgimento della prova. Per fare ulteriore chiarezza sono state inoltrate diverse istanze di accesso per verificare se la Commissione di concorso ha rispettato le disposizioni di cui al DPR 487/1994. In particolare abbiamo richiesto:

– se, ed in caso positivo, quali criteri e modalità di correzione della prova la Commissione ha adottato per valutare gli elaborati dei candidati (art. 12 DPR 487/94);

– con quali modalità è stata conservata la traccia elaborata dai Commissari prima dell’inizio della prova, onde tutelare il principio di segretezza della stessa (art. 11 DPR 487/94);

– se la Commissione ha fatto accertare da un candidato sorteggiato prima dell’inizio della prova l’integrità del piego contenente il tema (art. 11 DPR 487/94);

– se la Commissione ha proceduto a redigere verbale di tutte le operazioni concorsuali; verbalizzazione essenziale per il rispetto dei principi di trasparenza e imparzialità (art. 15 DPR 487/94);

– se la Commissione ha formulato un elenco contenente il nome dei candidati e il numero assegnato ai loro elaborati (art. 14 DPR 487/94);

– se la Commissione ha chiesto ad almeno 10 candidati di partecipare alle operazioni di apposizione delle linguette numerate sugli elaborati degli stessi (art. 14 DPR 487/94).

IL PAPA: «LE RACCOMANDAZIONI PER IL LAVORO SONO IMMORALI». Onesto, condiviso, per tutti. Così dovrebbe essere il lavoro secondo Papa Francesco che ha ricevuto il Movimento Cristiano Lavoratori. Bisogna combattere, ha auspicato, la “piovra” della corruzione e dell’illegalità. A cominciare da favoritismi e raccomandazioni che, ha detto, «vanno respinte perché alimentano la corruzione», scrive Antonio San Francesco il 16 gennaio 2016 su “Famiglia Cristiana”. Le chiama «scorciatoie», papa Francesco, e dice con chiarezza che vanno evitate. Sono i «favoritismi e le raccomandazioni» per trovare un lavoro. Bergoglio lo ricorda davanti alle migliaia di appartenenti al Movimento Cristiano dei Lavoratori ricevuti sabato mattina in udienza nell’aula Nervi gremitissima. Auspica un «nuovo umanesimo del lavoro», il Pontefice, che dia speranza soprattutto ai più giovani. Ma questo non è possibile se non si combattono anzitutto la disoccupazione e l’illegalità. Parole forti, chiare, e dure. Fioccano gli applausi quando il Papa invita a «percorrere la strada, luminosa e impegnativa, dell’onestà, fuggendo le scorciatoie dei favoritismi e delle raccomandazioni». E spiega: «Ci sono sempre queste tentazioni, piccole o grandi, ma si tratta sempre di “compravendite morali”, indegne dell’uomo: vanno respinte, abituando il cuore a rimanere libero. Altrimenti, ingenerano una mentalità falsa e nociva, che va combattuta: quella dell’illegalità, che porta alla corruzione della persona e della società. L’illegalità è come una piovra che non si vede: sta nascosta, sommersa, ma con i suoi tentacoli afferra e avvelena, inquinando e facendo tanto male». Ogni cristiano, ha ricordato il Papa citando la frase di San Paolo “Chi non vuol lavorare, neppure mangi”, può e deve dare testimonianza della propria fede anche attraverso il lavoro quotidiano. Come? «Vincendo la pigrizia e l’indolenza», suggerisce, in particolare in una fase storica in cui, riconosce Francesco, «ci sono persone che vorrebbero lavorare, ma non ci riescono, e faticano persino a mangiare». È «il dramma dei nuovi esclusi del nostro tempo, privati della loro dignità», che in alcuni Paesi europei, ricorda il Papa, sono il 40-50 per cento della popolazione, e in tanti, spesso giovani, finiscono risucchiati nel vortice della dipendenze, delle malattie psicologiche, dei suicidi: «La giustizia umana», ha detto, «chiede l’accesso al lavoro per tutti. Anche la misericordia divina ci interpella: di fronte alle persone in difficoltà e a situazioni faticose – penso anche ai giovani per i quali sposarsi o avere figli è un problema, perché non hanno un impiego sufficientemente stabile o la casa – non serve fare prediche; occorre invece trasmettere speranza, confortare con la presenza, sostenere con l’aiuto concreto». Il lavoro, ha concluso il Papa, è una «vocazione», se intesa secondo il progetto di Dio già espresso nella Genesi: l’uomo creato perché «coltivasse e custodisse la casa comune».

Aspiranti avvocati, esame-lotteria in locali pericolanti. 4717 i partecipanti a Napoli. Criteri di correzione poco chiari, che portano ad un 20% di promossi tra i concorrenti a Fuorigrotta, nonostante la scuola napoletana sia tra le più rinomate. Probabile la presenza di un inviato de Le Iene, scrive Giovanni Palma su “Meridiano News” il 18 Dicembre 2015. Come tutti gli anni, alle soglie delle festività natalizie, presso la Mostra d’oltremare si sono tenuti gli esami per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato; ben 4.717 aspiranti legali, provenienti da gran parte della Campania, per tre giorni a partire da martedì, si sono riversati presso i locali di piazzale Tecchio sin dalle prime luci dell’alba, per sostenere tre diverse prove nelle materie forensi. Dalle prime impressioni, la maggior parte dei candidati avrebbe risolto, senza particolare affanno le, seppur impegnative, tracce d’esame. Gli esaminandi, tuttavia, lamentano le pessime condizioni in cui si sono svolte le prove, rese difficoltose sotto il profilo fisico prima che mentale: difatti riferiscono di lunghe file per l’accesso ai varchi, anche agli ingressi riservati ai portatori di disabilità; inoltre i candidati descrivono code interminabili per l’utilizzo dei pochi servizi igienici presenti e del pessimo stato di funzionamento ed igiene degli stessi, nonché delle bassissime temperature dei locali, apparsi in generale non idonei a garantire un livello di accoglienza adeguato ad una prova così delicata ed importante, fra polvere di intonaco in caduta e sistemi di areazione non funzionanti, oltre che pericolanti, al punto da rendere necessario l’intervento dei vigili del fuoco per verificare lo stato di una tubazione aerea, il tutto condito dalla voce circolata nei padiglioni (non ancora confermata) della presenza di un inviato della trasmissione “Le Iene” infiltratosi fra i candidati. Tuttavia le doglianze principali riguardano la fase di correzione degli elaborati, che per i candidati napoletani viene svolta, ad anni alterni, dalle commissioni di Milano Roma. La percentuale di promossi negli ultimi anni rasenta il 20%, circostanza strana considerato che la media nazionale è nettamente più elevata e soprattutto tenendo conto che la scuola forense Napoletana è, da sempre, considerata fra le più prestigiose del mondo. I futuri avvocati riferiscono di criteri di correzione incomprensibili e poco chiari, fra bocciature assurde e valutazioni differenti per compiti dal contenuto del tutto similare accompagnate della totale assenza di motivazioni, al punto da far sorgere il dubbio che la discriminante fra chi sarà avvocato e chi dovrà affrontare nuovamente le tre prove d’esame consista in un mero colpo di fortuna. E così, ognuno dei 4717 aspiranti avvocati, dovrà attendere i mesi estivi per sapere se quest’anno “la fortuna” gli avrà sorriso oppure se dovrà nuovamente partecipare alla lotteria natalizia di Fuorigrotta, sperando in miglior sorte.

Sanità, bocciati dal «quizzone» ma i manager vengono ripescati. I rottamati dal presidente Maroni rientrano come direttori sociosanitari. Al Pirellone la riunione dei nuovi dirigenti: tornano i «generali» dell’era Formigoni, scrive di Simona Ravizza l'8 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Fuori dalla porta, dentro dalla finestra. Alle 15 nell’aula Biagi di Palazzo Lombardia saranno in molti a riconoscersi. Anche tra la vecchia guardia. La riunione è convocata per i manager ospedalieri, nominati sotto Natale al motto: «Meno politica nella Sanità». Ma all’incontro saranno presenti anche gli esclusi eccellenti. Loro, i bocciati al quizzone utilizzato per la prima volta dalla Regione per selezionare gli uomini che devono fare funzionare i nostri ospedali. Eliminati dalla prima linea, i generali dell’epoca di Roberto Formigoni ricompaiono in seconda fila. Sempre in pista. Comunque. Non tutti, ma numerosi. E l’interrogativo che si pone adesso è uno: sul ripescaggio ha prevalso la capacità di figure che per anni sono state in grado di offrire buone cure e mantenere i conti degli ospedali in ordine oppure alla fine hanno contato le solite logiche politiche? Il dubbio è legittimo visto che la lottizzazione per decenni ha governato la Sanità. E il sistema degli amici degli amici è duro a morire. Ancora negli ultimi giorni i vertici dell’assessorato hanno telefonato ai supermanager degli ospedali per ribadire il messaggio del governatore Roberto Maroni: «Se d’ora in avanti si farà vivo qualche politico non fatevi condizionare. E siate autonomi nelle scelte, a partire dalla composizione della vostra squadra (i direttori generali devono scegliere i direttori sanitari, amministrativi e sociosanitari, ndr)». Ma l’invito è stato raccolto solo in parte. Gli elenchi con i nomi dei direttori sanitari, amministrativi e sociosanitari appena scelti sono infarciti di bocciati eccellenti. Armando Gozzini, già medico sociale del Milan e assessore di Forza Italia al Comune di Segrate, ha dovuto rinunciare alla poltrona da direttore generale dell’ospedale di Busto Arsizio (dove comunque aveva dato buona prova delle sue capacità), per sedersi su quella da direttore sociosanitario dell’azienda ospedaliera di Pavia. Angelo Cordone, un pezzo da novanta nel Pavese del Faraone Giancarlo Abelli, è il nuovo direttore sociosanitario dell’ortopedico Pini-Cto. Roberto Bollina, sempre in quota Forza Italia, è stato defenestrato da direttore generale dell’Asl di Como, ma rientra come direttore sanitario di Garbagnate. Ermenegildo Maltagliati, uomo vicino alla Lega, passa dai vertici dell’ospedale di Garbagnate alla direzione sanitaria di Vimercate. Enzo Brusini, altro manager in quota Lega, ha lasciato la spinosissima guida del San Paolo per diventare direttore sociosanitario a Busto Arsizio-Gallarate. Stesso partito per Simona Bettelini, altro riciclo: dal San Gerardo di Monza passa alla direzione sanitaria dell’Asl Mantova-Cremona (trasformata dalla riforma in Agenzia per la tutela della Salute, Ats; così come gli ospedali sono diventati Aziende sociosanitarie territoriali, Asst). In base alla situazione attuale, i ripescaggi ufficiali sono tre a testa, divisi tra Forza Italia e Lega. Per ora gli esclusi eccellenti che non risultano ricollocati sono Giorgio Scivoletto, indagato nell’inchiesta che ha portato in carcere l’ex assessore Mario Mantovani; Daniela Troiano, coinvolta nella stessa indagine ma senza risultare indagata; eppoi Giovanni Michiara, Danilo Gariboldi, Marco Votta e Cesare Ercole, però tutti praticamente al termine della carriera per età. Ma le nomine sono ancora in corso e non sono da escludere colpi di scena dell’ultimo minuto. Pietro Caltagirone invece, dopo vent’anni ai vertici, a fine dicembre ha deciso di andare in pensione. Anche se il rinnovamento voluto da Maroni nelle squadre di manager che guideranno gli ospedali resta importante, la più massiccia rottamazione della Sanità lombarda è stata in qualche modo controbilanciata. E alla fine ai bocciati eccellenti non è andata malissimo. Stesso stipendio (o quasi), qualche responsabilità in meno. 

INFERMIERE PESCARESE AL TOP DI LONDRA: ''IN ITALIA LA SANITA' STA DEGENERANDO''. La lettera pubblicata da "Abruzzo Web" il 7 gennaio 2016. "Non azzarderei se affermassi che il numero degli infermieri formatisi e laureatisi in Italia e poi emigrati solo qui in Inghilterra rasenti le 10 mila unità. È un dato che sgomenta e fa riflettere. Nemmeno se venissimo assorbiti tutti in massa ed in un giorno solo nel nostro Servizio sanitario nazionale riusciremmo a colmare le disastrose lacune di personale che stanno lentamente ed inesorabilmente portando il sistema pubblico vicino al collasso, come in molti prevedono accadrà nei prossimi anni, a meno che non si adotti una decisa inversione di rotta ma non privatizzandolo, come presumo sia nella testa di molti amministratori pubblici!". Questo un passaggio di una lettera scritta da Luigi D'Onofrio, infermiere pescarese dello staff Nurse Moorfields Eye Hospital di Londra, emigrato per necessità professionali e di vita come lui stesso ammette, alla sezione di Pescara del Nursind, il sindacato delle professioni infermieristiche.  "Leggendo pubblicazioni online - scrive D’Onofrio - noto che da alcuni mesi fa tendenza parlare della pletora di infermieri italiani che stanno abbandonando le patrie corsie ospedaliere per raggiungere obiettivi di lavoro e carriera in altre nazioni, prevalentemente in Inghilterra, Germania e Svizzera. Molti giornali se ne sono già occupati, ma ho notato tuttavia che ogni articolo ha affrontato la tematica da un solo punto di vista: quello degli infermieri Italiani che lanciano un'occhiata al sistema sanitario inglese ed operano paragoni con il nostro. Io vorrei invece offrire una prospettiva completamente differente ed atipica". "Sono infatti un emigrante di nuova generazione - prosegue - uno tra i tanti professionisti laureati che ha messo in valigia competenze ed esperienze e si è stabilito da un anno e per un tempo indefinito nel Regno Unito per realizzare quelle aspettative professionali a lungo negatemi in Italia e soprattutto nella mia terra natìa, l'Abruzzo. Siamo in tanti, tantissimi. Le ultime statistiche ufficiali, prevenute dal registro UK, il Nmc, parlano di 2.500 infermieri di nazionalità italiana, ma gli iscritti alla più popolare pagina di Facebook in materia sono oltre 4.500, quindi si tratta di cifre approssimate per difetto e comunque in costante evoluzione. Non considero infatti nel conto tutti i colleghi che, frenati da una scarsa conoscenza dell'inglese, hanno comunque deciso di espatriare per cimentarsi in mestieri per i quali non è richiesta una approfondita conoscenza linguistica, come l'health care (più o meno l'equivalente del nostro Oss, se non addirittura il barista od il cameriere". Ma, lamenta D’Onofrio, "le nostre prospettive di ritorno sono complesse e travagliate. Abbiamo molte barriere da varcare e quella doganale è la più semplice di tutte. Il nostro ritorno è infatti possibile solo una volta superati gli ostacoli economici e culturali che rendono oggi drammatico anche l'inserimento di chi è rimasto in patria. La realtà, infatti, non è che in Italia manca il lavoro, o meglio le opportunità di lavoro. Mancano i datori di lavoro, le persone che sanno far lavorare altri. Abbiamo manager, ma non dirigenti in grado di far lavorare e costruire il successo di un'azienda sanitaria nel tempo, formando e valorizzando personale qualificato".

IL RESTO DELLA LETTERA

Mi perdonino il paragone gli appassionati di calcio: abbiamo un'Italia di Mourinho, di gente che costruisce una squadra in poche settimane reclutando persone dappertutto e ponendosi obiettivi a breve termine, mai nel lungo periodo. Almeno loro provano ad attrarre giocatori con elevate qualità sfruttando le cascate di soldi messe a loro disposizione ma imprenditori miliardari. Da noi si pensa solo a tappare buchi. Quanti bravi colleghi ho visto abbandonare un posto di lavoro solo perché il contratto era scaduto e non era più fiscalmente conveniente convertire il loro contratto in uno a tempo indeterminato! Per non parlare dell'ormai obsoleto sistema dei concorsi pubblici, che nella mente dei Padri Costituenti avrebbe dovuto permettere di scegliere i più preparati e meritevoli in modo trasparente, mentre succede oggi di assistere a preselezioni oceaniche in palazzetti strabordanti di giovani con lo zainetto pieno di manuali e di belle speranze. Ultimamente ci si ritrova poi a pagare tasse di selezione senza avere la certezza che il concorso effettivamente si svolgerà, o verrà organizzato in breve; a prove truccate e finite nel mirino della magistratura; ad assistere professionisti di grande esperienza che rispondono a quiz di cultura generale insieme a ragazzi neolaureati, mentre sarebbero già capaci di dirigere interi reparti), solo perché sognano di rientrare nella loro terra, ma magari la mobilità è impossibile o bloccata da anni. Io invece non ho sostenuto nessun concorso. La mia assunzione è stata decisa in tre intensissimi quarti d'ora di colloquio con tre dirigenti infermieristiche dell'ospedale pubblico in cui mi sono ritrovato ad essere dipendente di ruolo, il Moorfields Eye Hospital di Londra, il più grande e noto ospedale oculistico del mondo. È stato dal momento del mio inserimento, accuratamente guidato, che ho dovuto iniziare a dimostrare il mio valore e la mia capacità di fronte ai miei colleghi ed ai miei manager. Non credo finora di aver sfigurato: il mito della grande Florence Nightingale, la “dama con la lanterna” che proprio in Inghilterra ha ideato la moderna professione infermieristica, è in quanto tale un mito che ai giorni nostri sopravvive conservando solo un fondo di verità: l'infermiere italiano non ha affatto competenze inferiori quello inglese ed anzi il suo livello di preparazione, specialmente dal punto di vista tecnico è mediamente più elevato di quello di molti colleghi extraeuropei. Noto spesso, ad esempio, gli sguardi sorpresi di colleghi quando affermo che in Italia la figura del flebotomist, cioè dell'infermiere specialista addetto al prelievo del sangue od all'incannulamento, non esiste e che anch'io svolgevo regolarmente e quotidianamente questa prestazione: qui in Inghilterra è richiesto il superamento di un training (della durata di un giorno!) che non sempre l'ospedale (a meno che non ne abbia immediata necessità) consente di seguire gratuitamente. Paese che vai, paradossi che incontri. Non sarà un caso, quindi, se nel regno Unito si stanno reclutando principalmente italiani ma anche spagnoli, che vantano una preparazione universitaria simile alla nostra. Anche il sistema sanitario della Corona non può ancora, a mio parere, considerarsi superiore al sistema sanitario nazionale, nonostante le mutilazioni subite da quest'ultimo in anni recenti. Ma qui sta la vera differenza: l'Inghilterra sta investendo nella sanità pubblica, destinando ad essa ancora più risorse (+10% nei prossimi cinque anni), ottimizzando le spese senza tagliare servizi, incrementando e formando più accuratamente il personale sanitario, ricercato disperatamente in tutto il mondo, nonostante il fabbisogno lavorativo sia stimato in 20 mila infermieri, circa un terzo di quello italiano e nonostante si stiano cominciando a porre paletti più severi, come il superamento di test di conoscenza della lingua inglese. Tutto il contrario di quanto avviene da noi, dove si risparmia e si taglia alla cieca invece di investire, soprattutto sulla forza lavoro, non consapevoli (o forse sì?) che in un periodo di 3-5 anni una politica così miope determinerà organici drammaticamente insufficienti ed insufficientemente preparati. Purtroppo si persiste su questa scia, nonostante recenti direttive europee ci costringano ad assumere migliaia di unità per rispettare regole sull'orario di lavoro violate in anni di blocco del turnover, che hanno portato gli infermieri e tutto il personale sanitario a coprire turni massacranti. Il sistema lo fanno le persone, non le strutture o le apparecchiature diagnostiche tecnologicamente avanzate. Qui in Inghilterra, ora, anche gli Italiani stanno contribuendo alla costruzione di un sistema sanitario sempre più avanzato, mentre in Italia perfino i Collegi Ipasvi incentivano all'espatrio, pubblicando offerte di lavoro di agenzie straniere e perfino stringendo accordi di cooperazione con esse (come il Collegio Ipasvi di Chieti), invece di prodigarsi presso le nostre istituzioni per promuovere assunzioni e concorsi in loco! Trovo queste iniziative francamente vergognose ed invito in primis alcuni dirigenti e rappresentanti della categoria infermieristica a trascorrere una (lunga) esperienza di lavoro all'estero, lasciando il posto ad altri colleghi più propensi ad invertire la rotta dell'emigrazione. Mi si perdoni il lungo sfogo, ma di storie ne ho già da raccontare tante e comunque la vita dell'emigrante non è semplice, nonostante una città come Londra sappia addolcire l'amara pillola di chi non sa se e quando tornerà a casa. L'Italia resta sempre nel cuore di tutti noi ed è ad essa che guardiamo ogni giorno, con speranza dura a morire.

Concorsi, bandi, dottorati, cattedre: se all’università è tutto truccato. Rivelazioni shock di un insegnante della Statale, scrive “Leggi Oggi” il 18 marzo 2015. Concorsi truccati, sprechi, favoritismi a non finire. Il ritratto dell’università italiana, certo non al top della sua popolarità, firmato da Matteo Fini, dottore di ricerca con dieci anni in ateneo alle spalle. Lo racconta l’Espresso, in un articolo inchiesta che mette in evidenza tutte le leve che muovono l’istruzione accademica e definiscono le possibilità di carriera nelle cattedre del nostro Paese. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano”, scriveva il giovane dottore di ricerca sulla sua pagina Facebook, dove puntualmente aggiornava, senza troppi sottintesi, sui peggiori vizi del sistema universitario italiano. Una protesta che gli ha procurato anche una diffida legale, con il suo editore, per cui aveva pubblicato un libro dal titolo “Non è un Paese per bamboccioni” di non pubblicare i post più polemici e ambigui. Docente di metodi quantitativi per l’economia e la finanza alla Statale di Milano, dottore di ricerca per il Dipartimento di scienze economiche dell’Università meneghina, Matteo si è però rifiutato di eliminare le sue riflessioni dalla pagina Facebook. E racconta, ancora oggi, un sistema che lo ha portato a fare di tutto: le lezioni, i ricevimenti, gli esami: un professore a tutti gli effetti, se non per il titolo e, ovviamente, lo stipendio. Come si diventa ricercatore? “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato”. Cosa spinge ad andare avanti? La fiducia nella figura del docente che ha aperto la strada. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Avanti così per anni, peccato che nel frattempo i contatti tra i due si fanno sempre più radi fino a che, un giorno, non viene indetto il concorso che proprio lui avrebbe dovuto vincere e il professore “chioccia” nemmeno si fa vivo. Matteo capisce che il suo posto non è più suo. “In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. I concorsi. Si arriva così al capitolo dei concorsi, dall’esito puntualmente scontato. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo.” I fondi. C’è poi, nel suo racconto, un capitolo fondamentale sul gettito di fondi pubblici che arriva nelle casse delle università: “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto. Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie”. Un quadro deprimente, che sullo sfondo dei recenti scandali sui test di ammissione, prove sbagliate, ricorsi e qualità dell’insegnamento sempre più bassa, rende l’università italiana poco credibile anche da chi la fa.

Concorsi Pubblici: tutti i casi sospetti. Il pasticciaccio delle scuole di specializzazione in medicina, per il quale i giovani medici manifestano a Roma, è l’ultimo episodio di un lungo elenco di irregolarità, favoritismi e trucchi. Dalla Farnesina alla Polizia penitenziaria nessuno è escluso. A partire dalle selezioni per insegnanti e ricercatori, scrive Michele Sasso il 4 novembre 2014 su “L’Espresso”. Una manifestazione di specializzandi di medicina a RomaLe prove, l’errore e il dietrofront. Dopo giorni di polemiche, il ministero dell’Istruzione cerca di mettere una pezza al pasticciaccio del concorsone per l’accesso alla scuole di specializzazione in medicina. Un test fondamentale per accedere alle oltre cinquemila borse di studio diventato tristemente famoso per l'annullamento che ha colpito più di 11mila candidati. Dopo avere rilevato una “grave anomalia” il ministro Stefania Giannini ci ripensa e annuncia: «Le prove per l’accesso del 29 e 31 ottobre non dovranno essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i test». Una pezza dopo l’annuncio di una valanga di ricorsi. Le dimissioni di Emilio Ferrari, il responsabile del Consorzio universitario che ha preparato il test di ingresso, non sono servite a stoppare la manifestazione davanti al Miur. In piazza i giovani medici che la settimana scorsa hanno partecipato alle selezioni. Non è la prima volta che un concorso pubblico finisce con una figuraccia e una protesta di piazza. Il ministero degli Esteri ha bandito 35 posti per il gradino più basso della carriera da ambasciatore ignorando gli idonei dello scorso anno, che andavano riassorbiti. Una vicenda su cui ora tutti i partiti, con otto interrogazioni, chiedono di fare luce. E fra chi ha passato lo scritto anche candidati dalle parentele famose. Tra caos, ricorsi, graduatorie ritoccate e interventi della Magistratura non c’è settore della pubblica amministrazione immune all’aiutino. Il prestigioso posto di ambasciatore junior del ministero degli Esteri si è trasformato, secondo le critiche, in una corsia preferenziale per chi ha parentele famose. In ballo 35 posti per il gradino più basso della carriera alla Farnesina: la questione è finita con otto interrogazioni parlamentari e ombre pesanti sul ministero degli Esteri. Perfino alle prove per diventare poliziotti si scoprono bluff. Lo scorso maggio alla scuola di formazione della Polizia penitenziaria di Roma si aprono le porte ai concorrenti al concorso pubblico per 208 posti di agente. Test e prove attitudinali per andare a lavorare nelle carceri italiane. Durante gli scritti la commissione esaminatrice scopre tre aspiranti con in tasca le risposte esatte ai quiz di selezione. L’elenco delle valutazioni sballate, superficialità e grossolani errori per scegliere gli insegnanti della scuola italiana è lungo. Nel 2010 nel concorso per dirigente scolastico il Ministero mette online i temi delle prove e arrivano una valanga di segnalazioni. Tanti, troppi errori e un quiz su sei viene ritirato. Nonostante gli accorgimenti all‘apertura delle buste nei cento quiz c’erano ancora degli strafalcioni. Per i tirocini formativi attivi (Tfa) obbligatori per diventare insegnanti si replica con ancora quiz errati e si ottiene ammissione dei ricorrenti alle prove scritte. Per l’ultimo concorso a cattedra la Giannini è stata costretta a un decreto correttivo. «Ogni volta è la stessa storia», commenta Marcello Pacifico del sindacato Anief: «Non sono le dimissioni di un presidente ma la gestione delle prove selettive che non trova mai un responsabile. Non è possibile che proprio le domande e le risposte per accertare il merito contengano degli errori». Tra le maglie delle selezioni anche casi clamorosi di familismo amorale e concorsi truccati su misura. A Palermo la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio dell'ex preside della facoltà di Medicina Giacomo De Leo e di Salvatore Novo, professore ordinario e direttore della scuola di specializzazione in Cardiologia dell'università locale insieme ad Alberto Balbarini, docente di malattie cardiovascolari a Pisa. Complici e menti (con l’accusa di truffa, soppressione di atto pubblico e falsità ideologica) di un presunto concorso truccato per un posto da ricercatore universitario nel loro dipartimento bandito nel lontano 2004. Il concorso, secondo gli inquirenti, venne truccato per consentire alla figlia di Novo, Giuseppina, l'aggiudicazione del posto. L'inchiesta parte da Bari, e indaga su una serie di concorsi truccati in diverse facoltà della Penisola. Secondo gli investigatori, ci sarebbe stato un vero e proprio accordo tra Novo e De Leo per far vincere il concorso alla figlia del cardiologo. A garantire il posto assegnato a tavolino doveva essere Mario Mariani, altro docente universitario di Pisa, nominato membro della commissione esaminatrice. All'ultimo momento, però, Mariani scopre di essere indagato dai pm baresi e fa un passo indietro. È allora che, secondo i magistrati, i due docenti distruggono il verbale con cui Mariani era stato designato commissario d'esame e lo sostituiscono con uno identico in cui mettono il nome di Balbarini. Quest'ultimo, vicino a Mariani, sarebbe stato al corrente di tutto. Dopo dieci anni la ricercatrice ha fatto carriera e oggi può vantare il titolo di docente alla scuola di specializzazione in cardiochirurgia. L’ateneo? Quello di Palermo, naturalmente.

Farnesina, ombre sul concorso per diplomatici e tra i vincitori non mancano "I figli d'arte". Il ministero degli Esteri ha bandito 35 posti per il gradino più basso della carriera da ambasciatore ignorando gli idonei dello scorso anno, che andavano riassorbiti. Una vicenda su cui ora tutti i partiti, con otto interrogazioni, chiedono di fare luce. E fra chi ha passato lo scritto anche candidati dalle parentele famose, scrive Paolo Fantauzzi il 14 ottobre 2014 su “L’Espresso”. AAA ambasciatore cercasi. C’è un settore che sembra non conoscere crisi. Al punto che continua ad assumere mentre le pubbliche amministrazioni sono costrette a ridurre le piante organiche e a non rimpiazzare il personale andato in pensione. È il ministero degli Esteri che, grazie a una particolare deroga, dal 2010 ha diritto di prendere ogni anno fino a 35 segretari di legazione. Un incarico ambito, dato che rappresenta il gradino più basso della carriera diplomatica e che - fra stipendio tabellare, retribuzione di posizione e di risultato - l’emolumento si aggira sui 5 mila euro al mese. Forse anche per questo quasi ogni concorso è stato puntualmente accompagnato da una ridda di contestazioni e ricorsi. Col picco esponenziale raggiunto proprio quest’anno, con l’eco delle polemiche che è approdata perfino in Parlamento, dove sono state depositate ben otto fra interpellanze e interrogazioni per fare luce su presunte irregolarità nelle selezioni svolte a luglio: due del Partito democratico e del Movimento cinque stelle e una di Sel, Udc, Fratelli d’Italia e Ilic (gli ex grillini al Senato). Irregolarità che riguarderebbero innanzitutto le immancabili furbate di ogni concorso che si rispetti: non solo qualcuno sarebbe riuscito a utilizzare tablet, smartphone, libri e manoscritti perché non era stata allestita una sala deposito accanto all’aula d’esame, ma - in base a quanto denunciato da un commissario nel corso delle prove - alcuni candidati si sarebbero perfino agganciati alla rete wi-fi del suo cellulare, riuscendo così a navigare su internet. Il punto centrale riguarda tuttavia il numero di posti banditi: 35, il numero massimo consentito, nonostante lo scorso anno i vincitori siano stati 42. Per i 7 rimasti fuori - secondo la formula di “idonei non vincitori” che ben conosce chi partecipa ai concorsi pubblici - si sarebbero dovute aprire le porte quest’anno: dal 2013 la legge prevede infatti lo scorrimento delle graduatorie prima di effettuare una nuova selezione. Una questione di risparmio ma anche di buon senso che la Farnesina stessa ha adottato prima ancora che fosse obbligatorio: nel 2010 gli idonei non vincitori furono sei e l’anno seguente furono banditi 29 posti anziché 35. Quest’anno è andata diversamente. Come mai? Il ministero sostiene la regolarità della scelta in base a un parere consultivo e un paio di sentenze del Consiglio di Stato più un’altra emessa dal Tribunale amministrativo del Lazio. Atti che però sono tutti precedenti o relativi a fatti antecedenti la legge del 2013, contestano gli idonei, che hanno fatto ricorso al Tar. Quel che è certo è che quest’anno scade la deroga al blocco delle assunzioni e quindi il concorso potrebbe rappresentare l’ultima grande infornata prima di un lungo digiuno. Anche così si spiegano i numeri record: poco meno di 700 quanti hanno partecipato alle prove scritte, che prevedono un esame di storia, diritto, economia, inglese e una seconda lingua a scelta fra tedesco, francese e spagnolo. Quasi il triplo dell'anno scorso. Di questi, però, solo il 5 per cento ce l’ha fatta: gli ammessi agli orali, che si terranno a fine mese, sono appena 34. In pratica tutti quanti hanno già il posto assicurato e non ci saranno nuovi casi di idonei non vincitori. Nella graduatoria non mancano cognomi famosi, come Francesco Calderoli, nipote del leghista Roberto, che si è piazzato al 29esimo posto in classifica. Penultimo è arrivato invece Ferdinando Stagno d’Alcontres, primogenito di Francesco, ex deputato di Forza Italia e cugino dell’ex ministro degli Esteri Antonio Martino (anche lui berlusconiano della prima ora) e dell'ex ambasciatore in Russia e Usa, Ferdinando Salleo. Una circostanza ricorrente, quella di cognomi e parentele importanti, dal momento che la diplomazia è uno dei settori della pubblica amministrazione in cui il tasso di "figli d'arte" è più alto. Nel 2009, ad esempio, tramite lo scorrimento della graduatoria (quello non effettuato quest’anno) fu “ripescato” Stefano La Tella, figlio di Guido, ex ambasciatore in Argentina e presidente di commissione dell'attuale selezione: La Tella junior l’anno prima era risultato quinto degli idonei non vincitori e a essere assorbiti - come ha rilevato il sindacato Flp-Affari esteri in un volantino ironico intitolato “Il divino concorso” - furono proprio i primi cinque (su un totale di 13). Lo scorso anno però andò ancora peggio, quanto a contestazioni: delle 60 domande del test di preselezione, sei erano errate e il ministero, anziché eliminarle, decise di "abbonarle" a tutti i partecipanti, facendo in questo modo lievitare gli ammessi alle prove scritte.

Le persone perbene non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Un giudizio lapidario che viene dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, scrive “Blitz Quotidiano” il 28 ottobre 2015. Un giudizio appena mitigato dai due minuti di spiegazione dell’affermazione: Cantone spiega che, a volte, questo avviene anche per colpe dei diretti interessati. “Spesso le persone perbene all’interno della pubblica amministrazione sono quelle che hanno meno possibilità di fare – dice Cantone – Spesso fanno meno carriera. Spesso sono meno responsabilizzati perché considerati per bene”. Secondo Cantone è ora di recuperare parole che non si usano nel nostro mondo del lavoro. Una è la parola “controllo”. E il presidente dell’anticorruzione si riferisce a chi osserva i colleghi timbrare il cartellino e poi lasciare il posto di lavoro senza denunciare nulla. Quello che serve, secondo Cantone, è una “riscossa interna” e un recupero non imposto dall’alto di moralità e cultura dello Stato, il terzo settore e di conseguenza il nostro Paese si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.

Commenti disabilitati su Cantone: “Non sono tutti fannulloni ma nella Pubblica amministrazione, le persone perbene hanno meno possibilità”, scrive Antonio Menna il 28 ottobre 2015 su “Italia Ora”. “Non sono tutti fannulloni nella Pubblica amministrazione. Meno che mai sono tutti corrotti. Ma è vero che le persone perbene sono quelli che vengono meno coinvolti nelle scelte, meno responsabilizzati. Sono quelli che hanno meno possibilità di fare carriera”. Lo dice chiaro e tondo, Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Lo dice nel corso di una intervista pubblica al Sermig di Torino e il segmento sulla corruzione nella pubblica amministrazione (rilanciato da un video del Corriere della Sera) è quello che impressiona di più. Quante volte lo abbiamo pensato che essere onesti è una penalizzazione? Chi è onesto non va lontano. “A volte, però”, chiarisce Cantone, “anche per sue responsabilità. Dobbiamo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole che nel nostro lessico si sono dimenticate: la parola controllo, per esempio. Se il mio amico, vicino di stanza, usa il badge per coprire i colleghi che magari sono in vacanza, devo stare zitto? Perché devo stare zitto? Queste apparenti distrazioni sono complicità. La società dei piccoli favori, magari banali, magari che non portano necessariamente alla corruzione, ci abitua all’idea che ci sia uno spazio dove tutto si può comprare.” “Il problema – conclude Cantone – non è solo la disonestà ma, a volte, anche non capire con chi parlare. Ci sono cento centri di costo solo nella città di Roma, cento uffici che fanno appalti e spesa. Come li controlli? La deresponsabilizzazione la fa da padrona, ed è essa stessa una delle ragioni che giustifica la corruzione.”

In Italia si fa carriera solo se si è ricattabili, scrive il 5 giugno 2015 Claudio Rossi su "L'Uomo qualunque". “Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (…) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (…) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (…) La nostra rappresentanza politica è quella che è (…) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (…) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione. È un meccanismo omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (…) Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (…) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (…) Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore. Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (…) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia…”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (…) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientelarizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (…) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (…) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità. Proposta: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.” Gustavo Zagrebelsky.

“I cittadini silenziosi possono essere dei perfetti sudditi per un governo autoritario, ma sono un disastro per una democrazia”. Robert Alan Dahl

La “mafia” dei Baroni: tante denunce, nessuna novità. Ora arriva Cantone? Scrive il 23/01/2016 Mario Basso su “L’Ultima Ribattuta”. Raccomandazioni, concorsi pilotati, scambi di favori, meriti negati, titoli ignorati. Da anni si conosce – e si denuncia – la cosiddetta “mafia dei Baroni” che affligge molti (tutti?) gli Atenei italiani. Fior fiore di inchieste – come quella di Fittipaldi per L’Espresso nel 2014 -, pagine di giornali, denunce in ogni dove. Sì, e poi? Nel 2014, i pm della procura di Bari, hanno chiuso la prima fase dell’inchiesta denominata Do ut des che vede indagati 38 tra professori e alti papaveri di diverse università italiane, accusati a vario titolo di associazione a delinquere, corruzione, truffa aggravata e falso. A questi 38 baroni indagati, si devono sommare i nomi di 5 saggi nominati da Giorgio Napolitano, denunciati dalla Guardia di Finanza, ma nel 2014 non ancora sotto inchiesta. Com’è andata a finire? Qualcuno sa qualcosa? Secondo la procura barese, gli indagati avrebbero costituito due associazioni per delinquere (una a Bari e l’altra a Milano), con l’obiettivo di spartirsi le nomine negli atenei di tutto il Paese. Nomine truccate, assegnate attraverso conoscenze e amicizie mirate. Circa 50 i concorsi in cui, scrivono gli inquirenti, “una rete criminale tra i più autorevoli docenti ordinari” ha consentito “sistematicamente il prevalere della logica del favore su quella del merito e della giustizia”. E poi il silenzio. Avete sentito parlare di arresti? Ulteriori inquisiti? No. Ma si sono moltiplicate le denunce. Eppure nulla sembra smuoversi. Ora che, però, si è individuato in Raffaele Cantone il deus ex machina che tutto risolve, la questione arriva anche sul tavolo dell’Enac. A portarcela è un professore universitario – che ha chiesto di conservare l’anonimato – che ha denunciato all’autorità anticorruzione un episodio di grave abuso per nomine fatte “del tutto fuorilegge”, come ha dichiarato in un’intervista a Repubblica. Il professore si è rivolto alle autorità competenti e dopo un anno ha saputo che la Procura adesso ha finalmente aperto un’indagine. L’ennesima. Di quante prove c’è bisogno prima che questo sistema di abusi venga finalmente smantellato?

Testi copiati all’esame da prof ordinario. Scoperto, la commissione lo conferma. Dario Tomasello, figlio del potentissimo ex rettore. Nei suoi saggi brani identici a quelli del suo maestro, scrive Gian Antonio Stella l’1 febbraio 2016 su “Il Corriere della Sera”. «Aguzzate la vista», invita la Settimana Enigmistica su vignette identiche dove occorre scoprire dettagli diversi. Qui non occorre manco aguzzarla. Per andare in cattedra un docente messinese ha portato al concorso per l’abilitazione in Letteratura italiana contemporanea testi qua e là platealmente copiati di sana pianta. Fin qui, capita. Non è la prima volta, difficile sia l’ultima. Molto più grave è risposta del ministero. Dove si spiega che la commissione, messa davanti alle prove del plagio, ha deciso di non «modificare il giudizio». Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto…I protagonisti della storia sono due. Di qua Dario Tomasello, dal 2006 «associato» di letteratura italiana contemporanea all’Università di Messina dove il padre Francesco era allora il potentissimo rettore, destinato a rimanere in carica tra mille polemiche fino al 2013. Di là Giuseppe Fontanelli, lui pure associato nello stesso Ateneo. Punti in comune: l’essere stati entrambi allievi di Giuseppe Amoroso, storico luminare della materia. Destini diversi: al concorsone del 2013 il giovane Tomasello passa, il più anziano Fontanelli no. «Possibile?», mastica amaro il bocciato. Non si dà pace. Finché, come racconterà alla rivista «centonove», viene «colto da una folgorazione, una chiaroveggenza del caso, uno strappo nel cielo di carta». In pratica, spiega oggi, «ho riconosciuto qua e là nei lavori del Tomasello non solo i pensieri ma le parole stesse di Amoroso e sono andato a controllare: c’erano pagine e pagine non ispirate ma riprese da questo o quel libro con il “copia incolla”. Senza virgolette e citazione dei testi originali». Un esempio? Primo testo: «La vitalità di osservatore accanito del ciclo della natura spinge Pascoli a cogliere il flusso di un divenire sempre diverso, una trama di suggestioni che si allacciano alla natura umana, facendosi, nell’istante in cui sono isolate, parafrasi della vita quotidiana ed eroica, brulicante di apparizioni, di tentazioni e allegorie…». Secondo testo: «La vitalità di osservatore accanito dell’esistenza spinge Quasimodo a cogliere il flusso di un divenire sempre diverso, una trama di suggestioni che si allacciano alla natura umana, facendosi, nell’istante in cui sono isolate, parafrasi della vita quotidiana ed eroica, brulicante di apparizioni, di tentazioni e allegorie…». Uguali. Virgola per virgola, tranne due parole (di qua «ciclo della natura», di là «esistenza») ma soprattutto il poeta di cui si parla. Nel primo caso Pascoli nel libro La realtà per il suo verso e altri studi su Pascoli prosatore di Tomasello, nel secondo Quasimodo nel lavoro di Amoroso nel libro collettivo Salvatore Quasimodo, la poesia nel mito e oltre a cura di Finzi. Cocciutamente deciso a smascherare il plagio, Fontanelli dice di avere per cinque mesi «letto tutto, confrontato tutto, scoperto tutto. O almeno quasi tutto». Messe insieme delle cartelle, mostra pagine e pagine a confronto. Saggio sul futurismo (Bisogno furioso di liberare le parole) di Tomasello: «Il chiuso di un laboratorio talora finisce per avere più brio della felicità plausibile e appagante dell’avventura in pieno sole». Saggio sulla narrativa italiana (Forse un assedio) di Amoroso: «Il chiuso di un laboratorio talora finisce per avere più brio della felicità plausibile e appagante dell’avventura in pieno sole». Ancora Tomasello: «Fra segmentazioni dialogiche, mimesi del parlato, spazi di pura narrazione, l’aggancio ai nodi del reale dispone frattanto i testi nella misura di una cronaca ricca e criticamente più centrata nel cardine dei fatti, nella mostra vitale del tempo». Amoroso: «Fra segmentazioni dialogiche, mimesi del parlato, spazi di pura narrazione, l’aggancio ai nodi del reale dispone frattanto le pagine sulla regola di una cronaca ricca e criticamente più centrata nel cardine dei fatti, nella mostra vitale del tempo». Ancora Tomasello in L’isola oscena: «L’inventario di questo universo appare un catalogo di sbigottimenti grazie alla posizione inconsueta delle tessere nel quadro, allo sbandato riflesso delle tinte, all’atmosfera di incantamento suggerita dalle angolature, dai coefficienti instabili dell’impianto, dal nervoso punto di vista». Amoroso in Raccontare l’assenza: «L’inventario di questo universo appare un catalogo di sbigottimenti grazie alla posizione inconsueta delle tessere nel quadro, allo sbandato riflesso delle tinte, all’atmosfera di incantamento suggerita dalle angolature, dai coefficienti instabili dell’impianto, dal nervoso punto di vista». E potremmo andare avanti...«Ho una produzione sterminata e, confesso, non mi ero proprio accorto del presunto “saccheggio”», disse dopo la denuncia Amoroso, «Ad aprirmi gli occhi è stato Fontanelli». Di più: «Non sono Proust, non pretendo che venissero riconosciuti la mia mano, il mio tratto. Questo mai. Non mi permetterei. Ma…». «Ho sempre agito con correttezza e professionalità», rispose Tomasello, minacciando sventagliate di querele. Fatto sta che, davanti allo scandalo, la «chiamata» dell’accusato come ordinario a Messina fu sospesa e il nuovo rettore Pietro Navarra girò i documenti al Ministero e alla procura di Milano, competente perché lì si era riunita la commissione. Mesi e mesi di attesa, dubbi, polemiche e infine, giorni fa, al rettore messinese è arrivata una lettera del direttore generale del Miur Daniele Livon. La frase che conta è questa: «Visionata la documentazione» la commissione (che lodava il vincitore anche per i «contributi originali») ritiene di «non dover modificare il giudizio di abilitazione già reso nei riguardi del prof. Tomasello». Proprio educativo, per insegnare agli studenti a non copiare…

Favori agli amici e concorsi truccati. In cattedra finiscono i figli dei prof. La corruzione negli atenei e la denuncia di Cantone: subissati di segnalazioni, è la causa della fuga dei cervelli. Da cinque anni una legge vieta ai parenti di insegnare nella stessa facoltà, scrive Sergio Rizzo il 23 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Tenevano famiglia. E continuano a tenerla ancora oggi, dopo che una legge dello Stato ha prescritto ben cinque anni fa il divieto ai parenti di insegnare nella stessa facoltà. Il bello è, dice il presidente dell’Autorità anticorruzione, «che si è trovato evidentemente il modo di aggirarla». Tante sono le segnalazioni che gli piovono sul tavolo: «Siamo subissati». Lettere che denunciano anche sospetti di malaffare nei concorsi, puntualmente girate alla Procura della Repubblica. Così numerose da far dire a Raffaele Cantone che «esiste un collegamento enorme fra la fuga dei cervelli e la corruzione». Del resto, perché un giovane bravo e capace dovrebbe restare in Italia avendo l’opportunità di insegnare all’estero, se sa già che la sua strada sarà sbarrata da un concorso taroccato mentre il figliolo del barone ce l’avrà spianata? Le segnalazioni che arrivano all’Anac sono tutte da verificare, ovvio. Ma l’odore della parentopoli universitaria in barba alle norme è penetrante. E pensare che già dieci anni fa, quando era solo un ufficetto in centro a Roma, e prima che il governo Berlusconi la sopprimesse nella culla, la neonata autorità anticorruzione guidata dall’ex prefetto Achille Serra aveva sfornato un esplosivo dossier sulla scuola universitaria di alta formazione europea Jean Monnet di Caserta. Dove si raccontava che «frequenti rapporti di parentela, affinità o coniugio legano nel 50% dei casi il corpo docente (82 persone) con personalità del mondo politico, forense o accademico». Quasi un decennio dopo, al convegno dei responsabili amministrativi degli atenei, Cantone racconta che in una università meridionale «è stata istituita una cattedra di Storia greca in una facoltà giuridica e una cattedra di Istituzioni di diritto pubblico in una facoltà letteraria». E che i titolari erano «i figli di due professori delle altre università». Destini incrociati, di cui la storia dell’università italiana offre ampia letteratura. Con gli stessi protagonisti che ne vanno fieri: tanto la cattedra alla discendenza è sempre stata ritenuta non un sopruso, ma un diritto. Quando scoppia il caso dei familiari di Luigi Frati, rettore della Sapienza di Roma e preside per moltissimi anni della facoltà di Medicina, a chi chiede spiegazioni lui sbatte in faccia una strepitosa metafora: «Quando Cesare Maldini è diventato commissario tecnico della Nazionale, Paolo Maldini non è stato buttato fuori dalla squadra». Peccato che un rettore non sia un allenatore di calcio e che nella squadra della sua facoltà di Medicina non ci sia un familiare, ma tre. Suo figlio cardiologo, sua moglie laureata in Lettere docente di Storia della medicina e sua figlia laureata in Giurisprudenza docente di Medicina legale: di più, nominata dal governo di Enrico Letta nel comitato nazionale di bioetica. Tre Paolo Maldini? Narrano che questa scintilla inneschi il famoso divieto contenuto nella legge di Mariastella Gelmini. Anche se non ci sono prove. Che quella decisione scateni invece singolari effetti collaterali, invece, è noto. Il Messaggero racconta che alla vigilia dell’approvazione della norma la dottoressa Paola Rogliati, nuora del preside della facoltà di Medicina di Tor Vergata a Roma, Renato Lauro, diventa professore associato della cattedra di Malattie dell’apparato respiratorio. Sottolineando la circostanza che nella stessa facoltà e nel medesimo dipartimento, riporta l’Ansa, «c’è anche il marito della signora, nonché figlio del preside, David Lauro, professore ordinario di Endocrinologia, cattedra detenuta prima di lui dal padre». Tutto regolare. Ma difficile sostenere che sia normale. Eppure per anni è stata questa la normalità delle cronache giornalistiche. All’Università di Bari c’era il corridoio Tatarano, dove c’erano le stanze del professore di Diritto privato Giovanni Tatarano e dei suoi figli Marco e Maria Chiara. C’era la dinastia dei Massari: nove, per l’esattezza. E dei Girone: cinque, considerando anche il genero. Così a Bari, dove nel saggio “L’università truccata” Roberto Perotti aveva contato 42 parenti su 176 docenti di Economia. Ma così pure nel resto d’Italia. E le inchieste, da Nord a Sud, non si contano. Anche se quasi tutte finiscono sempre al solito modo: in una bolla di sapone. La legge, dice Cantone ha ora «istituzionalizzato il sospetto». E Mariastella Gelmini replica che il divieto aveva proprio l’obiettivo di ripulire i concorsi. Resta il fatto che in un Paese normale di una norma del genere non ci sarebbe mai stato il bisogno. Lo ha detto anche Cantone, precisando di non averla «attaccata»: «Ho detto che è un paradosso che ci debba essere una legge che stabilisce un divieto che dovrebbe essere scontato».

Atenei, cattedre di padre in figlio. Ma per la parentopoli non paga mai nessuno. La storia.  Le inchieste quasi sempre prescritte. Settemila casi di omonimia su 61mila docenti, scrive Giuliano Foschini il 24 settembre 2016 su "La Repubblica". Una ricerca di qualche anno fa di un trentenne matematico emiliano, costretto a emigrare negli Stati uniti non per ragioni di studio ma per ragioni di spazio ("tutto occupato dai parenti"), raccontava che tra gli oltre 61mila professori italiani, c'erano settemila casi di omonimia. E che duemila di essi si ripetevano più di due volte. Un'anomalia. Perché, prendendo un elenco a caso di 61mila persone, per la statistica le omonimie avrebbero dovuto essere meno della metà. Se mai ce ne fosse stato bisogno, quella fu la prova scientifica che il vero problema dell'università italiana si chiama nepotismo. Cattedre tramandate per generazioni, figli che prendono i posti dei padri e delle madri ("e questi ultimi - fanno notare oggi - non sono nemmeno calcolati negli elenchi di omonimia, per via dei cognomi diversi"), nipoti dei nonni. Per dire, in questo momento all'Università di Bari - che fu la patria di tutti gli scandali della parentopoli con famiglie che avevano in una stessa facoltà sino a otto esponenti della stessa dinastia - cinque dipartimenti sono guidati da figli d'arte. Ma così è da Milano a Palermo e per quanto i codici etici, approvati ormai ovunque, cercano di impedire che in uno stesso dipartimento possano lavorare padri e figli, mariti e mogli, con soluzioni creative spesso si riesce a trovare la strada giusta per l'inganno. Ecco: le scorciatoie, ma soprattutto l'impunità, rappresentano il vero scoglio insormontabile alla lotta al nepotismo italiano. Sollevati gli scandali, raccolte le indignazioni, la magistratura si muove aprendo fascicoli. Che però quasi mai arrivano a compimento. E non perché non ci sia sostanza - i figli, gli amici, sono assunti - ma perché norme e tempi rendono impossibile il corretto corso della giustizia. Anche in questo senso, il caso Bari fa scuola. Tempo fa durante una perquisizione i carabinieri scoprono sulla scrivania di un professore del Policlinico uno schema con 16 concorsi banditi da dieci atenei in tutta Italia per posti da ordinario e associato. Nome e cognome del vincitore, accanto a quello dello "sponsor", tra parentesi. Tutto si verifica come deve. Parte l'inchiesta. Siamo nel 2007 e, otto anni dopo, proprio nelle scorse settimane, viene tutto archiviato: i reati ci sono ma ormai è troppo tardi. Tutto prescritto, inutile indagare. E fa niente che i candidati "raccomandati" siano saldamente ai loro posti. Non si tratta di un'eccezione. Nel 2004, sempre a Bari, si gridò allo scandalo a cardiologia con un'ondata di arresti: 12 anni dopo tutto è prescritto e non è stato nemmeno concluso il primo grado di indagine. Il caso più clamoroso è però forse quello che riguarda la "cupola" dei giuristi, stando alla definizione che ne fece la procura di Bari. Un'indagine monstre, che documentava (con intercettazioni telefoniche e sequestri documentali) il solito scambio di cattedre tra docenti di diritto costituzionale, pubblico comparato ed ecclesiastico. Più di sessanta indagati, tra cui alcuni dei principali giuristi italiani e taluni saggi chiamati dall'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per modificare la Costituzione. Sono passati più di sette anni: alcuni fascicoli sono stati archiviati, quasi tutti prescritti, altri trasmessi per competenza in altre procure d'Italia. Non c'è stata nemmeno una richiesta di rinvio a giudizio.

Roberta, cervello in fuga: «In Italia c’è sempre qualcuno da piazzare prima». Roberta D’Alessandro, docente di linguistica in Olanda, diventata star del web per aver polemizzato con la Giannini denunciando il sistema opaco dei concorsi. «Vorrei tornare ma mi hanno offerto un posto da associato. Io qui sono un ordinario da 9 anni», scrive Orsola Riva il 24 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «Dopo quel mio post su Facebook mi ha scritto anche un rettore di un’università del Nord: mi diceva che loro ci stavano provando ma era difficile superare la “concezione proprietaria” dei concorsi in Italia: parole testuali». Roberta D’Alessandro sa quanto pesino le parole: 43 anni, originaria di Arielli, in provincia dell’Aquila, docente di linguistica all’Università di Leida in Olanda, qualche mese fa è finita sulle prime pagine dei giornali per un post in cui polemizzava con la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini dicendole che aveva fatto male a «vantarsi» dei successi dei ricercatori italiani nei bandi europei: come la maggior parte dei suoi colleghi, infatti, anche lei lavorava ormai da anni all’estero per colpa dell’opacità del sistema italiano dei concorsi. «Non sa quante volte sono stata bocciata con lode: venivano da me e mi dicevano “lei è bravissima, peccato che non potesse vincere”. In un caso ci fu un commissario che arrivò a chiedermi di eseguire la prova scritta insieme alla candidata predestinata. E intanto, mentre perdevo l’ennesimo concorso in Italia, vincevo la prima borsa a Cambridge. Da lì poi in Canada e infine in Olanda dove sono diventata professore ordinario a 33 anni». Dopo le polemiche del febbraio scorso, Roberta ha ricevuto decine di offerte da università italiane. Colleghi che cercavano di farla tornare sfruttando il bando per il rientro di 500 cervelli lanciato da Matteo Renzi. «Il problema è che guadagnerei molto meno, perché mi farebbero rientrare con lo stipendio di un professore associato, ma io non sono ricca di famiglia e dovrei pure mantenere mio marito che perderebbe il suo posto qui». Perché c’è anche questo aspetto, che lo stipendio medio di un docente italiano a parità di potere d’acquisto è inferiore del 15% alla media dei Paesi europei e del 30 rispetto alla Francia e alla Germania. Ma perché non le possono dare la posizione di un professore ordinario? «Perché per vincere un “Erc consolidator grant” come ho fatto io devi aver finito il dottorato da non più di 12 anni. Per gli standard italiani, un ricercatore quarantenne è equiparabile a un associato, ma all’estero se a quarant’anni non sei ancora ordinario vuol dire che hai sbagliato qualcosa!». In un caso («Non le dico dove neppure sotto tortura ma non è un’università del Sud»), il rettorato si era anche offerto di colmare la differenza economica ma poi qualcuno ha spiegato a Roberta che c’era già un’altra persona da «sistemare» in dipartimento. «Ma se davvero volevano me, possibile che non potessero rinunciare a piazzare l’amichetto che avevano tenuto lì a cucinare per vent’anni?». E ora? «Ho perso ogni speranza di tornare», dice citando un proverbio abruzzese: «Cende niende accise l’asene». È la storia di un contadino che tornava dal lavoro con l’asino scarico e ogni amico che incontrava gli chiedeva di caricare sull’asino qualcosa di piccolo. Tanto non è niente, dicevano. Al centesimo niente, l’asino morì.

Giovani, brillanti, ben pagati. Così tremila ricercatori l’anno vanno (e restano) all’estero. Le mete: Gran Bretagna e Usa, ma anche Francia e Germania. Ma c’è pure chi finisce in Nepal, scrive Antonella De Gregorio il 23 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Ad abbandonare la nave sono tremila giovani all’anno, dei circa 11mila che conseguono il titolo di dottori. Vanno via soprattutto se le loro discipline di riferimento sono Scienze fisiche (31,5%) Matematica o Informatica (22,4%). Meno mobili i dottori in Scienze giuridiche (7,5%), in Agraria e Veterinaria (8,1%), dice l’Istat. Che ha fatto un identikit del dottore di ricerca che cerca fortuna all’estero, dove ci sono più opportunità e si fanno lavori più qualificati e meglio retribuiti. Proviene per lo più da famiglie del Centro-Nord, con elevato livello di istruzione ed è diventato dottore giovane, prima dei 32 anni. Se si calcola che in Italia l’età media di ingresso (meglio, di stabilizzazione) nella professione è di 37 anni, e che gli scatti retributivi sono rimasti congelati per anni, è facile intuire quanto sia difficile avere gratificazioni in patria. «Le nostre università assumono con il contagocce e i posti sono riservati a gente che è in lista da anni, tendenzialmente allievi dei professori», dice Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro a Modena. «Una tradizione che nella sua accezione più nobile premia i migliori delle varie Scuole. Ma che ha portato a una forte degenerazione del sistema. In Danimarca, Svezia, Giappone, Stati Uniti, non si premia la fedeltà dell’allievo, ma c’è un’effettiva competizione meritocratica». Con l’associazione Adapt, fondata da Marco Biagi, Tiraboschi ha lavorato a una proposta di legge per creare un mercato della ricerca privato, per dare riconoscimento ufficiale ai ricercatori nelle aziende: «Ci allineerebbe alla tendenza europea e consentirebbe di far fronte alle esigenze di crescita e sviluppo del Paese». E invece le piccole e medie imprese italiane a gestione familiare, specializzate in settori a medio-basso contenuto tecnologico, sono poco propense a investire in ricerca e sviluppo e in capitale umano. Mentre a livello accademico sono burocrazia e baronie, più che il merito, a decidere chi fa carriera. Ecco perché i nostri ricercatori se ne vanno. A guadagnare il doppio, a volte quattro volte più dei colleghi che rimangono, a utilizzare meglio le proprie competenze. Il mercato del lavoro nazionale «non riesce a valorizzare appieno il percorso formativo e il potenziale professionale dei dottori», conferma Almalaurea. Così vanno ad arricchire chi cresce e investe sul talento: in Gran Bretagna, prevalentemente (16,3%). Negli Usa (15,7%), in Francia (14,2%), Germania (11,4%), Svizzera (8,9%). Alcuni, più avventurosi, trovano le opportunità che l’università italiana non offre in Nepal, Cina, Finlandia. E non si tratta di «circolazione» di cervelli, perché il numero di giovani che emigrano non è compensato da flussi di italiani, con pari qualifiche, che fanno rientro in patria. Tanto meno da cittadini di altri Paesi, dello stesso livello, che scelgono l’Italia come destinazione. «Concorsi e insegnamenti in lingua italiana, pochi posti e già assegnati... Perché uno straniero dovrebbe partecipare?» commenta Tiraboschi. L’altra faccia della medaglia è la certezza che l’attività di ricerca svolta in Italia sia di ottima qualità. Lo confermano i dati sui fondi Erc. Ma tra i titolari italiani del finanziamento, una quota crescente di ricercatori li spende all’estero. «Il Paese - conclude il docente - sta rinunciando a qualcosa che sa fare bene, e che è più che mai essenziale per la crescita di un’economia avanzata».

Quei 3mila cervelli in fuga ogni anno da un'Italia che non saprebbe cosa farne. Con le stime e le indagini del Cnr una mappa del fenomeno: il saldo tra ricercatori usciti ed arrivati nel nostro Paese è un pauroso -13%, l'unico negativo in Europa. Ma il nostro mercato del lavoro non è in grado di assorbire nemmeno quelli usciti dalle Università. E chi sta fuori non vuole tornare, scrive Salvo Introvaia il 26 febbraio 2016 su "Repubblica”. Lavorano in ogni angolo del mondo ma, al contrario dei loro colleghi, i ricercatori italiani "fuggiti all'estero" non pensano di ritornare in patria. O almeno, coloro che hanno la saudade del Belpaese sono pochi: meno della metà. Il perché è presto detto. In Italia le condizioni di lavoro sono meno favorevoli da tutti i punti di vista: guadagni più bassi, possibilità di carriera striminzite e scarsa soddisfazione. Fuori dai confini, i nostri dottori di ricerca si trasformano e riescono a produrre più dei loro colleghi stranieri, portando acqua al mulino di paesi che formano meno ricercatori di quanti ne abbiano bisogno. A delineare un quadro ragionato del cosiddetto brain drain - che si traduce come "fuga di cervelli" - è Carolina Brandi, ricercatrice del Irpps-Cnr: l'Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali. La Brandi studia da anni il fenomeno e nel 2014 ha prodotto un capitolo, inserito nel Rapporto Migrantes, dal titolo "L'emigrazione dei ricercatori italiani: cause ed implicazioni", in cui cerca di comprendere, innanzitutto, la dimensione di questa fuga e, soprattutto, se esiste davvero. O non si tratti piuttosto di "normale mobilità" dei ricercatori come in tutti i paesi del mondo. Ma anche le motivazioni di una dinamica che assomiglia sempre più un esodo che impoverisce il Paese. Perché, tra il made in Italy famoso in tutto il mondo esportiamo anche ricercatori. E il "Country report" della Ue, appena pubblicato, lo conferma. Il fenomeno. Esiste davvero la fuga dei cervelli italiani all'estero? A sentire i commenti degli italiani all'estero che in questi giorni hanno riacceso la polemica sul sottofinanziamento della ricerca italiana e sulle scarse possibilità di realizzazione professionale non ci sarebbero dubbi. Ma negli anni scorsi alcuni studiosi hanno messo in dubbio perfino l'esistenza del fenomeno. Anche perché non esiste nessuna banca dati con i riferimenti di tutti i ricercatori nostrani in attività all'estero. Appena varcano i nostri confini di questi si perdono le tracce e occorre andare a scandagliare le banche dati di organismi diversi per avere un'idea della consistenza numerica del fenomeno. Per la Brandi la fuga dei cervelli italiani c'è e sarebbe dovuta al fenomeno dell'overeducation: "produciamo" più dottori di ricerca di quelli che il nostro anchilosato mercato del lavoro riesca ad accogliere e la differenza si reca all'estero. La soluzione e duplice: o il mercato del lavoro si riorienta verso l'innovazione assorbendo i dottori di ricerca in esubero oppure occorre ridurne i numeri, condannando l'Italia al declino economico e sociale. I numeri dell'esodo. Ogni anno, circa 3mila ricercatori italiani - dottori di ricerca che hanno conseguito il titolo accademico - prendono la via dell'estero. L'Italia, tra i paesi europei più industrializzati, esporta più ricercatori di quanti non ne importi dagli altri paesi. Per il nostro Paese il saldo è paurosamente negativo: meno 13,2 per cento. In altre parole, perdiamo il 16,2 per cento di ricercatori fatti in casa che si vanno a confrontare con i colleghi stranieri e riusciamo ad attrarre il 3 per cento di scienziati di altri paesi. Il confronto con le nazioni europee di riferimento è impietoso. "Per molte altre nazioni europee - scrive la ricercatrice - le percentuali sono invece in pareggio, come per la Germania, o positive come nel caso della Svizzera e della Svezia (oltre il +20 per cento), del Regno Unito (+7,8 per cento) e Francia (+4,1 per cento). Perfino la Spagna, la cui economia non brilla certamente, ci tiene a debita distanza con una perdita contenuta all'1 per cento. Una situazione che per l'Italia si traduce in un impoverimento del capitale umano a scapito dello sviluppo che, al ritmo di 3mila ricercatori italiani all'estero all'anno in un decennio - dal 2010 al 2020 - l'Italia perderà qualcosa come 30mila ricercatori costati agli italiani qualcosa come 5 miliardi, che all'estero contribuiranno allo sviluppo economico di quei paesi. Non proprio un affare. Perché i nostri ricercatori cercano fortuna all'estero? Per comprendere meglio le ragioni della fuga dei cervelli, l'istituto in cui lavora la Brandi nel 2010 effettua un sondaggio su circa 2mila ricercatori italiani impegnati all'estero. "I risultati di questa indagine - scrive la ricercatrice (leggi l'intervista) - mostrano che nella maggior parte dei casi la condizione professionale degli intervistati è molto soddisfacente: essi sono infatti in maggioranza professori ordinari, ricercatori senior o direttori di ricerca, e quasi tutti gli altri sono ricercatori o docenti. Solo in pochi casi, sono titolari di assegni di ricerca o hanno altri rapporti di lavoro". In altre parole, si tratta sempre di condizioni di lavoro più stabili con maggiori opportunità di carriera. In più, i ricercatori italiani all'estero guadagnano il doppio dei loro colleghi rimasti in Italia. E questa volta la percentuale di coloro che non pensa affatto ad un ritorno in patria sale al 63 per cento. Dove lavorano? Due le fonti prese in considerazione per scoprire al servizio di quali nazioni si sono messi i nostri ricercatori. Circa metà dei 2mila intervistati dall'Irpps lavora nei paesi europei (Regno Unito, Francia, Germania, Belgio e Svizzera). Coloro che si sono spinti oltre oceano approdano soprattutto negli Stati Uniti e in Brasile. Ma l'Italia esporta anche i suoi cervelli migliori. Nel 2014, tra i 3.385 ricercatori italiani con indice di produttività scientifica alto (h-index superiore a 30) 641 lavorano all'estero permanentemente o parzialmente all'estero. Soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, ma anche in Giappone, Sudafrica, Cina e Singapore. E farli rientrare in Italia è quasi impossibile. Il programma sul rientro dei cervelli lanciato dal governo Berlusconi nel 2001 ha convinto appena 488 ricercatori di cui meno di un quarto - 110 in tutto - ha rinnovato la permanenza in Italia per i successivi 4 anni. Un fiasco. 

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

In Questo Mondo Di Ladri di Antonello Venditti.

Eh, in questo mondo di ladri

C' ancora un gruppo di amici

Che non si arrendono mai.

Eh, in questo mondo di santi

Il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Non siamo molto importanti

Ma puoi venire con noi.

Eh, in questo mondo di debiti

Viviamo solo di scandali

E ci sposiamo le vergini.

Eh, e disprezziamo i politici,

E ci arrabbiamo, preghiamo, gridiamo,

Piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi.

Voi, vi divertite con noi

E vi rubate tra voi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Voi siete molto importanti

Ma questa festa per noi.

Eh, ma questo mondo di santi

Se il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri... 

Aspiranti avvocati, esame-lotteria in locali pericolanti. 4717 i partecipanti a Napoli. Criteri di correzione poco chiari, che portano ad un 20% di promossi tra i concorrenti a Fuorigrotta, nonostante la scuola napoletana sia tra le più rinomate. Probabile la presenza di un inviato de Le Iene, scrive Giovanni Palma su “Meridiano News” il  18 Dicembre 2015. Come tutti gli anni, alle soglie delle festività natalizie, presso la Mostra d’oltremare si sono tenuti gli esami per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato; ben 4.717 aspiranti legali, provenienti da gran parte della Campania, per tre giorni a partire da martedì, si sono riversati presso i locali di piazzale Tecchio sin dalle prime luci dell’alba, per sostenere tre diverse prove nelle materie forensi. Dalle prime impressioni, la maggior parte dei candidati avrebbe risolto, senza particolare affanno le, seppur impegnative, tracce d’esame. Gli esaminandi, tuttavia, lamentano le pessime condizioni in cui si sono svolte le prove, rese difficoltose sotto il profilo fisico prima che mentale: difatti riferiscono di lunghe file per l’accesso ai varchi, anche agli ingressi riservati ai portatori di disabilità; inoltre i candidati descrivono code interminabili per l’utilizzo dei pochi servizi igienici presenti e del pessimo stato di funzionamento ed igiene degli stessi, nonché delle bassissime temperature dei locali, apparsi in generale non idonei a garantire un livello di accoglienza adeguato ad una prova così delicata ed importante, fra polvere di intonaco in caduta e sistemi di areazione non funzionanti, oltre che pericolanti, al punto da rendere necessario l’intervento dei vigili del fuoco per verificare lo stato di una tubazione aerea, il tutto condito dalla voce circolata nei padiglioni (non ancora confermata) della presenza di un inviato della trasmissione “Le Iene” infiltratosi fra i candidati. Tuttavia le doglianze principali riguardano la fase di correzione degli elaborati, che per i candidati napoletani viene svolta, ad anni alterni, dalle commissioni di Milano Roma. La percentuale di promossi negli ultimi anni rasenta il 20%, circostanza strana considerato che la media nazionale è nettamente più elevata e soprattutto tenendo conto che la scuola forense Napoletana è, da sempre, considerata fra le più prestigiose del mondo. I futuri avvocati riferiscono di criteri di correzione incomprensibili e poco chiari, fra bocciature assurde e valutazioni differenti per compiti dal contenuto del tutto similare accompagnate della totale assenza di motivazioni, al punto da far sorgere il dubbio che la discriminante fra chi sarà avvocato e chi dovrà affrontare nuovamente le tre prove d’esame consista in un mero colpo di fortuna. E così, ognuno dei 4717 aspiranti avvocati, dovrà attendere i mesi estivi per sapere se quest’anno “la fortuna” gli avrà sorriso oppure se dovrà nuovamente partecipare alla lotteria natalizia di Fuorigrotta, sperando in miglior sorte.

Sanità, bocciati dal «quizzone» ma i manager vengono ripescati. I rottamati dal presidente Maroni rientrano come direttori sociosanitari. Al Pirellone la riunione dei nuovi dirigenti: tornano i «generali» dell’era Formigoni, scrive di Simona Ravizza l'8 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Fuori dalla porta, dentro dalla finestra. Alle 15 nell’aula Biagi di Palazzo Lombardia saranno in molti a riconoscersi. Anche tra la vecchia guardia. La riunione è convocata per i manager ospedalieri, nominati sotto Natale al motto: «Meno politica nella Sanità». Ma all’incontro saranno presenti anche gli esclusi eccellenti. Loro, i bocciati al quizzone utilizzato per la prima volta dalla Regione per selezionare gli uomini che devono fare funzionare i nostri ospedali. Eliminati dalla prima linea, i generali dell’epoca di Roberto Formigoni ricompaiono in seconda fila. Sempre in pista. Comunque. Non tutti, ma numerosi. E l’interrogativo che si pone adesso è uno: sul ripescaggio ha prevalso la capacità di figure che per anni sono state in grado di offrire buone cure e mantenere i conti degli ospedali in ordine oppure alla fine hanno contato le solite logiche politiche? Il dubbio è legittimo visto che la lottizzazione per decenni ha governato la Sanità. E il sistema degli amici degli amici è duro a morire. Ancora negli ultimi giorni i vertici dell’assessorato hanno telefonato ai supermanager degli ospedali per ribadire il messaggio del governatore Roberto Maroni: «Se d’ora in avanti si farà vivo qualche politico non fatevi condizionare. E siate autonomi nelle scelte, a partire dalla composizione della vostra squadra (i direttori generali devono scegliere i direttori sanitari, amministrativi e sociosanitari, ndr)». Ma l’invito è stato raccolto solo in parte. Gli elenchi con i nomi dei direttori sanitari, amministrativi e sociosanitari appena scelti sono infarciti di bocciati eccellenti. Armando Gozzini, già medico sociale del Milan e assessore di Forza Italia al Comune di Segrate, ha dovuto rinunciare alla poltrona da direttore generale dell’ospedale di Busto Arsizio (dove comunque aveva dato buona prova delle sue capacità), per sedersi su quella da direttore sociosanitario dell’azienda ospedaliera di Pavia. Angelo Cordone, un pezzo da novanta nel Pavese del Faraone Giancarlo Abelli, è il nuovo direttore sociosanitario dell’ortopedico Pini-Cto. Roberto Bollina, sempre in quota Forza Italia, è stato defenestrato da direttore generale dell’Asl di Como, ma rientra come direttore sanitario di Garbagnate. Ermenegildo Maltagliati, uomo vicino alla Lega, passa dai vertici dell’ospedale di Garbagnate alla direzione sanitaria di Vimercate. Enzo Brusini, altro manager in quota Lega, ha lasciato la spinosissima guida del San Paolo per diventare direttore sociosanitario a Busto Arsizio-Gallarate. Stesso partito per Simona Bettelini, altro riciclo: dal San Gerardo di Monza passa alla direzione sanitaria dell’Asl Mantova-Cremona (trasformata dalla riforma in Agenzia per la tutela della Salute, Ats; così come gli ospedali sono diventati Aziende sociosanitarie territoriali, Asst). In base alla situazione attuale, i ripescaggi ufficiali sono tre a testa, divisi tra Forza Italia e Lega. Per ora gli esclusi eccellenti che non risultano ricollocati sono Giorgio Scivoletto, indagato nell’inchiesta che ha portato in carcere l’ex assessore Mario Mantovani; Daniela Troiano, coinvolta nella stessa indagine ma senza risultare indagata; eppoi Giovanni Michiara, Danilo Gariboldi, Marco Votta e Cesare Ercole, però tutti praticamente al termine della carriera per età. Ma le nomine sono ancora in corso e non sono da escludere colpi di scena dell’ultimo minuto. Pietro Caltagirone invece, dopo vent’anni ai vertici, a fine dicembre ha deciso di andare in pensione. Anche se il rinnovamento voluto da Maroni nelle squadre di manager che guideranno gli ospedali resta importante, la più massiccia rottamazione della Sanità lombarda è stata in qualche modo controbilanciata. E alla fine ai bocciati eccellenti non è andata malissimo. Stesso stipendio (o quasi), qualche responsabilità in meno. 

INFERMIERE PESCARESE AL TOP DI LONDRA: ''IN ITALIA LA SANITA' STA DEGENERANDO''. La lettera pubblicata da "Abruzzo Web" il 7 gennaio 2016. "Non azzarderei se affermassi che il numero degli infermieri formatisi e laureatisi in Italia e poi emigrati solo qui in Inghilterra rasenti le 10 mila unità. È un dato che sgomenta e fa riflettere. Nemmeno se venissimo assorbiti tutti in massa ed in un giorno solo nel nostro Servizio sanitario nazionale riusciremmo a colmare le disastrose lacune di personale che stanno lentamente ed inesorabilmente portando il sistema pubblico vicino al collasso, come in molti prevedono accadrà nei prossimi anni, a meno che non si adotti una decisa inversione di rotta ma non privatizzandolo, come presumo sia nella testa di molti amministratori pubblici!". Questo un passaggio di una lettera scritta da Luigi D'Onofrio, infermiere pescarese dello staff Nurse Moorfields Eye Hospital di Londra, emigrato per necessità professionali e di vita come lui stesso ammette, alla sezione di Pescara del Nursind, il sindacato delle professioni infermieristiche.  "Leggendo pubblicazioni online - scrive D’Onofrio - noto che da alcuni mesi fa tendenza parlare della pletora di infermieri italiani che stanno abbandonando le patrie corsie ospedaliere per raggiungere obiettivi di lavoro e carriera in altre nazioni, prevalentemente in Inghilterra, Germania e Svizzera. Molti giornali se ne sono già occupati, ma ho notato tuttavia che ogni articolo ha affrontato la tematica da un solo punto di vista: quello degli infermieri Italiani che lanciano un'occhiata al sistema sanitario inglese ed operano paragoni con il nostro. Io vorrei invece offrire una prospettiva completamente differente ed atipica". "Sono infatti un emigrante di nuova generazione - prosegue - uno tra i tanti professionisti laureati che ha messo in valigia competenze ed esperienze e si è stabilito da un anno e per un tempo indefinito nel Regno Unito per realizzare quelle aspettative professionali a lungo negatemi in Italia e soprattutto nella mia terra natìa, l'Abruzzo. Siamo in tanti, tantissimi. Le ultime statistiche ufficiali, prevenute dal registro UK, il Nmc, parlano di 2.500 infermieri di nazionalità italiana, ma gli iscritti alla più popolare pagina di Facebook in materia sono oltre 4.500, quindi si tratta di cifre approssimate per difetto e comunque in costante evoluzione. Non considero infatti nel conto tutti i colleghi che, frenati da una scarsa conoscenza dell'inglese, hanno comunque deciso di espatriare per cimentarsi in mestieri per i quali non è richiesta una approfondita conoscenza linguistica, come l'health care (più o meno l'equivalente del nostro Oss, se non addirittura il barista od il cameriere". Ma, lamenta D’Onofrio, "le nostre prospettive di ritorno sono complesse e travagliate. Abbiamo molte barriere da varcare e quella doganale è la più semplice di tutte. Il nostro ritorno è infatti possibile solo una volta superati gli ostacoli economici e culturali che rendono oggi drammatico anche l'inserimento di chi è rimasto in patria. La realtà, infatti, non è che in Italia manca il lavoro, o meglio le opportunità di lavoro. Mancano i datori di lavoro, le persone che sanno far lavorare altri. Abbiamo manager, ma non dirigenti in grado di far lavorare e costruire il successo di un'azienda sanitaria nel tempo, formando e valorizzando personale qualificato".

IL RESTO DELLA LETTERA

Mi perdonino il paragone gli appassionati di calcio: abbiamo un'Italia di Mourinho, di gente che costruisce una squadra in poche settimane reclutando persone dappertutto e ponendosi obiettivi a breve termine, mai nel lungo periodo. Almeno loro provano ad attrarre giocatori con elevate qualità sfruttando le cascate di soldi messe a loro disposizione ma imprenditori miliardari. Da noi si pensa solo a tappare buchi. Quanti bravi colleghi ho visto abbandonare un posto di lavoro solo perché il contratto era scaduto e non era più fiscalmente conveniente convertire il loro contratto in uno a tempo indeterminato! Per non parlare dell'ormai obsoleto sistema dei concorsi pubblici, che nella mente dei Padri Costituenti avrebbe dovuto permettere di scegliere i più preparati e meritevoli in modo trasparente, mentre succede oggi di assistere a preselezioni oceaniche in palazzetti strabordanti di giovani con lo zainetto pieno di manuali e di belle speranze. Ultimamente ci si ritrova poi a pagare tasse di selezione senza avere la certezza che il concorso effettivamente si svolgerà, o verrà organizzato in breve; a prove truccate e finite nel mirino della magistratura; ad assistere professionisti di grande esperienza che rispondono a quiz di cultura generale insieme a ragazzi neolaureati, mentre sarebbero già capaci di dirigere interi reparti), solo perché sognano di rientrare nella loro terra, ma magari la mobilità è impossibile o bloccata da anni. Io invece non ho sostenuto nessun concorso. La mia assunzione è stata decisa in tre intensissimi quarti d'ora di colloquio con tre dirigenti infermieristiche dell'ospedale pubblico in cui mi sono ritrovato ad essere dipendente di ruolo, il Moorfields Eye Hospital di Londra, il più grande e noto ospedale oculistico del mondo. È stato dal momento del mio inserimento, accuratamente guidato, che ho dovuto iniziare a dimostrare il mio valore e la mia capacità di fronte ai miei colleghi ed ai miei manager. Non credo finora di aver sfigurato: il mito della grande Florence Nightingale, la “dama con la lanterna” che proprio in Inghilterra ha ideato la moderna professione infermieristica, è in quanto tale un mito che ai giorni nostri sopravvive conservando solo un fondo di verità: l'infermiere italiano non ha affatto competenze inferiori quello inglese ed anzi il suo livello di preparazione, specialmente dal punto di vista tecnico è mediamente più elevato di quello di molti colleghi extraeuropei. Noto spesso, ad esempio, gli sguardi sorpresi di colleghi quando affermo che in Italia la figura del flebotomist, cioè dell'infermiere specialista addetto al prelievo del sangue od all'incannulamento, non esiste e che anch'io svolgevo regolarmente e quotidianamente questa prestazione: qui in Inghilterra è richiesto il superamento di un training (della durata di un giorno!) che non sempre l'ospedale (a meno che non ne abbia immediata necessità) consente di seguire gratuitamente. Paese che vai, paradossi che incontri. Non sarà un caso, quindi, se nel regno Unito si stanno reclutando principalmente italiani ma anche spagnoli, che vantano una preparazione universitaria simile alla nostra. Anche il sistema sanitario della Corona non può ancora, a mio parere, considerarsi superiore al sistema sanitario nazionale, nonostante le mutilazioni subite da quest'ultimo in anni recenti. Ma qui sta la vera differenza: l'Inghilterra sta investendo nella sanità pubblica, destinando ad essa ancora più risorse (+10% nei prossimi cinque anni), ottimizzando le spese senza tagliare servizi, incrementando e formando più accuratamente il personale sanitario, ricercato disperatamente in tutto il mondo, nonostante il fabbisogno lavorativo sia stimato in 20 mila infermieri, circa un terzo di quello italiano e nonostante si stiano cominciando a porre paletti più severi, come il superamento di test di conoscenza della lingua inglese. Tutto il contrario di quanto avviene da noi, dove si risparmia e si taglia alla cieca invece di investire, soprattutto sulla forza lavoro, non consapevoli (o forse sì?) che in un periodo di 3-5 anni una politica così miope determinerà organici drammaticamente insufficienti ed insufficientemente preparati. Purtroppo si persiste su questa scia, nonostante recenti direttive europee ci costringano ad assumere migliaia di unità per rispettare regole sull'orario di lavoro violate in anni di blocco del turnover, che hanno portato gli infermieri e tutto il personale sanitario a coprire turni massacranti. Il sistema lo fanno le persone, non le strutture o le apparecchiature diagnostiche tecnologicamente avanzate. Qui in Inghilterra, ora, anche gli Italiani stanno contribuendo alla costruzione di un sistema sanitario sempre più avanzato, mentre in Italia perfino i Collegi Ipasvi incentivano all'espatrio, pubblicando offerte di lavoro di agenzie straniere e perfino stringendo accordi di cooperazione con esse (come il Collegio Ipasvi di Chieti), invece di prodigarsi presso le nostre istituzioni per promuovere assunzioni e concorsi in loco! Trovo queste iniziative francamente vergognose ed invito in primis alcuni dirigenti e rappresentanti della categoria infermieristica a trascorrere una (lunga) esperienza di lavoro all'estero, lasciando il posto ad altri colleghi più propensi ad invertire la rotta dell'emigrazione. Mi si perdoni il lungo sfogo, ma di storie ne ho già da raccontare tante e comunque la vita dell'emigrante non è semplice, nonostante una città come Londra sappia addolcire l'amara pillola di chi non sa se e quando tornerà a casa. L'Italia resta sempre nel cuore di tutti noi ed è ad essa che guardiamo ogni giorno, con speranza dura a morire.

Concorsi, bandi, dottorati, cattedre: se all’università è tutto truccato. Rivelazioni shock di un insegnante della Statale, scrive “Leggi Oggi” il 18 marzo 2015. Concorsi truccati, sprechi, favoritismi a non finire. Il ritratto dell’università italiana, certo non al top della sua popolarità, firmato da Matteo Fini, dottore di ricerca con dieci anni in ateneo alle spalle. Lo racconta l’Espresso, in un articolo inchiesta che mette in evidenza tutte le leve che muovono l’istruzione accademica e definiscono le possibilità di carriera nelle cattedre del nostro Paese. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano”, scriveva il giovane dottore di ricerca sulla sua pagina Facebook, dove puntualmente aggiornava, senza troppi sottintesi, sui peggiori vizi del sistema universitario italiano. Una protesta che gli ha procurato anche una diffida legale, con il suo editore, per cui aveva pubblicato un libro dal titolo “Non è un Paese per bamboccioni” di non pubblicare i post più polemici e ambigui. Docente di metodi quantitativi per l’economia e la finanza alla Statale di Milano, dottore di ricerca per il Dipartimento di scienze economiche dell’Università meneghina, Matteo si è però rifiutato di eliminare le sue riflessioni dalla pagina Facebook. E racconta, ancora oggi, un sistema che lo ha portato a fare di tutto: le lezioni, i ricevimenti, gli esami: un professore a tutti gli effetti, se non per il titolo e, ovviamente, lo stipendio. Come si diventa ricercatore? “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato”. Cosa spinge ad andare avanti? La fiducia nella figura del docente che ha aperto la strada. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Avanti così per anni, peccato che nel frattempo i contatti tra i due si fanno sempre più radi fino a che, un giorno, non viene indetto il concorso che proprio lui avrebbe dovuto vincere e il professore “chioccia” nemmeno si fa vivo. Matteo capisce che il suo posto non è più suo. “In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. I concorsi. Si arriva così al capitolo dei concorsi, dall’esito puntualmente scontato. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo.” I fondi. C’è poi, nel suo racconto, un capitolo fondamentale sul gettito di fondi pubblici che arriva nelle casse delle università: “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto. Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie”. Un quadro deprimente, che sullo sfondo dei recenti scandali sui test di ammissione, prove sbagliate, ricorsi e qualità dell’insegnamento sempre più bassa, rende l’università italiana poco credibile anche da chi la fa.

Concorsi Pubblici: tutti i casi sospetti. Il pasticciaccio delle scuole di specializzazione in medicina, per il quale i giovani medici manifestano a Roma, è l’ultimo episodio di un lungo elenco di irregolarità, favoritismi e trucchi. Dalla Farnesina alla Polizia penitenziaria nessuno è escluso. A partire dalle selezioni per insegnanti e ricercatori, scrive Michele Sasso il 4 novembre 2014 su “L’Espresso”. Una manifestazione di specializzandi di medicina a RomaLe prove, l’errore e il dietrofront. Dopo giorni di polemiche, il ministero dell’Istruzione cerca di mettere una pezza al pasticciaccio del concorsone per l’accesso alla scuole di specializzazione in medicina. Un test fondamentale per accedere alle oltre cinquemila borse di studio diventato tristemente famoso per l'annullamento che ha colpito più di 11mila candidati. Dopo avere rilevato una “grave anomalia” il ministro Stefania Giannini ci ripensa e annuncia: «Le prove per l’accesso del 29 e 31 ottobre non dovranno essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i test». Una pezza dopo l’annuncio di una valanga di ricorsi. Le dimissioni di Emilio Ferrari, il responsabile del Consorzio universitario che ha preparato il test di ingresso, non sono servite a stoppare la manifestazione davanti al Miur. In piazza i giovani medici che la settimana scorsa hanno partecipato alle selezioni. Non è la prima volta che un concorso pubblico finisce con una figuraccia e una protesta di piazza. Il ministero degli Esteri ha bandito 35 posti per il gradino più basso della carriera da ambasciatore ignorando gli idonei dello scorso anno, che andavano riassorbiti. Una vicenda su cui ora tutti i partiti, con otto interrogazioni, chiedono di fare luce. E fra chi ha passato lo scritto anche candidati dalle parentele famose. Tra caos, ricorsi, graduatorie ritoccate e interventi della Magistratura non c’è settore della pubblica amministrazione immune all’aiutino. Il prestigioso posto di ambasciatore junior del ministero degli Esteri si è trasformato, secondo le critiche, in una corsia preferenziale per chi ha parentele famose. In ballo 35 posti per il gradino più basso della carriera alla Farnesina: la questione è finita con otto interrogazioni parlamentari e ombre pesanti sul ministero degli Esteri. Perfino alle prove per diventare poliziotti si scoprono bluff. Lo scorso maggio alla scuola di formazione della Polizia penitenziaria di Roma si aprono le porte ai concorrenti al concorso pubblico per 208 posti di agente. Test e prove attitudinali per andare a lavorare nelle carceri italiane. Durante gli scritti la commissione esaminatrice scopre tre aspiranti con in tasca le risposte esatte ai quiz di selezione. L’elenco delle valutazioni sballate, superficialità e grossolani errori per scegliere gli insegnanti della scuola italiana è lungo. Nel 2010 nel concorso per dirigente scolastico il Ministero mette online i temi delle prove e arrivano una valanga di segnalazioni. Tanti, troppi errori e un quiz su sei viene ritirato. Nonostante gli accorgimenti all‘apertura delle buste nei cento quiz c’erano ancora degli strafalcioni. Per i tirocini formativi attivi (Tfa) obbligatori per diventare insegnanti si replica con ancora quiz errati e si ottiene ammissione dei ricorrenti alle prove scritte. Per l’ultimo concorso a cattedra la Giannini è stata costretta a un decreto correttivo. «Ogni volta è la stessa storia», commenta Marcello Pacifico del sindacato Anief: «Non sono le dimissioni di un presidente ma la gestione delle prove selettive che non trova mai un responsabile. Non è possibile che proprio le domande e le risposte per accertare il merito contengano degli errori». Tra le maglie delle selezioni anche casi clamorosi di familismo amorale e concorsi truccati su misura. A Palermo la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio dell'ex preside della facoltà di Medicina Giacomo De Leo e di Salvatore Novo, professore ordinario e direttore della scuola di specializzazione in Cardiologia dell'università locale insieme ad Alberto Balbarini, docente di malattie cardiovascolari a Pisa. Complici e menti (con l’accusa di truffa, soppressione di atto pubblico e falsità ideologica) di un presunto concorso truccato per un posto da ricercatore universitario nel loro dipartimento bandito nel lontano 2004. Il concorso, secondo gli inquirenti, venne truccato per consentire alla figlia di Novo, Giuseppina, l'aggiudicazione del posto. L'inchiesta parte da Bari, e indaga su una serie di concorsi truccati in diverse facoltà della Penisola. Secondo gli investigatori, ci sarebbe stato un vero e proprio accordo tra Novo e De Leo per far vincere il concorso alla figlia del cardiologo. A garantire il posto assegnato a tavolino doveva essere Mario Mariani, altro docente universitario di Pisa, nominato membro della commissione esaminatrice. All'ultimo momento, però, Mariani scopre di essere indagato dai pm baresi e fa un passo indietro. È allora che, secondo i magistrati, i due docenti distruggono il verbale con cui Mariani era stato designato commissario d'esame e lo sostituiscono con uno identico in cui mettono il nome di Balbarini. Quest'ultimo, vicino a Mariani, sarebbe stato al corrente di tutto. Dopo dieci anni la ricercatrice ha fatto carriera e oggi può vantare il titolo di docente alla scuola di specializzazione in cardiochirurgia. L’ateneo? Quello di Palermo, naturalmente.

Farnesina, ombre sul concorso per diplomatici e tra i vincitori non mancano "I figli d'arte". Il ministero degli Esteri ha bandito 35 posti per il gradino più basso della carriera da ambasciatore ignorando gli idonei dello scorso anno, che andavano riassorbiti. Una vicenda su cui ora tutti i partiti, con otto interrogazioni, chiedono di fare luce. E fra chi ha passato lo scritto anche candidati dalle parentele famose, scrive Paolo Fantauzzi il 14 ottobre 2014 su “L’Espresso”. AAA ambasciatore cercasi. C’è un settore che sembra non conoscere crisi. Al punto che continua ad assumere mentre le pubbliche amministrazioni sono costrette a ridurre le piante organiche e a non rimpiazzare il personale andato in pensione. È il ministero degli Esteri che, grazie a una particolare deroga, dal 2010 ha diritto di prendere ogni anno fino a 35 segretari di legazione. Un incarico ambito, dato che rappresenta il gradino più basso della carriera diplomatica e che - fra stipendio tabellare, retribuzione di posizione e di risultato - l’emolumento si aggira sui 5 mila euro al mese. Forse anche per questo quasi ogni concorso è stato puntualmente accompagnato da una ridda di contestazioni e ricorsi. Col picco esponenziale raggiunto proprio quest’anno, con l’eco delle polemiche che è approdata perfino in Parlamento, dove sono state depositate ben otto fra interpellanze e interrogazioni per fare luce su presunte irregolarità nelle selezioni svolte a luglio: due del Partito democratico e del Movimento cinque stelle e una di Sel, Udc, Fratelli d’Italia e Ilic (gli ex grillini al Senato). Irregolarità che riguarderebbero innanzitutto le immancabili furbate di ogni concorso che si rispetti: non solo qualcuno sarebbe riuscito a utilizzare tablet, smartphone, libri e manoscritti perché non era stata allestita una sala deposito accanto all’aula d’esame, ma - in base a quanto denunciato da un commissario nel corso delle prove - alcuni candidati si sarebbero perfino agganciati alla rete wi-fi del suo cellulare, riuscendo così a navigare su internet. Il punto centrale riguarda tuttavia il numero di posti banditi: 35, il numero massimo consentito, nonostante lo scorso anno i vincitori siano stati 42. Per i 7 rimasti fuori - secondo la formula di “idonei non vincitori” che ben conosce chi partecipa ai concorsi pubblici - si sarebbero dovute aprire le porte quest’anno: dal 2013 la legge prevede infatti lo scorrimento delle graduatorie prima di effettuare una nuova selezione. Una questione di risparmio ma anche di buon senso che la Farnesina stessa ha adottato prima ancora che fosse obbligatorio: nel 2010 gli idonei non vincitori furono sei e l’anno seguente furono banditi 29 posti anziché 35. Quest’anno è andata diversamente. Come mai? Il ministero sostiene la regolarità della scelta in base a un parere consultivo e un paio di sentenze del Consiglio di Stato più un’altra emessa dal Tribunale amministrativo del Lazio. Atti che però sono tutti precedenti o relativi a fatti antecedenti la legge del 2013, contestano gli idonei, che hanno fatto ricorso al Tar. Quel che è certo è che quest’anno scade la deroga al blocco delle assunzioni e quindi il concorso potrebbe rappresentare l’ultima grande infornata prima di un lungo digiuno. Anche così si spiegano i numeri record: poco meno di 700 quanti hanno partecipato alle prove scritte, che prevedono un esame di storia, diritto, economia, inglese e una seconda lingua a scelta fra tedesco, francese e spagnolo. Quasi il triplo dell'anno scorso. Di questi, però, solo il 5 per cento ce l’ha fatta: gli ammessi agli orali, che si terranno a fine mese, sono appena 34. In pratica tutti quanti hanno già il posto assicurato e non ci saranno nuovi casi di idonei non vincitori. Nella graduatoria non mancano cognomi famosi, come Francesco Calderoli, nipote del leghista Roberto, che si è piazzato al 29esimo posto in classifica. Penultimo è arrivato invece Ferdinando Stagno d’Alcontres, primogenito di Francesco, ex deputato di Forza Italia e cugino dell’ex ministro degli Esteri Antonio Martino (anche lui berlusconiano della prima ora) e dell'ex ambasciatore in Russia e Usa, Ferdinando Salleo. Una circostanza ricorrente, quella di cognomi e parentele importanti, dal momento che la diplomazia è uno dei settori della pubblica amministrazione in cui il tasso di "figli d'arte" è più alto. Nel 2009, ad esempio, tramite lo scorrimento della graduatoria (quello non effettuato quest’anno) fu “ripescato” Stefano La Tella, figlio di Guido, ex ambasciatore in Argentina e presidente di commissione dell'attuale selezione: La Tella junior l’anno prima era risultato quinto degli idonei non vincitori e a essere assorbiti - come ha rilevato il sindacato Flp-Affari esteri in un volantino ironico intitolato “Il divino concorso” - furono proprio i primi cinque (su un totale di 13). Lo scorso anno però andò ancora peggio, quanto a contestazioni: delle 60 domande del test di preselezione, sei erano errate e il ministero, anziché eliminarle, decise di "abbonarle" a tutti i partecipanti, facendo in questo modo lievitare gli ammessi alle prove scritte.

Le persone perbene non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Un giudizio lapidario che viene dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, scrive “Blitz Quotidiano” il 28 ottobre 2015. Un giudizio appena mitigato dai due minuti di spiegazione dell’affermazione: Cantone spiega che, a volte, questo avviene anche per colpe dei diretti interessati. “Spesso le persone perbene all’interno della pubblica amministrazione sono quelle che hanno meno possibilità di fare – dice Cantone – Spesso fanno meno carriera. Spesso sono meno responsabilizzati perché considerati per bene”. Secondo Cantone è ora di recuperare parole che non si usano nel nostro mondo del lavoro. Una è la parola “controllo”. E il presidente dell’anticorruzione si riferisce a chi osserva i colleghi timbrare il cartellino e poi lasciare il posto di lavoro senza denunciare nulla. Quello che serve, secondo Cantone, è una “riscossa interna” e un recupero non imposto dall’alto di moralità e cultura dello Stato, il terzo settore e di conseguenza il nostro Paese si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.

Commenti disabilitati su Cantone: “Non sono tutti fannulloni ma nella Pubblica amministrazione, le persone perbene hanno meno possibilità”, scrive Antonio Menna il 28 ottobre 2015 su “Italia Ora”. “Non sono tutti fannulloni nella Pubblica amministrazione. Meno che mai sono tutti corrotti. Ma è vero che le persone perbene sono quelli che vengono meno coinvolti nelle scelte, meno responsabilizzati. Sono quelli che hanno meno possibilità di fare carriera”. Lo dice chiaro e tondo, Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Lo dice nel corso di una intervista pubblica al Sermig di Torino e il segmento sulla corruzione nella pubblica amministrazione (rilanciato da un video del Corriere della Sera) è quello che impressiona di più. Quante volte lo abbiamo pensato che essere onesti è una penalizzazione? Chi è onesto non va lontano. “A volte, però”, chiarisce Cantone, “anche per sue responsabilità. Dobbiamo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole che nel nostro lessico si sono dimenticate: la parola controllo, per esempio. Se il mio amico, vicino di stanza, usa il badge per coprire i colleghi che magari sono in vacanza, devo stare zitto? Perché devo stare zitto? Queste apparenti distrazioni sono complicità. La società dei piccoli favori, magari banali, magari che non portano necessariamente alla corruzione, ci abitua all’idea che ci sia uno spazio dove tutto si può comprare.” “Il problema – conclude Cantone – non è solo la disonestà ma, a volte, anche non capire con chi parlare. Ci sono cento centri di costo solo nella città di Roma, cento uffici che fanno appalti e spesa. Come li controlli? La deresponsabilizzazione la fa da padrona, ed è essa stessa una delle ragioni che giustifica la corruzione.”

In Italia si fa carriera solo se si è ricattabili, scrive il 5 giugno 2015 Claudio Rossi su "L'Uomo qualunque". “Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (…) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (…) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (…) La nostra rappresentanza politica è quella che è (…) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (…) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione. È un meccanismo omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (…) Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (…) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (…) Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore. Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (…) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia…”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (…) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientelarizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (…) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (…) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità. Proposta: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.” Gustavo Zagrebelsky.

“I cittadini silenziosi possono essere dei perfetti sudditi per un governo autoritario, ma sono un disastro per una democrazia”. Robert Alan Dahl

Il volume più letto dai politici? Un manuale per ottenere l'immunità. Alle Biblioteca delle Nazioni Unite non hanno più nemmeno una copia. Spiega i vari tipi di immunità e chi può usufruire, scrive Gabriele Bertocchi Venerdì, 08/01/2016, su “Il Giornale”. Non è un semplice libro, è il libro che ogni politico dovrebbe leggere. E infatti è cosi, tutto lo vogliono. È diventato il libro più richiesto alla biblioteca delle Nazioni Unite. Vi starete chiedendo che volume è: magari se è un'opera di letteratura classica, oppure un trattato sulla politica internazionale. Nessuno di questi, si chiama "Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali", è uno scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum che spiega e illustra che tipo di immunità esistono per tali soggetti. "Più che un libro è una star" commenta Maria Montagna sulle pagine de La Stampa, una delle addette alla gestione banca dati di Dag Hammarskjold Library, libreria dedicata al'ex segretario generale, alle Nazioni Unite. "È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier" continua l'addetta. Il successo lo si deve anche a Twitter, infatti la Dag Hammarskjold Library ha pubblicato il "primato" del libro, creando così un vero e prioprio cult da leggere. Ma all'interno cosa si può imparare, come scrive la Pedretti, autrice del volume, si può scoprire che esistono due dtipi di immunità: quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. La Montagna spiega che "ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social", ma prima era perlopiù composta da funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. E intanto, come si legge su La Stampa, arriva la conferma da parte della libreria: "Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile".

Va a ruba all’Onu il libro che insegna ai leader come avere l’immunità. Esaurito in biblioteca. Tesi di laurea. Il pamphlet è stato scritto da Ramona Pedretti ex studentessa dell’Università di Lucerna, scrive Francesco Semprini su “La Stampa” l’8 gennaio 2016. Basta entrare nella biblioteca delle Nazioni Unite e menzionare il nome del libro per capire che non stiamo parlando di un volume qualunque. Maria Montagna, una delle addette alla gestione della banca data di Dag Hammarskjold Library - la libreria dedicata all’ex segretario generale - guarda la collega Ariel Lebowitz e sorride. «Più che un libro è una star - dice - aspetti qui, controlliamo subito». L’opera in questione è «Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali», un pamphlet scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa oriunda dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum per capire che tipo di immunità esistono per tali soggetti. Ne esistono due, come spiega Pedretti nel suo scritto, quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. «È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier», dice Maria. Twitter ha fatto il resto, visto che Dag Hammarskjold Library ha rilanciato sul social network il «primato» del libro moltiplicandone notorietà e richieste. Ma chi lo chiede in prestito? All’inizio erano soprattutto funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi dell’autrice è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. È questo il principio ad esempio che ha portato all’arresto di Adolph Eichmann da parte di Israele e Augusto Pinochet dalla Spagna. «Ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social», chiosa Maria. E arriva la conferma: «Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile».  

Fondazioni, i soldi nascosti dei politici. Finanziamenti milionari anonimi. Intrecci con banchieri, costruttori e petrolieri. Società fantasma. Da Renzi a Gasparri, da Alfano ad Alemanno, ecco cosa c'è nei conti delle fondazioni, scrivono Paolo Biondani, Lorenzo Bagnoli e Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Finanziamenti milionari ma anonimi. Un intreccio tra ministri, petrolieri, banchieri e imprenditori. Con una lunga inchiesta nel numero in edicola “L'Espresso” ha esaminato i documenti ufficiali delle fondazioni che fanno capo ai leader politici, da Renzi a Gasparri, da Alfano a Quagliarello, tutte dominate dall'assenza di trasparenza. Nel consiglio direttivo di Open, il pensatoio-cassaforte del premier, siedono l’amico che ne è presidente Alberto Bianchi, ora consigliere dell’Enel, il sottosegretario Luca Lotti, il braccio destro Marco Carrai e il ministro Maria Elena Boschi. Il sito pubblica centinaia di nomi di finanziatori, ma omette «i dati delle persone fisiche che non lo hanno autorizzato esplicitamente». Il patrimonio iniziale di 20 mila euro, stanziato dai fondatori, si è moltiplicato di 140 volte con i contributi successivi: in totale, 2 milioni e 803 mila euro. Sul sito compaiono solo tre sostenitori sopra quota centomila: il finanziere Davide Serra (175), il defunto imprenditore Guido Ghisolfi (125) e la British American Tobacco (100 mila). Molto inferiori le somme versate da politici come Lotti (9.600), Boschi (8.800) o il nuovo manager della Rai, Antonio Campo Dell’Orto (solo 250 euro). Ma un terzo dei finanziatori sono anonimi per un importo di 934 mila euro. Ad Angelino Alfano invece fa oggi capo la storica fondazione intitolata ad Alcide De Gasperi, che ha «espresso il suo dissenso» alla richiesta ufficiale della prefettura di far esaminare i bilanci: per una fondazione presieduta dal ministro dell’Interno, la trasparenza non esiste. Nell’attuale direttivo compaiono anche Fouad Makhzoumi, l’uomo più ricco del Libano, titolare del colosso del gas Future Pipes Industries. Tra gli italiani, Vito Bonsignore, l’ex politico che dopo una condanna per tangenti è diventato un ricco uomo d’affari; il banchiere Giovanni Bazoli, il marchese Alvise Di Canossa, il manager Carlo Secchi, l’ex dc Giuseppe Zamberletti, l’ex presidente della Compagnia delle Opere Raffaello Vignali, l’avvocato Sergio Gemma e il professor Mauro Ronco. Ma tutti i contributi alla causa di Alfano sono top secret. Invece la fondazione Magna Carta è stata costituita dal suo presidente, Gaetano Quagliariello, da un altro politico, Giuseppe Calderisi, e da un banchiere di Arezzo, Giuseppe Morbidelli, ora numero uno della Cassa di risparmio di Firenze. Gli altri fondatori sono tre società: l’assicurazione Sai-Fondiaria, impersonata da Fausto Rapisarda che rappresenta Jonella Ligresti; la Erg Petroli dei fratelli Garrone; e la cooperativa Nuova Editoriale di Enrico Luca Biagiotti, uomo d’affari legato a Denis Verdini. Il capitale iniziale di 300 mila euro è stato interamente «versato dalle tre società in quote uguali». I politici non ci hanno messo un soldo, ma la dirigono insieme ai finanziatori. Nel 2013 i Ligresti escono dal consiglio, dove intanto è entrata Gina Nieri, manager di Mediaset. L’ultimo verbale (giugno 2015) riconferma l’attrazione verso le assicurazioni, con il manager Fabio Cerchiai, e il petrolio, con Garrone e il nuovo consigliere Gianmarco Moratti. La fondazione pubblica i bilanci, ma non rivela chi l’ha sostenuta: in soli due anni, un milione di finanziamenti anonimi. La Nuova Italia di Gianni Alemanno invece non esiste più. “L’Espresso” ha scoperto che il 23 novembre scorso la prefettura di Roma ne ha decretato lo scioglimento: «la fondazione nell’ultimo anno non ha svolto alcuna attività», tanto che «le raccomandate inviate dalla prefettura alla sede legale e all’indirizzo del presidente sono tornate al mittente con la dicitura sconosciuto». Ai tempi d’oro della destra romana sembrava un ascensore per il potere: dei 13 soci promotori, tutti legati all’ex Msi o An, almeno nove hanno ottenuto incarichi dal ministero dell’agricoltura o dal comune capitolino. All’inizio Gianni Alemanno e sua moglie Isabella Rauti figurano solo nel listone dei 449 «aderenti» chiamati a versare «contributi in denaro». I primi soci sborsano il capitale iniziale di 250 mila euro. Tra gli iscritti compaiono tutti i fedelissimi poi indagati o arrestati, come Franco Panzironi, segretario e gestore, Riccardo Mancini, Fabrizio Testa, Franco Fiorito e altri. La “Fondazione della libertà per il bene comune” è stata creata dal senatore ed ex ministro Altero Matteoli assieme ad altre dieci persone, tra cui politici di destra come Guglielmo Rositani (ex parlamentare e consigliere Rai), Eugenio Minasso, Marco Martinelli e Marcello De Angelis. A procurare i primi 120 mila euro, però, sono anche soci in teoria estranei alla politica, come l’ex consigliere dell’Anas Giovan Battista Papello (15 mila), il professor Roberto Serrentino (10 mila) e l'imprenditore, Erasmo Cinque, che versa 20 mila euro come Matteoli. La fondazione, gestita dal tesoriere Papello, pubblica i bilanci: tra il 2010 e il 2011, in particolare, dichiara di aver incassato 374 mila euro dai «soci fondatori», altri 124 mila di «contributi liberali» e solo duemila dalle proprie attività (convegni e pubblicazioni). Gli atti della prefettura però non spiegano quali benefattori li abbiano versati. Espressione di Massimo D'Alema, ItalianiEuropei nel 1999 è stata una delle prime fondazioni. I fondatori sono l'ex premier Giuliano Amato, il costruttore romano Alfio Marchini, il presidente della Lega Cooperative, Ivano Barberini, e il finanziere esperto in derivati Leonello Clementi. Il capitale iniziale è di un miliardo di lire (517 mila euro), quasi totalmente versati da aziende o uomini d’affari: 600 milioni di lire da varie associazioni di cooperative rosse, 50 ciascuno da multinazionali come Abb ed Ericsson, la Pirelli di Tronchetti Provera, l’industriale farmaceutico Claudio Cavazza, oltre che da Marchini (50) e Clementi (55). ItalianiEuropei deposita regolari bilanci e ha autorizzato la prefettura di Roma a mostrarli. L’ultimo è del 2013. Gli atti identificano solo i finanziatori iniziali del 1998. A quei 517 mila euro, però, se ne sono aggiunti altri 649 mila sborsati da «nuovi soci», non precisati. Nei bilanci inoltre compare una diversa categoria di «contributi alle attività» o «per l’esercizio»: in totale in sei anni i finanziamenti ammontano a un milione e 912 mila euro. Italia Protagonista nasce nel 2010 per volontà di due leader della destra: Maurizio Gasparri, presidente, e Ignazio La Russa, vicepresidente. Tra i fondatori, che versano 7 mila euro ciascuno, c’è un ristretto gruppo di politici e collaboratori, ma anche un manager, Antonio Giordano. Dopo la fine di An, però, La Russa e i suoi uomini escono e la fondazione resta un feudo dell’ex ministro Gasparri. Come direttore compare un missionario della confraternita che s’ispira al beato La Salle, Amilcare Boccuccia, e come vice un suo confratello spagnolo. Tra i soci viene ammesso anche Alvaro Rodriguez Echeverria, esperto e uditore del sinodo 2012 in Vaticano, nonché fratello dell’ex presidente del Costarica. L’ultimo bilancio riguarda il 2013, quando il capitale, dai 100 mila euro iniziali, è ormai salito a 231 mila. Le donazioni di quell’anno, 56 mila euro, non sono bastate a coprire le spese, con perdite finali per 63 mila, però in banca ci sono 156 mila euro di liquidità. Ma sui nomi dei benefattori, zero informazioni. «Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici», dichiara Raffaele Cantone a “l'Espresso” : «Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori». 

«Non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi», scrive Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su "L'Espresso". «È una situazione che ha raggiunto i limiti dell’indecenza». Un anno fa Raffaele Cantone fu il primo a lanciare l’allarme sui fondi opachi trasferiti alla politica attraverso le fondazioni. Con un’intervista a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione sottolineò il problema della carenza di controlli. Negli ultimi mesi le indagini hanno poi evidenziato altri sospetti sui soldi passati attraverso questi canali per finanziare l’attività dei partiti.

Raffaele Cantone, ma da allora è cambiato qualcosa?

«Non è cambiato nulla. Ma questo più che un finanziamento ai partiti è un modo di sovvenzionare gruppi interni ai partiti, quelle che un tempo si chiamavano correnti. Nel tempo le correnti si sono organizzate in realtà di tipo associativo: questa scelta potrebbe essere positiva, perché in qualche modo dà una struttura evidente alle correnti. Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici. Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia. Viene previsto solo il controllo formale e generico delle prefetture, che non hanno capacità di incidere sui bilanci: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi».

Molte di queste fondazioni politiche sono semplici associazioni, che non depositano neppure una minima documentazione.

«Bisogna tenere presente che nel nostro Paese per ragioni culturali queste realtà sono state un momento significativo della libertà di associazione. Nel diritto civile sono previste le associazioni non riconosciute, tutelate perché si tutela la libertà di associazione, che devono avere una loro possibilità di operare. Il problema è che in questi casi viene a mancare persino quel minimo di controllo esercitato dalle prefetture: sono in tutto uguali a una bocciofila. Non ci sono né regole, né rischi legali quando vengono usate per incassare finanziamenti sospetti: possono solo incorrere in verifiche fiscali della Guardia di Finanza se emergono pagamenti in nero. È una carenza normativa che si fa sentire e più volte il Parlamento ha espresso esigenza di intervenire. Sono stati presentati diversi disegni di legge, alcuni dei quali validi, ma non sono mai andati in discussione».

Negli organi che gestiscono le fondazioni politiche c’è poi una diffusa commistione tra centinaia di imprenditori e di politici. È una confusione che può alimentare i conflitti di interesse?

«In sé non è un aspetto deleterio. Che ci sia un legame nelle attività delle fondazioni tra chi svolge politica attiva e chi si occupa di attività economiche, imprenditoriali e professionali, non è un dato atipico delle moderne democrazie. Anzi, avviene in tutte le democrazie occidentali. Il problema è che i potenziali conflitti di interesse possono essere contrastati o attenuati solo attraverso meccanismi di trasparenza. Se l’imprenditore Tizio finanzia la fondazione del politico Caio e questo dato è noto, come avviene ad esempio negli Usa, questo sterilizza il conflitto d’interessi perché quando si discuterà di provvedimenti che riguardano l’imprenditore Tizio, direttamente o indirettamente, tutti potranno rendersi conto dei legami. Quello che è grave è l’assenza di pubblicità nel modo in cui le due situazioni si interfacciano all’interno delle fondazioni».

Alfano nasconde i soldi perfino ai suoi prefetti. La Fondazione presieduta dal ministro non pubblica l'elenco dei finanziatori. E il dg Rai è sponsor di Renzi, scrive Paolo Bracalini Sabato, 09/01/2016, su “Il Giornale”. Un investimento da appena 250 euro che ne rende ogni anno 650mila (di stipendio), un posto di assoluto comando nella tv pubblica e prima ancora il Cda di Poste italiane. In epoca di rendimenti bassi o negativi, l'investimento di Antonio Campo Dall'Orto è da manuale di finanza. Il nuovo direttore generale della Rai ha donato 250 euro alla Fondazione Open, la cassaforte renziana, entrando così nel cerchio ristretto degli amici dell'ex sindaco di Firenze, che poi da premier ha ricambiato quelli che aveva creduto in lui nominandoli nelle partecipate pubbliche. Dall'Orto è uno dei molti finanziatori «in chiaro» della fondazione guidata da Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai. I donatori, cioè, che hanno dato il consenso alla pubblicazione dei propri nomi nell'elenco dei finanziatori del think tank legato a Renzi.Ma c'è una zona grigia. Sui 2.803.953,49 euro raccolti dalla Open, infatti, quasi un terzo (913mila euro) arriva da ignoti sostenitori del renzismo che preferiscono restare anonimi. E nemmeno tirando in ballo le prefetture, che per legge vigilano (poco) su enti di diritto privato come le fondazioni, si riesce a sapere di più. Il test lo ha fatto l'Espresso, contattando via mail sette prefetti di altrettanti città italiane (da Roma a Napoli) dove hanno sede le associazioni politiche espressione di qualche leader o presunto tale. Ma anche l'intervento dello Stato, nella figura del prefetto, non sembra illuminare granché di quella zona d'ombra che nasconde le modalità di finanziamento delle fondazioni. Il paradosso è che persino quella che fa capo ad Angelino Alfano, ministro dell'Interno e dunque riferimento istituzionale dei prefetti, «esprime dissenso» alla richiesta di fornire bilanci e informazioni sulla Fondazione De Gasperi, presieduta appunto dal leader di Ncd e capo del Viminale. L'unico patrimonio tracciabile risale all'eredità della vecchia Dc, 400 milioni di lire, passati alla fondazione intitolata al grande statista democristiano. Il resto dei finanziatori si può solo immaginare guardando i membri del consiglio di amministrazione (Bazoli di Intesa San Paolo, il miliardario libanese Makhzoumi Fouad...), visto che la fondazione del ministro non si rende trasparente ai prefetti. E donatori ne servono, visto che anche il 5 per mille per l'associazione di Alfano è andato molto male: l'ultima volta solo 59 contribuenti hanno espresso la preferenza nella dichiarazioni dei redditi, per complessivi 6.700 euro. Spiccioli. Di fondazioni politiche ce n'è un centinaio, ma le più importanti (e ricche) sono una ventina. Ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - e non devono rendere pubblici i bilanci. Tanti vantaggi che ne spiegano la proliferazione. Una di quelle storiche è ItalianiEuropei di Massimo D'Alema. Quando nasce, nel 1999, viene innaffiata di soldi da cooperative rosse, grosse multinazionali, colossi della farmaceutica. La fondazione dell'ex premier Ds ha autorizzato la prefettura a rendere pubblici i suoi bilanci. Dai quali, però, non si ricavano le informazioni complete sui finanziatori. In totale dai rendiconti fino al 2013 risultano quasi 2 milioni di euro di donazioni, registrate genericamente come «contributi all'attività» da «nuovi soci». Ma quali siano i loro nomi non è dato saperlo.

Figuraccia italiana nella visita a Riad: rissa per il Rolex regalato a Renzi & C. I 50 membri della delegazione si sono azzuffati per i regali offerti dalla famiglia reale. Il premier li fa sequestrare ma a Palazzo Chigi non sono ancora arrivati, scrive TGCOM il 9 gennaio 2016. Monta la polemica per il viaggio diplomatico e commerciale compiuto da Matteo Renzi e una delegazione politico-economica in Arabia Saudita l'8 novembre 2015. E non c'entrano gli appalti miliardari o la crisi internazionale con l'Iran a causa delle esecuzioni capitali compiute da Riad. Il problema sono i Rolex, i regali che i ricchi sauditi avevano preparato per alcuni membri della delegazione italiana ma che alla fine tutti avrebbero preteso. Stando alle indiscrezioni di stampa questi Rolex non è chiaro che fine abbiano fatto. E' il Fatto Quotidiano a ricostruire la vicenda: i 50 ospiti arrivati da Roma (tra cui vertici di aziende statali e non come Finmeccanica, Impregilo e Salini) sono a cena con la famiglia reale. Arrivano gli omaggi preparati dagli sceicchi, pacchettini con nomi e cognomi, in italiano e arabo. C'è il pacchettino di serie A, con il Rolex svizzero, e quello, diciamo, di serie B con un cronografo prodotto a Dubai che vale "solo" 4mila euro. Il fattaccio avviene quando un furbetto della delegazione italiana scambia il suo cronografo arabo col pacchetto luccicante svizzero. Il "proprietario" del Rolex se ne accorge e scoppia una quasi rissa. Tutti vogliono il Rolex, i reali sauditi sarebbero anche pronti a cambiare tutti i regali pur di non vedersi di fronte questa scena da mercato del pesce. Ma interviene la security di Renzi che sequestra tutti i pacchetti. Ora, denuncia il Fatto Quotidiano, di questi orologi si è persa traccia. Va ricordato che il governo di Mario Monti varò una norma che impedisce ai dipendenti pubblici di accettare omaggi del valore superiore a 150 euro. I Rolex e gli altri cadeau avrebbero dovuto essere depositati nella stanza dei regali al terzo piano di Palazzo Chigi. Ma qui non si trovano. Interpellata sul caso, Ilva Saponara, padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non risponde, dice di avere la febbre e di non ricordare nemmeno il contenuto dei doni offerti dai sauditi. Anche l’ambasciatore Armando Varricchio, consigliere per l'estero di Renzi, non parla ma annuisce di fronte alla ricostruzione del caso. Non dice che fine hanno fatto i Rolex ma rassicura: "I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali". Se ne deduce che qualcuno ancora non ha restituito il Rolex in questione. E chissà se mai lo farà.

Governo in visita in Arabia Saudita. La missione finisce in rissa per i Rolex in regalo. Durante la trasferta a Ryad dello scorso novembre, i delegati italiani si sono accapigliati per dei cronografi da migliaia di euro, un omaggio dei sovrani sauditi. Per questo la delegazione del premier li ha sequestrati. Nota di Palazzo Chigi: "Sono nella nostra disponibilità", scrive Carlo Tecce l'8 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Parapiglia tra dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renziper i Rolex elargiti dagli amici di Ryad. Questo racconto, descritto da testimoni oculari, proviene dall’Arabia Saudita. È una grossa figuraccia internazionale per l’Italia. È ormai la notte tra domenica 8 e lunedì 9 novembre. Il palazzo reale di Ryad è una fonte di luce che illumina la Capitale saudita ficcata nel deserto. La delegazione italiana, che accompagna Matteo Renzi in visita ai signori del petrolio, è sfiancata dal fuso orario e dal tasso d’umidità. La comitiva di governo è nei corridoi immensi con piante e tende vistose, atmosfera ovattata, marmi e dipinti. Gli italiani vanno a dormire. Così il cerimoniale di Palazzo Chigi, depositario degli elenchi e dei protocolli di una trasferta di Stato, prima del riposo tenta di alleviare le fatiche con l’inusuale distribuzione dei regali. Quelli che gli oltre 50 ospiti di Roma – ci sono anche i vertici di alcune aziende statali (Finmeccanica) e private (Salini Impregilo) – hanno adocchiato sui banchetti del salone per la cena con la famiglia al trono: deliziose confezioni col fiocco, cognome scritto in italiano e pure in arabo. Gli illustri dipendenti profanano la direttiva di Mario Monti: gli impiegati pubblici di qualsiasi grado devono rifiutare gli omaggi che superano il valore di 150 euro oppure consegnarli subito agli uffici di competenza. Qui non si tratta di centinaia, ma di migliaia di euro. Perché i sovrani sauditi preparano per gli italiani dei pacchetti con orologi preziosi: avveniristici cronografi prodotti aDubai, con il prezzo che oscilla dai 3.000 ai 4.000 euro e Rolex robusti, per polsi atletici, che sforano decine di migliaia di euro, almeno un paio. A Renzi sarà recapitato anche un cassettone imballato, trascinato con il carrello dagli inservienti. Il cerimoniale sta per conferire i regali. Il momento è di gioia. Ma un furbastro lo rovina. Desidera il Rolex. Scambia la sua scatoletta con il pacchiano cronografo con quella dell’ambito orologio svizzero e provoca un diverbio che rimbomba nella residenza di re Salman. Tutti reclamano il Rolex. Per sedare la rissa interviene la scorta di Renzi: sequestra gli orologi e li custodisce fino al ritorno a Roma. La compagine diplomatica, guidata dall’ambasciatore Armando Varricchio, inorridisce di fronte a una scena da mercato di provincia per il chiasso che interrompe il sonno dei sauditi. Anche perché i generosi arabi sono disposti a reperire presto altri Rolex pur di calmare gli italiani. Non sarà un pezzo d’oro a sfaldare i rapporti tra Ryad e Roma: ballano miliardi di euro di appalti, mica affinità morali. Nonostante le decapitazioni di Capodanno, tra cui quella dell’imam sciita che scatena la furia dell’Iran, per gli italiani Ryad resta una meta esotica per laute commesse. E che sarà mai una vagonata di Rolex? Il guaio è che degli orologi, almeno durante le vacanze natalizie, non c’era più traccia a Palazzo Chigi. Non c’erano nella stanza dei regali al terzo piano. Chi avrà infranto la regola Monti e chi l’avrà rispettata? E Renzi ce l’ha o non ce l’ha, il Rolex? La dottoressa Ilva Sapora, la padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non rammenta il contenuto dei doni. Ha la febbre e poca forza per rovistare nella memoria. Varricchio ascolta le domande e la ricostruzione dei fatti di Ryad: annuisce, non replica. Varricchio è il consigliere per l’estero di Renzi, nonché il prossimo ambasciatore italiano a Washington. Allora merita un secondo contatto al telefono. Non svela il destino del Rolex che ha ricevuto, ma si dimostra comprensivo: “I cittadini devono sapere. Queste vicende meritano la massima attenzione. Le arriverà una nota di Palazzo Chigi. Che la voce sia univoca”. Ecco la voce del governo, che non smentisce niente, che non assolve la Sapora, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”. Il racconto non finisce. Cos’è accaduto dopo la notte di Ryad? Chi non voleva restituire o non ha ancora restituito i Rolex? Da il Fatto Quotidiano di venerdì 8 gennaio 2016.

Renzi, Caporale vs Fiano (Pd): “Ci fu rissa tra dirigenti per Rolex regalati dai sauditi”. “Scena ignominiosa, ma per me non c’è notizia”, continua "Il Fatto Quotidiano tv". Polemica vivace tra Antonello Caporale, inviato de Il Fatto Quotidiano, e il deputato Pd Emanuele Fiano, durante Omnibus, su La7. Lo scontro è innescato dall’articolo di Carlo Tecce, pubblicato sul numero odierno del Fatto, circa il parapiglia esploso nello scorso novembre tra i dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renzi in Arabia Saudita: la rissa tra i dirigenti governativi della folta delegazione italiana è stata scatenata dalla generosa elargizione di circa 50 Rolex di varia fattura ad opera del re saudita. Come spiega Caporale nella trasmissione, nella hall dell’hotel di Ryad alcuni dirigenti italiani si sono ribellati perché avevano ricevuto l’orologio meno lussuoso, peraltro in barba alla legge Monti che impone di rifiutare doni oltre i 150 euro. Successivamente la scorta di Renzi ha dovuto sequestrare gli orologi, tutti prodotti a Dubai e dal valore oscillante tra3mila e 4mila euro. Caporale commenta: “Temo che la mediocrità del gruppo dirigente e di coloro che dovrebbero guidare l’Occidente a risolvere questa crisi internazionale sia tale che anche i dettagli illustrino il pessimismo generale. E questo episodio è un dettaglio significativo”. Il giornalista definisce il caso dei Rolex d’oro donati dagli ‘amici di Ryad’ un dettaglio di costume non certo folkloristico: “E’ indicatore della nostra ambiguità che ovviamente non è solo italiana, e simboleggia la debolezza dell’Occidente. Che non riesce non solo a porre un’idea generale cu come far fronte a una guerra così asimmetrica, pericolosa, atipica, difficile da condurre, ma nemmeno a misurare le forze per far fronte a cose più banali”. Insorge Fiano, che ribadisce di aver letto l’articolo de Il Fatto Quotidiano ‘parola per parola': Qui c’è un grande titolo, ma di notizie certe non c’è nulla”. “E’ notizia certa che i Rolex siano stati dati”, replica Caporale. “L’unica fonte che viene citata” – obietta il parlamentare Pd – “è un consigliere diplomatico di Palazzo Chigi”. “C’è la nota di Palazzo Chigi alla fine dell’articolo– ribatte la firma de Il Fatto – “lo legga tutto”. Ma il deputato Pd, pur definendo “ignominiosa” la rissa descritta nell’articolo di Tecce, ripete che non c’è notizia, né la nota di Palazzo. In realtà, la versione del governo c’è e non smentisce nulla, ma precisa i ruoli: I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali.

Quei magistrati calabresi iscritti alla massoneria. Tre dossier che scottano per un unico filone investigativo. Al centro i rapporti inconfessabili tra 'ndrangheta, politica e istituzioni all'ombra delle logge, scrive il direttore Paolo Pollichieni su "Il Corriere della Calabria", sabato, 09 Gennaio 2016. Un filone investigativo che scotta quello che si ritrovano in mano diversi magistrati calabresi: porta a rivisitare e riattualizzare i rapporti tra l'élite della 'ndrangheta e pezzi importanti del mondo massonico. Non bastasse, ecco ricomparire anche il nodo dell'appartenenza alla massoneria, in maniera diretta o velata ("all'orecchio"), di magistrati con ruoli particolarmente delicati dentro le strutture giudiziarie della Calabria e non solo della Calabria. Singoli filoni che fin qui non hanno avuto una lettura unitaria, tracce e piste seguite dalle inchieste condotte da Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Dda reggina, da Giuseppe Lombardo, della stessa Dda reggina, e da Pierpaolo Bruni, che invece lavora alla Dda di Catanzaro. Va ribadito che affiliarsi alla massoneria non è reato, in quanto la massoneria non è tra le "associazioni segrete" proibite dalla Costituzione italiana con l'articolo 18 («Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare»). Diverso è dimostrare che alcune logge massoniche, magari sfuggite al controllo della fratellanza universale, fanno da punto di ritrovo per rapporti e sinergie inconfessabili tra mafiosi, politici e rappresentanti delle istituzioni. A questo lavorano le singole inchieste e su questo stanno tornando a rendere dichiarazioni importanti faccendieri che hanno rappresentato la cerniera tra nomine, affari, appalti e riciclaggio riconducibili al mondo criminale. Ma quando ci si imbatte nel nome di magistrati affiliati alla massoneria il discorso cambia, perché se pure non si può qualificare l'affiliazione massonica come reato, c'è tuttavia quanto statuito dal Consiglio superiore della magistratura che ha affermato con chiarezza «l'incompatibilità fra affiliazione massonica e l'esercizio delle funzioni di magistrato», perché le caratteristiche delle logge massoniche sono quelle di «un impegno solenne di obbedienza, solidarietà, e soggezione a principi e a persone diverse dalla legge» e determinano perciò «come conseguenza inevitabile una menomazione grave dell'immagine e del prestigio del magistrato e dell'intero ordine giudiziario». A dare manforte al Csm c'è anche una sentenza della Suprema corte: «Il giudice massone può essere ricusato dall'imputato, in quanto l'appartenenza a logge preclude "di per sé l'imparzialità" del magistrato» (la Cassazione, 5a sezione penale numero 1563 / 98), in altre parole, perché – come ha detto il giudice Alfonso Amatucci – «essere iscritti alla massoneria significa vincolarsi al bene degli adepti, significa fare ad ogni costo un favore. E l'unico modo nel quale un magistrato può fare un favore è piegandosi a interessi individuali nell'emettere sentenze, ordinanze, avvisi di garanzia». Come regolarsi, dunque, se nell'acquisizione di documenti o nella raccolta di deposizioni sotto giuramento, arriva sul tavolo del magistrato inquirente il nome di un collega indicato come affiliato alla massoneria? Se lo stanno chiedendo in queste ore all'interno delle Procure calabresi più esposte sul fonte delle indagini sui rapporti apicali tra 'ndrangheta, politica e affari. I dossier che scottano sono sostanzialmente tre. Il primo trae origine dalle denunce incrociate tra il gran maestro Gustavo Raffi e uno dei massimi esponenti storici della massoneria calabrese, il gran maestro Amerigo Minnicelli. Quest'ultimo, in sostanza, ha accusato pubblicamente il Grande Oriente di aver consentito una dilatazione delle iscrizioni in Calabria al fine di condizionare l'esito dell'elezione del nuovo gran maestro Stefano Bisi, giornalista e vicedirettore de Il Corriere di Siena, scelto da Raffi e vittorioso grazie al fatto che attorno a lui si sono schierate compatte le logge calabresi, forti di 2mila maestri votanti. I rivali di Bisi non hanno apprezzato il sostegno plebiscitario di una regione, la Calabria, che durante la gestione Raffi ha acquisito un peso elettorale e politico pari a quello di Toscana e Piemonte, molto più popolate e di lunga tradizione massonica, e molto superiore a regioni molto più estese come la Sicilia o la Lombardia. Un contenzioso interno? Non più, dopo le feroci critiche del fratello calabrese Amerigo Minnicelli, che ha denunciato brogli alle elezioni precedenti ed è stato trascinato davanti al tribunale, prima massonico poi ordinario. «Raffi ha ritenuto di ampliare la base», dice Minnicelli, «e questo non è certo un delitto. Ma l'esplosione degli iscritti nella mia regione fa riflettere. E l'operazione "Decollo money" che ha portato in carcere nel 2011 l'imprenditore Domenico Macrì, calabrese con residenza in Umbria e agganci in banca a San Marino, amico personale di Raffi, lambisce la Gran maestranza». Raffi ha risposto a modo suo. Ha sospeso Macrì ma ha espulso Minnicelli. Illuminanti, invece, sono le parole di Pantaleone Mancuso (alias "Vetrinetta"), mammasantissima del crimine calabrese, deceduto il 3 ottobre scorso, che ha teorizzato la confluenza della 'ndrangheta nella massoneria. Una preziosa intercettazione ambientale, infatti, ci consegna il boss mentre spiega che la 'ndrangheta «non esiste più», è roba da paese, la 'ndrangheta vera si è trasferita all'interno della massoneria, anzi è «sotto la massoneria». Un poco quanto va spiegando, e siamo al secondo filone investigativo, in queste ore ai magistrati reggini un altro esponente di spicco della massoneria che ha ripreso a collaborare con la magistratura. Spiega perché, negli anni, il potere in Calabria si è concentrato sull'asse Reggio-Gioia Tauro-Vibo e nel farlo chiama in causa anche magistrati che avrebbero agito a protezione del "sistema" ogni qualvolta le inchieste si sono avvicinate pericolosamente a tale cabina di comando criminale. Il terzo nasce dal materiale sequestrato dal pm Pierpaolo Bruni in casa e nei locali che ospitano la loggia massonica fondata da Paolo Coraci, originario di Messina e residente a Roma ma con amicizie salde nel Vibonese e nel Reggino, tra queste quelle con alcuni magistrati calabresi. Dall'archivio del gran maestro Coraci sono saltate fuori anche le schede di valutazione e i curricula di adepti da segnalare per l'ingresso nei consigli d'amministrazione di 15 enti pubblici. Non solo, anche tre Questure sarebbero state elevate al livello di dirigenza generale attraverso un intreccio di interessi tra la loggia, un sacerdote ed esponenti politici. L'intervento della loggia massonica avrebbe riguardato due Questure del sud Italia e una in una regione del Centro. Secondo la Dda di Catanzaro, la loggia massonica fondata da Coraci aveva interesse a creare un intricato sistema di potere che portava anche alla nomina di consiglieri d'amministrazione in enti pubblici. C'è quanto basta a mettere in fibrillazione più di un "palazzo", più di una "loggia" e più di una "cosca", specialmente alla vigilia di una serie di scelte importanti che proprio il Consiglio superiore della magistratura è chiamato a compiere per via del turnover ai vertici di uffici giudiziari delicatissimi, quali ad esempio le procure di Catanzaro e Cosenza.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

LA CERTEZZA DEL DIRITTO ED IL CONCORSO DEL REATO? GLI OCCHI DI REPORT SUI MAGISTRATI E LA RAI SI SPAVENTA.

Saranno magistrati, scrive Flavia Zarbme dell'HuffPost il 21/12/2015. Il decreto ministeriale del 22 ottobre 2015 ha aperto 350 nuovi posti per uditori giudiziari. Le prove si svolgeranno in date da definirsi e intanto c'è qualche aspirante magistrato che, come ogni anno, continua a sperare in un cambiamento. Tanto si è discusso della riforma dell'esame d'avvocato (di cui un'altra sessione si è conclusa, come di consueto, prima delle vacanze natalizie) che prevederebbe l'abolizione dei codici commentati e poco, forse nulla, si è parlato della modalità di accesso al concorso in magistratura. Basti analizzare i dati degli ultimi concorsi. Tra le 10 e le 20 mila sono in media le domande di iscrizione pervenute al Ministero mediante procedura telematica per un totale di circa 350 posti ogni anno o ogni due anni (vista l'altissima necessità di colmare posti vacanti negli organici). Presenti in aula (meglio definirlo "padiglione") il primo giorno tra le 6 e le 8 mila persone circa, per un totale di 3.000-5.000 compiti consegnati l'ultimo giorno ad ogni concorso (affinché la consegna sia valida come tentativo occorre consegnare "la busta" delle 3 prove). Ma facciamo un salto indietro per chi, di questo concorso non ha mai sentito parlare. Per la partecipazione al concorso occorre essere in possesso di un titolo di avvocato, di una qualifica dirigenziale presso la pubblica amministrazione, aver svolto un dottorato o aver frequentato una SSPL (scuola di specializzazione legale). Questi sono i presupposti formali per l'iscrizione ma non c'è chi non sappia che accanto a questi ve ne sono due sostanziali: lo studio ed un pizzico di fortuna (con la C maiuscola). Anni e anni con la testa china, in modo sistematico e costante. Ma in base a cosa si stabilisce che alla fine venga premiato "chi più sa" e, soprattutto che costui sia adatto a ricoprire tale ruolo in mancanza di test psicoattitudinali e se, molto spesso, chi passa un concorso di questo genere non ha mai neanche aperto la porta di casa? I punti che dovrebbero far riflettere le istituzioni, prima che i comuni cittadini, e sui quali occorrerebbe una severa riforma, sono due: primo tra tutti la componente economica. Chi può permettersi di affrontare un tale, dispendioso, esame se non i privilegiati? Coloro che possono permettersi il "lusso" di stare sui libri per tanti anni senza lavorare e di acquistare libri di alta formazione che costano dai 50 ai 200 euro (per non parlare dei codici)? E chi può permettersi di frequentare i corsi di preparazione al concorso che vanno dai 350 ai 600 euro al mese? È vero, c'è sempre l'eccezione che conferma la regola, c'è chi oltre a studiare trova il tempo per lavorare e chi ha una "mente splendida" che brilla di luce propria. Innegabile. Ma sono pur sempre le eccezioni che confermano la regola. Venendo alla seconda, questione: le modalità di selezione. Si tratta di una prova consistente in tre scritti: un tema di civile, uno penale ed uno amministrativo. Passato lo scritto si affronta un'interrogazione orale su 13 materie. Ma come si può essere sicuri che (pur volendo asserire che sia un concorso altamente meritocratico) una persona che "sa tutto" sia poi adatta a ricoprire quel ruolo sulla base di quanto abbia teoricamente studiato se non vi è neanche un colloquio mirato a capire che persona realmente è? Magari odia le persone di colore oppure è misogino. Ma allora perché non sottoporlo, prima di ogni altra conoscenza sullo scibile giuridico, ad un test psicoattitudinale? I magistrati devono essere persone ontologicamente impeccabili ma che, al tempo stesso, abbiano la percezione concreta del vissuto, che abbiano avuto il contatto "umano" con le persone, che sappiano giudicare con una buona dose di raziocinio e umiltà. È facile lamentarsi di sentenze assurde e prive di ogni logica senza prima interrogarsi sulla modalità selettiva di un concorso che può cambiare la vita, sia dell'aspirante uditore che di coloro i quali capiteranno tra le sue mani. Forse prima di mettere le mani sulla riforma della giustizia sarebbe opportuno mettere le mani sulle modalità di selezione di chi dà vita alla legge scritta.

MAGISTRATI A RESPONSABILITÀ LIMITATA: IL BUSINESS DEI “SIGNORI DEL CONCORSO”. Scrive Mauro Malafronte il 9 luglio 2015. Si può essere magistrati a 700 mila euro all’anno? Siamo partiti da questa banale domanda prima di analizzare “la macchina del concorso in magistratura”: un business che non conosce crisi. Bellomo, Caringella, Santise, Galli, Giovagnoli: ecco alcuni nomi dei “Signori del Concorso.” Anche quest’anno, con un concorso a 340 posti, gran parte dei vincitori proverrà dai loro corsi, avrà seguito le loro lezioni, avrà studiato dai loro manuali: si tengono il 7, l’8 ed il 10 luglio le tre fantomatiche prove scritte in diritto civile, penale ed amministrativo, che sono, però, solo la parte finale di un percorso estremamente lungo e complesso. Abbiamo spulciato tabellari, strampalati codici etici e comportamentali, quote di iscrizione e corsi online: intorno al concorso in magistratura girano tanti, tantissimi soldi. Tutti i magistrati, dunque, possono permettersi questo secondo lavoro di lusso? No. I magistrati ordinari, in linea teorica, non possono tenere corsi di specializzazione e formazione di tal genere, essendo presenti all’interno delle commissioni di concorso: una prateria, quindi, si è aperta per i giudici amministrativi. E non è un caso, dunque, che molti abbiano fatto il salto, da giudici ordinari ad amministrativi: prima giudici civili, giudici penali o sostituti procuratori, poi Tar e, a volte, Consiglio di Stato. Stipendi alti, tra i più alti che si registrano all’interno dell’amministrazione pubblica, dunque: come scrive da anni Alessio Liberati, “il Consiglio di Stato è forse la casta più potente e meno conosciuta d’Italia”, dove funzioni amministrative, giudiziarie, legislative e politiche si concentrano, si sfiorano, si sovrappongono pericolosamente, in barba alla separazione dei poteri. In questo calderone, in questo tritatutto scriteriato del quale nessuno scrive e nessuno parla, i “Signori del concorso” hanno capito che “l’education 2.0”, rigorosamente a pagamento, è la panacea di tutti i mali, il rimedio unico ad ogni disfunzione del sistema universitario: i numeri, d’altra parte, danno loro ragione. Business, pura impresa: la preparazione dei futuribili magistrati è un segmento dell’attività imprenditoriale di quelli che, è bene ricordarlo, sono dipendenti dello Stato. Pioniere del ramo, tra Roma e Napoli, è certamente Rocco Galli, con oltre tremila ex allievi che, ad oggi, sono divenuti magistrati ordinari: la RoccoGalli Srl chiede 400 euro a bimestre per la partecipazione al corso. Francesco Bellomo, invece, è un giurista di nuova generazione: è stato prima sostituto Procuratore della Repubblica, poi è passato al Tar ed infine è approdato al Consiglio di Stato per concorso. Tiene corsi di formazione a Roma, Milano e Bari. La quota di iscrizione è di 242 euro, con un corso, della durata di nove mesi, dal costo trimestrale di 1952 euro, Iva inclusa. Il criterio di ammissione è puramente temporale: tutto dipende dall’ordine cronologico di iscrizione, dato che tutti i corsi sono a numero chiuso. Massimo 60 membri, mentre solo a Roma si arriva ai 100 iscritti. Di regola, il corso costa annualmente circa 6000 euro al singolo concorsista, al netto dei manuali e dei codici: per la sua Diritto e scienza Srl, facendo due conti, l’incasso lordo è di circa 1milione e 300mila euro complessivi. Francesco Caringella, invece, è diventato il più giovane Presidente di sezione del Consiglio di Stato, oltre che un apprezzato scrittore: dirige corsi di formazione a Roma, Milano, Cagliari, Reggio Calabria, Palermo, Padova, Ancona, Catania. Costi? 50 euro l’iscrizione, con una quota bimestrale di 400 euro, Iva inclusa. “Accademia juris il diritto per concorsi” è una Srl unipersonale: pagamento rapido ed indolore. Altro illustre consigliere di Stato, che si divide tra Roma, Bari e Milano per i suoi corsi di formazione, è Roberto Giovagnoli: ITA SRL è un’altra società di “education 2.0”. Il prezzo è di 680 euro a bimestre, per un costo complessivo superiore ai 3000 euro annui. Si occupa della formazione post universitaria anche Maurizio Santise, un tempo giudice ordinario, civile e penale, poi al Tar dal 2009. Presente anche a Milano, a Napoli il suo corso è, ad oggi, il più quotato: 150 euro di iscrizione, 450 euro a bimestre e lezione singola al costo di 70 euro. Oppure pagamento intero a 2000 euro. Tutto organizzato perfettamente in forma societaria: sempre a responsabilità limitata, come è ovvio. Nome nomen, “Il Diritto Srl.” Quanti sono i laureati in giurisprudenza che, nel mare magnum del concorso in magistratura, sempre più capace di fagocitare tutto e tutti, si svenano alla ricerca dell’optimum, della preparazione migliore e dell’aggiornamento più aggiornato? Bellomo a parte, che elargisce sapere a numero chiuso, molti altri oscillano: dai 200 fino ai 400 giuristi. Questi, dunque, sono i numeri mostruosi del business dell’education 2.0 a fini concorsuali. Volendo utilizzare come parametro il bacino di utenza napoletano, il corso costa annualmente 2400 euro, compresa l’iscrizione. Con un calcolo approssimato per difetto, possiamo dire che, solo a Napoli, la gestione del post laurea frutta, al lordo, oltre 700mila euro. A questo, ovviamente, dobbiamo aggiungere il peso specifico, in termini economici, delle doppie, triple e quadruple sedi sparse per lo stivale: oltre lo stipendio già considerevole, o di magistrato amministrativo o di consigliere di Stato, dunque, si può “arrotondare” con questo secondo lavoro di lusso. I Signori del concorso, ormai, si fanno concorrenza tra loro, si scannano sui piani tariffari come banali operatori di telefonia mobile: sanno, in fondo, di non avere nel settore pubblico, soprattutto nell’Università pubblica, una valida alternativa. Sono i padroni, per larga parte, dunque, della formazione dei neo laureati: le Sspl pubbliche, infatti, funzionano per davvero? Prendiamo ed esempio quella della Federico II, a Napoli: da anni si va avanti alla rinfusa, con il numero di posti a disposizione cronicamente superiore al numero delle richieste. Risultato? Chi fa domanda, entra. Garanzie di una adeguata offerta didattica ai fini del concorso? Zero, o giù di lì. L’introduzione del tirocinio, ovviamente non retribuito, presso i tribunali, le corti d’Appello o i Tar? Utile, ma non basta. Nemmeno le Sspl private, da sole, offrono le necessarie garanzie: ed allora servono loro, i “Signori del concorso.” Il sistema concorsuale, ad oggi, è una gallina dalle uova d’oro: il numero di coloro che tentano i concorsi pubblici aumenta anno per anno, così, i corsi di formazione garantiscono introiti senza precedenti. Società a responsabilità limitata: impresa, business. Come mai nessuno ne parla? Possibile che vi sia tale discrasia tra magistratura ordinaria ed amministrativa? Ed ancora, quanto incide questa commercializzazione del concorso sul profilo dei futuri magistrati? I giovani candidati hanno ben poche responsabilità: il percorso descritto, come abbiamo detto, è pressoché obbligato. La domanda che ci poniamo, dunque, è tremendamente semplice e squisitamente di “opportunità” : a queste cifre, e con questi introiti, si può essere ancora magistrati? O si è altro?

La certezza del diritto (l’inchiesta di Report sui magistrati e la Consulta), scrive il 29/11/2015 triskel182. A seconda di come scrivi le leggi, poi i giudici le interpretano. E le sentenze arrivano con comodo. E poi entreremo nel cuore del sistema giudiziario: chi sceglie procuratori e dirigenti, e con quali criteri? Qual è la certezza del diritto? E poi: a breve verranno scelti gli alti dirigenti dei più importanti uffici giudiziari, chi fa le nomine e con quali criteri? Due dipendenti un pescivendolo e un macellaio vengono licenziati per giusta causa (facevano un altro lavoro): fanno causa al datore di lavoro e uno dei due viene riassunto, dopo 11 anni. Come mai questa diversa decisione? Un giornalista Rai che lavora tutte le domeniche per qualche ora (da 10 anni) e fa pure causa all’azienda per demansionamento (nonostante abbia un incarico dirigenziale). LA Rai prova a licenziarlo ma i giudici lo reintegrano. Come andrà a finire? Una cardiologa di professione che va a cantare in televisione mentre è in malattia. Licenziata, ma riassunta dal giudice di Cassazione. Come mai? Uno può essere in malattia e fare attività hobbistica? Sono alcuni degli spunti da cui parte il servizio di Report di questa sera, condotto dalla giornalista Claudia di Pasquale: si parla di giustizia, di certezza del diritto (la legge è uguale per tutti e non c’è bisogno di andare fino a Berlino) e di chi la amministra. Si parlerà dunque dei magistrati, di come sono organizzati gli uffici giudiziari, come vengono decise le promozioni e di come, spesso, giudici diversi applichino le leggi in modo diverso. Come vengono scelti i giudici, come vengono selezionati i migliori per guidare gli uffici, come viene premiato il merito o sanzionati gli errori (che pure ci sono)? Decide tutto il CSM, l’autogoverno dell’ordine giudiziario, il parlamentino di cui fanno parte magistrati e membri laici, ovvero politici eletti. Il presidente è Mattarella e il vice, cui vengono delegati i compiti, è l’ex sottosegretario Legnini (la sua nomina dal governo al CSM suscitò qualche polemica). Come si muove il CSM, dunque? A Palermo bloccò la nomina del procuratore capo, con pretesti che fecero nascere il sospetto che si volesse spingere una nomina che non fosse sgradita alla politica. Erano i tempi delle polemiche sul processo alla trattativa stato mafia. Alla fine il CSM, dunque anche la politica, nominò un magistrato che non aveva avuto esperienze dirigenziali. A Milano il procuratore Bruti Liberati ha legato il suo fine mandato con la fine di Expo (come mai?). In questi mesi di Expo le inchieste della procura di Milano sugli appalti sembra che si siano congelato tanto che il presidente del Consiglio si è sentito in dovere di ringraziare il “tatto” della procura. A Roma la procura veniva chiamata il porto delle nebbie, che tutte le inchieste avvolgevano facendone sparire i contorni. C’è voluto l’arrivo di Pignatone per aprire il fascicolo sui rapporti tra politica, cooperative e criminalità. Perché? Tornando indietro con la memoria, non possiamo non ricordare gli anni del CSM vicepresieduto da Mancino che allontanò da Milano la gip Clementina Forleo, il procuratore De Magistris prima da Catanzaro poi da Salerno assieme ai pm coinvolti nello scontro tra le procure. Erano gli anni delle inchieste su Bancopoli che lambirono senza toccarlo, il mondo della politica. Della Calabria dei depuratori non fatti, delle assunzioni clientelari dentro l’agenzia Why Not. La legge è uguale per tutti, dice il motto sopra le teste dei giudici nei Tribunali. L’inchiesta di Report cercherà di entrare dentro questo mondo per capire cosa c’è che non funziona e che blocca la macchina della giustizia.

La scheda dell’inchiesta “LA GIUSTA CAUSA” di Claudia Di Pasquale. La legge è uguale per tutti, ma quando si tratta di applicarla i giudici di primo grado possono pensarla in un modo, quelli di secondo grado in un altro e la Cassazione può ribaltare i verdetti precedenti: e, soprattutto, giudicare in modo opposto fattispecie che sembrano avere grandissime analogie. A tutto questo si aggiunge l’estenuante lunghezza dei processi. Un cocktail micidiale quando in ballo c’è una causa per un licenziamento che può definirsi anche dopo 10 anni. A complicare le cose ci si mettono i vuoti di organico degli uffici giudiziari e le lentezze del Consiglio superiore della magistratura che lascia gli uffici direttivi vacanti per molti mesi. Per quale motivo? E quali sono i criteri per nominare i procuratori capo, i presidenti dei tribunali, i procuratori generali presso le corti d’appello? L’inchiesta di Report proverà a spiegarlo.  Il secondo servizio rimane sempre nel mondo della giustizia: dalle procure e dal CSM ci si sposta alla Corte Costituzionale che sempre di più in questi ultimi anni ha fatto d badante alla politica andando a bocciare e rivedere molte delle leggi uscite dal Parlamento. La legge 40, la legge elettorale di Berlusconi “porcellum”, il legittimo impedimento, i lodi Schifani e Alfano. E, recentemente, la parte della riforma Fornero che bloccava l’indicizzazione delle pensioni, il taglio delle pensioni d’oro (con qualche sospetto che abbiano agito pensando anche alle loro), la nomina dei dirigenti dell’Agenzia delle entrate. Tutte decisioni che hanno avuto poi effetti concreti sulle manovre dei governi: Colpa di chi ha fatto le leggi, inesperienza, superficialità. Come racconterà Marrucci, si potevano limitare i danni, ovvero i costi che ora lo stato dovrà affrontare.

La scheda dell’inchiesta: “LA GRAN CORTE” di Giuliano Marrucci. Negli ultimi anni la Consulta ha dichiarato incostituzionali il taglio delle pensioni d’oro e degli stipendi dei manager pubblici, la nomina senza concorso di 800 dirigenti dell’agenzia delle entrate, il blocco della rivalutazione delle pensioni e anche l’utilizzo di autovelox mobili privi di taratura periodica. Tutte sentenze che rischiano di costare allo stato una montagna di quattrini. A volte si potrebbero limitare i danni, ma servirebbero leggi diverse.

REPORT, LA GABANELLI PRENDE DI MIRA I GIUDICI: È IL PANICO IN RAI. Milena Gabanelli prende la mira: cambia il bersaglio, questa volta nel mirino di Report ci sono i giudici, scrive “Libero Quotidiano” del 29 novembre 2015. Una scelta rischiosa, quella che contraddistingue la puntata di domenica 29 novembre. Né Moncler né politica, Milena punta il dito contro le toghe, contro chi conduce inchieste e processi. Una puntata attesa, curata da Claudia Di Pasquale, dal titolo La giusta causa: sul banco degli imputati, come detto, ci finiscono i giudici, i pm, i consiglieri di Cassazione, i presidenti di sezione della Suprema Corte, laici e togati, del Consiglio superiore della magistratura. Paradossi – Un terreno scivoloso, soprattutto se percorso in Rai, la tv pubblica, che tra poche ore si avventurerà in un campo minato: sentenze paradossali e contraddittorie, dati che mettono in evidenza la scarsa efficienza degli uffici giudiziari, si parlerà poi di correnti e di “fulminei” scatti di carriera ai vertici di procure e tribunali. Tra le sentenze paradossali che verranno trattate, quella di un dipendente di Auchan reintegrato anche se lavorava in nero; la cardiologa milanese reintegrata anche se in malati; il conduttore Rai, sempre reintegrato, anche se aveva cercato di assumere la moglie in trasmissione. Il punto messo in evidenza da Report è che, sui licenziamenti, al netto del Jobs Act la Cassazione può decidere tutto e il contrario di tutto. Record – L’Italia, per inciso, è campionessa di ricorsi in Cassazione. Un dato, emblematico: nel Belpaese ne vengono presentati 100mila all’anno, contro i 100 della Gran Bretagna. Dunque la Gabanelli tenterà di comprendere come sono organizzati gli uffici giudiziari del nostro Paese, entrando nel cuore del Csm, andando a “pizzicare” alcuni dei consiglieri in carica”. La Gabanelli, dunque, va a “toccare” i giudici. Una decisione pericolosa.

Licenziata perché canta in tv nel giorno di malattia dal lavoro, il giudice la reintegra. Report, l’anticipazione dell’inchiesta di Report in onda questa sera 29 novembre2015 su Rai3 alle 21.45 - Claudia Di Pasquale /Corriere TV. Mirella Spinu, cardiologa di professione e cantante lirica per passione, partecipa anni fa a una puntata del programma “I fatti vostri” dove si esibisce cantando un’aria di Puccini. Quel giorno però la dottoressa era in malattia per delle coliche addominali recidivanti, dovute a un intervento, che le impedivano di lavorare ma non di cantare in Tv. La casa di cura, per cui lavorava allora, non sapeva però nulla della sua partecipazione canora e la licenzia. La Cassazione invece la fa reintegrare, perché la guarigione non era stata ritardata e “il carattere amatoriale” della sua esibizione era “espressione dei diritti della persona”. Sempre legato alla Rai è il caso del giornalista Sandro Testi, che guadagna oltre 19mila euro al mese, ma da più di 10 anni si ritrova a non fare nulla. Nel 2002 infatti la Rai lo nomina condirettore di Rai International, ma lui presto contesta che l’incarico è privo di contenuto, e così fa causa all’azienda per demansionamento. Alla fine solo pochi giorni fa, la Corte di Cassazione gli riconosce un risarcimento di 170 mila euro per i danni causati dalla “protratta inattività”. La Rai intanto prova a licenziarlo, perché per anni Testi è andato a lavorare anche la domenica, pur non avendo un incarico, maturando oltre 500 mancati riposi. I giudici però lo reintegrano perché considerano il suo licenziamento discriminatorio. La legge sarà pure uguale per tutti, ma quando si tratta di applicarla i giudici di primo grado possono pensarla in un modo, quelli di secondo grado in un altro, e la Cassazione può ribaltare il verdetto iniziale. E quest’altalena di verdetti può durare anche dieci anni. Anche perché a rallentare la giustizia ci si mettono anche i vuoti di organico degli uffici giudiziari e le lentezze del Consiglio superiore della magistratura, che lascia gli uffici direttivi vacanti per mesi. Per quale motivo? E quali sono i criteri per nominare i procuratori capo, i presidenti dei tribunali, i procuratori generali presso le corti d’appello? L’inchiesta di Report proverà a spiegarlo.

Correnti e poltrone, come funziona il Csm. L’anticipazione della puntata di Report in onda domenica alle 21.45 su Rai3 29 novembre 2015 di Claudia Di Pasquale /Corriere TV. Come vengono scelti dal Consiglio Superiore della Magistratura i procuratori capo? E i presidenti dei tribunali e i procuratori generali presso le corti d’appello? Quali sono i criteri usati per scegliere il magistrato più idoneo a dirigere un ufficio? E quanto conta nel risiko delle nomine l’appartenenza a una delle correnti della magistratura? Intanto la storia dell’attuale procuratore di Nola Paolo Mancuso ci fa capire quale retroscena può esserci dietro una nomina. Mancuso tre anni fa sognava, infatti, la poltrona più alta della Procura di Napoli. Allora invia questo sms all’ex colonnello De Donno: “Occorre per mercoledì passaggio di M.G. su suo rappresentante in Csm. Si combatte sul singolo voto”. M.G. era Maurizio Gasparri, il suo rappresentante in Csm era invece il componente in quota Pdl Annibale Marini. La catena però si interrompe prima che la “raccomandazione” vada in porto, mentre la candidatura di Mancuso viene alla fine ritirata.

SENTENZE E CORRENTI IL «VIDEO PROCESSO» ALLE INEFFICIENZE DELLA MAGISTRATURA, scrive Dino Martirano per il “Corriere della Sera” del 29 novembre 2015. Dopo tante trasmissioni sulla corruzione e sullo Stato divorato da un ceto politico-burocratico talvolta famelico che teme solo la polizia giudiziaria, stavolta Report di Milena Gabanelli (stasera in prima serata su Raitre) punta le telecamere su chi conduce inchieste e processi. La puntata curata da Claudia Di Pasquale, «La giusta causa», mette, per così dire, sul banco degli imputati giudici e pubblici ministeri, consiglieri di Cassazione e presidenti di sezione della Suprema Corte, laici e togati del Consiglio superiore della magistratura. Per la prima volta, la trasmissione d’inchiesta ammiraglia della Rai si avventura su un terreno minato cosparso di sentenze paradossali e contraddittorie, di dati sconfortanti sull’efficienza degli uffici giudiziari, di consuetudini correntizie che a Palazzo dei Marescialli scandiscono le progressioni di carriera ai vertici di procure e tribunali. Come banco di prova per misurare equità e tempestività del sistema giustizia, Report sceglie un terreno facile, comprensibile a tutti: cioè le «sentenze paradossali» che in tema di licenziamenti hanno fin qui stabilito tutto e il contrario di tutto. La carrellata offre il dipendente siciliano di Auchan reintegrato dalla Cassazione nonostante lavorasse in nero durante un periodo di malattia; la cardiologa milanese reintegrata dai giudici supremi anche se in malattia (per coliche addominali recidivanti) partecipare come soprano alla puntata dei «Fatti vostri»; il conduttore Rai reintegrato al suo posto nonostante avesse tentato di assumere sua moglie in trasmissione; il dirigente scolastico del Trevigiano reintegrato dopo essersi messo in tasca 197 mila euro di fondi pubblici. Sull’altro piatto della bilancia, i licenziamenti confermati dal giudice del lavoro, Report propone il dipendente di un centro commerciale che ci ha rimesso il posto perché in malattia aveva sostituito un amico per pochi minuti; l’operaio di Fincantieri mandato a casa per essersi appropriato di un dischetto metallico da 16 euro mentre 5 ladri di merendine sono stati reintegrati in un supermarket ligure. Sui licenziamenti — al netto del Jobs act che limita le tutele ex articolo 18 solo a 9 milioni di vecchi assunti — la Cassazione può sentenziare tutto e il contrario di tutto. «E un fatto fisiologico — spiega a Report Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione — perché tanto più aumentano i ricorsi tanto più aumentano le possibilità di contrasto». E se l’Italia è campione di ricorsi in Cassazione (100 mila l’anno, contro i 100 della Gran Bretagna), bisognerebbe capire bene come vengono organizzati gli uffici giudiziari. Su questa domanda Report entra nel cuore del Csm, l’organo di autogoverno della magistratura, che tutto dispone su carriere, trasferimenti e disciplinare. Così i consiglieri in carica interpellati (Zanettin, Balduzzi, Morgini, Fracassi, Balducci, Pontecorvo, San Giorgio) sono costretti a giocare in difesa. Mentre il vice presidente Giovanni Legnini, che ha lasciato il segno proprio con un intervento sul Corriere della Sera sulle ricadute economiche delle decisioni del giudice, la mette così: «Il giudice ha bisogno di una formazione continua interdisciplinare... ha bisogno di specializzazione, di coltivare cultura dell’organizzazione...». Ma qui si entra in un ambito che forse merita altre puntate. Non solo di Report.

PUNTATA DEL 29/11/2015. LA GIUSTA CAUSA di Claudia Di Pasquale

La legge è uguale per tutti, ma quando si tratta di applicarla i giudici di primo grado possono pensarla in un modo, quelli di secondo grado in un altro e la Cassazione può ribaltare i verdetti precedenti: e, soprattutto, giudicare in modo opposto fattispecie che sembrano avere grandissime analogie. A tutto questo si aggiunge l’estenuante lunghezza dei processi. Un cocktail micidiale quando in ballo c’è una causa per un licenziamento che può definirsi anche dopo 10 anni. A complicare le cose ci si mettono i vuoti di organico degli uffici giudiziari e le lentezze del Consiglio superiore della magistratura che lascia gli uffici direttivi vacanti per molti mesi. Per quale motivo? E quali sono i criteri per nominare i procuratori capo, i presidenti dei tribunali, i procuratori generali presso le corti d’appello? E quanto conta nel risiko delle nomine l'appartenenza dei magistrati a una delle correnti della magistratura? Sta di fatto che il funzionamento del Csm è stato criticato dai suoi stessi capi, cioè dai presidenti della Repubblica. Già nel giugno 2009, davanti al plenum del Csm, Giorgio Napolitano aveva detto che «il Consiglio deve esercitare le sue funzioni senza farsi, tra l'altro, condizionare nelle sue scelte da logiche di appartenenza correntizia». Mentre pochi mesi fa l'attuale presidente della Repubblica Mattarella, che è anche presidente del Csm, ha dichiarato che la nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari deve essere rapida e non deve essere «ritardata dalla ricerca di intese su una pluralità di nomine».

MILENA GABANELLI IN STUDIO Cominciamo con la storia dei licenziamenti per giusta causa, almeno quelle che secondo i comuni mortali, sembrano per giusta causa; anche per qualche giudice, ma per qualcun altro no, perché le leggi sono elastiche e cavillose e a seconda della sensibilità di chi giudica la bilancia può pendere da una parte oppure dall’altra.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questa è la puntata dei Fatti Vostri del 17 maggio 2001. DA FATTI VOSTRI DEL 17/05/2001 MASSIMO GILETTI Diamo il benvenuto alla dottoressa Mirela Spinu. Benvenuta dottoressa. Un cardiologa che sotto il suo camice bianco, nasconde gli abiti di scena della Traviata o della Bohème.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Quel giorno la dottoressa non era al lavoro perché era in malattia per delle coliche addominali recidivanti, che non le hanno impedito di andare da Milano a Roma in aereo, di dormire in albergo e di cantare in tv.

CLAUDIA DI PASQUALE Possiamo dire che queste coliche addominali non le consentivano di lavorare, ma le consentivano di cantare?

MIRELA SPINU - CARDIOLOGA Assolutamente sì. Non erano così gravi, così severi da impedirmi di uscire di casa, o da fare dei brevi spostamenti, così come è stato quello fatto a Roma.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma la casa di cura che sapeva ovviamente che lei stava male, sapeva che lei andava a Roma a fare questa… a partecipare ad una trasmissione?

MIRELA SPINU - CARDIOLOGA No. La casa di cura, no. No.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La casa di cura, dove lavorava a quel tempo quindi la licenzia; lei fa ricorso e lo perde. Ma poi vince in appello e in Cassazione. E così la casa di cura la reintegra e le paga quasi 100mila euro di stipendi e contributi arretrati.

CLAUDIA DI PASQUALE Insomma per la Cassazione possiamo dire che una persona può essere in malattia…?

PASQUALE SCALAMBRINO – AVVOCATO MIRELA SPINU Sì. Può essere in malattia…

CLAUDIA DI PASQUALE ... per il proprio datore di lavoro, ma può andare a cantare in sostanza… per…

PASQUALE SCALAMBRINO – AVVOCATO MIRELA SPINU Può andare a cantare, può svolgere attività hobbistica, sportiva, canora e l’attività canora è stata nel caso in questione ritenuta addirittura come d’esercizio di un diritto soggettivo della persona. Ci sono precedenti di Cassazione di persone che in malattia, svolgevano attività di tipo velico.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questa invece è la trasmissione televisiva “Paesi che vai” di Rai1. Qui ad essere stato licenziato è stato il conduttore Livio Leonardi. Aveva proposto l’assunzione della moglie come consulente del programma, nonostante il codice etico dell’azienda vieti la contrattualizzazione di figli, parenti e mogli dei dipendenti Rai.

VALERIO FIORESPINO – DIRETTORE RISORSE UMANE RAI Il dirigente che ha richiesto la contrattualizzazione della persona che era la moglie, quando ha dovuto compilare la richiesta, ha dichiarato che non aveva rapporti di parentela con questa persona. Non abbiamo fatto il contratto alla signora e abbiamo contestato al collega di aver fatto una dichiarazione mendace. E sulla base di quello, lo abbiamo licenziato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il giudice però lo fa reintegrare. Perché tra moglie e marito non c’è un rapporto di parentela, ma di coniugio e, siccome la parola coniugio non era nel modulo firmato, il dirigente non aveva mentito.

VALERIO FIORESPINO – DIRETTORE RISORSE UMANE RAI Qui stiamo parlando di un modulo che poteva essere fatto meglio, rispetto ad un comportamento che francamente contrasta in modo palese con le regole previste dal codice etico.

CLAUDIA DI PASQUALE La domanda, diciamo cattiva, che mi viene da fare è: perché nel modulo non c’era scritto anche “rapporto di coniugio”?

VALERIO FIORESPINO – DIRETTORE RISORSE UMANE RAI Ma sa, questa è una domanda giusta e le posso dire che abbiamo adeguato i moduli.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In Rai c’è pure il caso del giornalista Sandro Testi, che guadagna più di 19mila euro lordi al mese, ma da più di dieci anni si ritrova a non fare nulla. Nel 2002, quando il direttore generale era Saccà, la Rai gli aveva anche dato degli incarichi dirigenziali importanti, con tanto di macchina e autista. Ma lui aveva subito contestato che erano privi di contenuto. E così ha fatto causa all’azienda per demansionamento.

VALERIO FIORESPINO – DIRETTORE RISORSE UMANE RAI Io quello che posso dire è che quegli incarichi sono stati ricoperti nel tempo prima e dopo di lui da altri colleghi. Perché gli altri colleghi hanno svolto quegli incarichi con piena soddisfazione, tutti contenti e lui ha fatto causa per demansionamento? Allora, che ci sia una responsabilità dell’azienda probabilmente, c’è pure, perché poi in questi casi di queste conflittualità così lunghe, il torto e la ragione non sta mai solo da una parte.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Intanto Testi ha provato a chiedere alla Rai un risarcimento milionario perché non fare nulla l’ha fatto deprimere. E alla fine la Cassazione gli ha riconosciuto 170mila euro di danni per la protratta inattività.

VALERIO FIORESPINO – DIRETTORE RISORSE UMANE RAI Una persona che sono anni che assume di non avere incarichi e per questo fa delle cause e le vince pure, si scopre che va a lavorare tutte le domeniche, entra in ufficio, ci sta un’ora, un’ora e mezzo, mezz’ora, due ore, non di più, assolutamente non di più, fino ad accumulare 500 mancati riposi. Per me, uno che non ha un incarico e che tutte le sante domeniche di tutti i santi anni, va a lavorare, è un’anomalia. E l’abbiamo licenziato.

CLAUDIA DI PASQUALE E il giudice?

VALERIO FIORESPINO – DIRETTORE RISORSE UMANE RAI È stato rintegrato, alla prima udienza.

CLAUDIA DI PASQUALE L’ha reintegrato.

VALERIO FIORESPINO – DIRETTORE RISORSE UMANE RAI Assolutamente sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Testi non ha voluto farsi intervistare ma si difende dicendo che la Rai sapeva che lui andava a lavorare anche di domenica. Salvatore vive a Catania, è disoccupato e dà una mano al figlio che ha aperto una casa del pesce.

CLAUDIA DI PASQUALE Gambero di paranza.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In passato, invece, Salvatore è stato addetto part time al reparto pescheria di questo supermercato Auchan. Fino a quando un giorno nel lontano 2004 si fa male a un polso, tagliando un trancio di pesce. Il supermercato gli dà allora dei giorni di riposo per infortunio. Ma proprio in quei giorni viene beccato a lavorare in un’altra pescheria.

SALVATORE E mi hanno licenziato per simulazione di infortunio.

CLAUDIA DI PASQUALE Io ho capito, devo dirle, dalla vicenda, che lei era stato sorpreso a lavorare per un’altra pescheria, dove lavorava in nero.

SALVATORE No, no. Completamente. Io ci andavo per aggiornamenti miei.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei dice era solo un aggiornamento per vedere cosa?

SALVATORE I calamaretti piccolini, le seppioline, polipetti piccoli, gli sparaganasci, le triglie quelle piccoline, il neonato. Tutti questi pesci particolari.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi, lei stava studiando in quest’altra pescheria. Non stava lavorando, lei dice.

SALVATORE No, no. Completamente.

CLAUDIA DI PASQUALE Ok.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il suo avvocato però ci dice una cosa diversa.

GIUSEPPE GRIMALDI GUERRERA – AVVOCATO Lui collaborava presso una casa del pesce, dove faceva piccoli lavori.

CLAUDIA DI PASQUALE Noi possiamo dire che comunque lui lavorava per quest’altra pescheria?

GIUSEPPE GRIMALDI GUERRERA – AVVOCATO Certo, prestava un’attività lavorativa per la pescheria.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO I giudici di primo e secondo grado hanno ritenuto scorretto il comportamento di Salvatore e hanno confermato il suo licenziamento. Dopo quasi 11 anni, però, a marzo 2015 la Cassazione ha ribaltato il verdetto: la scarsa lealtà dimostrata dal lavoratore non era un buon motivo per licenziarlo. E così ora il supermercato dovrà reintegrarlo e pagargli 10 anni di stipendi arretrati più tutti i contributi.

CLAUDIA DI PASQUALE Sarà contento però.

SALVATORE Certo.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma si sono fatto sentire questi di Auchan?

SALVATORE Più che altro, loro non vorrebbero che io rientri al lavoro.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei vorrebbe rientrare invece?

SALVATORE Sì. CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il paradosso è che la sentenza di reintegra di Salvatore è arrivata proprio in questi mesi, quando a causa della crisi centinaia di dipendenti di Auchan sono andati in esodo volontario. A Roberto è successa una cosa simile, ma con esito opposto. Anche lui lavorava in una catena di supermercati e anche lui è stato licenziato nel 2003 dopo essere stato sorpreso a lavorare per altri durante un periodo di malattia.

ROBERTO Ero in malattia, un amico mi aveva chiesto se potevo andare a sostituirlo per mezz’ora. E io mezz’ora ci sono andato. E il lunedì quando sono rientrato, mi hanno sospeso, non mi hanno fatto entrare per niente.

CLAUDIA DI PASQUALE In primo grado, cosa dicono i giudici?

ROBERTO I giudici dicono che io ho sbagliato, però è stato troppo severo il licenziamento.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi aveva vinto tutti i gradi?

ROBERTO Tutti i gradi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Fino a quando nel 2014, undici anni dopo il fatto, la Cassazione conferma il licenziamento.

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa dice quest’ultima sentenza che di fatto conferma invece il licenziamento avvenuto nel lontano 2003.

ROBERTO Si fonda tutto sulla slealtà. Secondo loro, io sono stato sleale.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma quanto anni ha lei oggi?

ROBERTO 59 anni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In un supermercato della Liguria, invece, cinque dipendenti vengono sorpresi a rubare merendine, gelati, succhi di frutta e così vengono licenziati.

MAURIZIO FASCE – DIRETTORE PERSONALE COOP LIGURIA La cooperativa ha licenziato, non per aver subito un furto, ma ha licenziato perché si è interrotto il vincolo fiduciario.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Cassazione però fa reintegrare i ladri di merendine perché il valore della merce sottratta era tenue. Livio invece lavorava per Fincantieri anche lui viene licenziato con l’accusa di avere sottratto beni di poco valore.

LIVIO – EX DIPENDENTE FINCANTIERI Erano dischi da taglio per il ferro mi sembra.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma questi dischetti, quanto valevano?

LIVIO – EX DIPENDENTE FINCANTIERI Mi sembra che sia stato circa un valore di 16 euro.

CLAUDIA DI PASQUALE E per questo lei è stato licenziato e non ha potuto più lavorare?

LIVIO – EX DIPENDENTE FINCANTIERI Assolutamente.

CLAUDIA DI PASQUALE E lei ha trovato un lavoro dopo?

LIVIO – EX DIPENDENTE FINCANTIERI No.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In questo caso, infatti, la Cassazione ha confermato il licenziamento di Livio.

MARCO GIANNINI – AVVOCATO Chiaramente il fatto è lo stesso. L’impossessamento illecito. Sia delle merendine che dei dischetti da parte del signor Acerbi. Il valore è tenue per entrambi i casi. Le giustificazioni c’erano in entrambi i casi. Il signor Acerbi è senza lavoro da dieci anni, è stato licenziato. Gli altri lavoratori invece continuano a lavorare. Lei capisce che è una questione di vita, eh? Lavorare o non lavorare.

GIUSEPPE GRIMALDI GUERRERA – AVVOCATO Oggi non c’è una certezza del diritto. Manca. Il cittadino si presenta davanti alla Magistratura portando il proprio caso. Ma non esiste una certezza già predefinita. E non si saprà mai perché cambia a seconda del Magistrato, quale conseguenza può avere un caso o un altro caso.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ma perché in casi simili un giudice ti reintegra e un altro ti licenzia? Giriamo la domanda al Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione.

GIORGIO SANTACROCE – PRIMO PRESIDENTE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Si conosce quella che è una certa giurisprudenza, ma c’è un collegio che ad esempio è dell’idea diversa da quella dei componenti di un altro collegio. Questo può capitare. Direi che è fisiologico, in sostanza, nello svolgimento di quella che è l’attività del giudice, no? Mi rendo conto che queste situazioni possano creare disorientamento soprattutto appunto, all’esterno.

CLAUDIA DI PASQUALE È corretto che comunque intanto una causa come quella di un licenziamento si possa risolvere dopo 10 anni?

PASQUALE CICCOLO – PROCURATORE GENERALE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE La durata del processo è un problema drammatico, però per risolvere il problema ci vuole la necessità che gli organici siano pieni. Oggi oscilliamo su circa 1500 vuoti di organico.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel frattempo per superare le lungaggini e le incertezze della giurisprudenza, il Governo ha tagliato la testa al toro e con il Jobs Act, dal 7 marzo 2015 in poi, ha cambiato la normativa sui licenziamenti radendo al suolo l’articolo 18.

MICHELE TIRABOSCHI – GIUSLAVORISTA CENTRO STUDI ADAPT-MARCO BIAGI Un lavoratore assunto a tempo indeterminato con il nuovo regime giuridico, se viene licenziato non ha più diritto alla reintegrazione del posto di lavoro, cioè a riprendere possesso del suo rapporto di lavoro, del suo posto di lavoro, come se mai fosse avvenuto il licenziamento.

FRANCESCO ROTONDI – AVVOCATO LABLAW Solo la prova della inesistenza del fatto può portare alla reintegra. Cioè, io ti contesto di aver mosso questa biro, questa biro non l’hai mossa, ti reintegro. Se invece questa biro l’hai mossa poco o tanto eccetera, il fatto sussiste, per cui la reintegrazione non c’è. Questo è il concetto.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi in questo caso il giudice potrà solo...

FRANCESCO ROTONDI – AVVOCATO LABLAW ... dare un’indennità.

PIETRO ICHINO – SENATORE Col Jobs Act l’opinabilità del giudice non può portare a quelle catastrofi di cui abbiamo parlato prima. Nel peggiore dei casi ci sarà un costo per l’impresa di cui è prevedibile l’entità.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel suo ultimo libro il senatore Ichino cita proprio la sentenza di reintegra del pescivendolo Salvatore come caso paradossale che giustifica l’azzeramento dell’articolo 18. Ma questa sentenza sarebbe stata diversa se fosse stata pubblicata quando è entrata in vigore la nuova normativa sui licenziamenti?

PIETRO ICHINO – SENATORE No, perché la riforma si applica soltanto alle nuove assunzioni, ai rapporti che si costituiscono dal 7 marzo in poi e quindi, poiché il nostro addetto alla pescheria era sicuramente stato assunto molto prima, la sentenza sarebbe stata la stessa.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi tutte queste sentenze paradossali continueranno ad esserci?

PIETRO ICHINO – SENATORE Queste sentenze paradossali potranno continuare ad esserci per i vecchi rapporti di lavoro.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti sono oggi i lavoratori assunti a tempo indeterminato?

PIETRO ICHINO – SENATORE A cui si applica l’articolo 18?

CLAUDIA DI PASQUALE Sì. PIETRO ICHINO – SENATORE Circa nove milioni.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei cosa ne pensa del fatto che questa normativa vale solo per i nuovi assunti?

MICHELE TIRABOSCHI – GIUSLAVORISTA CENTRO STUDI ADAPT-MARCO BIAGI Che crea un nuovo regime di apartheid: è una separazione tra il prima e il dopo che non ha giustificazioni razionali.

MARIALUISA GNECCHI – DEPUTATA Due lavoratori che incappano nello stesso errore o nella stessa situazione di licenziamento potrebbero essere trattati in un modo diverso.

CLAUDIA DI PASQUALE Saranno trattati in un modo diverso. Non potrebbero.

MARIALUISA GNECCHI – DEPUTATA Questo creerà delle differenze tra i lavoratori.

CLAUDIA DI PASQUALE Dico, l’avete pensata voi questa legge quindi mi chiedo: per quale motivo avete concepito il Jobs Act sapendo che si creavano queste differenze tra i lavoratori?

MARIALUISA GNECCHI – DEPUTATA Lei mi ha detto che noi l’abbiamo fatta. Allora, la delega lavoro è fatta dal governo. Le commissioni parlamentari possono dare solo un parere sui decreti legislativi che attuano la delega.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il parere della Commissione Lavoro è stato alla fine favorevole. E così oggi in caso di licenziamento ci saranno lavoratori di serie A che potranno essere reintegrati dai giudici e lavoratori di serie B che andranno a casa con un indennizzo.

CLAUDIA DI PASQUALE Si giustifica l’eliminazione della reintegra, e quindi dell’articolo 18, proprio sulla base di queste sentenze paradossali che sono state emesse dai giudici e anche dalla Cassazione. Secondo lei, i giudici non hanno una responsabilità in questo senso?

GIORGIO SANTACROCE – PRIMO PRESIDENTE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Bah, questo sa è difficile poterlo dire, forse dovrebbe sentire il presidente della sezione lavoro per poter avere una risposta più precisa su questa situazione.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Il presidente della sezione lavoro Federico Roselli, che è anche quello che ha deciso in merito al reintegro del pescivendolo di Catania e al risarcimento del dirigente Rai, ci ha risposto che “il giudice parla solo con le sentenze”. Se poi a noi sembrano paradossali è un problema nostro, ma non ci impuntiamo su questo. Quello che non è accettabile è che venga stabilito dopo 11 anni se una persona che ha 59 anni deve essere licenziata o se un datore di lavoro ti deve reintegrare pagandoti tutti gli arretrati. Metti che sei una piccola azienda, che fai? Questo avviene nel privato e anche la Rai per quel che riguarda la gestione del personale adotta gli stessi criteri. Come funziona invece nel pubblico?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A Savona nel 2013 vengono condannati in primo grado a 4 anni e mezzo alcuni dipendenti dell'ospedale San Paolo coinvolti in un giro di mazzette sui funerali.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi che provvedimenti prendete?

MARIA BEATRICE BOCCIA – DIRETTRICE RISORSE UMANE ASL2 SAVONESE Abbiamo soprattutto proceduto alla sospensione dei dipendenti.

CLAUDIA DI PASQUALE Oggi queste persone, questi dipendenti, lavorano o sono sospesi?

MARIA BEATRICE BOCCIA – DIRETTRICE RISORSE UMANE ASL2 SAVONESE No, lavorano a seguito dell’ordinanza del giudice del lavoro. Sono stati riammessi in servizio.

FLAVIO NEIROTTI – DIRETTORE GENERALE ASL 2 SAVONESE Il giudice ha definito, appunto, che queste persone andavano reintegrate. Poi, ci piaccia o non ci piaccia, questo è un altro discorso.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Veniano, Lombardia. Samantha viene fermata da due vigili del comune, lei era senza assicurazione e il rischio era quello di pagare una multa di 3000 euro. A quel punto uno dei due vigili... SAMANTHA Inizia a farmi capire che se io fossi stata carina con lui, lui, loro avrebbero chiuso un occhio sulla situazione, ecco.

CLAUDIA DI PASQUALE Loro avrebbero chiuso un occhio?

SAMANTHA Sì, loro avrebbero chiuso un occhio. Tutti e due giocavano, sapevano le cose.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Samantha denuncia subito i due vigili che vengono licenziati. Uno dei due però fa ricorso e, per un cavillo, viene reintegrato dal giudice, anche se ha patteggiato sei mesi per abuso d’ufficio. Oggi lavora a Guanzate.

SAMANTHA Non se lo merita il ruolo di vigile. Come persona di cui la gente si deve fidare. Non è un ruolo che gli spetta più secondo il mio parere.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Qui siamo invece nel Trevigiano; un anno fa salta fuori che l’ex dirigente amministrativo di questa scuola ha sottratto nel corso degli anni ben 197mila euro di soldi pubblici. Lui patteggia due anni, la scuola lo licenzia, ma il giudice lo fa reintegrare per un vizio di forma.

GENITORE Cioè, per dire come una cassiera del supermercato che ha rubato la rimetti a fare la cassiera?

GENITORE La cosa che colpisce è la differenza con il privato. Dove, uno che mi ruba 200mila euro non è che domani lo rimetto a fare la mia contabilità della ditta. Cioè, è una cosa un po’ che stride, quindi ci dà da pensare e ci preoccupiamo insomma.

GENITORE Ma cosa dico a mio figlio che il prossimo anno va in seconda elementare e mi chiede: “mamma ma perché io se sbaglio mi metti in punizione e il signore no?”. Che gli dico?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per evitare casi come questo l’onorevole Rubinato ha presentato un emendamento alla riforma della Pubblica Amministrazione. Peccato che nel testo approvato non ce ne sia traccia.

SIMONETTA RUBINATO - DEPUTATA Eh, beh, certo che io sarei stata felice che il mio emendamento fosse approvato, non ci sono dubbi, era sicuramente molto stringente.

CLAUDIA DI PASQUALE Non è un po’, però, un’occasione persa non aver approvato questo emendamento ora, con la riforma della Pubblica Amministrazione?

SIMONETTA RUBINATO - DEPUTATA Non sarebbe comunque entrato in vigore, quindi non avrebbe avuto efficacia domani mattina nella realtà.

CLAUDIA DI PASQUALE Certo. E invece la nuova normativa sui licenziamenti introdotta dal Jobs Act, vale per i dipendenti pubblici?

SIMONETTA RUBINATO - DEPUTATA Mmh, mi fa una buona domanda. Non ho seguito i lavori del Jobs Act nella commissione deputata quindi francamente io in questo momento la certezza non gliela so dare.

PIETRO ICHINO - SENATORE Per i nuovi dipendenti pubblici, cioè quelli che vengono assunti da qui in avanti, sì. Poiché non esiste una disciplina specifica del licenziamento per il settore pubblico, si applica la nuova norma.

CLAUDIA DI PASQUALE Il Jobs Act vale per i dipendenti pubblici o no?

MARIALUISA GNECCHI – DEPUTATA Vale solo ed esclusivamente per quanto riguarda i congedi parentali. Per tutto il resto non vale.

CLAUDIA DI PASQUALE Il Jobs Act con il pubblico non c’entra nulla.

MARIALUISA GNECCHI – DEPUTATA Assolutamente nulla.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché Ichino dice che invece bisogna applicarlo anche ai lavoratori pubblici. E secondo lui va applicato. MARIALUISA GNECCHI – DEPUTATA È una sua speranza. È una sua convinzione.

CLAUDIA DI PASQUALE Fate parte dello stesso partito, giusto?

MARIALUISA GNECCHI – DEPUTATA La pratica e l’esperienza dimostrerà che non è così.

CLAUDIA DI PASQUALE Se le leggi fossero scritte meglio, se addirittura chi ha pensato la legge, Ichino la pensi in un modo e lei la pensa in un altro...

MARIALUISA GNECCHI – DEPUTATA Mi sembra che sul lavoro sia una cosa abbastanza normale...

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa normale?

MARIALUISA GNECCHI – DEPUTATA Che le sentenze paradossali non si correggono con una legge più o meno corretta, possono esistere delle sentenze...

CLAUDIA DI PASQUALE Forse era meglio definire il concetto di giusta causa un po’ meglio.

CLAUDIA DI PASQUALE Ministro possiamo farle una domanda? Siamo di Report, abbiamo un dubbio: vogliamo sapere se il Jobs Act e i licenziamenti previsti dalla nuova normativa valgono anche per i dipendenti pubblici. Ci dica almeno lei qualcosa: Ichino dice di sì, la Gnecchi dice di no, la Rubinato non lo sa, lei cosa ci dice?

MARIANNA MADIA – MINISTRO PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Arrivederci.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Il ministro Madia ha detto più volte che le nuove norme sui licenziamenti non valgono per i dipendenti pubblici; quindi la legge discrimina fra pubblico e privato, ma anche fra privato e privato, perché, come abbiamo sentito, per chi è stato assunto prima del 7 marzo valgono le vecchie, per i nuovi non c’è tanto da interpretare. Comunque nessuna legge ha risolto il problema dei tempi biblici, nemmeno quando le cause arrivano davanti alla Corte Suprema. Pubblicità e poi vedremo il perché e anche come vengono nominati i capi delle procure.

PUBBLICITÀ MILENA GABANELLI IN STUDIO Allora. Stavamo parlando dei licenziamenti per giusta causa, dei tempi biblici, del fatto che su casi simili ci sono sentenze completamente diverse. Allora. Che cosa dovrebbe fare un giudice prima di emettere una sentenza? Andare a vedere in casi simili che cosa è stato deciso dalla Corte di Cassazione, che ha il compito di garantire l’applicazione uniforme delle leggi, ma anche lì può capitare che ognuno decida a seconda di come vede il bicchiere. E allora, questa uniformità va a farsi benedire. Perché?

GIORGIO SANTACROCE – PRIMO PRESIDENTE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE La frammentazione, la possibilità di contrasti in giurisprudenza è strettamente legata alla mole smisurata dei ricorsi, al numero smisurato dei ricorsi. Quanto più aumentano i ricorsi tanto più aumentano le possibilità di contrasto. Ora è chiaro che può accadere anzi diventa quasi normale che un collegio non conosca quelle che sono le decisioni assunte da un altro collegio, ad esempio nei giorni immediatamente precedenti o successivi. A volte questi contrasti esistono nell’ambito dello stesso collegio, nell’ambito della stessa sezione.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti sono i ricorsi che vengono presentati ogni anno?

GIORGIO SANTACROCE – PRIMO PRESIDENTE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE In totale pendono fra civile e penale 137.026 ricorsi, una cifra da capogiro.

CLAUDIA DI PASQUALE Esiste un altro paese in Europa che ha un numero così alto di ricorsi?

GIORGIO SANTACROCE – PRIMO PRESIDENTE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE No.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In Francia i ricorsi in Cassazione sono circa 26mila l’anno; in Germania e Spagna si aggirano sui 7000; mentre la Cassazione inglese si occupa di meno di 100 ricorsi l’anno. A fronte degli oltre 100mila ricorsi della Corte Suprema italiana.

GIORGIO SANTACROCE – PRIMO PRESIDENTE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Il vero problema dell’Italia è che il ricorso per Cassazione non è considerato un rimedio eccezionale, da noi ad esempio si può arrivare in Cassazione per un’infrazione al codice della strada per un divieto di sosta.

CLAUDIA DI PASQUALE Quanti sono gli avvocati cassazionisti?

ANIELLO NAPPI – MAGISTRATO CASSAZIONE ED EX COMPONENTE CSM Ecco in Germania una quarantina, in Francia un centinaio. CLAUDIA DI PASQUALE E in Italia?

ANIELLO NAPPI – MAGISTRATO CASSAZIONE ED EX COMPONENTE CSM Più di 50mila. Se ciascun avvocato fa già un ricorso l’anno sono già 50mila ricorsi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ma se fuori la Cassazione è assediata da migliaia di ricorsi, dentro… Ogni singolo consigliere partecipa di regola a quattro udienze al mese; ogni presidente titolare di sezione tiene udienza due volte al mese; anche le sezioni unite civili tengono due udienze ogni mese; mentre le sezioni unite penali tengono udienza una volta al mese. Il resto del tempo lo passano a leggersi le carte. Ricorsi definiti in un anno 80mila ma non basta.

ANIELLO NAPPI – MAGISTRATO CASSAZIONE ED EX COMPONENTE CSM Il civile ha un arretrato di circa 100mila ricorsi.

CLAUDIA DI PASQUALE Nel civile, vorrei capire, se io presento un ricorso dopo quanti anni posso sperare di avere una sentenza?

ANIELLO NAPPI – MAGISTRATO CASSAZIONE ED EX COMPONENTE CSM 5/6 anni dalla Corte.

CLAUDIA DI PASQUALE La Corte non è che fa indagini…?

ANIELLO NAPPI – MAGISTRATO CASSAZIONE ED EX COMPONENTE CSM No, no deve solo decidere. Decidiamo oggi ricorsi presentati nel 2009, nel 2008, talora nel 2007.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Le cose vanno meglio nella sezione penale dove i ricorsi vengono definiti nel giro di un anno, anche perché il 63% viene dichiarato inammissibile.

PIERCAMILLO DAVIGO – MAGISTRATO CASSAZIONE Per ogni ricorso dichiarato inammissibile noi infliggiamo una sanzione pecuniaria, condanniamo il ricorrente il cui ricorso è stato dichiarato inammissibile a versare una somma alla cassa delle ammende che di solito è di mille euro. Il problema è che non li paga nessuno. Se pensa che solo la nostra settima sezione penale ogni giorno infligge credo circa 250mila euro alla cassa delle ammende, se venissero riscosse pagherebbero il funzionamento della Corte. Fino a quando conviene impugnare la gente impugnerà. Questa è la questione.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Ma c’è sempre una spiegazione a tutto. I ricorsi penali inammissibili, dice il Ministero della Giustizia, nel 2014 sono stati il 61,9%, pari a 32.000 ricorsi sui quali dovrebbe essere stata applicata una sanzione di circa mille euro: fa 32 milioni. Quanto è stato incassato? Sempre sul sito del Ministero leggiamo 7,6 milioni. Ne mancherebbero un bel po’. E poi già che ci siete, magari correggete il refuso: cassazione si scrive con una zeta sola. Domanda al Ministero: esattamente, qual è il totale delle sanzioni e quanto avete incassato? Risposta la leggiamo anche qua: nella banca dati della Cassazione non c’è il campo specifico, c’è scritto proprio così, quindi non è possibile fare il calcolo del totale delle sanzioni irrogate. Fine. Mancano un po’ di soldi ma nessuno ne sa niente. È messo così il Ministero della Giustizia? Intanto in Cassazione ci sarà chi si tira il collo, c’è sicuramente chi si tira il collo, chi un po’ meno, nell’attesa che vengano nominati i 46 giudici che mancano, e a breve anche il primo presidente di Cassazione. Chi deve fare queste nomine? Il Consiglio Superiore della Magistratura, che è l’organo che garantisce l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati dagli altri poteri dello stato ed è presieduto dal Presidente della Repubblica. Adesso, a brevissimo, dovranno nominare 239 dirigenti di uffici giudiziari di mezza Italia: alcuni di questi uffici sono scoperti da tempo, ed è noto che la giustizia funziona anche quando c’è un capo che sa far marciare gli uffici, appunto. E allora, come vengono scelti come vengono reclutati, i migliori?

PAOLO BORSELLINO (BIBLIOTECA COMUNALE DI PALERMO 25/06/1992) Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione del tribunale di Palermo, Falcone concorse..

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel 1988 il Consiglio Superiore della Magistratura ha bocciato Giovanni Falcone preferendogli Antonino Meli solo perché più anziano.

PAOLO BORSELLINO Qualche giuda s’impegnò subito a prenderlo in giro... applausi...

CLAUDIA DI PASQUALE Lei era vicepresidente del Csm quando è stato bocciato Falcone.

CESARE MIRABELLI – VICEPRESIDENTE COMMISSIONE RIFORMA CSM Anche. CLAUDIA DI PASQUALE A cui fu preferito Antonino Meli.

CESARE MIRABELLI – VICEPRESIDENTE COMMISSIONE RIFORMA CSM Anche.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei in quel caso che cosa votò? Votò per Falcone o per Meli?

CESARE MIRABELLI – VICEPRESIDENTE COMMISSIONE RIFORMA CSM Non so’ stato io a determinare né una soluzione nell’altra.

CLAUDIA DI PASQUALE Si è astenuto, se non ho...?

CESARE MIRABELLI – VICEPRESIDENTE COMMISSIONE RIFORMA CSM Esattamente.

CLAUDIA DI PASQUALE Rifarebbe la stessa cosa?

CESARE MIRABELLI – VICEPRESIDENTE COMMISSIONE RIFORMA CSM Non sono in grado di dirlo davvero.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Pochi mesi fa il CSM ha bocciato la candidatura alla procura nazionale antimafia di Nino Di Matteo che ha ottenuto l’ergastolo dei killer di Pio La Torre, 16 ergastoli per l’omicidio di Rocco Chinnici, 3 per quello del giudice Saetta, 27 condanne per la strage di via d’Amelio, ha istruito il processo su Totò Cuffaro, e oggi è il PM del processo sulla trattativa Stato-Mafia. È così che Di Matteo ha fatto ricorso.

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO Non potevo accettare di fare passare che l’esperienza di 18 anni di Direzione Distrettuale Antimafia non valessero niente.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il CSM ha nominato alla procura nazionale antimafia Eugenio Pontassuglia, Marco Del Gaudio e Salvatore Dolce. E quel che è certo è che Di Matteo l’hanno bocciato per un solo punto. CLAUDIA DI PASQUALE Mi chiedevo per quale motivo non avevate dato questo punto in più in merito alla complessità dei casi che lui ha trattato per 17 anni.

MASSIMO FORCINITI – COMPONENTE CSM È passato pure del tempo mi ricordavo molto meglio quando l’ho trattato.

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa hanno fatto gli altri?

FRANCESCO CANANZI - COMPONENTE CSM Dovrei prendere la delibera, è passato anche del tempo. Sa quante nomine facciamo noi? Abbia pazienza.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Sono passati soli 7 mesi. E poi c’è stata una singolare coincidenza. Dalla fine del 2013 è noto che Totò Riina vorrebbe Di Matteo morto ammazzato proprio come Falcone.

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO Eppure il Consiglio Superiore della Magistratura ha aperto la pratica per l’eventuale trasferimento.

CLAUDIA DI PASQUALE Per ragioni di sicurezza.

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO Per ragioni di sicurezza non quando si era consolidato il rischio ma solo poche ore prima di decidere e poi di decidere negativamente sulla mia domanda di far parte della direzione nazionale antimafia.

CLAUDIA DI PASQUALE Perché non vi siete preoccupati quando è uscita in realtà come CSM ovviamente nella seconda metà già del 2013 era uscito già il problema.

VALERIO FRACASSI – COMPONENTE CSM Perché noi avevamo in quel momento dei riscontri diciamo cosi degli aspetti formali.

CLAUDIA DI PASQUALE Proprio in quel momento.

VALERIO FRACASSI – COMPONENTE CSM Certo. Guardi che non è che ho tutta questa memoria.

CLAUDIA DI PASQUALE Dice è stata soltanto una coincidenza quella richiesta di trasferimento in concomitanza con la nomina dei tre posti.

VALERIO FRACASSI – COMPONENTE CSM Lei è molto brava.

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO Non voglio parlare del mio caso ma ritengo che ormai sia evidente che un magistrato che non appartiene a nessuna corrente normalmente viene penalizzato nella carriera rispetto a chi appartiene e si attiva in funzione di una delle correnti della magistratura.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei non appartiene a nessuna corrente?

NINO DI MATTEO - MAGISTRATO No, non più, perché le correnti hanno mutuato i peggiori comportamenti che noi addebitiamo alla politica più deteriore.

GIANFRANCO CIANI – COMPONENTE COMMISSIONE RIFORMA CSM A volte si attendono magari che si liberino più posti in modo da poter accontentare un po’ tutti i gruppi che si fanno portatori di certi candidati.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo scorso 17 giugno il Csm ha nominato all’unanimità nello stesso giorno quattro procuratori generali presso le Corti d’Appello di Roma, Caltanissetta, Napoli e Milano. Due magistrati sono di Area, il gruppo delle correnti di sinistra delle toghe. Uno è di Unicost, la corrente di centro e un altro è di Magistratura Indipendente, la corrente di destra.

CLAUDIA DI PASQUALE Questi posti erano vacanti da molto tempo e da periodi completamente diversi. Perché una procura generale come quella di Napoli può restare un anno senza un procuratore?

PIERANTONIO ZANETTIN - COMPONENTE CSM E perché quelle sono le inefficienze del CSM.

CLAUDIA DI PASQUALE Ed è stato un caso che queste nomine siano state fatte tutte lo stesso giorno, cioè a Milano, Napoli, Roma, Caltanissetta...

PIERANTONIO ZANETTIN - COMPONENTE CSM Allora, siccome non siamo nati ieri, sappiamo tutti qual è la polemica, cioè che sia stato un accordo tra correnti che ha portato una spartizione tra queste cose. Io non sono in grado di dirlo.

ALDO MORGIGNI – COMPONENTE CSM L’accordo c’è sempre, perché altrimenti non si decide, no? Voglio dire l’accordo sta alla base di tutto. Sicuramente è una scelta che accontenta proporzionalmente le correnti grosso modo come stanno messe.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Alla procura generale di Milano è andato Roberto Alfonso di Magistratura Indipendente, ex procuratore capo di Bologna con un lungo passato alla Direzione Nazionale Antimafia.

CLAUDIA DI PASQUALE Io ho visto che lei è stata anche la relatrice per il dottor Alfonso, e quindi volevo capire bene...

MARIA ROSARIA SANGIORGIO – COMPONENTE CSM Però non, no, guardi, non... non rilascio dichiarazioni.

CLAUDIA DI PASQUALE Per esempio, Alfonso, che è stato nominato a Milano, mi sa dire cosa ha fatto?

RENATO BALDUZZI – COMPONENTE CSM Beh, era a Bologna ha gestito per molti anni una Procura significativa. CLAUDIA DI PASQUALE Che processi ha seguito importanti nel corso della sua carriera?

RENATO BALDUZZI – COMPONENTE CSM Ma, secondo lei diciamo la qualità di un magistrato che deve coordinare un ufficio direttivo si misura sulla notorietà dei processi che ha seguito?

CLAUDIA DI PASQUALE Vabbè non lo sa fondamentalmente che ha fatto…

RENATO BALDUZZI – COMPONENTE CSM Cioè stiamo parlando di posti dove conta molto l’equilibrio, il buon senso. CLAUDIA DI PASQUALE Lei mi sa dire cosa ha fatto Roberto Alfonso, visto che è stato...?

PIERANTONIO ZANETTIN – COMPONENTE CSM In questo momento no perché io non lo conosco personalmente. Quindi io mi sono fidato, beh intanto del giudizio unanime della quinta commissione e poi di tutte quelle esperienze che erano state indicate nel suo curriculum.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè di questi quattro di nessuno sa dirmi cosa hanno fatto, di questi quattro nominati a giugno?

PIERANTONIO ZANETTIN – COMPONENTE CSM In questo in questo momento no.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Intanto fra i bocciati per Milano c’è stato Francesco Greco, esponente di Mani Pulite, pm del crack Parmalat e delle scalate bancarie e da otto anni a capo del pool dei reati economici e finanziari della Procura di Milano.

FRANCESCO GRECO – MAGISTRATO (da “IlFattoQuotidiano.it”) Ormai la carriera si fa non perché lavori e produci processi ma perché ti occupi di tante altre cose, no? Nella formazione, consigli giudiziari, cioè c’è una costruzione del fascicolo personale che ormai è prevalente rispetto al fatto che fai i processi.

PIERCAMILLO DAVIGO – MAGISTRATO CASSAZIONE Se viene nominato un capo d’ufficio, che io mi son sempre chiesto, detto, che dovrebbe essere scelto prima di tutto perché è bravo. Ma se uno è più bravo e l’altro meno bravo, non posso votare quello meno bravo solo perché è della mia corrente.

CLAUDIA DI PASQUALE Invece cosa accade oggi? PIERCAMILLO DAVIGO – MAGISTRATO CASSAZIONE Invece accade esattamente questo, dove conta di più l’appartenenza della capacità.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche Piercamillo Davigo ha fatto un pezzo della nostra storia giudiziaria e anche lui è stato bocciato dal CSM nella corsa alla presidenza della Corte di appello di Torino.

CLAUDIA DI PASQUALE Mi sa spiegare per esempio perché avete bocciato magistrati come Davigo o per esempio come Francesco Greco visto che lei mi dice che l’aver fatto grossi processi viene valutato positivamente da voi?

GIOVANNI LEGNINI – VICEPRESIDENTE CSM Il dottor Davigo che io stimo moltissimo e il dottor Greco che io stimo moltissimo non sono mai stati bocciati, ci sono delle valutazioni che vengono fatte come lei...

CLAUDIA DI PASQUALE Non sono stati nominati?

GIOVANNI LEGNINI – VICEPRESIDENTE CSM ...Come lei sa dalla commissione preposta.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi lei mi sa spiegare perché per esempio Greco non è stato nominato? Un magistrato come Greco che ha fatto processi come il crack Parmalat...

GIOVANNI LEGNINI – VICEPRESIDENTE CSM Io ho una grandissima stima di…

CLAUDIA DI PASQUALE Le scalate alle banche...

GIOVANNI LEGNINI – VICEPRESIDENTE CSM Ho una grandissima stima di Greco e se lei si riferisce a una specifica procedura avremmo bisogno di visionare gli atti che sono stai concorrenti del dottor Greco.

CLAUDIA DI PASQUALE Alfonso.

GIOVANNI LEGNINI – VICEPRESIDENTE CSM Se hanno maggiori esperienze, attitudini, adesso non... sulla singola decisione non mi faccia dire. È tutto scritto, guardi, è tutto ampiamente motivato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Gli atti noi li abbiamo letti, quale che sia la nomina, le valutazioni di professionalità dei magistrati sono tutte piene di espressioni come “incomparabili doti naturali”, “del tutto eccezionale”, “pregevoli doti di serietà”, “encomiabile laboriosità”, “esempio fulgente di magistrato”.

ANIELLO NAPPI – MAGISTRATO CASSAZIONE ED EX COMPONENTE CSM Sono tutti geni diciamo.

PIERANTONIO ZANETTIN – COMPONENTE CSM Li chiamano medaglioni qui perché sono tutti...

CLAUDIA DI PASQUALE Medaglioni... PIERANTONIO ZANETTIN – COMPONENTE CSM Apologetici e celebrativi...

ANIELLO NAPPI – MAGISTRATO CASSAZIONE ED EX COMPONENTE CSM La disfunzione sta nel fatto che non ci sono, non c’è la possibilità di fare delle effettive e autentiche e attendibili valutazioni di merito, il sistema lo impedisce. È chiaro che i criteri diventano altri e diventano quelli che danno luogo ai baratti.

CLAUDIA DI PASQUALE L’altra corrente vota uno dei miei...

ANIELLO NAPPI – MAGISTRATO CASSAZIONE ED EX COMPONENTE CSM E io voto, la mia corrente vota uno dei suoi...

CLAUDIA DI PASQUALE Lei lo definisce proprio voto di scambio.

ANIELLO NAPPI – MAGISTRATO CASSAZIONE ED EX COMPONENTE CSM Sì sì, a volte è così.

BRUNO TINTI – EX MAGISTRATO Quando ci sono le elezioni, nel CSM ci sono le liste, esattamente come i partiti politici, in cui ogni corrente ha inserito i propri candidati e infatti il CSM è formato solo da componenti aderenti alle correnti. Io li chiamo correntocrati.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè non ce ne è neanche uno che non appartiene a nessuna corrente?

BRUNO TINTI – EX MAGISTRATO No. Nemmeno uno.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Fra i 16 magistrati eletti dal CSM c’è Luca Forteleoni di Magistratura Indipendente. La sua candidatura l’ha sponsorizzata via sms il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri che ha sponsorizzato anche Lorenzo Pontecorvo.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi è stata una cosa corretta secondo lei?

LORENZO PONTECORVO – COMPONENTE CSM Secondo me non c’è stato assolutamente nulla di scorretto.

CLAUDIA DI PASQUALE Non c’è stata un’interferenza da parte della politica? LORENZO PONTECORVO – COMPONENTE CSM Secondo me assolutamente no.

BRUNO TINTI – EX MAGISTRATO Ferri era il capo di Magistratura Indipendente prima ed è di fatto rimasto il capo di Magistratura Indipendente dopo, anche adesso che è sottosegretario quindi è un politico.

CLAUDIA DI PASQUALE E lei cosa ne pensa del fatto…

BRUNO TINTI – EX MAGISTRATO Malissimo, tutto il male possibile.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il CSM poi non è formato solo da magistrati ma anche da avvocati e professori eletti dal parlamento che, guarda a caso, sono quasi tutti ex politici, come l’ex senatrice di Forza Italia Elisabetta Casellati. Anche Zanettin è un ex senatore di Forza italia ed è il genero di Franco Coppi, che è avvocato anche di Berlusconi.

PIERANTONIO ZANETTIN – COMPONENTE CSM Un anno fa mi è stato chiesto di venire qui al CSM.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi gliel’ha chiesto?

PIERANTONIO ZANETTIN – COMPONENTE CSM Ah…me l’ha chiesto Silvio Berlusconi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Poi c’è Paola Balducci.

PAOLA BALDUCCI – COMPONENTE CSM Io ho fatto la parlamentare, prima in quota Verdi poi ora sono con Sel. CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Renato Balduzzi è l’ex ministro della salute del governo Monti. Giuseppe Fanfani del Pd è nipote del più noto Amintore e l’alfaniano Antonio Leone è un ex vicepresidente della Camera dei Deputati.

BRUNO TINTI – EX MAGISTRATO Certamente è molto indicativo della volontà del parlamento di fare il possibile per controllare l’amministrazione della giustizia.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Invece il vicepresidente del CSM Giovanni Legnini, fino a poche ore prima di essere eletto era il sottosegretario all’economia del governo Renzi, non era mai successo.

CLAUDIA DI PASQUALE Però mi conferma che era la prima volta che accadeva che un membro in carica diventasse membro del CSM.

GIOVANNI LEGNINI – VICEPRESIDENTE CSM Credo di sì, non vedo alcuna controindicazione in questa direzione.

CLAUDIA DI PASQUALE E voi quanto guadagnate in quanto componenti laici?

PIERANTONIO ZANETTIN – COMPONENTE CSM Noi guadagniamo una cifra variabile di mese in mese.

CLAUDIA DI PASQUALE Lordo 27mila euro? E 16mila…

PIERANTONIO ZANETTIN – COMPONENTE CSM Sì è 16mila.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Insomma, 16.000 euro netti al mese per l’ex senatore, ma la busta paga però non è uguale per tutti: i togati prendono un po’ meno, e poi dipende dal numero di missioni, dal numero di sedute, devono anche pagarsi il soggiorno a Roma. Però, complessivamente insomma non è un brutto prendere: lavorano quattro giorni la settimana, nel senso che devono proprio stare lì fisicamente, per tre settimane al mese. Poi i bravi lavoreranno sicuramente tutti i giorni, i furbacchioni magari si fanno i fatti loro. Certo è che di cose da fare ne hanno, e ne hanno tante. Per esempio devono occuparsi della valutazione delle carriere di 8500 magistrati, poi dei procedimenti disciplinari, insomma tantissime cose e ovviamente le nomine. A vedere i fascicoli degli aspiranti dirigenti degli uffici giudiziari, sono tutti straordinari. Ma non potrebbe essere diversamente, perché quale sostituto farà presente che il suo capo è carente quando è quello che poi gli deve firmare la relazione? Il quale capo dirà che ha un sostituto che sa lavorare male, che è come dire, come accusare se stesso di non essere capace di organizzare l’ufficio. Per cui sono sempre tutti fantastici. Chi deve scegliere, allora, come sceglie? Presumibilmente quello che si è dato da fare per la mia corrente, che può anche andar bene, purché sia bravo. Però non siamo in grado di valutarlo. Noi che ne sappiamo se quello che è stato mandato a Milano o a Palermo è il migliore, il peggiore o il mediocre. Però alla domanda “perché Tizio al posto di Caio” la risposta è: “non ricordo”. Allora, noi invece ricordiamo benissimo perché ne paghiamo le conseguenze, del fatto che sono troppi gli uffici giudiziari organizzati male. Non è che è dovuto anche al fatto che è stato scelto il capo sbagliato? Intanto gli esclusi fanno ricorso e i tar sono pieni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Francesco Lo Voi viene nominato Procuratore capo di Palermo neanche un anno fa. Pochi mesi dopo però il Tar dichiara la sua nomina illegittima e illogica, intanto si attende ancora la decisione del Consiglio di Stato sulla sua nomina.

CLAUDIA DI PASQUALE Possiamo farle qualche domanda?

FRANCESCO LO VOI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI PALERMO Grazie no.

CLAUDIA DI PASQUALE Nessuna?

FRANCESCO LO VOI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI PALERMO No, grazie, mi dispiace.

CLAUDIA DI PASQUALE In realtà volevo fare una domanda sulla sua nomina.

FRANCESCO LO VOI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI PALERMO Sulla mia nomina?

CLAUDIA DI PASQUALE Si sul fatto che il Tar...

FRANCESCO LO VOI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI PALERMO La mia nomina? Ah, quelle sono storie vecchie ormai...

CLAUDIA DI PASQUALE Vecchie, vecchie e infatti. Volevo sapere come viveva il fatto che il Tar aveva annullato, cioè aveva considerato illegittima questa nomina?

FRANCESCO LO VOI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI PALERMO Grazie, arrivederci.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Attilio Passannante si candida invece anni fa alla Presidenza della Corte d'Appello di Venezia, ma al suo posto viene scelta un'altra collega con meno titoli. Lui fa ricorso e lo vince.

ATTILIO PASSANNANTE - EX MAGISTRATO Il Consiglio Di Stato aveva detto al Consiglio Superiore: "rifai la delibera guarda che l'hai fatta male". Il Consiglio Superiore rifà la delibera, ma la fa uguale alla prima. E allora?

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè chi viene nominato?

ATTILIO PASSANNANTE - EX MAGISTRATO Sempre lei.

CLAUDIA DI PASQUALE Sempre la stessa collega?

ATTILIO PASSANNANTE - EX MAGISTRATO Sì! Viene nominata la stessa collega, ma con le stesse motivazioni che già il Consiglio di Stato aveva ritenuto viziate.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel 2005 Vincenzo Russo viene nominato procuratore di Foggia. Contro la sua nomina, viene fatto però ricorso. Russo allora manda una lattina d'olio al giudice amministrativo del Consiglio di Stato. Parte un procedimento disciplinare ma alla fine il CSM lo assolve perché il pensierino era modesto.

ANIELLO NAPPI - MAGISTRATO CASSAZIONE ED EX COMPONENTE CSM Che sia una lattina di olio o un fiore o un libro di poesie, io trovo disdicevole che un magistrato si raccomandi presso un altro magistrato per avere ragione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Paolo Mancuso si candida, invece, tre anni fa alla procura di Napoli e per questo chiede un aiuto all’ex colonnello De Donno, già indagato per la presunta trattativa Stato-Mafia. De Donno avrebbe dovuto chiamare il generale Mori, che avrebbe dovuto chiamare Gasparri, che avrebbe dovuto chiamare Annibale Marini, componente del CSM in quota Pdl. La catena però si interrompe, mentre la sua candidatura salta.

PAOLO MANCUSO - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI NOLA Del caso particolare le posso solamente dire che era stata offerta da parte di Mori e di De Donno una testimonianza a chi aveva un'ostilità preconcetta nei miei confronti...

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi lei voleva farsi benvolere da quelli di destra?

PAOLO MANCUSO - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI NOLA Già ci erano stato molti... No, io avevo avuto diversi attacchi Gasparri. Ero considerato una toga rossa, no? si diceva di un magistrato di sinistra.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei in questo momento è ufficialmente ammonito oggi dal CSM.

PAOLO MANCUSO - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI NOLA Io sono ammonito, sì. É un invito a non ripetere simile condotte.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Mancuso ha fatto ricorso e oggi è procuratore a Nola, ma un procedimento disciplinare del CSM a carico di un magistrato può durare fino a 5 anni.

CLAUDIA DI PASQUALE Ogni anno quanti procedimenti vengono invece archiviati?

PASQUALE CICCOLO - PROCURATORE GENERALE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE La media è il 94% circa.

CLAUDIA DI PASQUALE Che cosa?

PASQUALE CICCOLO - PROCURATORE GENERALE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Delle archiviazioni sul numero degli esposti. Noi facciamo azione disciplinare sul 7% degli esposti.

FRANCANTONIO GRANERO - EX PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI SAVONA Quando un magistrato prende uno svarione nessuno gli fa un procedimento disciplinare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'ex procuratore di Savona Granero, ha indagato sulla centrale a carbone di Tirreno Power che si trova dentro il centro abitato di Vado Ligure, con impianti vecchi e il parco carbone a cielo aperto. UOMO Abbiamo il carbone da tutte le parti; quando c'è aria di tramontana lo porta via.

DONNA Io ho problemi respiratori, tipo bronchite cronica.

CLAUDIA DI PASQUALE E cosa le ha detto il medico?

DONNA Il dottore mi ha detto questo, mi ha detto "è quello che respiri perché San Genesio è inquinata".

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per la procura sarebbero 427 i morti e più di 2000 i ricoveri per malattie respiratorie e cardiovascolari causati dalle emissioni della centrale di Tirreno Power, che un anno e mezzo fa viene sequestrata. Intanto vengono fatte queste intercettazioni.

CLAUDIA DI PASQUALE In queste intercettazioni si fa riferimento anche al lavoro dei magistrati e anche a lei. Che cosa si dice esattamente?

FRANCANTONIO GRANERO - EX PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI SAVONA Si dice che bisognerebbe trovare il modo di fare un procedimento disciplinare.

CLAUDIA DI PASQUALE E cioè? FRANCANTONIO GRANERO - EX PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI SAVONA E cioè di attivare in qualche modo una denuncia a mio carico presso il Consiglio Superiore in modo che io sia punito disciplinarmente.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ad essere intercettato è l'ex direttore generale di Tirreno Power, Massimiliano Salvi: "pure De Vincenti ieri mi dice: ma non si può fare un esposto al CSM? Non si può fare aprire un'indagine da parte del Ministro della Giustizia?" De Vincenti è l'attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Dei Ministri.

CLAUDIA DI PASQUALE Sottosegretario… Io non voglio disturbarla di nuovo, però noi vorremmo avere dei chiarimenti su questa storia di Tirreno Power.

CLAUDIO DE VINCENTI - SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA CONSIGLIO DEI MINISTRI Adesso stiamo parlando di altre cose!

CLAUDIO DE VINCENTI Secondo lei perché non è stato poi avviato questo procedimento disciplinare?

FRANCANTONIO GRANERO - EX PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI SAVONA Non è stato avviato perché lo sapevano che io stavo per andare in pensione e che quindi non serviva il procedimento disciplinare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questa invece è la centrale Enel di Porto Tolle nel parco naturale del delta del Po.

GIORGIO CREPALDI - COMITATO CITTADINI LIBERI PORTO TOLLE Noi ci alzavamo al mattino e trovavamo una pioggia nera sul territorio, sui raccolti, sulle auto sui davanzali; se non c'era la magistratura che prendeva in qualche modo la nostra difesa non si riusciva a venirne a capo di questa situazione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La procura di Rovigo ha fatto ben tre processi che hanno accertato la responsabilità dell'Enel e degli amministratori per danni all'ambiente e per la messa in pericolo della pubblica incolumità. Ma il PM Manuela Fasolato è finita sotto procedimento disciplinare del CSM.

MANUELA FASOLATO - MAGISTRATO Io cosa ho fatto? Quando ad un certo momento avevo bisogno di carte per le indagini le ho chieste al Ministero e, avendo delle carte che potevano essere utili al Ministero, le ho mandate al Ministero e ho pensato che fosse doveroso farlo perché era nell'interesse della salute delle persone.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per avere scritto al ministero dell'Ambiente, la Fasolato resta sotto procedimento disciplinare per ben 5 anni e alla fine viene assolta. Tutto inizia con un'ispezione mandata da Alfano su input di Luciano Violante, presidente dell'associazione “Italia Decide” che ha tra i soci fondatori l'Enel.

CLAUDIA DI PASQUALE C'è questa reale separazione tra la politica e la magistratura?

MANUELA FASOLATO - MAGISTRATO No, assolutamente.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo scorso giugno la magistratura fa sequestrare invece alcune aree dello stabilimento di Monfalcone di Fincantieri per una presunta gestione illecita dei rifiuti. Il governo dissequestra con decreto e il vicepresidente del CSM Legnini scrive questa lettera al Corriere: "le toghe valutino gli effetti delle scelte, prevedano le conseguenze delle decisioni e il loro impatto sull'economia".

CLAUDIA DI PASQUALE Lei spiega che il magistrato deve valutare il peso delle sue decisioni e il loro impatto sull'economia ponderando anche quella che è la libertà delle imprese. E siccome lei oltretutto dice che in questa direzione il CSM sta avviando una riforma delle carriere dei magistrati, mi chiedo: ma un magistrato odiato da Confindustria che possibilità ha di essere nominato?

GIOVANNI LEGNINI - VICEPRESIDENTE CSM Lei estrapola un’affermazione dal contesto. Io ho detto cose ben precise che ciascuno può leggere in quell'articolo. Quanto al modello del giudice: è nei fatti..

CLAUDIA DI PASQUALE Ce l’ho qua l’articolo GIOVANNI LEGNINI - VICEPRESIDENTE CSM Sì, sì, è nei fatti che il modello di giudice sta cambiando, nell'ordinamento e nella realtà. Oggi il giudice ha bisogno di una formazione continua interdisciplinare, ha bisogno di una specializzazione, ha bisogno di coltivare la cultura dell'organizzazione, a questo io mi riferivo.

CLAUDIA DI PASQUALE Visto che lei ha scritto quest'articolo dopo il decreto del Governo - no? - che ha permesso il dissequestro di un'area che era stata sequestrata dalla magistratura, lei quando ha scritto quest'articolo era il vicepresidente del CSM o ragionava ancora da sottosegretario all'Economia?

GIOVANNI LEGNINI - VICEPRESIDENTE CSM Ero il vicepresidente del CSM.

CLAUDIA DI PASQUALE Ne è sicuro? GIOVANNI LEGNINI - VICEPRESIDENTE CSM E riconfermo rigo per rigo, parola per parola ciò che ho scritto.

CLAUDIA DI PASQUALE Va bene, quindi è giusto che valuti l'opportunità economica

GIOVANNI LEGNINI - VICEPRESIDENTE CSM Questo lo sta dicendo lei, io non ho scritto questo. Non ho scritto questo.

CLAUDIA DI PASQUALE Lo vuole rileggere?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Intanto oggi il ministero della Giustizia ha istituto una commissione per elaborare una proposta di riforma del CSM. Tra i componenti c'è anche l'ex Procuratore Generale della Cassazione Gianfranco Ciani.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei però ha fatto parte del CSM, del Consiglio Superiore Della Magistratura?

GIANFRANCO CIANI - COMPONENTE COMMISSIONE RIFORMA CSM Sì, ma io ho fatto parte del Consiglio, ma come componente di diritto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Insomma: a pensare come riformare il CSM, ci sono un bel po' di ex componenti del CSM come Vladimiro Zagrebelski che lo è stato per due volte; Luigi Scotti che è stato ex ministro della Giustizia; Ezia Maccora ed Elisabetta Cesqui di Magistratura Democratica; Antonio Patrono della corrente Autonomia e Indipendenza; e Cesare Mirabelli, quello che era stato vicepresidente del CSM quando fu bocciato Falcone.

CLAUDIA DI PASQUALE Mi chiedo come si fa a elaborare una proposta di rottura quando gli stessi componenti sono ex componenti del CSM oltre tutto scelti in base anche a una suddivisione per correnti.

CESARE MIRABELLI - VICEPRESIDENTE COMMISSIONE RIFORMA CSM Questo mi sfugge perché ignoro l'appartenenza dei singoli componenti a correnti; francamente mi sfugge.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Tra i componenti di questa Commissione c'è anche l'ex consigliere del Csm di Magistratura Indipendente Tommaso Virga, che oggi è tra i cinque magistrati di Palermo indagati dalla procura di Caltanissetta nell'ambito di un'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati.

GIANFRANCO CIANI - COMPONENTE COMMISSIONE RIFORMA CSM Io personalmente non ne ho notizia ufficiale; non mi posso esprimere...

CLAUDIA DI PASQUALE Su tutti i giornali è stato scritto... GIANFRANCO CIANI - COMPONENTE COMMISSIONE RIFORMA CSM No, io non metto in dubbio quello che lei mi dice però io... mi sarà sfuggita questa notizia.

CLAUDIA DI PASQUALE Ah non sapeva che faceva parte della commissione che deve riformare...

PIETRANTONIO ZANETTIN - COMPONENTE CSM Me la son letta la commissione, però...

CLAUDIA DI PASQUALE Che deve fare le proposte proprio di riforma del CSM contro le correnti...

PIETRANTONIO ZANETTIN - COMPONENTE CSM Devo essere sincero, mi era sfuggito.

CLAUDIA DI PASQUALE Ah, non se n’era accorto?

PIETRANTONIO ZANETTIN - COMPONENTE CSM Io non me ne ero accorto, ma temo molti altri anche qui dentro, cioè nel senso che non se n’è mai parlato, nessuno ne ha mai parlato. Me lo dice lei e lo apprendo, lo apprendo in questo momento. CLAUDIA DI PASQUALE Secondo lei è corretto che un ex componente del Csm che oggi si ritrova comunque indagato, partecipi alla Commissione di Riforma del CSM?

CESARE MIRABELLI - VICEPRESIDENTE COMMISSIONE RIFORMA CSM Questo non devo chiederlo a me.

CLAUDIA DI PASQUALE Comunque oggi fa parte della commissione, non è in discussione la sua presenza?

CESARE MIRABELLI - VICEPRESIDENTE COMMISSIONE RIFORMA CSM Non mi pare.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Tommaso Virga, indagato per induzione indebita ad oggi risulta sempre essere membro della commissione ministeriale per la riforma del CSM. Poi lui non ci va poco importa, qui è il Ministero che dovrebbe prendere posizione. Invece dentro al CSM che c’è qualcosa che non funziona è il CSM stesso a riconoscerlo, tant’è che hanno avviato un processo di autoriforma. Però fatela sul serio e fatela in fretta perché anche il governo ci sta mettendo mano, e il rischio è che approfittando di quello che non funziona, la politica si prenda più spazio di quello che già ha per erodere l’indipendenza della magistratura. Che non critichiamo, ma ci faremmo crocifiggere per difenderla.

PUNTATA DEL 29/11/2015. LA GRAN CORTE di Giuliano Marrucci.

Negli ultimi anni la Consulta ha dichiarato incostituzionali il taglio delle pensioni d'oro e degli stipendi dei manager pubblici, la nomina senza concorso di 800 dirigenti dell'agenzia delle entrate, il blocco della rivalutazione delle pensioni e anche l'utilizzo di autovelox mobili privi di taratura periodica. Tutte sentenze che rischiano di costare allo stato una montagna di quattrini. A volte si potrebbero limitare i danni, ma servirebbero leggi diverse.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO In Germania i giudici della Corte Costituzionale guadagnano 180 mila euro lordi l'anno. Negli Stati Uniti 220.000 e in Spagna 140.000. In Italia invece ne guadagnano 360.000, anche se in ufficio vanno di solito appena 3 giorni ogni 2 settimane e anche se molti di loro cumulano allo stipendio anche una o più pensioni, nonostante una legge del ‘53 lo vieti espressamente.

GIULIANO MARRUCCI Cosa fanno di così speciale i giudici italiani per guadagnare il doppio dei tedeschi e quasi il triplo degli spagnoli

ANNIBALE MARINI – PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Sono delle categorie che vanno tutelate, perché esercitano una funzione delicatissima.

GIULIANO MARRUCCI Sì, ma anche in Germania vanno tutelate.

ANNIBALE MARINI – PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Però il costo della vita in Germania è A, in Italia è B, in Spagna è C. GIULIANO MARRUCCI Eh, appunto, in Germania è A.

ANNIBALE MARINI – PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Ma non lo so questo, non lo so. Io capisco quello che lei dice: dice “no, ma in Germania lo fanno, perché non bisogna farlo in Italia”? Eh, lo so.

GIULIANO MARRUCCI No, perché a me una roba che mi fa un po' sempre impazzire, è che quando si va a vedere per dire professori, impiegati, operai, l'Italia in confronto alla Germania, all'Inghilterra, noi siamo sempre sotto, quando poi vai a confrontare i parlamentari, i giudici, cioè, la classe dirigente, noi siamo sempre sopra, com'è questo?

PAOLO MADDALENA – GIUDICE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Io credo questo: che il Giudice della Corte Costituzionale ha un lavoro pesantissimo e di altissima qualità e quindi va ricompensato. Ed è chiaro che va differenziato dagli altri. Adesso, quanto, come, perché, in una nazione o in un'altra, con i costumi di un paese e i costumi di un altro, eccetera, questo mi pare un discorso che supera i limiti della dialettica razionale.

GIULIANO MARRUCCI Ma lo stipendio dei giudici chi lo decide?

PAOLO MADDALENA – GIUDICE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE É deciso per legge.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO La legge risale al 1953, ma è stata modificata da Berlusconi nel 2003, che in finanziaria, in una botta sola, ha deciso di fare un regalo ai giudici da oltre 3500 euro netti al mese.

GIULIANO MARRUCCI Non si può semplicemente cancellare questo regalino e così riportare lo stipendio dei giudici a quello che guadagnano negli altri paesi occidentali?

FRANCO VAZIO –VICEPRESIDENTE COMMISSIONE GIUSTIZIA CAMERA – PD Io percepisco oggi una grande sfida che noi stiamo portando a termine come paese, cioè quello di cambiare la Costituzione sul bicameralismo perfetto. In questo contesto, aprire una discussione o sulle regole del gioco o sugli stipendi di un altro potere costituzionale, avrebbe il sapore, secondo me, di una punizione. Io non lo voglio fare, non perché ho paura di assumermi la responsabilità, ma perché ritengo che il primo punto sia fondamentale, cioè quello di approvare un riforma costituzionale che porti l'Italia nelle condizioni di tanti paesi moderni. Perché se faremo questo potremo affrontare anche gli altri temi, anzi, dovranno essere affrontati, ma li affronteremo in un contesto di maggiore serenità.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Intanto il Parlamento ci mette del suo e da un anno e mezzo evita di eleggere la sua quota di giudici.

GIULIANO MARRUCCI E quindi mi scusi, ma ora quanti sono i giudici?

ROBERTO ROMBOLI – COSTITUZIONALISTA – UNIVERSITÀ DI PISA Ne mancano 3, quindi sono 12.

GIULIANO MARRUCCI Quindi, siccome per funzionare devono essere minimo 11…

ROBERTO ROMBOLI – COSTITUZIONALISTA – UNIVERSITÀ DI PISA Se 2 si ammalano si blocca.

GIUSEPPE TESAURO – PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Perché poi non è che sono giovanotti come lei e come me, io c'ho 73 anni, ma là c'è gente che è affetta da senilità non precoce.

GIULIANO MARRUCCI Quindi è concretamente a rischio.

GIUSEPPE TESAURO – PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Adesso con l'inverno che si preannuncia così freddo, insomma, c'è il rischio.

MILENA GABANELLI IN STUDIO E intanto l’inverno avanza il parlamento avrebbe dovuto nominare questa settimana i tre giudici che mancano ma per ora nulla di fatto, speriamo nella prossima. Per quel che riguarda gli stipendi invece va detto che fino all’anno scorso guadagnavano ben di più, a portarli alle cifre attuali è stata l’entrata in vigore del tetto Renzi, tuttavia per quel che sappiamo insomma continuano ad essere i meglio pagati al mondo. Le loro decisioni invece alcune hanno fatto ultimamente, negli ultimi anni, un po’ discutere a partire dagli autovelox, all’azzeramento degli 800 dirigenti dell’agenzia delle entrate. Ma questo lo vedremo fra brevissimo dopo la pubblicità.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Bene parliamo dell’istituzione scritta a caratteri maiuscoli, la corte costituzionale che è l’organo che decide se le leggi votate dal parlamento rispettano i principi della costituzione oppure no. Se è no le cancellano, però questo può succedere anche anni dopo l’entrata in vigore della legge perché possono pronunciarsi solo quando un giudice ordinario chiede “scusate, ma questa legge è costituzionale oppure no?” Ed è importante sapere chi sono e come vengono eletti perché hanno un potere assoluto, e le leggi comunque si interpretano, e le decisioni ricadono sull’intero paese. Alcune hanno fatto discutere, cominciamo con gli autovelox.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO L’avvocato Tribolo ha beccato un autovelox al rientro dalla vacanze in Liguria, mentre la moglie guidava a 143 km l'ora dove il limite è 110.

MASSIMO TRIBOLO - AVVOCATO Loro mi dicono che stiamo andando a 143 sulla base di una scatoletta che non dava nessuna garanzia circa la rilevazione effettuata in quel preciso momento.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Dopo 4 gradi di giudizio e 10 anni di tempo, l'avvocato riesce a far sancire che tutte le multe fatte con gli autovelox mobili, che sono omologati, ma non vengono tarati periodicamente, sono nulle.

GIULIANO MARRUCCI Ma lei andava a 140 sì o no?

MASSIMO TRIBOLO - AVVOCATO Eh, non lo so io, non stavo guidando io, stava guidando mia moglie. GIULIANO MARRUCCI E a sua moglie l'ha chiesto?

MASSIMO TRIBOLO - AVVOCATO Sì e anche lei non se lo ricordava.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Quello che è certo è che solo a Torino per questa sentenza hanno dovuto sospendere per un mese tutti i controlli, annullare tutti i verbali ancora in corso e ora dovranno fare i conti con oltre 150 ricorsi.

GIULIANO MARRUCCI Ma quindi, in tutto, questa sentenza, parlando del comune di Torino, quanto c'è costata?

ALBERTO GREGNANINI – COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE TORINO 80-100 mila euro.

GIULIANO MARRUCCI Avete fatto questa taratura periodica e s'è scoperto che gli strumenti funzionavano male in qualche modo?

ALBERTO GREGNANINI – COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE TORINO Direi di no, perché già prima di essere revisionate e verificate funzionavano al 99,7%.

GIULIANO MARRUCCI A dare ragione all'avvocato alla fine sono stati loro: i giudici della Corte Costituzionale. Sono 15: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, 5 eletti tra i giudici e 5 dal Parlamento. A differenza di molti altri paesi, una volta soddisfatti i pochi requisiti previsti dalla legge, non devono presentare nessun curriculum e nessuno ha il diritto di interrogarli sulle loro competenze e le loro convinzioni. Non devono esserci dubbi sulla loro indipendenza, ma sono spesso legati a doppio filo ai partiti, compresi ex ministri, ex presidenti del consiglio e anche i loro avvocati. A differenza degli altri paesi, le decisioni le prendono con voto segreto e se qualcuno non è d'accordo con la maggioranza, è tenuto a non esprimerlo pubblicamente. A volte le sentenze della Corte Costituzionale hanno ricadute pesanti e rischiano di creare più problemi di quanti ne risolvono. Come per gli oltre 10 milioni spesi per la sentenza sugli autovelox.

SABINO CASSESE – GIUDICE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Perché qualcuno dice i diritti dei cittadini debbono essere garantiti costi quel che costi, cioè, qualunque sia il carico per lo Stato.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Nel 2011 il governo Monti aveva deciso di rimpicciolire la torta dei dipendenti pubblici con stipendi superiori ai 90 mila euro; alcuni magistrati ricorrono e il caso arriva alla Corte, che dichiara la legge incostituzionale, perché discrimina.

GIUSEPPE TESAURO – PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Quelli pure li abbiamo dichiarati illegittimi?

GIULIANO MARRUCCI Eh, ma l'ha scritta lei eh.

GIUSEPPE TESAURO – PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Eh, lo so, ma è passato un po' di tempo. Poi non è che le sentenze uno le scrive da solo, eh, attenzione.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Sempre il governo Monti aveva deciso di rimpicciolire anche la torta di chi ha una pensione superiore a 90.000 euro l'anno.

GIOVANNI CRISOSTOMO SCIACCA - AVVOCATO Questa qua come vede è un piccola parte di questi ricorsi.

GIULIANO MARRUCCI Chi li ha promossi?

GIOVANNI CRISOSTOMO SCIACCA - AVVOCATO Avvocato dello Stato, avvocato dello Stato, magistrati e qui sotto ci sono dei generali.

GIULIANO MARRUCCI E anche questi sono arrivati alla Corte Costituzionale.

GIOVANNI CRISOSTOMO SCIACCA - AVVOCATO Eh si, c'è una sentenza che ha dichiarato l'incostituzionalità della disposizione.

GIULIANO MARRUCCI E di conseguenza sono partiti anche tutti i rimborsi?

GIOVANNI CRISOSTOMO SCIACCA - AVVOCATO I rimborsi sono terminati quest'anno. Sono esattamente, al lordo degli effetti fiscali circa 90 milioni.

GIULIANO MARRUCCI In questo caso qua chi era il relatore?

GIOVANNI CRISOSTOMO SCIACCA - AVVOCATO Era Tesauro, che è stato anche avvocato generale presso la Corte.

GIUSEPPE TESAURO – PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Ma io sono stato il relatore? No. Non me lo ricordo questa del contributo di solidarietà, perché questa rimase.

GIULIANO MARRUCCI No, no: è stata incostituzionale.

GIUSEPPE TESAURO – PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Ma io ho scritto delle sentenze senza essere d'accordo sulla…

GIULIANO MARRUCCI Con se stesso.

GIUSEPPE TESAURO – PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Non con se stesso, con la maggioranza. Ma non lo so, non si può dire.

GIULIANO MARRUCCI Quindi lei non è d'accordo.

GIUSEPPE TESAURO – PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Oggi, detta così, non sono d'accordo.

GIULIANO MARRUCCI Il prelievo sulle pensioni sopra i 90mila euro ovviamente riguardava direttamente anche i giudici della Corte.

SABINO CASSESE – GIUDICE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Sì, sì, certo.

GIULIANO MARRUCCI Non è che questi giudici si lasciano un po' influenzare dai loro interessi diretti?

ANNIBALE MARINI – PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Guardi, si lasciano influenzare. I giudici sono uomini; si lasciano influenzare un po' da tutto. É ovvio che tra i criteri che possono influenzare c'è anche il criterio dell'interesse, però non mi pare che questa sia la ratio decidente.

GIULIANO MARRUCCI Però, tutti i giudici si devono astenere da prendere decisioni nelle cose che li riguardano, quelli della Corte no.

ROBERTO BIN – COSTITUZIONALISTA – UNIVERSITÀ DI FERRARA Eh no: non c'è l'obbligo di astensione, non c'è la possibilità di ricusare i giudici e così via. Perché qualcuno in cima al vertice ci deve stare e quindi non c'ha nulla sopra di lui e questo è il compito della Corte. Un potere quasi divino.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO I giudici della Corte, salvando le pensioni d’oro, hanno salvato anche le loro. Però la sentenza che sta causando il maggior danno allo Stato è un’altra: questa signora a giugno del 2012 s'è vista arrivare questa cartella di Equitalia.

FIORENZA MIGLIORE - IMPRENDITRICE Io dovrei dare all'Agenzia delle Entrate la somma di 41mila 673.

GIULIANO MARRUCCI Che aveva combinato?

FIORENZA MIGLIORE - IMPRENDITRICE Cioè, io effettivamente io in quegli anni non lavoravo e mia mamma mi ha aiutato moltissimo, praticamente ci manteneva.

GIULIANO MARRUCCI E questo non è riuscito a dimostrarlo?

FIORENZA MIGLIORE - IMPRENDITRICE No, non sono riuscito a dimostrarlo, è impossibile dimostrarlo perché se io dò mille euro a mia figlia per mangiare...

GIULIANO MARRUCCI Fa un bonifico.

FIORENZA MIGLIORE - IMPRENDITRICE Ma non serve un versamento, io ho bisogno tutti i giorni, 30 euro oggi, 50 euro domani, come faccio a dimostrartelo?

GIULIANO MARRUCCI L’imprenditrice perde la causa e con il suo avvocato si mettono alla ricerca di qualche cavillo.

GIULIANO MARRUCCI Alla fine voi a cosa vi siete attaccati.

DAVID CASSANITI - AVVOCATO Che l'avviso di accertamento era stato firmato dall'allora direttore dell'Agenzia delle Entrate di Como, il quale non risultava iscritto negli elenchi dei dirigenti.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO A far scomparire il nome del direttore di Como da quell'elenco è stata la sentenza 17/2015 della Corte Costituzionale, che in una botta sola ha fatto decadere tutti i dirigenti delle agenzie fiscali italiane nominati con procedure interne invece che con regolare concorso pubblico, vale a dire quasi tutti. L'Agenzia replica subito allarmata che è inutile fare ricorso, perché gli atti rimangono validi anche se a firmarli è stato un dirigente illegittimo, invece alla signora Fiorenza la Commissione Tributaria gli ha dato ragione e i suoi 41mila euro oggi non sono più dovuti. E di sentenze come queste che annullano gli atti in tutta Italia, ce ne sono già state altre 25.

GIULIANO MARRUCCI Cioè, questa sentenza qua della Corte Costituzionale per gli evasori italiani è una manna dal cielo.

DAVID CASSANITI - AVVOCATO Sì.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO A mettere in moto tutta la questione è stato il sindacato di funzionari e dirigenti pubblici Dir. Pubblica, lo stesso che è riuscito a bloccare il primo concorso dell'Agenzia delle Entrate del 2001, poi quello del 2010 e anche quello del 2014.

GIULIANO MARRUCCI Cioè, com’è che voi vi siete opposti a 3 concorsi e poi vi incazzate se nominano dirigenti senza concorso?

GIANCARLO BARRA – SEGRETARIO GENERALE DIR. PUBBLICA Perché questi concorsi erano confezionati in modo tale da assegnare dei punteggi per i quali in quei posti ci rientravano solamente gli incaricati.

GIULIANO MARRUCCI Cioè, privilegiavano il personale interno.

GIANCARLO BARRA – SEGRETARIO GENERALE DIR. PUBBLICA No privilegiavano, bisognava uccidere tutti gli incaricati per avere una speranza.

GIULIANO MARRUCCI Ma la Corte che è così severa nel confronto dei concorsi altrui, al suo interno in questo senso come si comporta?

SABINO CASSESE – GIUDICE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Ci sono delle persone che sono state utilizzate dalla Corte con contratto a tempo determinato e che poi con concorso con posti riservati o con concorso interno, sono diventati dipendenti di ruolo.

GIULIANO MARRUCCI Quindi, similmente a quello che è accaduto all'interno dell'Agenzia delle Entrate, insomma.

SABINO CASSESE – GIUDICE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Sì.

GIULIANO MARRUCCI Quindi si predica bene e si razzola male.

SABINO CASSESE – GIUDICE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE É quello che ho sempre detto e scritto.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Sta di fatto che con questa decisione è stata messa in ginocchio l’Agenzia delle Entrate che rischia di trovarsi sommersa da ricorsi. E poi con circa 800 dirigenti in meno, visto che i tempi dei concorsi sono lunghi, come farà a recuperare il gettito previsto? Queste cose all’Agenzia le sanno, anche se hanno timore a dirle pubblicamente.

AL TELEFONO FUNZIONARIO AGENZIA DELLE ENTRATE Però ti voglio fare un esempio adesso, detto tra di noi: di quei 14 miliardi che incassiamo la Lombardia ne gestisce il 40%, attualmente in Lombardia non c'è un solo dirigente che si occupa dei controlli. Tu l'andresti a controllare Google o quant'altro senza un dirigente che te li guarda?

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Ma invece la montagna di quattrini che dovremmo incassare col rientro dei capitali, lì a che punto siamo?

AL TELEFONO FUNZIONARIO AGENZIA DELLE ENTRATE L'Agenzia dovrebbe fare 350mila controlli entro il 31 dicembre 2016. Ad oggi di dirigenti che si occupano di quel settore, sai quanti ce n'è in Italia? Zero. Quindi ho una situazione organizzativa veramente drammatica direi.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO D'altronde tenere sotto controllo le conseguenze delle sentenze è una faccenda complicata. Reggio Emilia. La Scat è una società da 350 milioni di fatturato, che commercializza carburanti. Nel 2009 fa ricorso contro la Robin Tax, la tassa speciale introdotta da Tremonti per tassare i supposti sovraprofitti delle aziende energetiche dovuti all'aumento delle quotazioni del greggio.

GIULIANO MARRUCCI Quindi, questa è la richiesta di rimborso.

ANDREA SALSI – PRESIDENTE SCAT PUNTI VENDITA SPA Per il solo 2008 è 424 mila euro; una cifra notevole visto che viaggiamo su circa 2 milioni, 2 milioni e mezzo di profitto.

GIULIANO MARRUCCI E questa finalmente è la sentenza della Corte.

ANDREA SALSI – PRESIDENTE SCAT PUNTI VENDITA SPA Sì, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art.81.

GIULIANO MARRUCCI E questa è di?

ANDREA SALSI – PRESIDENTE SCAT PUNTI VENDITA SPA Dell'11 febbraio 2015, sono 6 anni.

GIULIANO MARRUCCI Non è un'esagerazione di tempo?

ANDREA SALSI – PRESIDENTE SCAT PUNTI VENDITA SPA Sicuramente è un lasso di tempo notevole.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Insomma, giusta o non giusta la tassa va pagata tutti gli anni fino a quando la Corte non si esprime. In questo caso ha impiegato quasi 6 anni per decidere che quella norma è anticostituzionale.

GIULIANO MARRUCCI É ragionevole, è regolare?

ROBERTO ROMBOLI – COSTITUZIONALISTA – UNIVERSITÀ DI PISA No, è anomalo.

GIULIANO MARRUCCI E come si spiega sta anomalia?

ROBERTO ROMBOLI – COSTITUZIONALISTA – UNIVERSITÀ DI PISA Mah, qualcuno dà la spiegazione nelle presidenze brevi: ogni presidente voleva levarsi la patata bollente e la lasciava al presidente dopo.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Tra i presidenti che non volevano la patata bollente c'è anche il professor Tesauro.

GIULIANO MARRUCCI Per quanto è stato Presidente lei?

GIUSEPPE TESAURO – PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE 4 mesi e qualcosa.

GIULIANO MARRUCCI Ma la legge non prevede espressamente che debbano stare in carica 3 anni?

ROBERTO ROMBOLI – COSTITUZIONALISTA – UNIVERSITÀ DI PISA É previsto che duri in carica 3 anni, ma se io vengo eletto 3 mesi prima della scadenza, duro in carica 3 mesi.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Con questo giochino negli ultimi 12 anni la Corte ha cambiato 13 presidenti. GIULIANO MARRUCCI Ma che senso c'ha?

GIUSEPPE TESAURO – PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE Non lo so, dall'esterno forse si capisce di meno, dall'interno si capisce di più.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Quello che si capisce dall'esterno è che quando vieni eletto presidente, allo stipendio si aggiungono 3000 euro al mese di indennità. Si capisce anche che annullando una tassa con 6 anni di ritardo, i rimborsi mandano poi all’aria i conti pubblici.

CAMILLO GALAVERNI - COMMERCIALISTA Quando una norma è incostituzionale, è incostituzionale da quando è stata fatta. Quindi se uno ha pagato in forza di una normativa che non esiste, se siamo nei termini della prescrizione ordinaria che sono 10 anni, può chiedere il rimborso.

ROBERTO BIN – COSTITUZIONALISTA – UNIVERSITÀ DI FERRARA Negli altri paesi in un modo o nell'altro c'è una tipologia di sentenza che consente alla Corte di dichiarare una legge non compatibile con la Costituzione, ma dando poi il tempo al legislatore di intervenire per regolare la cosa.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Quindi, nel caso dei dirigenti dell’Agenzia delle Entrate, avrebbe potuto dare 6 mesi di tempo per sistemare la questione ed evitare così di lasciare gli uffici sguarniti, oppure, nel caso degli autovelox, sentenziare che la taratura degli autovelox va fatta a partire dal prossimo anno, in modo che chi ha preso le multe fino a ieri le paghi.

ROBERTO BIN – COSTITUZIONALISTA – UNIVERSITÀ DI FERRARA Ma non c'è dubbio: avrebbe dichiarato la legge incompatibile con la Costituzione, sospendendone gli effetti, lasciando il legislatore di intervenire con una legge che regolasse diversamente la materia, in maniera adeguata alla sentenza.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Per fare questa cosa di assoluto buon senso bisognerebbe rimettere mano alle regole, come hanno fatto in Francia e in Germania e noi invece le manteniamo ferme al 1953. Deve pensarci il parlamento, che però non riesce neanche, almeno fin ora, ad eleggere i tre giudici che mancano, tra l’altro il dato per favorito Pitruzzella risulta pure indagato. E quindi la situazione oggi è che se e se due per caso si ammalano, e abbiamo visto non sono esattamente dei baldi giovani, la Corte si paralizza. Va invece precisato che i concorsi interni da un po’ di tempo non si fanno più, per accedere bisogna aver vinto inizialmente un regolare concorso pubblico.

RAI/ TOGHE CONSIGLIO STATO: STUPISCE SERVIZIO REPORT SU CONCORSO. Scrive Report il 21 maggio 2011 (TMNews) - L'Associazione magistrati del Consiglio di Stato stigmatizza duramente il servizio della trasmissione televisiva Report andato in onda il 15 maggio scorso su Raitre. "L'Associazione magistrati del Consiglio di Stato, proprio perché consapevole della centralità democratica della funzione giornalistica, esprime - si legge in una nota - stupore e fermo dissenso per il servizio andato in onda nella trasmissione Report del 15 maggio. Il servizio dà spazio alla vicenda privata del dott. Liberati, un candidato ripetutamente bocciato al concorso pubblico per consigliere di stato, per insinuare dubbi e sospetti su un concorso da sempre considerato tra i più rigorosi, seri e difficili che le istituzioni pubbliche del Paese conoscano; e chi vince questo concorso, e tra questi il dottor Giovagnoli, ha già vinto prestigiosi concorsi nelle altre magistrature, nell'avvocatura dello Stato, nella dirigenza degli organi costituzionali". Secondo l'organismo associativo delle toghe di palazzo Spada "il servizio non dice che non è in contestazione il merito del concorso; né che la stessa sentenza del Tar più volte citata non ha messo in discussione il possesso dei requisiti di partecipazione da parte del dottor Giovagnoli. Bene hanno fatto poi il presidente del Consiglio di Stato e il vincitore a non rilasciare dichiarazioni televisive: il primo perché chiamato nell'organo di autogoverno a valutare il comportamento disciplinare del Liberati per altri fatti; il secondo perché pende l'impugnazione davanti a un giudice. Entrambi si sono attenuti a elementari regole deontologiche proprie di qualsiasi magistrato". "La chicca finale - prosegue il comunicato - è lo 'scandalo' che siano giudici amministrativi a giudicare sul concorso in questione. Sarebbe interessante ricevere, anche da Report e dai suoi consulenti, suggerimenti e idee su chi altri debba giudicare sulla legittimità di un concorso pubblico; tenendo presente però che il giudice penale giudica sui reati commessi dai giudici, il giudice civile sulle cause civili promosse da altri giudici, la Corte dei conti sui danni erariali commessi dai magistrati della Corte dei conti e che in materia di concorsi pubblici la giurisdizione è attribuita al giudice amministrativo in base alla legge e in attuazione di principi costituzionali". "Il servizio giornalistico, mettendo insieme fatti disparati e raccogliendo la versione di parte su una vicenda di nessun rilievo istituzionale, costruisce - accusa l'Associazione magistrati del Consiglio di Stato - uno 'scandalo istituzionale', fondato su materiale di parte e oggettivamente lesivo della dignità di quanti hanno partecipato a selettivi e rigorosi concorsi e lavorano quotidianamente, non senza difficoltà".

CONCORSO NEL REATO di Sabrina Giannini del 15 maggio 2011. Il concorso pubblico dovrebbe servire a selezionare la classe dirigente di un paese. Scegliere i migliori di ogni categoria sulla base di criteri oggettivi basati sulla meritocrazia. Volete che a fabbricare un ponte sia un ingegnere capace o un raccomandato che ha trovato il compito fatto? Quando vi fate operare volete che il chirurgo prenda in mano il bisturi dopo una "giusta ed equa valutazione" o solo dopo essere stato considerato "figlio di"? Quando comprate un casa pagate caro un notaio per essere certi che nessuno verrà un giorno a rivendicare qualcosa. Sembra invece che in Italia il cognome e l'appartenenza ad alcune caste sia un requisito maggiore del merito e faciliti l'accesso a posti di particolare prestigio. Storie di concorsi truffa, che quasi sempre finiscono con un nulla di fatto, e che spesso sono il paravento per gli usurpatori di cattedre che alla fine restano al loro posto, alla faccia dei migliori. L'inchiesta di Sabrina Giannini oltre a svelare i trucchi di alcuni concorsi universitari, svela anche il sistema e lo scambio di favori che consente di far vincere alcuni "prescelti". Nell'inchiesta si parlerà anche dei concorsi per le categorie reputate tra le più nobili e prestigiose di una nazione civile, come quello per i notai recentemente annullato e quello per un posto di giudice del Consiglio di Stato vinto da chi ha presentato titoli non sufficienti per partecipare. A giudicarlo sono stati i suoi stessi colleghi da tre anni. Lo avranno fatto con serenità, visto che proprio il Consiglio di Stato è considerato il massimo organo della giustizia amministrativa a cui spetta l'ultima parola sulla legittimità e correttezza dei concorsi pubblici?

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO L’ultimo scandalo è di poche settimane fa. Ogni tanto appaiono nella pagine della cronaca e pensiamo che siano cellule malate di un sistema sano che la magistratura individua e isola.

ANTONIO IAVARONE ­ PROFESSORE E RICERCATORE COLUMBIA UNIVERSITY, NY Invece questo non è il problema del caso, è il problema della generalità del sistema. I casi che vengono fuori se vuole sono proprio quelli meno controllati in cui forse i padri sono stati un po’ sprovveduti, un po’ diciamo megalomani, ma insomma è chiaro che questo è il sistema italiano, su come funziona.

SABRINA GIANNINI Per i figli diciamo dei vari professori… 

ANTONIO IAVARONE ­ PROFESSORE E RICERCATORE COLUMBIA UNIVERSITY, NY Per i figli, le nuore, i parenti, le sorelle, i fratelli, le amanti. Se io in Italia ho un feudo fatto di 50 sottoposti e non li riesco a piazzare con i concorsi sono un incapace.  Può essere poi anche la persona che diciamo così ha semplicemente maggiore fedeltà. Non si ribellerà alla volontà del feudatario quindi si espande il feudo.

DA TOTO’ DIABOLICUS “Professore…”  “Bisogna che io mi allontani non visto, facciamo come l’altra notte” “Come l’altra notte? Professore ma se se ne accorgono…”  “Ma chi vuoi che se ne accorge! Ti metti gli occhiali, il berrettino in testa, la benda, cerca di coprire la barba e tutti che sono io che opero” “Professore!!!”  “Pantoro, Pantoro!!! Io ti ho creato e io ti posso distruggere! Ti preme o non ti preme la cattedra?”  “Sì” “E allora obbedisci!” “Benissimo professore, farò come vuole lei”.

ANTONIO IAVARONE­ PROFESSORE E RICERCATORE COLUMBIA UNIVERSITY, NY non si ribellerà alla volontà del feudatario quindi si espande il feudo.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Antonio Iavarone e sua moglie Anna Lasorella si sono ribellati all’allora primario di oncologia pediatrica del Policlinico Gemelli, il professor Renato Mastrangelo, che chiedeva ai due collaboratori di inserire il nome del figlio nelle pubblicazioni scientifiche per accrescere il peso del suo curriculum…  Ovviamente utile per vincere in futuro un concorso.

ANTONIO IAVARONE PROFESSORE E RICERCATORE COLUMBIA UNIVERSITY NY Alla fine succedeva sempre, era un meccanismo stabile, che andava avanti da anni e quindi non c’era diciamo più neanche l’imposizione, era un’abitudine. Noi siamo stati querelati per diffamazione.

SABRINA GIANNINI Per averlo detto, per aver detto che vi imponeva il figlio nelle pubblicazioni?

ANTONIO IAVARONE PROFESSORE E RICERCATORE COLUMBIA UNIVERSITY NY Sì esatto.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Il giudice ha assolto Antonio Iavarone e i giornalisti che lo ho avevano intervistato mettendo in rilievo l’interesse pubblico per la divulgazione della vicenda. Era utile porre l’attenzione sui danni che potevano ricadere sui piccoli malati di cancro lasciando da parte gli interessi del bambino già cresciuto del primario che, per la cronaca, ha successivamente vinto un concorso da ricercatore e quindi oggi è anche medico.  Nello stesso reparto del Policlinico Gemelli di cui il padre era responsabile.

ANTONIO IAVARONE   PROFESSORE E RICERCATORE COLUMBIA UNIVERSITY NY Pensavamo già di poter portare una nuova mentalità in Italia e quindi avevamo pensato di realizzare un centro di ricerca all’inizio qui a Roma al Policlinico Gemelli. Poi appunto siamo andati via definitivamente nel 2001.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Oggi sono professori e ricercatori in una delle università più importanti al mondo la Columbia di NY. Gestiscono ingenti fondi pubblici e hanno di recente scoperto il gene coinvolto nel più aggressivo dei tumori del cervello.

MILENA GABANELLI IN STUDIO In Italia per accedere alla carriera pubblica si è deciso che il meccanismo del concorso premia il merito: tutti uguali alla linea di partenza, senza favoritismi nepotismi, raccomandazioni. Allora perché è così diffusa l’idea che le tue capacità da sole non sempre bastano?  Perché la mancanza di trasparenza alimenta la cultura del sospetto, e la ricaduta sugli aspiranti è di invogliarli non tanto a studiare o a fare ricerca, ma ad accumulare più relazioni che titoli, sapendo che una volta raggiunto quel posto nessuno ti potrà più mandar via. I casi che racconteremo nella puntata di oggi riguardano ruoli fondamentali nella formazione della cultura e sviluppo di un paese. La cronaca più recente e clamorosa sull’andamento di un concorso è quello per diventare notai.  Un concorso che se lo superi, dal giorno dopo puoi aprire un ufficio metterci la targa e avviare una delle poche professioni che partono con già la sua clientela pronta. Siamo alla fine di ottobre 2010 e 3000 laureati in Giurisprudenza, si presentano ai padiglioni della fiera di Roma per affrontare le tre prove scritte.

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA E’ stata la prova più terribile che abbia mai dovuto affrontare nella mia esperienza professionale.  DAL TG3 DEL 29/ 10/ 2010 Sono rimasta sconvolta, non pensavo che un concorso notarile si svolgesse in questi termini poi soprattutto quando è arrivata la polizia antisommossa che hanno caricato gente che scappava spaventatissima lì ho avuto paura.

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA Non si sentiva nulla, non si poteva dettare, lanciavano oggetti, sono arrivate perfino delle lamette contro la commissione quindi una situazione veramente difficile.

DONNA 1 Perché è stata una sommossa di gente che saliva sui banchi, che andava contro la commissione anche con una certa veemenza a me ha spaventato, mi ha spaventato proprio, mi ha scioccato.

SABRINA GIANNINI Cosa vi dicevano?

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF. ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA Insulti di tutti i tipi. Venduti, vergognatevi, schiavi del ministro, qualunque cosa.

 SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO La protesta è ingestibile. E per la prima volta nella storia viene annullato il concorso che doveva scegliere i migliori 200 notai tra tremila candidati. Il giorno dopo i quotidiani infieriscono perché è evidente il paradosso: qualcosa non va proprio nel concorso che dovrebbe selezionare i pubblici ufficiali pagati meglio di chiunque altro per garantire la legalità. Il ministro Alfano decide di annullare le tre prove ma non il concorso che viene rifatto a febbraio. I candidati ritornano. Per loro sono ancora spese e pesi. I pesi dei numerosi codici sui quali hanno studiato per anni.

UOMO 1 Controllano che non ci sia scritto nulla e poi l’indomani te li trovi direttamente sul tavolo con assegnato il tuo numero.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Il giorno l'ispezione dei codici inizia la prima delle tre prove del concorso, si ricomincia da capo.  Manca però un dettaglio: si sono dimenticati di dirci cos'è successo veramente. Visto che il conto doppio l'abbiamo pagato noi e non il ministro Alfano e non i notai… Sarebbe stato opportuno informarci sulla ragione che ci ha fatto sborsare altri soldi. E soprattutto dirci chi sono i responsabili.

DAL TG 2 DEL 30 OTTOBRE 2010 PRESIDENTE DEL CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO LAURINI Chi è responsabile deve pagare indubbiamente. Come faremo concretamente?  Siamo in contatto con il ministero della Giustizia, ho chiesto al ministro di fare chiarezza. 

SABRINA GIANNINI   Il Ministero non vi ha chiesto nulla nei giorni seguenti?

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF. ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA Assolutamente no. Attendevamo con ansia di essere chiamati, non lo siamo stati.  So che il presidente ha presentato una relazione al capo di gabinetto del ministro.

DONNA 2 La rabbia, almeno io parlo per me, è nata dal fatto che questo concorso si basa sul fatto che le tracce vengono redatte la mattina, devono essere originali, ci fanno aspettare fino alle due per dettare una traccia che già era nota.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Ma i candidati ne hanno conferma solo una volta finita la prova, quando verificano su internet che la traccia dettata quel giorno riproduceva in molte parti quella già proposta poco tempo prima da una scuola per aspiranti notai di Roma, l'Anselmo Anselmi. Ma è irregolare perché si può avvantaggiare soltanto alcuni candidati. E' vero che in mille avevano assistito a quell'esercitazione ma è anche vero che pochi potevano sapere che sarebbe stata proposta per la prova d'esame.

DONNA 3 Compito nei bagni, gente che scriveva prima che dettassero la traccia, a un certo punto sai già dove devi andare a parare. 

UOMO 2 Abbiamo prima chiesto spiegazioni, ci siamo uniti, ci siamo raggruppati, poi è scesa la commissione e abbiamo cominciato a chiedere le spiegazioni a loro.

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA Io sono stata avvicinata da un gruppo di candidati che mi ha dato un piccolo pezzo di carta in cui appunto era la traccia scaricata da internet. Gli elementi di identità con questa traccia già divulgata dalla scuola Anselmi era sconcertanti effettivamente. 

DONNA 4 Una commissaria che non ricordo il nome e che è scoppiata in lacrime perché e stata aggredita dal mio padiglione, letteralmente. 

SABRINA GIANNINI   Si ricorda chi aveva proposto questa traccia?

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA Assolutamente sì, lo ricordo perfettamente anche perché le ripeto la traccia era talmente bella. 

SABRINA GIANNINI   Ovviamente era una dei notai.

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA Sì. 

SABRINA GIANNINI Era uno dei notai. Beh possiamo dire anche chi è.

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA L’ha detto la stampa.

SABRINA GIANNINI Quindi è la dottoressa Lacalendola?

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA Sì.

GABRIELE NOTO – CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO No. E’ successo che il concorso è stato annullato per ordine pubblico.

SABRNA GIANNINI FUORI CAMPO Il ministero dichiara di annullare le prove per ragioni di ordine pubblico.  Le responsabilità ricadono fin da subito sui facinorosi che hanno impedito la dettatura della terza prova. Davvero non si poteva evitare?

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA La commissaria era muta, diciamo che probabilmente avrebbe potuto…se lei fosse intervenuta avrebbe potuto sciogliere l’enigma, avrebbe potuto… noi non sapevamo e non potevamo sapere perché quelli della scuola Anselmi non c’erano, non rispondevano al telefono, lei avrebbe potuto dire è vero. E non so se a quel punto le cose sarebbero potute andare diversamente. Il presidente avrebbe potuto prendere il microfono tentare di parlare e di dire ai candidati avete perfettamente ragione. 

DONNA 2 Sì, perché secondo me sarebbe bastato forse anche prenderci in giro e dire “ci siamo sbagliati, è stata una leggerezza, non lo so, una negligenza”. Però nessuno lo ha ammesso.

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA Invece noi lo abbiamo saputo il giorno dopo, a concorso finito, sabato mattina.

SABRINA GIANNINI Come lo avete saputo?

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA Ma io personalmente l’ho saputo perché un amico notaio mi ha fatto mandare il fax dalla scuola Anselmi.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO A caldo il ministro Alfano dichiara: “Sarà mia cura accertare con puntualità i fatti, al fine di prendere la decisione che mi compete”.  La chiarezza sarebbe stata infatti opportuna in un clima ormai di sospetto che si era creato… anche per la presenza di alcuni candidati eccellenti…

DONNA 4 E ci sono state almeno nel mio padiglione situazioni in cui c’erano codici senza il nome, invece oggi controllavano anche se c’era il nome sulla prima pagina con la data di nascita, quando invece c’erano compagne di ministri che nel mio padiglione erano con i codici franchi e puliti. Quindi alcune cose si notano.

SABRINA GIANNINI Ah interessante questa cosa che hai detto!

DONNA 4 Figli di ministri a cui è arrivato il compito sul tavolo e sono stati aggrediti.

SABRINA GIANNINI Figli di ministri! Mi dica nell’orecchio…

DONNA 4 E’ facile il papà non lo sapeva chi c’era!

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Il secondo comunicato del ministero arriva una settimana dopo: le prove vengono rinviate a Febbraio. Vengono mandati a casa tutti i componenti della commissione senza distinguere chi tra chi aveva proposto la traccia e tutti gli altri commissari.

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA La prima cosa che ho pensato è il ministro non conosce i fatti perché se li conoscesse non potrebbe parlare di buona fede di tutta la commissione perché esclusa da un fatto logico.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Raffaella Messinetti comunica al Ministro il suo disappunto per non avere fatto alcuna distinzione. Anche il presidente della commissione Ugo Vitrone, scrive al Ministro che la notaia Lacalendola aveva suggerito la traccia contestata senza comunicare al resto della commissione la sua provenienza non originale. Un mese dopo saranno convocati tutti al capo di gabinetto del ministro. Era presente anche la notaia che aveva proposto la traccia contestata.

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA Lì davanti al Capo di Gabinetto. All’inizio era molto spavalda insomma ha detto “siamo tutti nella stessa barca e vi trascinerò nella fossa insieme a me. Quando è risultato molto chiaro che il ministero non avrebbe proceduto a una differenziazione delle posizioni individuali, quella sera stessa io ho presentato le mie dimissioni.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Poco dopo si dimetteranno tutti gli altri, nella vana attesa che il ministero facesse le distinzioni.

SABRINA GIANNINI Quindi a voi non interessa sapere perché la notaia Lacalendola ha ad un certo punto dettato una traccia che era simile per non dire identica a quella di una scuola notarile?

GABRIELE NOTO – CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO Ci interesserà saperlo nel momento in cui la fonte che ce lo dirà lo potrà dire con l’autorevolezza che compete.

SABRINA GIANNINI Quindi non vi basta…

GABRIELE NOTO – CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO Con tutto il rispetto finché lo dice lei noi non prendiamo atto. Nel momento in cui ce lo dirà la Procura di Roma che ha compiuto gli accertamenti che ha eventualmente accertato le responsabilità se ne potrà parlare, però nel mondo del diritto funziona così non si fanno i processi sulle basi degli articoli di giornali.

SABRINA GIANNINI Ma infatti io non mi baso sugli articoli dei giornali, io mi baso su quanto ha scritto il presidente della commissione.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Il presidente della commissione Ugo Vitrone aveva fatto una relazione. Ufficialmente non risulta che il ministero abbia aperto un procedimento amministrativo per chiarire i fatti.  Il ministero deve dare delle spiegazioni ai contribuenti che hanno pagato due volte quel concorso.  Invece si è limitato a trasmettere gli atti alla procura che 20 giorni fa ha archiviato non ravvisando reati. 

DONNA 2 E’ una notizia che secondo me è stata messa a tacere.

SABRINA GIANNINI Qualcuno vuole parlare?

VOX POP Io stenderei solo un velo pietoso.

SABRINA GIANNINI Ecco, lei stenderebbe un velo pietoso.  Possiamo farvi un paio di domande al ritorno? Possiamo farvi un paio di domande sul concorso? Al ritorno?

DONNA 2 Sì però il fatto che nessuno parli…nessuno sia disposto a parlare al microfono la dice lunga, che non cambierà niente. Forse secondo me è rassegnazione e questa è la cosa più brutta.

VOX POP Per esempio dal notaio dove faccio pratica io, dove vado io, loro hanno avuto una mazzata con questo che è successo ad ottobre…

SABRINA GIANNINI   Perché?

VOX POP Perché c’hanno rimesso la faccia tutti quanti.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Il ministero in questa vicenda fin dai primi istanti ha assecondato le richieste dei notai che vorrebbero dimenticare il più presto possibile questa brutta pagina… In fondo era stata una notaia a proporre la traccia contestata e quella traccia era stata diffusa pochi giorni prima da una scuola che fa parte del consiglio notarile di Roma. La scuola avrebbe potuto avere una notevole pubblicità se non ci fosse stato la protesta che poi ha portato all'annullamento.

DONNA Io penso che ci sia un sistema e sia il sistema delle scuole che funziona. Se la scuola riesce a sfornare i grandi numeri acquisti un nome. Se acquisti un nome acquisti a livello nazionale un prestigio, il prestigio paga.

SABRINA GIANNINI Queste scuole quanto costano? Quindi all’anno 1500.

CANDIDATI Sì sì.

SABRINA GIANNINI Non un corso un ciclo. Immaginiamolo su centinaia di persone…

CANDIDATI Centinaia, migliaia…

SABRINA GIANNINI Migliaia… E i docenti di queste scuole chi sono?

CANDIDATI Notai

SABRINA GIANNINI I notai.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO I candidati sono spesso collaboratori dei notai, laureati altamente qualificati e sempre aggiornati proprio perché per anni studiano per prepararsi al concorso.  La maggior parte, dopo averne tentate tre o quattro e speso 10 anni sui libri arriva alle soglie dei 40 anni, realizzando di essere notai mancati e pagati come impiegati, a volte anche meno con contratti a tempo determinato. Ciò che tiene legate queste persone alla speranza di farcela prima o poi è soltanto la convinzione che quel concorso sia garanzia di rigore e di una selezione fatta sulla base del merito e non più per trasmissione ereditaria.

SABRINA GIANNINI Lei è…non è figlio di notaio?

GABRIELE NOTO – CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO No, non sono figlio di notaio come l’altro 82,5%.

SABRINA GIANNINI Al di là della percentuale della percentuale dei figli e non so se fisiologicamente o meno abbia un peso questo quasi due su dieci, non so se ci sono dentro anche le mogli, non so se ci sono dentro i fratelli per esempio?

GABRIELE NOTO – CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO Non so, mi pare che qui parliamo di figli o figli di fratelli.

SABRINA GIANNINI Quindi tra fratelli, le mogli non ci sono in questa percentuale?

GABRIELE NOTO – CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO E ho capito ma adesso non è che il fratello lo possiamo…

SABRINA GIANNINI E ho capito ma se poi magari arriviamo al 40% la famiglia… 

GABRIELE NOTO – CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO Allora mettiamoci anche le amanti

SABRINA GIANNINI E beh certo magari arriviamo a 70 con le amanti!

GABRIELE NOTO – CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO Consideri che la professione notarile in passato è sempre stata vista parlo anche dei secoli scorsi appannaggio di famiglie che trasmettevano di padre in figlio.  Quindi la grande modernità del notariato degli ultimi 50 anni è proprio la mobilità sociale a cui accennava prima.

DONNA 2 Secondo me ci sono tanti fattori, ci sono tanti bravi che vincono, tanti fortunati…

UOMO 2 Bisogna allora dirlo che per accedere al concorso notarile ci vuole la pratica notarile, lo studio e una raccomandazione allora uno lo sa e…

SABRINA GIANNINI Non ci sono raccomandati?

UOMO 3 Non ce ne son 200. Non sarei qui io!

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO La parola raccomandazione è fuorviante. Se si favorisce qualcuno in un concorso pubblico si compie un reato. I sistemi possono essere i seguenti: comunicare le tracce segrete prima del giorno del concorso, ma il sorteggio potrebbe non essere fortunato, passargli un compito già svolto durante lo svolgimento delle prove, oppure intervenendo in fase di correzione degli scritti.  Sembrano manovre molto difficili perché almeno una parte della commissione deve essere complice.

SABRINA GIANNINI Lei aveva fatto anche quello del 2003

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA  2006.

SABRINA GIANNINI Insomma uno precedente a questo qualche anno fa. Era stato tutto…lei ricorda…

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA Sì, una magnifica esperienza professionale.

SABRINA GIANNINI E certo altrimenti non l’avrebbe rifatta. 

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA Esatto, l’ho rifatta proprio per questo.  Ho avuto delle pressioni moltissime per favorire qualche candidato sì.

SABRINA GIANNINI Politici cose così?

RAFFAELLA MESSINETTI   – PROF.  ORDINARIO DIRITTO PRIVATO UNIV.  LA SAPIENZA Ma anche personaggi istituzionali sì.

SABRINA GIANNINI Ci sono però anche figli di categorie, di politici, di altre…con le varie caste. Bisognerebbe capire quanti di queste sono dentro. Cioè io vi chiederei questo piacere un giorno fatelo con calma se volete. E’ interessante o no questa indagine che vi propongo?

GABRIELE NOTO – CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO E’ interessante certo.

SABRINA GIANNINI Lei l’ha letto il dossier sulle irregolarità che è arrivato alla Procura di Perugia del concorso 2004?

GABRIELE NOTO – CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO So che c’è stato un problema e so anche che però non ha dato luogo ad accertamento di responsabilità.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO I magistrati hanno in questi giorni recapitato l'avviso di chiusura delle indagini a due funzionari del ministero della giustizia che seguivano i lavori del concorso indetto nel 2004. Secondo l'ipotesi del pubblico ministero, avrebbero falsificato gli atti per riammettere un candidato bocciato a una seconda prova orale grazie alla quale poi è diventato notaio.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Fare il notaio vuol dire guadagni elevati perché le sedi vengono distribuite dal ministero in base ad una ripartizione del territorio che garantisce un alto numero di utenti. Quindi selezioni durissime per pochi meritevoli.  E questa convinzione non deve essere scalfita, anche perché se passasse l’idea che il concorso non è quella fucina dalla quale emerge il meglio del meglio, qualcuno potrebbe proporre di liberalizzare, e affidare il merito alle implacabili leggi di mercato.  Certo si guadagnerebbe un po’ di meno, forse è per questo che le loro valutazioni sono avvolte nel silenzio, mentre quelle degli universitari sono pubbliche, è possibile sapere tutto, anche il proliferare delle parentele. Ma vai poi a dimostrare che il figlio o parente del prof. era meno bravo di un altro. La patologia è così diffusa che si è dovuto imporre per legge un codice etico anti parentopoli. 

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Nel 1669 il professore di matematica presso il Trinity College di Cambridge, Isaac Barrow, trovò davanti a sé un giovane laureato di soli 27 anni che gli esponeva la teoria sulla legge di gravitazione universale. Lo studente era Isaac Newton. Il professore si alzò dalla sedia, e lasciò il suo posto da professore al giovane genio.  In Italia i professori sono a vita. Possono insegnare bene o male. Fare ricerca o non farla. Avere condanne oppure essere incensurati. Ma quasi niente riesce a farli alzare dalla cattedra, alla quale restare attaccati fino a 75 anni.

SABRINA GIANNINI   E’ vero che voleva pensionare i professori a 65 anni?

MARIASTELLA GELMINI   ­ MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITÀ E RICERCA Sì è vero.  E’ un obiettivo che non sono riuscita a raggiungere perché il Parlamento non me lo ha consentito anche se abbiamo trovato comunque un punto di equilibrio che non era esattamente ciò che io auspicavo però un abbassamento dell’età l’abbiamo approvata. Le resistenze su questo punto sono state molte.

SABRINA GIANNINI Ah sì eh?

MARIASTELLA GELMINI   ­ MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITÀ E RICERCA Sì.

SABRINA GIANNINI Ma al livello proprio parlamentare?

MARIASTELLA GELMINI     MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITÀ E RICERCA Sì, anche al livello parlamentare. Beh sa professori universitari ci sono anche in parlamento.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Adesso sarà un trauma andare in pensione 5 anni prima. Ma lo supereranno facilmente se a sostituirli arriveranno i figli.  I loro ovviamente. Per una coincidenza che però colpisce esclusivamente l’università italiana, i figli dei professori sono più precoci degli altri. Ancor più se si tratta di figli di presidi e rettori, che dovrebbero dare l'esempio. I professori ordinari italiani hanno un’età media di 58 anni, lo diventano 15 anni in ritardo rispetto ai colleghi europei quelli con meno di 35 anni in Italia sono solo 11, lo 0,05%. Ma è bruciare le tappe che aiuta la carriera. Se il primo gradino della carriera accademica, quella di ricercatore, si raggiunge mediamente e per pochi fortunati a 38 anni già a 32 Gianmarco Tosi vinceva un concorso per ricercatore in malattie dell´apparato visivo segni particolari? Figlio del rettore Tosi che ha fatto sprofondare in un debito record l’università di Siena, tra le varie cause del deficit anche la moltiplicazione delle cattedre. Quando vince il posto da ricercatrice ha soltanto 25 anni la figlia del presidente del CUN, il Consiglio Universitario Nazionale, Andrea Lenzi. Per avere la misura del senso etico dell’accademia basti sapere c’è voluta una legge per imporre un codice etico.

MARIASTELLA GELMINI     MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITÀ E RICERCA Abbiamo imposto il codice etico, ma abbiamo imposto anche la norma su Parentopoli. Tutti coloro che sono capo dipartimento piuttosto che rettori, direttori generali, componenti del consiglio di amministrazione non possono bandire concorsi, posti per parenti e affini entro il quarto grado.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Ma nell’università italiana i presidi di facoltà e rettori sono riusciti a fare dei veri e propri illusionismi pur di chiamare il figlio sotto la propria ala protettrice. Tutto regolare, tanto le regole se le sono fatte loro. A Foggia Antonio Musco smette di fare il rettore il 31 ottobre. Il giorno prima, il 30 ottobre, diventa ricercatore il figlio.  E’ il primo ricercatore italiano di economia applicata a insegnare in una facoltà di agraria. A Modena, è diventato ordinario nella facoltà di odontoiatria un professore associato in dermatologia. Giovanni Pellacani, figlio di Giancarlo Pellacani già rettore. A Bologna Alessandra Ruggeri a 35 anni diventa professore associato in anatomia, anche se è laureata in odontoiatria suona strano, un po’ meno che sia vicina al padre Alessandro, ordinario nella stessa facoltà. Luigi Frati che dal 2008 è il rettore della Sapienza di Roma, quando esce di casa non saluta i familiari, tanto li ritrova all’università’ dove tutti hanno vinto una cattedra, ovviamente la più prestigiosa, quella di ordinario, nella facoltà di medicina di cui è stato preside per 16 anni prima di salire sulla poltrona del magnifico.

TOMMASO LONGHI  ­ DIRETTORE GENERALE POLICLINICO UMBERTO I Io ho sempre ritenuto il Professor Frati una persona geniale anzi, un’artista direi,  perché  ci sono delle  cose che  sono veramente straordinarie per  esempio se la  moglie  di Frati che  era  insegnante  di Lettere  mi sembra, alle  scuole  medie  superiori a Roma, in cinque anni o poco più, diventa professore ordinario di Storia  della medicina  alla Sapienza  chiamata  alla facoltà  dal di lei marito,  Preside, se  questo è giusto ed è legale è un’opera d’arte.

SABRINA GIANNINI   Le mogli ve le sete dimenticate?

MARIASTELA GELMINI ­ MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITÀ E RICERCA Le mogli guardi non abbiamo le inserite ma il fatto che siano…se sono proibiti i parenti fino al quarto grado, gli affini fino al quarto grado, ritengo implicito che anche le mogli in presenza di un codice etico insomma…non ci debbano essere quindi credo che…  SABRINA GIANNINI   Si sta fidando un po’ troppo visto i precedenti. 

TOMMASO LONGHI ­ DIRETTORE GENERALE POLICLINICO UMBERTO I Un medico legale, lo sanno anche quelli che vedono la televisione…

SABRINA GIANNINI   Csi.

TOMMASO LONGHI ­DIRETTORE GENERALE POLICLINICO UMBERTO I… Csi, ad esempio, che cosa fa? Fa autopsie.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Non può farle Paola Frati che a 38 anni è professore ordinario di Medicina Legale a la Sapienza, ma è laureata in giurisprudenza, distinguendosi dalla quasi totalità dei colleghi d’Italia. E’ medico l’ultimogenito: Giacomo. Folgorante carriera anche per lui che a soli 28 anni è già ricercatore, a 31 diventa professore associato, discutendo una prova orale sui trapianti cardiaci.  Ma nella commissione c’erano due professori di igiene e tre odontoiatri.

SABRINA GIANNINI In tutta la commissione praticamente non c’era uno esperto in cardiologia?

VITO ANTONIO MALAGNINO­ PROFESSORE DI   ENDODONZIA UNIV.  CHIETI In cardiologia…

SABRINA GIANNINI Lei per esempio è un odontostomacologo.

VITO ANTONIO MALAGNINO­ PROFESSORE DI   ENDODONZIA, UNIV.  CHIETI Come dire, i meccanismi universitari in Italia come altrove sono abbastanza…come dire…non ho parole. Non lo so se ha senso che quando facciamo un concorso. Noi dobbiamo fare un concorso seguendo certi criteri e mi creda noi lo possiamo fare cioè un professore di endodonzia può ascoltare e giudicare le lezioni di un cardiologo va bene?  Quello diventa professore di cardiologia e io gli do la patente no… Questa è la legge…

SABRINA GIANNINI Ma c’è qualcosa che non va in questa legge?

VITO ANTONIO MALAGNINO PROFESSORE DI   ENDODONZIA, UNIV.  CHIETI Secondo me andrebbe cambiato qualcosa, però non so cosa.

SABRINA GIANNINI No non so cosa neanche io perché mi sono persa. Ma lei si farebbe operare da uno che è stato giudicato da una commissione di Odontostomatologi?

VITO ANTONIO MALAGNINO ­ PROFESSORE DI   ENDODONZIA, UNIV.  CHIETI Io non parliamo di cuore o di fegato però… 

SABRINA GIANNINI   Secondo lei che tre dentisti e due specialisti di igiene potevano adeguatamente …

GIACOMO FRATI   – PROF.  ORDINARIO E CARDIOCHIRURGO UNIV.  LA SAPIENZA Forse no però questo non è un problema mio. 

SABRINA GIANNINI   Visto che siete tanti

GIACOMO FRATI   – PROF.  ORDINARIO E CARDIOCHIRURGO UNIV.  LA SAPIENZA Non si richiede di valutare la qualità proprio scientifica del professore, quello lo dicono i titoli, le pubblicazioni.

SABRINA GIANNINI Sì. E’ arrivato al primo gradino dieci anni in media prima degli altri…

GIACOMO FRATI   – PROF.  ORDINARIO E CARDIOCHIRURGO UNIV.  LA SAPIENZA Però dico la verità, in questo mi ha aiutato molto essere il figlio del rettore perché sfido chiunque al secondo anno di medicina, una volta fatti gli esami e chiusi gli esami alla sessione estiva del 27 luglio, sfido chiunque a partire il 1 agosto andare tre mesi d’estate a lavorare nei laboratori a Filadelfia. I miei amici, compagni di corso andavano in vacanza. 

SABRINA GIANNINI   C’è gente che ci passa anni in America a studiare e non arriva ordinario a 36 anni.

GIACOMO FRATI   – PROF.  ORDINARIO E CARDIOCHIRURGO UNIV.  LA SAPIENZA Ma magari non torna, rimane in America e fa altre scelte…

SABRINA GIANNINI Ma sa perché fanno altre scelte?

GIACOMO FRATI   – PROF.  ORDINARIO E CARDIOCHIRURGO UNIV.  LA SAPIENZA Perché sono anche più pagati.

SABRINA GIANNINI No perché qua non hanno possibilità di avere cattedre.

GIACOMO FRATI   – PROF.  ORDINARIO E CARDIOCHIRURGO UNIV.  LA SAPIENZA Però le dico anche che molte volte sono anche più pagati.

DA REPUBBLICA TV DEL 23/ 09/ 2010 Il fatto che nella facoltà di Economia a Bari ci siano otto Massari tutti imparentati, che nella facoltà di Foggia ci siano sette Muscio tutti imparentati.

LUIGI FRATI Quando ci sono questi casi qui qualcosa di patologico c’è.

DAL TG3 DEL 21/ 12/ 2010 “Mancano poche ore alla riforma universitarie e bisogna correre.  Il figlio, la nuora, il genero del rettore devono essere assunti prima. Così accade in due università romane”.  “Ecco allora che proprio il giorno prima della votazione finale del disegno di legge Gelmini che dovrebbe mettere un punto alle parentopoli si scopre che il signor Frati Giacomo anni 36 sta diventando ordinario di Medicina alla Sapienza di Roma. Coincidenza vuole che Frati Luigi ne sia il rettore.  Frati Giacomo ha surclassato altri 25 candidati, 24 più anziani di lui, sicuramente meno bravi”.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO La vera storia però e’ un’altra…

ALESSANDRO MORETTI – RICERCATORE IN GEOECONOMIA UNIVERSITA’ LA SAPIENZA DI ROMA Parlando con dei colleghi mi rendo conto che sta succedendo una cosa particolare: cioè che il senato accademico prende una decisione.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Il senato accademico, presieduto da Luigi Frati, decide di assumere venticinque ricercatori e professori che avevano ottenuto di recente l’idoneità’ con un concorso bandito dalla Sapienza….  Ma vengono esclusi molti altri come Moretti che ha un’idoneità in tasca da cinque anni per professore associato ma ottenuta in un'altra università. 

ALESSANDRO MORETTI – RICERCATORE IN GEOECONOMIA UNIVERSITA’ LA SAPIENZA DI ROMA Per me questa mancata presa di servizio significa non diventare mai più professore associato.  Ero fra i più anziani... di coloro che erano stati chiamati dalla propria facoltà e mi sono detto perché devono essere privilegiate delle persone, che hanno appena vinto un concorso e che hanno davanti un’idoneità molto lunga, viene compiuta questa significativa discriminazione a quel punto io decido di farmi seguire da uno studio legale. Seguo la via del ricorso al TAR.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO L’ordinanza del TAR gli dà ragione… parla di danno grave e irreparabile e di “criterio illogico e che comporta una penalizzazione” il vantaggio è degli altri: tra questi Giacomo Frati che soltanto un mese prima era diventato ordinario ovviamente alla Sapienza… Questa può essere una fortunata coincidenza per lui e gli altri 24. Ma c’è un’altra coincidenza:

COLLABORATORE C’è il senato accademico? A che ora è iniziato? Adesso, adesso?

UOMO Adesso

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Il senato accademico, in un primo momento, decide che prenderanno servizio i chiamati dalla Sapienza entro il 31 ottobre 2010.  In una seduta successiva ci ripensa e proroga al 20/11/2010. Chi era stato chiamato proprio il giorno prima, il 19 novembre, dall’università il cui rettore è Luigi Frati? Il figlio Giacomo… senza questo cambiamento di programma le norme antiparentopoli introdotte dalla riforma Gelmini avrebbero rotto i piani del ricongiungimento familiare, ora al completo.

ALESSANDRO MORETTI – RICERCATORE IN GEOECONOMIA UNIVERSITA’ LA SAPIENZA DI ROMA Non so se la Sapienza poi si è in qualche misura attivata sotto il profilo del rispetto o meno della sospensiva.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Un’amministrazione imparziale – con il rettore in testa ­ davanti a una sentenza avrebbe potuto sospendere quelle chiamate… invece le procedure sono andate avanti.  L’università ha fatto appello.  Ma ha perso.  Il 18 aprile scorso.  Il giorno dopo, il 19 aprile: Giacomo Frati è diventato direttore dell’unità programmatica del Policlinico.

LUIGI FRATI ­ MAGNIFICO RETTORE UNIVERSITA’ LA SAPIENZA Allora io non è che son nato ieri, allora quando io ti ho detto per sapere se Frati Giacomo è bravo o non è bravo una va su...

SABRINA GIANNINI Ma non c’entra, ma non è solo quello... è tutto il percorso di suo figlio.

LUIGI FRATI   MAGNIFICO RETTORE UNIVERSITA’ LA SAPIENZA E qual è il percorso? Qual è il percorso?

SABRINA GIANNINI Beh insomma non è che possiamo parlarne qua.

LUIGI FRATI ­ MAGNIFICO RETTORE UNIVERSITA’ LA SAPIENZA Uno il quale s’è fatto…uno studente bravo, la specializzazione a Siena...

SABRINA GIANNINI L’intervista è complessa.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Perché un laureato in giurisprudenza può sedere sulla cattedra di Medicina Legale?  E perché un laureato in Odontoiatria può insegnare Anatomia?  Perché dopo la laurea può aver maturato quelle conoscenze attraverso studi, ricerche, pubblicazioni. E come ci si aggiudica il posto? La facoltà stabilisce che gli serve una determinata cattedra, parte il bando partecipano tutti coloro che hanno i requisiti e vince il migliore.  Lo stabilisce una commissione basandosi sui titoli e sulle esposizione orale. Ora con la nuova riforma, le cose dovrebbero cambiare. Quindi non sarà più possibile dire “Hai tanti titoli, però esponi male e quindi per me non sai insegnare”.  Quello che conterà è solo il curriculum.  Però se non si punta sull’assoluto senso di responsabilità di chi valuta, siamo da capo perché come abbiamo visto il curriculum lo puoi anche gonfiare. E poi se sei stato rettore per 20 anni ti sei costruito un impero dove tutti ti hanno chiesto qualcosa e a loro volta tutti dovranno restituirti qualcosa.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Allora torniamo a parlare di università. I professori in Italia, che producano o meno, è uguale perché non li licenza nessuno, quindi accaparrarsi quel posto è un bingo.  Adesso però c’è la riforma, che è ancora sulla carta, ma prevede che i professori siano sottoposti a valutazione, se producono poco tutto quello che rischiano è che saranno pagati un pochettino di meno, ma sempre lì restano.  Eppure l’università dovrebbe produrre cultura e sviluppo e non posti a vita a prescindere.  Comunque siamo in un momento di passaggio fra il vecchio e il nuovo, e vedremo se premierà il merito. Intanto in questa fase di transizione che cosa sta succedendo in una delle più grandi università d’Europa che è la Sapienza di Roma?

DA REPUBBLICA TV 23/ 10/ 2010 LUIGI FRATI ­ MAGNIFICO RETTORE UNIVERSITA’ LA SAPIENZA L’Italia è poco abituata a fare meritocrazia a tirar su gli indicatori è abituata a cantarsela e suonarsela come le pare. Il problema vero è che anziché farlo con le trattative fra professori, avvenga attraverso indicatori chiari di quelli che si userebbero nelle università di Oxford o che si userebbero nell’università di Oxford o all’università di Harvard. 

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Quindi secondo il Professor Frati più che una valutazione sul merito oggi gli incarichi sarebbero frutto di una trattativa fra professori. Infatti ci sarà una ragione se Harvard è al primo posto della classifica mondiale delle università mentre quelle italiane sono tutte dopo il centesimo.

MARIASTELLA GELMINI     MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITÀ E RICERCA Non sono più gli anni per distribuire le risorse a pioggia dobbiamo distribuire le risorse sulla base della qualità dei risultati solo così questo paese applicherà l’articolo 3 della Costituzione e sarà ugualitario, introducendo politiche

SABRINA GIANNINI   Di merito 

MARIASTELLA GELMINI MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITÀ E RICERCA Politiche meritocratiche. Il che vuol dire trasparenza, vuol dire valutazione, vuol dire competenza.

DA REPUBBLICA TV 23/ 10/ 2010 LUIGI FRATI ­ MAGNIFICO RETTORE UNIVERSITA’ LA SAPIENZA Un concorso a cattedre dove sto io dura cinque minuti perché lo si fa col calcolatore, i due migliori passano se sto io in commissione, del resto passerà la volta prossima, studiate. 

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO A sentire il ministro ed il rettore sembra iniziata una nuova era i soldi dovrebbero andare alle università virtuose, e a quelle che scelgono sulla base della produzione scientifica e del merito.

LUIGI FRATI ­ MAGNIFICO RETTORE UNIVERSITA’ LA SAPIENZA Con le migliaia di problemi che c’ho con la Gelmini i soldi e roba simili.

MARIASTELLA GELMINI MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITÀ E RICERCA Abbiamo cambiato registro, la fila dei rettori che chiedono soldi si è esaurita, anche perché soldi non ce ne sono.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Ma per la sapienza invece si sono trovati fondi extra. E non è l’università che li merita. E’ l’università in cui è docente il consulente del ministro.

MARCO  MERAFINA  ­  RICERCATORE  ­  CDA  UNIVERITA'  DI   ROMA  LA  SAPIENZA ­DIPARTIMENTO DI  FISICA Docenti che verranno o promossi o vengono assunti all’università La Sapienza con dei soldi che il nostro rettore Luigi Frati è andato a chiedere  direttamente  al  ministro Gelmini al di fuori del finanziamento ordinario...più di un milione di euro che sono consolidati quindi vanno avanti di anno in anno per  sempre  perché  queste persone sono persone che continueranno a percepire lo stipendio.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Due docenti saranno chiamati da fuori.  E altri venti grazie a questi fondi passeranno da ricercatori a professori. E da associati a ordinari. Ancora una volta Moretti che è ricercatore da dieci anni in questo ateneo e altri come lui verranno beffati. Non si sa chi siano i prescelti ma è chiaro il criterio adottato: quello dei presidi che chiamano sulla base di una loro personale scelta.

MARCO MERAFINA RICERCATORE CDA UNIVERITA' LA SAPIENZA DIPARTIMENTO DI FISICA Il mio dipartimento beneficia di un professore nel settore di fisica sperimentale, ed io voglio ricordare che in questo dipartimento abbiamo 47 docenti di fisica sperimentale su un totale di 119 ne avevamo proprio bisogno? E si decide soltanto sulla base dei desiderata delle singole facoltà e questo è francamente non dico irritante è assolutamente incredibile, inaccettabile per un’università che vuole essere baluardo della democrazia. Questo significa che se i soldi non bastano. Questo è carta straccia, questa è una delibera del senato accademico del 21 Settembre, abbiamo fatto così presto a rinnegare la meritocrazia?  Io non lo so...

DA REPUBBLICA TV 23/ 10/ 2010 LUIGI FRATI ­ MAGNIFICO RETTORE UNIVERSITA’ LA SAPIENZA Lo statuto de La Sapienza che io ho disegnato è entrato in vigore il 13 agosto è uno statuto che fa della meritocrazia l’unico metodo.

GIORNALISTA Con procedure chiare?

LUIGI FRATI ­ MAGNIFICO RETTORE UNIVERSITA’ LA SAPIENZA Predefinite dal senato accademico molto chiare.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Non è molto chiaro il senso della meritocrazia e la voglia di cambiamento. Visto che lo scorso 12 aprile quando si è riunito il senato accademico, composto tra l’altro dai presidi, proprio di quella spartizione avrebbero poi parlato… soddisfatti di avere portato qualcuno in facoltà senza seguire le regole della meritocrazia. Se il senato approva è democrazia accademica. Come prima, più di prima.

UOMO 5 strano che stanno tutti zitti

LUIGI FRATI ­ MAGNIFICO RETTORE UNIVERSITA’ LA SAPIENZA Non date retta ai professori perché i professori fanno i cazzi loro

STUDENTE No professore però…

LUIGI FRATI ­ MAGNIFICO RETTORE UNIVERSITA’ LA SAPIENZA I professori fanno i cazzi loro, lasciateli perdere!

SABRINA GIANNINI Comunque lei ha lasciato molto potere ai rettori.

MARIASTELLA GELMINI   – MINISTRO DELL’ISTRUZIONE UNIVERSITA’ E RICERCA Ma cominciamo col dire che prima avevamo rettori a vita, avevamo rettori che stavano in carica anche 15­20 anni con la riforma il rettore starà in carica non più di 6 anni. Un rettore che sta in carica un tempo determinato a meno possibilità di diventare barone e soprattutto non può essere preoccupato della rielezione. 

ELEZIONI RETTORE UNIV. LA SAPIENZA 3.10.2008 L’università degli studi di Roma la Sapienza per il quadriennio 2008 – 2012 il Prof.  Luigi Frati

SABRINA GIANNINI ­ FUORI CAMPO Dopo 15 anni preside della facoltà di medicina finalmente l’elezione a magnifico rettore. 

LUIGI   FRATI MAGNIFICO RETTORE UNIVERSITÀ LA SAPIENZA ­-  MESSAGGIO ELETTORALE PER LA PRESIDENZA DELLA FACOLTÀ DI   MEDICINA UNIV. LA SAPIENZA Una facoltà di grandissimo interesse con un ospedale il Policlinico Umberto I che è stato giudicato il migliore d’Italia per qualità della ricerca clinica che viene fatta.

GIACOMO FRATI ­ PROFESSORE ORDINARIO E MEDICO Qui dentro senza fare nomi e cognomi in generale nel sistema ehhh, ci sono professori che non pubblicano un articolo... no non pubblicano, non l’hanno mai pubblicato e sono professori ordinari. Non fanno 150 ore di didattica...

SABRINA GIANNINI ­ FUORI CAMPO Il figlio fa una fotografia impietosa del Policlinico collegato alla facoltà che suo padre ha governato per 15 anni… che più che un’eccellenza è un ospedale universitario con un insanabile debito …

TOMMASO LONGHI  – EX DIRETTORE GENERALE POLICLINICO UMBERTO I Se nel Policlinico ci sono, c’erano 800 chirurghi che compivano 24 mila interventi l’anno adesso sono,  risultano anche  diminuiti cioè  30 interventi all’anno io ho fatto il confronto con gli altri policlinici universitari europei e la media è di 120­  130, allora se un intervento chirurgico al policlinico costa 4­5 volte di più di quello che dovrebbe costare e principalmente una trentina di direttori primari quindi di laboratorio che  erano  soltanto professori di materie  biologiche  ora  in altri policlinici i direttori di laboratorio sono 2, 3 massimo 4 non 30, la maggior parte  di questi erano nel dipartimento di medicina sperimentale  del preside  Frati che  non a caso aveva 17 mld all’epoca di vecchie lire di deficit, di sbilancio tra i costi e  i ricavi.  Ho dimostrato documentando alla commissione parlamentare d’inchiesta nel 2007 che tutto questo portava a un deficit del Policlinico di circa 80 milioni di euro.

SABRINA GIANNINI Lei sa come è finita poi la commissione d’inchiesta?

TOMMASO LONGHI – EX DIRETTORE GENERALE POLICLINICO UMBERTO I No, so che dovevano fare una relazione. Mi hanno detto che era finita nel nulla.

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO E’ finita nel nulla perché c’era troppo… Nel 2008 la commissione parlamentare di inchiesta sull'efficienza e efficacia del Servizio Sanitario Nazionale presieduta dal senatore Antonio Tomassini, dedicava due sole pagine della relazione finale alla questione dell’Umberto I, pur definendola la più complessa. Ecco come mettere il coperchio su qualcosa che scoppia e sulle responsabilità dei politici regionali e degli amministratori.  Tra le principali ragioni del deficit si elencava "l'assurda proliferazione di posti apicali avvenuta negli anni frutto di uno strapotere universitario che non ha tenuto in considerazione le necessità assistenziali ma, piuttosto, il soddisfacimento delle esigenze di carriera dei medici..."

TOMMASO LONGHI – EX DIRETTORE GENERALE POLICLINICO UMBERTO I Allora questo perché viene fatto? Perché questo crea una base elettorale alla facoltà di medicina e nella stessa università.

SABRINA GIANNINI Cioè si diventa presidi o rettori in una seconda battuta se si hanno dei voti.

TOMMASO LONGHI – EX DIRETTORE GENERALE POLICLINICO UMBERTO I Esattamente. E tutte queste persone votano ho trovato anestesisti che erano direttori di dipartimento di ostetricia e ginecologia, ho trovato cardiologi che erano direttori di dipartimento di chirurgia.

SABRINA GIANNINI E poi chi, come Luigi Frati, insegna patologia generale ma è primario del day hospital oncologico… 

DONNA Quale primario?

SABRINA GIANNINI Frati.

DONNA Frati? Non c’è Frati. Cioè lui non c’è lui personalmente.

SABRINA GIANNINI Non c’è... dov...

DONNA Mai. 

DONNA Lui sta all’università. Io qui non...

SABRINA GIANNINI Ma da quanto?

DONNA Da sempre. Ecco domandalo a lei. Visita Frati qua?

DONNA No!

SABRINA GIANNINI Dove visita là dove...

DONNA Non visita...

SABRINA GIANNINI Scusi dove trovo il primario? Il dottor Frati? Lui è qua la mattina?

DONNA Frati non c’è mai qua.

SABRINA GIANNINI E’ dove c’è l’altro day hospital oncologico?

DONNA No no lui non segue proprio i malati. C’è Cortesi che è dall’altro Day Hospital. Non visita qui il dottor Frati.

SABRINA GIANNINI Prof. Frati?

DONNA Prof. Frati non è qui. 

SABRINA GIANNINI E come mai?

DONNA Non visita. Che dovete fare avevate un appuntamento?

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO

Eh dovevamo vedere proprio questo: che lui non visita! 

SABRINA GIANNINI E’ possibile organizzare una visita con il professor Frati?

DONNA No. Non le fa il professor Frati. Non fa le visite.

SABRINA GIANNINI Frati?

DONNA Chi?

SABRINA GIANNINI Il professor Frati l’avete visto?

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO A telecamera nascosta pare non abbiano dubbi: il magnifico rettore non mette piede nel reparto di cui è responsabile. Ma quando torno con la telecamera i suoi collaboratori sono un po’ meno convinti… Nell’altro day hospital oncologico, così come in tutti i reparti dell’ospedale ­ è in evidenza il nome del responsabile. Ma non in questo reparto. Già, perché se qualcuno chiedesse di essere visitato dal primario Frati: cosa risponderebbero?  Che è troppo impegnato a fare altro per occuparsi dei malati di cancro?

SABRINA GIANNINI Ma vogliamo un’intervista!

LUIGI FRATI ­ MAGNIFICO RETTORE UNIVERSITÀ LA SAPIENZA Se lei il problema è solo quello di aggredirmi allora non m’interessa.

SABRINA GIANNINI Non voglio aggredirla, io voglio intervistarla.

SABRINA GIANNINI FUORI CAMPO Il rettore più intervistato d’Italia stavolta si defila. Avremmo voluto colmare il vuoto di conoscenza sulle attività che lo tengono lontano dal reparto di oncologia. Per esempio la clinica privata convenzionata Neuromed in provincia di Isernia di cui è il direttore scientifico da diversi anni. E dove il suo vice è un altro medico del policlinico Mario Manfredi. Dall’ateneo Frati si sposta anche all’Accademia della Medicina. Dove è il presidente del comitato direttivo. L’associazione si avvale di un'agenzia di servizi: la forum service una società che organizza corsi di aggiornamento per i medici. Il giro d’affari della forum è sull’ordine di milioni di euro.  L’Accademia della medicina è il socio principale. Pur essendo senza fini di lucro, riceve contributi da enti e da donatori, ma nel sito internet non si specifica chi siano.  Da questo elenco di donatori del 2006 si vedono cifre generose che provengono dalle case farmaceutiche, alcune delle quali producono farmaci del settore oncologico.  Torniamo al Policlinico i farmaci destinati al reparto oncologico diretto da Luigi Frati costano 800mila euro soltanto per il primo trimestre. Quindi, pur non visitando i pazienti il professor Frati sa di cosa hanno bisogno.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Il primario Luigi Frati, per 16 anni preside alla facoltà di Medicina, oggi rettore alla Sapienza, ha preferito evitare il confronto e le sue considerazioni ce le ha spedite, sono una ventina di pagine nelle quali rivendica sostanzialmente correttezza, linearità e principi di merito.  Sicuramente è il più bravo per la maggioranza dei dipendenti universitari.  Ogni atto di Frati preside, e di Frati rettore è stato condiviso e votato dal senato accademico, dai consigli di facoltà e dai consigli di amministrazione. Abbiamo fatto richiesta e sollecitato un’intervista con il direttore sanitario del Policlinico, con il direttore generale, con il presidente della Regione Lazio che controlla e finanzia il Policlinico, che ha un buco di 160 milioni questa è la mole del carteggio, qui ci sono le richieste d’intervista, i solleciti, le risposte con le promesse che poi però non sono state mantenute perché di fatto l’intervista con nessuna di queste persone è stato possibile realizzarla. La domanda che avremmo voluto porre è la seguente: “E’ normale non essere presenti in un reparto che si dirige da venti anni?  Una domanda imbarazzante? Forse. Adesso saliamo di grado e passiamo al Consiglio di Stato.

ALESSIO LIBERATI­ MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE La battaglia dei candidati è una battaglia innanzitutto difficile perché la giurisprudenza non li aiuta, costosa perché gli avvocati costano, e in ultimo rischiosa, perché chi fa un ricorso al TAR spesso rischia delle ritorsioni o delle preclusioni di carriera. Da quando mi occupo di questi problemi decine di persone mi hanno contattato cercando di raccontarmi le loro storie personali e i loro problemi, quello che gli è accaduto e quello che emerge sempre la frase con cui chiudono queste mail o telefonate è mi raccomando non faccia il mio nome sennò io sono finito.

SABRINA GIANNINI Possiamo dare dei consigli in generale a chi si vedrà o si sentirà magari beffato o che si crede comunque vittima di un abuso, si può dir qualcosa secondo lei o no?

ALESSIO LIBERATI MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Il mio consiglio è quello di andare sempre avanti di non aver paura perché questi meccanismi poi alla fine favoriscono l’omertà, favoriscono il sistema, questi sistemi si reggono sul silenzio, è vero che può avere un prezzo personale, però è come il commerciante che si rifiuta di pagare il pizzo, se non si comincia non si finirà mai.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Quando c’è una controversia con la pubblica amministrazione ci si rivolge al Tar, se poi il Tar ti dà torto e tu pensi di aver ragione ti puoi appellare al Consiglio di Stato, che è l’organo ultimo e supremo in fatto di giustizia amministrativa, e decide anche sui concorsi. Ma quando c’è un problema proprio su un loro concorso, come si comportano? Qual è il grado di trasparenza e linearità si scopre il giorno in cui proprio uno dei loro magistrati decide di chiedere l’accesso agli atti.

SABRINA GIANNINI Alessio Liberati è un magistrato del tribunale amministrativo della Toscana.  E’ abituato a prendere decisioni sui concorsi degli altri… ma nel 2007 tocca a lui.  Partecipa e viene bocciato a un concorso per entrare al Consiglio di Stato, organo supremo della giustizia amministrativa.

ALESSIO  LIBERATI   ­  MAGISTRATO  TRIBUNALE  AMMINISTRATIVO  REGIONALE Il Consiglio di Stato è un’istituzione che è stata fondata nel 1865, mai nessuno si era permesso di contestare la legittimità di questo concorso, un candidato,  che  ero io,  ha impugnato il concorso dicendo questo concorso è irregolare ci sono delle  cose che  non vanno e  questo è stato un momento molto difficile  per me  perché è iniziata veramente una guerra che io non mi aspettavo in fin dei conti ho chiesto solo trasparenza per un concorso.

SABRINA GIANNINI Trasparenza, ovvero accesso ai verbali del concorso, che è un diritto dei candidati.  Eppure l’organo a cui ci affidiamo per verificare la regolarità dei concorsi pubblici non è trasparente quando si tratta di fare luce su un proprio concorso.

ALESSIO LIBERATI MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha cominciato prima a negarmi gli atti relativi a questo concorso, ho fatto credo cinque diversi giudizi tutti vinti o in parte vinti con i quali poi mi hanno dato gli atti che mi servivano.

SABRINA GIANNINI Superate le barriere Alessio Liberati ­ che in quel concorso era primo per titoli legge gli atti e vede alcune anomalie. Al vincitore Roberto Giovagnoli, laureato da pochi anni e con poche esperienze professionali alle spalle, la commissione calcola un totale di anzianità di 6 anni e 1 mese: il minimo richiesto era 5 anni. A Giovagnoli viene fatto un cumulo dei periodi prestati nelle diverse amministrazioni, ma la possibilità di fare questo cumulo era stata negata ad altri concorrenti. Se la sua anzianità fosse stata calcolata con i criteri utilizzati per gli altri candidati la somma sarebbe lontana dai 5 anni necessari: 6 mesi e 10 giorni come dirigente corte conti; 1 anno, 1 mese e 2 giorni come uditore giudiziario; 4 mesi e 2 giorni come funzionario del ministero dei trasporti per un totale di 1 anno, 11 mesi e 14 giorni!

ALESSIO LIBERATI MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Per questo signore hanno fatto il cumulo e non solo nel fare il cumulo hanno avuto tutta quanta una serie di sviste nel calcolare i vari periodi.

SABRINA GIANNINI Oggi Roberto Giovagnoli è il più giovane consigliere di Stato.  La sua carriera folgorante lo porterà tra qualche decennio alla poltrona più alta della giustizia amministrativa. I commissari che hanno scelto questo giovane purosangue non avevano fatto i conti con chi, poi, avrebbe sollevato il dubbio che quella corsa potesse essere truccata.

ALESSIO LIBERATI MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Posso anche credere ad un errore, ma perché poi si cerca di nascondere in tutti i modi questi atti?

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO Roberto Giovagnoli buongiorno.  Sono Sabrina Giannini di Report, Rai Tre. Possiamo farle un paio di domande?

ALESSIO LIBERATI MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Sto andando ad un’udienza.

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO Lo so, ma solo due. Non mi faccia aspettare. E’ arrivato un po’ in ritardo, lo ammetta...

SABRINA GIANNINI Lo cerchiamo un mese e mezzo dopo la pubblicazione della sentenza del Tar che dà in parte ragione a Liberati. 

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO Considerando comunque il fatto che supera un concorso che è stato considerato illegittimo dal TAR.

ROBERTO GIOVAGNOLI – CONSIGLIERE DI STATO Guardi domani ne parliamo con calma.

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO No, mi dica l’ora, io torno volentieri.

ROBERTO GIOVAGNOLI – CONSIGLIERE DI STATO Quando finisco l’udienza ne possiamo parlare.

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO E quando finisce l’udienza?  Ma sono due domande dottore non mi faccia aspettare per niente.

ROBERTO GIOVAGNOLI – CONSIGLIERE DI STATO Purtroppo adesso non...

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO Ma lei dica soltanto cosa pensa del fatto che il Tar giudichi il concorso suo illegittimo e lei giudica sui concorsi altrui. Non è una contraddizione?

ROBERTO GIOVAGNOLI – CONSIGLIERE DI STATO Ma non è proprio così in realtà.

SABRINA GIANNINI Non è proprio cosi… infatti. Perché la sentenza del TAR Lazio non entra nel merito dei titoli perché il ricorso è stato presentato oltre i 60 giorni di tempo richiesti.

ALESSIO LIBERATI MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Dice: il concorso è illegittimo: hai ragione. Però noi li lasciamo tutti lì e ti diamo un risarcimento dei danni di mille euro.

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO Lei ha i titoli?

ROBERTO GIOVAGNOLI – CONSIGLIERE DI STATO Io sì. Non c’è nessuna sentenza che dice il contrario.

ALESSIO LIBERATI MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ma voglio dire se una persona non ha un titolo per partecipare a un concorso se io non lo impugno entro 60 giorni rimane lì tutta la vita?  Mi sembra che la giurisprudenza abbia sempre detto che questa è una causa di nullità, per assurdo seguendo questo ragionamento una persona con la terza media, potrebbe fare il Consigliere di Stato se poi una persona non lo impugna, lui rimane lì per tutta la vita. 

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO Liberati chiede al suo organo di autogoverno di annullare il concorso che però passa la palla alla presidenza del consiglio dei ministri, che non risponde per 2 anni, ne’ alla richiesta di Liberati, ne’ alle interrogazioni parlamentari.  Ma risponde alla mia richiesta di intervista e sul perché quel concorso non è stato annullato scrive: è stato recentemente inoltrato appello al Consiglio di Stato.  “Recentemente” non è proprio corretto.  La presidenza ha fatto appello ma lo stesso giorno in cui ho io richiesto l’intervista. Un appello che sostiene la legittimità del concorso vinto da Giovagnoli e gli altri.

SABRINA GIANNINI Se lei ha i titoli perché si opposto così tanto all’accesso agli atti da parte…

ROBERTO GIOVAGNOLI – CONSIGLIERE DI STATO Ma non è vero neanche questo.

SABRINA GIANNINI Beh lei si è rivolto addirittura al garante per la privacy.

ROBERTO GIOVAGNOLI – CONSIGLIERE DI STATO Ma perché c’era una diffusione di mail e di dati personali che io ritenevo lesiva del mio diritto alla riservatezza, ma non per i titoli.

SABRINA GIANNINI Però il garante per la privacy non ha ritenuto ammissibile la sua richiesta

ALESSIO LIBERATI MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE E mi ha fatto una causa chiedendomi centinaia di migliaia di euro di danni perché io avrei violato la sua riservatezza e lo avrei diffamato dicendo che non ha i titoli, ma se lui ce li ha esibiamoli, qual è il problema?

ROBERTO GIOVAGNOLI – CONSIGLIERE DI STATO Comunque se vuole io ne parlo volentieri.

SABRINA GIANNINI Quando possiamo parlarne dottore?

ROBERTO GIOVAGNOLI – CONSIGLIERE DI STATO Guardi io ne parlo volentieri appena finisce l’udienza.

SABRINA GIANNINI Più o meno mi dà un orario?

ROBERTO GIOVAGNOLI – CONSIGLIERE DI STATO Nel pomeriggio, verso le cinque, le sei.

SABRINA GIANNINI Alle 5 finisce?

ROBERTO GIOVAGNOLI – CONSIGLIERE DI STATO Ne parliamo volentieri, va bene?

SABRINA GIANNINI Grazie

ROBERTO GIOVAGNOLI – CONSIGLIERE DI STATO Prego, grazie a voi

SABRINA GIANNINI Così ne parliamo con calma, grazie

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO Non rilascerà più l’intervista. Declina l’invito anche l’attuale Presidente del Consiglio di Stato, Pasquale De Lise. Tutti e due ci scrivono che non si può parlare di una vicenda ancora aperta quindi finché non si discuterà l’appello. E chi dovrà decidere in appello se annullare o riformare quella sentenza del TAR? I colleghi di Giovagnoli.  E chi è stato l’avvocato di Giovagnoli?  Carlo Malinconico già Consigliere di Stato e predecessore di Manlio Strano segretariato generale della presidenza del consiglio.

ALESSIO LIBERATI MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE C’è un ricorso alla Corte Europea diritti dell’uomo che dovrebbe decidere se è legittimo che il Consiglio di Stato decida sulla legittimità dei concorsi dei consiglieri di Stato.  Beh la corte europea è molto chiara in questo: dice che il giudice non solo deve essere imparziale ma deve anche apparire tale.

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO E’ evidente che tra i membri del Consiglio di Stato il conflitto di interesse non è un problema. Basti vedere il cosiddetto concorso delle mogli.  I mariti sono Vincenzo Fortunato, con il doppio incarico di capo di gabinetto di Tremonti, e Salvatore Mezzacapo. E nominano i membri della commissione di un concorso per magistrati del TAR in cui concorrono le rispettive consorti, che poi vincono. Pasquale De Lise era il Presidente della commissione di quel concorso.  Oggi è il presidente del Consiglio di Stato. Ha sostituito Paolo Salvatore, il quale, ricoprendo numerosi ruoli, ha potuto gestire tutta la vicenda di Liberati: era membro nella commissione del concorso vinto da Giovagnoli.  E’ stato lui a resistere alla richiesta di Liberati di vedere gli atti del concorso.

ALESSIO LIBERATI MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Quando uso questi atti poi si aprono delle azioni disciplinari, chi le esercita? il Presidente del Consiglio di Stato, Paolo Salvatore, è ovvio che qui ci troviamo di fronte a una questione un po’ di conflitto d’interesse forse.

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO E sarà sempre l’organo presieduto da Paolo Salvatore a proporre il monitoraggio della sua corrispondenza email per trovare illeciti disciplinari. 

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO L’attuale presidente Pasquale De Lise, un mese dopo questa intervista realizzata sotto la sua finestra, consegna a Liberati l’avviso dell’apertura di un nuovo procedimento disciplinare, ancora una volta per avere offeso l’onorabilità di un collega.

ALESSIO LIBERATI MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Io sono l’unico magistrato in Italia che ha 6 procedimenti disciplinari proposti.  Sono qua davanti al Tribunale penale di Roma perché un collega che è un massone in sonno mi ha denunciato per violazione dei dati, trattamento illecito dei dati personali.

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO La denuncia, ora archiviata, era stata presentata da Guido Salemi. Leggendo il fascicolo non solo c’è la conferma che era davvero un massone della loggia del grande oriente d’Italia ma che l’affiliazione è andata avanti anche dopo il divieto, nel 1994, a intrecciare vincoli di fratellanza massonica.

ALESSIO LIBERATI MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Parliamo di un periodo in cui i magistrati amministrativi sono coinvolti in inchieste riguardanti la P3, la cosiddetta P3, la cricca, la violazione della legge Anselmi, c’è un inchiesta in Calabria che riguarda un collega.

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO Quando un membro del consiglio di presidenza propone di obbligare tutti i magistrati amministrativi a dichiarare ogni anno la non appartenenza a logge massoniche, i colleghi non approvano.

ALESSIO LIBERATI MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Può essere invece indecoroso denunciare, come io ho fatto, ad esempio che un collega che ha fatto una causa per ernia discale perché sollevava i fascicoli pesanti poi vada a correre nelle maratone. E un Consigliere di Stato, Carmine Volpe, in pendenza di questa cosa peraltro viene aperto un disciplinare nei miei confronti e questo collega è diventato Capo dell’ufficio legislativo del Ministro Fitto credo, nonché promosso presidente di sezione del Consiglio di Stato.

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO Mentre conta i suoi disciplinari, Alessio Liberati chiede di vedere quelli degli altri. Vorrebbe dare un’occhiata in particolare a quelli archiviati, finiti per sempre nel cassetto: ma la sua curiosità non viene soddisfatta. Ma non è tutto.

ALESSIO LIBERATI    MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Non sono riuscito ad avere alcune bobine con cui si registrava il plenum dell’organo di autogoverno in cui si parlava incidentalmente del concorso perché il giorno stesso che le ho chieste l’organo del governo ne ha disposto la distruzione.

SABRINA GIANNINI – FUORI CAMPO A questo punto può non sorprendere che il consiglio di stato mantenga un orientamento che non aiuta le vittime dei concorsi…

SABRINA GIANNINI Nella sua battaglia è abbastanza isolato.

ALESSIO LIBERATI    MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Si, si, si.

SABRINA GIANNINI Si è pentito di aver fatto tutto questo?

ALESSIO LIBERATI ­ MAGISTRATO RIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE No, lo rifarei tutto dall’inizio.

SABRINA GIANNINI Non devono essere stati tre anni facili però eh?

ALESSIO LIBERATI MAGISTRATO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE No, sono stati degli anni molto difficili e quello che mi dispiace è che in qualche modo la serenità che è stata tolta ha coinvolto anche la mia famiglia. Ho un bambino piccolo, una compagna adorabile, ma è proprio per mio figlio che faccio queste cose.

MILENA GABANELLI IN STUDIO Immagino che anche coloro che si danno tanto da fare per sistemare parenti e amici vogliono per i loro figli e nipoti un mondo più giusto ed equo. Anche tutti quelli che disapprovano, ma assistono in silenzio, vogliono per i loro figli un mondo più giusto ed equo. Il presidente del Consiglio di Stato De Lise ci scrive che il Consiglio di Stato è imparziale, terzo e indipendente. In nessun altro organo di giustizia però un presidente ricopre tutte le funzioni. E rimane il fatto che è lo stesso Consiglio di Stato a decidere sulla regolarità dei suoi concorsi.  E’ evidente che non sta a noi il giudizio sui casi che abbiamo raccontato, è ovvio però che è la somma infinita di favori elargiti ai livelli più alti a dare il maggior contributo alla costruzione di universi professionali opachi, dove a essere conniventi ci si guadagna sempre, magari una benemerenza da incassare a tempo debito. Solo che il tempo poi presenta il conto: l’eredità che stiamo lasciando ai nostri figli è una classe dirigente di scarsa qualità. E con quella dovranno fare i conti. Se vogliamo ripristinare la cultura del merito è ora di cominciare a dire qualche no.

Scuola pubblica: professionisti di che? Scrive Cesare Alfieri su “L’Opinione”. Bisogna correre a sfatare un mito, un’idea errata, o meglio la presunzione che gli insegnanti della scuola pubblica italiana possano definirsi, sentirsi “professionisti” del mondo del lavoro vero. Non è così. Bisogna dire chiaramente che sono elemosinati degli italiani, parassiti elemosinati dai nostri soldi, quegli stessi soldi estorti a noi con la tassazione erosissima che, difatti, non esiste in nessuna parte del mondo. Un professionista è un libero professionista cioè colui (colei) che risponde di ciò che fa. Se sbaglia paga di suo. Come succede a tutti i professionisti, liberi professionisti italiani, dal corniciaio al fabbro, dall’avvocato all’imprenditore. Il tempo indeterminato, ovvero a vita dell’impiego pubblico, specificamente nella scuola pubblica, insieme alla inamovibilità pratica, effettiva, dallo stesso, insegnante pubblico, professore universitario statale o maestro di scuola pubblica che sia, magistrato o giudice pubblico, politico o avvocato dello Stato cioè pubblico, rendono il posto cosiddetto “pubblico” vale a dire stipendiato con i soldi di tutti noi italiani, ma guarda caso, ha come ulteriore requisito l’irresponsabilità verso tutti, verso tutti noi, i reali, effettivi datori di lavoro. Pertanto credere o sentirsi “professionisti” nell’apparato pubblico difetta gravemente del requisito essenziale, la responsabilità. Che porta con sé la “amovibilità” ovvero il cambio di lavoro quando non si ha funzionato nella scuola così come da giudice, e porta con sé così anche la determinatezza dell’occupazione e del lavoro, a maggior ragione quando incapaci di farlo. In Italia da una settantina d’anni si sono immesse masse di pecoroni irresponsabili pubblici, per carità persone tra cui, soprattutto nei primi trenta anni, si distingueva una loro maggioranza, financo la quasi totalità, di soggetti che hanno ritenuto “sacra” la propria funzione nel settore pubblico, ritenendo la responsabilità un optional, andava cioè da sé ritenere di risponderne non solo lavorativamente ma anche e soprattutto personalmente, si pensi solo al disdoro sociale dato dalla incapacità cui difatti era la stessa società, più stretta nelle sue maglie e moralmente pochissimo lasciva, a richiamare e fare rispondere delle conseguenze; nei successivi quaranta anni le maglie sociali si sono allargate e con la libertà sociale il posto pubblico è diventato il “lavoro” degli italiani, dai ministeri alle corti, dalle province ai comuni alle regioni, dalle pubbliche amministrazioni e così via fino ad avere più o meno in ogni famiglia un soggetto almeno a carico delle finanze pubbliche. E’ diventato cioè, per quanto potesse essere stato l’”agguanto” al concorso pubblico truccato, convenientissimo occupare il posto pubblico, perché in cambio di poche ore “lavorate”, ovvero di sola presenza fisica nell’odiato ufficio tra gli odiati colleghi uguali a sé, si è ricavato l’obolo pubblico con cui si è, come dicono al sud, “campata” la famiglia. Ecco quindi il posticino a Ferdinando Esposito in magistratura, con concorsino “pubblico” a hoc stante papà e zio Esposito (quello della Cassazione e della sentenza annunciata contro Berlusconi, altro che professionista della giustizia! la giustizia piuttosto come arma per “regolare i conti” e le acrimonie di un’intera classe, quella giudiziaria pubblica contro l’imprenditore privato resosi ricco e con l’arlìa di essere sceso in politica). O ecco il posticino a papà di Giulio Napolitano nell’università pubblica, come tutti gli altri nessuno escluso. Ecco il posticino pubblico al ministero: un esercito di italiani e di italiane acrimoniosi e insoddisfatti “da sistema”, lagnanti e mal mostosi negli improduttivi ministeri pubblici italiani. Ed ecco il folto popolo della scuola pubblica, tra cui svetta, arrivata vicino casetta sua, la moglie dell’imbroglione al governo rubato Renzi: una folla di rosiconi della scuola pubblica in grado di insegnare spesso la sola propria ignoranza condita della supposizione di sapere qualcosa ai poveri ragazzi italiani che, inseriti in un sistema nefasto siffatto, di fatto, non solo non imparano o si “arricchiscono” di quasi nulla, ma sono il bersaglio e lo sfogatoio della depressione e del disagio che mostrano i loro insegnanti. Ma ecco ancora i raccomandati ai “concorsi” pubblici nelle Regioni che vivono oggi, per la scemenza e l’insipienza di Renzi illegittimo al governo, un nuovo revival, dato che il beota con il suo governo di non eletti cerca di dare più rappresentanza e potere escludendo noi italiani. Ecco l’impiego pubblico degli italiani nell’intero apparato pubblico, vale a dire il regno dell’improduttività. Del parassitismo a nostre spese. E, ancora, gli impiegati pubblici dell’Agenzia delle entrate che tuttora immette altri mille a controllare chi non si sa, dato che chi ha potuto e che produceva qualcosa autonomamente è fuggito all’estero. Ecco i giudici e la giustizia pubblica, una mannaia ad orologeria prona e indifesa di fronte alle lerce ambizioni personali dell’ultimo venuto., e da ultimo sono venuti difatti Di Pietro, o Ingroia, De Magistris, i quali forti della inamovibilità e soprattutto dello stipendio a vita hanno dettato legge in un Paese letteralmente violentato dalla loro stolta cupidigia. Quando si vede un lavoro pubblico in Italia, in definitiva, bisogna dire ed avere ben presente che sono gli italiani ad esserne i datori di lavoro, si pensi alla Camera e al Senato, al Parlamento e a tutto l’apparato politico, e oggi è finalmente necessario chiamare tutto a risponderne, alla responsabilità. A cominciare con Napolitano il quale da presidente della Repubblica ha violato la nostra regola democratica di avere quali rappresentanti gli eletti, cosa che non è avvenuta né con Monti né con Letta e che non sta avvenendo neanche tuttora con Renzi. Monti, Letta o Renzi non sono mai stati eletti per rappresentare l’Italia da nessun italiano, è Napolitano ad avere, contrariamente ad ogni regola della nostra democrazia, “scelto” ed eseguito, dandoci i pensi incapaci di cui è necessario liberarsi. Rappresenta chi legittimato con voto a rappresentarci. Solo rappresentanti eletti spingeranno infatti il Paese a razionalizzare le proprie risorse umane ed economiche, non altri. Renzi getta fumo negli occhi, come pare abbia fatto tutta la vita, e i più c cascano, vedi Berlusconi o il popolo di destra che lo ha creduto suo erede, quando sarebbe bastato osservare bene da dove Renzi venisse, cioè dal verterocomunista Napolitano, per capire da subito chi è e sotto lo schiaffo di chi è, qualsiasi cosa faccia o reciti o blateri. Si ripete, “qualsiasi cosa faccia o reciti o blateri”. Questo Paese si deve dare una svegliata! Il non lavoro pubblico va trasferito e fatto diventare lavoro produttivo privato nel mercato globale vero. Ci vuole produzione, investimenti produttivi, nuove industrie per il lavoro produttivo degli italiani improduttivi.

SENZA CONCORSO PUBBLICO. LA PARENTOPOLI DELL’ANTIMAFIA E GLI INCARICHI FIDUCIARI NEI TRIBUNALI.

“LA SAGRADA FAMILIA”. NON È LA STORICA CATTEDRALE DI BARCELLONA IDEATA E COSTRUITA DA GAUDÌ: A PALERMO, IN QUESTO MOMENTO È UNA FAMIGLIA INTESA NON COME “FAMIGLIA MAFIOSA”, ALMENO SINO AD ORA, MA COME FAMIGLIA INDAGATA: UFFICIALMENTE SI TRATTA DI REATI DI CORRUZIONE, ABUSO D’UFFICIO E, QUALCHE GIORNALE SCRIVE ANCHE, INDUZIONE ALLA CONCUSSIONE.

Quello della concussione, se è vero quello che si lascia trapelare a “spizzichi e muddichi”, sarebbe un reato grandissimo: nell’antica Roma, i processi per concussione si concludevano con il trasferimento dei funzionari in lontane colonie dove non avrebbero più potuto delinquere, mentre i mussulmani sono più cattivi, ai ladri tagliano la mano destra, scrive Salvo Vitale su “Tele Jato”. Nel nostro caso non sappiamo più cosa pensare. La nostra sacra famiglia è quella dell’ing. Caramma (Caramma che sorpresa), del figlio Elio detto Crazy, abile ed esperto chef al servizio di Cappellano Seminara presso l’albergo Brunaccini, di sua proprietà (cioè di Cappellano), ma presente anche all’EXPO di Milano con le sue specialità siciliane, arancini e cazzilli. Suggeriamo agli inquirenti di indagare anche sul posto in cui abita, visto che non siamo in grado di confermare alcune strane voci che circolano su di lui. Crazy vuol dire “pazzo” (con la lettera p). Basta così. Sulle accuse rivolte all’ingegnere Caramma padre, la moglie ha detto che è tutto in regola e che chiarirà. Ma chi è la moglie? Si tratta di una che, dopo aver girato parecchi uffici del tribunale di Palermo, da diversi anni ha trovato il posto giusto in un ufficio che sembra creato apposta per lei, quello dei beni sequestrati ai mafiosi o presunti tali. La legge, alla modifica della quale la signora ha dato un contributo importante, le consente di tenere sotto controllo ogni impresa siciliana, e di indagare, sequestrare e assegnare quello che è sequestrato a un cerchio di persone che su questo ci campano e non mollano l’osso sino a quando non lo spolpano del tutto. In tal senso, cioè nel mettere le mani sulle gestioni economiche delle imprese, i mafiosi sono dei dilettanti. E va bene. Adesso, vista l’indagine la signora si è dimessa ed è stata, per il momento assegnata ad un altro ufficio, quello della terza sessione penale del tribunale di Palermo. In qualsiasi altro stato dovrebbe essere sospesa da tutto, in attesa di chiarire la sua posizione, ma in Italia funziona diversamente. D’altronde non bisogna dimenticare che l’Italia è la patria della corruzione, occupa il penultimo posto nel mondo per la capacità di generare a ripetizione strumenti di corruzione, di imbroglio, strategie di “una mano lava l’altra”, che in Sicilia si chiamano pizzo o tangenti, nel resto d’Italia mazzette o contributi. Il gioco del “futticompagno” è più praticato e amato di quello del calcio. Siamo il paese in cui tutti sono bravi a evadere le tasse e Renzi ora, Berlusconi prima, ci dicono che queste tasse cattive bisogna eliminarle. E va be!!! Quello che ci stupisce e ci lascia allibiti è la notizia, arrivata stamane, che anche il padre della Saguto è indagato. Sul padre del marito della Saguto non sappiamo niente. Dovrebbe avere una veneranda età e quindi, che diamine, essere lasciato in pace a vivere i suoi giorni. Quindi, padre, madre, figlio e padre della madre.  Per dirla con una poesia di Prevert “la belle famille”. Intanto pare che l’indagine si stia allargando al verminaio degli amministratori giudiziari, dei quali da tempo facciamo i nomi: Benanti, Virga, Modica de Moach, Geraci, Aulo Giganti, Miserendino, Dara, e una coda infinita di collaboratori, coadiutori, sorveglianti, controllori, verificatori, tutti legati dal sacro vincolo del “tiengo famiglia”. Una famiglia sacra e di tutto “rispetto”. In tutto questo si aggira un silenzio assordante, in parte causato da stupore, in parte da complicità, amicizia e favori, da parte di tutte le organizzazioni che usano timbrare le proprie azioni con il marchio dell’antimafia, ma che, in un momento come questo scelgono di non dire niente. “Mutu cu sapi u iocu”!!!!!!

Walter Virga: il figlio del giudice con 27 incarichi da centinaia di milioni, scrive Pierluigi Di Rosa su "Sud Press". Coinvolto nell’inchiesta che vede principale indagata l’ex presidente della sezione misure di prevenzione, Walter Virga ha appena 35 anni e nel 2014 è stato nominato amministratore di uno dei patrimoni mafiosi più consistenti, quello della famiglia Rappa. E’ in questo Il Fatto Quotidiano che ricorda l’origine dell’inchiesta della procura di Caltanissetta che sta terremotando il Tribunale di Palermo: “Già un anno fa la procura di Caltanissetta aveva ricevuto un esposto da parte di Pino Maniaci, direttore della piccola emittente Telejato, autore insieme a Salvo Vitale, storico compagno di battaglie di Peppino Impastato, di un’inchiesta sul cerchio magico degli amministratori giudiziari proliferato all’ombra della Saguto.  “Sono – scriveva Vitale – una decina di avvocati fidatissimi, che si chiamano Gaetano Cappellano Seminara, Andrea Dara, Aulo Gigante, Luigi Turchio, Salvatore Benanti, Salvatore Sanfilippo, Andrea Aiello, Walter Virga, e intorno a loro gravitano una serie di ‘collaboratori’ che girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: questi sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato modo di come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati”. “L’inchiesta – prosegue Il Fatto – è entrata nel vivo giovedì scorso con le perquisizioni operate dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo ed è composta anche dalle intercettazioni telefoniche e dalle verifiche operate dalla procura nissena su Walter Virga, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del figlio di Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo: per gli inquirenti il giudice avrebbe favorito un procedimento disciplinare che pendeva a Palazzo dei Marescialli sul capo della Saguto.” Occorre dire che il giudice Virga, indagato per induzione alla corruzione, ha smentito di essersi mai occupato di procedimenti disciplinari in capo a Silvana Saguto. Certo è che il figlio, Walter Virga, appena 35 anni e con un curriculum che alcuni ritengono non esattamente adeguato al carico di impegni conferitogli dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, ricopre attualmente 27 incarichi, gestendo patrimoni sequestrati per svariate centinaia di milioni di euro.

Beni confiscati alla mafia, favori e consulenze: nel caso Saguto altri tre magistrati indagati. Si allarga l'indagine della procura di Caltanissetta: un complesso sistema che prevedeva incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di assunzioni e consulenze. Le toghe coinvolte sono accusate a vario titolo di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, violazione di segreto, scrive "Il Fatto Quotidiano il 12 settembre 2015. Un occhio di riguardo al Csm in cambio di un incarico, il marito consulente dall’asso pigliatutto degli amministratori giudiziari, un figlio che lavora come chef nell’hotel dell’avvocato noto per le sue parcelle dorate. È una gestione familiare dei beni sequestrati a Cosa nostra quella che Silvana Saguto, da poche ore ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, è accusata di aver messo in piedi. Un complesso sistema che prevedeva incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di favori, assunzioni, consulenze. E che oggi ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di altri tre magistrati oltre alla stessa Saguto, più due amministratori giudiziari: sono accusati a vario titolo di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, violazione di segreto. È su questo che sta indagando la procura di Caltanissetta, che già un anno fa aveva ricevuto un esposto da parte di Pino Maniaci, direttore della piccola emittente Telejato, autore insieme a Salvo Vitale, storico compagno di battaglie di Peppino Impastato, di un’inchiesta sul cerchio magico degli amministratori giudiziari proliferato all’ombra della Saguto.  “Sono – scriveva Vitale – una decina di avvocati fidatissimi, che si chiamano Gaetano Cappellano Seminara, Andrea Dara, Aulo Gigante, Luigi Turchio, Salvatore Benanti, Salvatore Sanfilippo, Andrea Aiello,Walter Virga, e intorno a loro gravitano una serie di ‘collaboratori’ che girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: questi sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato modo di come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati”. L’inchiesta è entrata nel vivo giovedì scorso con le perquisizioni operate dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo ed è composta anche dalle intercettazioni telefoniche e dalle verifiche operate dalla procura nissena su Walter Virga, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del figlio di Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo: per gli inquirenti il giudice avrebbe favorito un procedimento disciplinare che pendeva a Palazzo dei Marescialli sul capo della Saguto. È per questo motivo che, come scrive il quotidiano Il Messaggero, è oggi indagato per induzione alla concussione. “Altri tre magistrati indagati nell’inchiesta sulla gestione dei beni sequestrati? Notizia che è di fonte romana e non ho nulla da dichiarare”, ha detto il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, senza in pratica smentire la notizia delle nuove iscrizioni nel registro degli indagati. Il 15 settembre Lari prenderà possesso del nuovo incarico da procuratore generale di Caltanissetta mentre l’interim dell’ufficio inquirente passerà all’aggiunto Lia Sava. Ed è proprio Sava che sta portando avanti l’indagine sulla gestione dei beni sequestrati. Il cuore dell’inchiesta si focalizza su un legame particolare: quello che unisce l’avvocato Gaetano Cappellana Seminara direttamente alla famiglia Saguto.  Cappellano Seminara è titolare di uno studio con 35 professionisti nel centro di Palermo ed è considerato il re dei beni sequestrati, l’asso pigliatutto degli incarichi da amministratore giudiziario. Intervistato dalla trasmissione le Iene nel maggio scorso, dichiarava di avere solo 8 incarichi di amministrazione giudiziaria, e di non aver mai gestito più di 30-40 aziende in totale: la Camera di Commercio, però, gli attribuiva nello stesso periodo 93 “cariche attuali”, e indicava il suo nome come presente in 85 imprese. Secondo il prefetto Giuseppe Caruso, ex direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, per aver gestito l’Immobiliare Strasburgo, società del gruppo Piazza, l’avvocato Cappellano Seminara “ha preso una tranche di 7 milioni di euro, mentre per quanto concerne il cda percepiva 150 mila euro l’anno”. Secondo gli inquirenti, in cambio di una occhio di riguardo nelle nomine, Cappellano ha nominato l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto, consulente del suo studio: incarico che in una decina d’anni è stato retribuito con circa 750mila euro. Ma non solo. Il fil rouge che lega la Saguto a Cappellano Seminara non si ferma qui. L’avvocato avrebbe fatto assumere uno dei figli del magistrato, Elio Caramma, come chef di Palazzo Brunaccini, un hotel quattro stelle in pieno centro storico, controllato da Cappellano Seminara tramite la locietà L. G. Consulting srlgestita dalla madre e dalla figlia. “Il figlio della dottoressa Saguto, di professione chef non ha mai lavorato ne lavora presso la struttura alberghiera della mia famiglia e solo in qualità di visiting chef vi ha organizzato oltre due anni fa due serate”, ha replicato l’avvocato Cappellano Seminara. Che è stato anche amministratore giudiziario di una catena di hotel, mentre la sua famiglia è appunto proprietaria di un 4 stelle.  “Un conflitto d’interesse palese”, commenta Caruso. Ma non c’è solo il risiko delle nomine decise dalla Saguto al centro delle indagini della procura di Caltanissetta. Nel registro degli indagati sono finiti anche il pm Dario Scaletta e Lorenzo Chiaramonte: il primo è accusato di rivelazione di segreto perché avrebbe fornito notizie sull’indagine a carico della sezione misure di prevenzione al secondo; Chiaramonte, invece, è accusato di abuso d’ufficio: da magistrato della stessa sezione della Saguto non si sarebbe astenuto dall’affidare la gestione di beni per 10 milioni sequestrati al boss Luigi Salerno, nonostante l’amministratore designato fosse una persona a lui vicina. È questo l‘intricato reticolo di rapporti che negli ultimi tempi ha influito sulla gestione dei patrimoni “scippati” a Cosa nostra. Circa dodicimila beni, per un valore complessivo di 30 miliardi di euro: più del 40%, pari a 5.515, si trovano in Sicilia, 1.870 dei quali sono in provincia di Palermo. Ed è lì che secondo le indagini della procura nissena sarebbe andata in onda la gestione familiare delle ricchezze sequestrate alla mafia: la “robba” scippata ai boss e finita in mille rivoli gestiti da pochissimi amministratori dalle paghe dorate. Sempre gli stessi.

Scandalo beni confiscati a Palermo. Quando l'amministratore è il figlio del giudice...scrive TP24. Il Csm ha deciso di avviare accertamenti sui magistrati di Palermo coinvolti nell'inchiesta di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici.  Oltre all'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, tra gli indagati ci sarebbero l'ex componente del Csm Tommaso Virga, ora presidente di sezione nel tribunale palermitano, il pm della Direzione distrettuale antimafia del capoluogo siciliano Dario Scaletta, che avrebbe dato alla Saguto conferma al sospetto di essere finita sotto indagine, e Lorenzo Chiaromonte, giudice della sezione misure di prevenzione, che non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona a lui molto vicina. In particolare è delicata la situazione del presidente di sezione del tribunale Tommaso Virga, il cui figlio Walter ha ricevuto dalla Saguto alcune tra le più consistenti amministrazioni giudiziarie, quella dell'impero da 800 milioni di euro sequestrato agli imprenditori Rappa e quello dei negozi Bagagli. Walter Virga, appena 35 anni e con un curriculum che alcuni ritengono non esattamente adeguato al carico di impegni conferitogli dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, ricopre attualmente 27 incarichi, gestendo patrimoni sequestrati per svariate centinaia di milioni di euro. Non è escluso che, nei prossimi giorni, i vertici del tribunale e della Procura, anticipando le mosse del Csm, possano decidere di trasferire ad altro incarico i magistrati indagati. Così come è possibile che anche le amministrazioni giudiziarie oggetto di indagine possano cambiare di mano per ragioni di opportunità. Continuano intanto le reazioni all'inchiesta palermitana. Scrive il direttore di Repubblica Palermo, Enrico Del Mercato: Anche se non dovesse essere provata l’accusa di induzione alla corruzione, non è pensabile che il marito della presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale riceva parcelle, autorizzate dal tribunale stesso. È un principio di etica che precede qualsiasi norma. E che in questo caso è più importante che in altri proprio perché qui è in gioco la credibilità dello Stato che decide di mettere in pratica il principio per cui alcuni uomini sono morti (Pio La Torre, per esempio) e secondo il quale la mafia si sconfigge togliendole i soldi, le proprietà, la potenza economica. Secondo l'inchiesta condotta dai pm di Caltanissetta, la giudice Silvana Saguto fece circolare finte notizie su probabili attentati ai suoi danni.  E' una delle pagine più amare, possiamo dire (e comunque tutta da verificare, siamo ancora in fase di indagine) nell'inchiesta nissena sulla gestione dei beni confiscati a Palermo,e che vede coinvolti quattro magistrati palermitani, Saguto, Tommaso Virga, Lorenzo Chiaramonte e Dario Scaletta. Mentre il Csm indaga per incompatibilità ambientale. La notizia la riporta oggi il Messaggero.  Gli inquirenti stanno passando al setaccio conti e materiale sequestrato alla Saguto, indagata per corruzione aggravata, abuso d'ufficio e induzione alla concussione, nonché presso studi e abitazioni dei più noti amministratori giudiziari della città che, in cambio di consulenze o favori al marito e ai figli del giudice, avrebbero ottenuto incarichi d'oro nella gestione milionaria dei beni sottratti alla mafia. Ed ecco cosa scrive Il Messaggero: "La Saguto avrebbe incaricato la sua scorta di svolgere compiti che nulla avevano a che vedere con ragioni di servizio, ma private. E ancora: per "sterilizzare" le voci maligne sul suo conto alimentate da inchieste giornalistiche, trasmesse da Telejato e dalle Iene, aveva deciso di passare al contrattacco. Come? Facendo circolare la notizia che la mafia la voleva morta. È il 22 maggio scorso. Alcuni siti web e agenzie riferiscono di una nota dei servizi segreti in allarme per l'incolumità della Saguto e di un altro magistrato, Renato di Natale. Per gli inquirenti di Caltanissetta si tratterebbe di un'operazione costruita a tavolino: un ufficiale della Dia avrebbe diffuso la notizia, molto vecchia, con il solo obiettivo di sollevare un clamore mediatico attorno alla giudice paladina dell'antimafia, per ottenere la solidarietà di colleghi e opinione pubblica". Era lo scorso Maggio, proprio alla vigilia della strage di Capaci, quando emerse fuori la notizia che la mafia voleva uccidere Silvana Saguto. Notizia ripresa, ovviamente, da tutti i media nazionali. "Per eliminare il magistrato - dicevano gli articoli apparsi dappertutto -  che fa la guerra ai clan a colpi di sequestri e confische patrimoniali, c'era un accordo fra i clan mafiosi gelesi e palermitani Uno scambio di favori tra boss: qualcuno legato agli Emmanuello avrebbe dovuto uccidere il giudice di Palermo e i palermitani, in cambio, si sarebbero dovuti sbarazzare di un altro magistrato.

 “No a parentopoli in Tribunale. Incarichi solo a chi è capace”. Palermo, circolare del nuovo presidente della sezione che amministra i beni confiscati. La Procura di Caltanissetta sta indagando sull’ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo dove oggi è previsto l’arrivo della prima commissione del Csm, scrive Riccardo Arena su “La Stampa” il 25 settembre 2015. La parentopoli non è solo nelle Università o nelle aziende pubbliche ma pure nei Tribunali: il nuovo presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo è così costretto a mettere per iscritto che, «allo scopo di garantire la assoluta trasparenza», gli amministratori giudiziari dei beni di mafia sequestrati e confiscati saranno invitati a «selezionare i collaboratori solo in base alla competenza e alla affidabilità, anche etica, escludendo persone che abbiamo legami di parentela o di intima amicizia con i magistrati o con il personale della cancelleria della sezione». La circolare è appesa da ieri nella cancelleria della sezione nell’occhio del ciclone, messa a soqquadro, un paio di settimane fa, da finanzieri alla ricerca di prove delle «combine» tra giudici e amministratori, sfociate in un’inchiesta della Procura di Caltanissetta e nell’azzeramento del pool coordinato dalla ormai ex presidente Silvana Saguto, indagata per corruzione, concussione per induzione e abuso d’ufficio. Oggi a Palermo sbarcherà la prima commissione del Csm, che con ogni probabilità disporrà i trasferimenti d’ufficio per incompatibilità ambientale. In attesa del repulisti definitivo, il nuovo presidente della sezione, Mario Fontana, ha dovuto ricordare a coloro che vengono chiamati ad amministrare patrimoni di centinaia di milioni che certe scelte, sebbene non vietate dalla legge, sono da evitare comunque. Cosa tra l’altro emersa e conclamata da tempo: Silvana Saguto, ad esempio, è moglie di Lorenzo Caramma, ingegnere, già collaboratore dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara (tutti e tre sono oggi indagati), nella gestione di cinque cave confiscate, affidate alla sezione del Tribunale presieduta dalla moglie: e anche se Caramma era stato nominato prima del 2010, quando la moglie non era ancora presidente, aveva mantenuto gli incarichi anche dopo. Qualche mese fa il presidente della Corte d’appello, Gioacchino Natoli, aveva chiesto che l’anomalia venisse eliminata e l’ingegnere si era dimesso: un gesto che forse gli ha salvato la vita, perché la settimana scorsa un operaio che aveva perso il lavoro si è presentato nella cava confiscata Buttitta, a Trabia, una ventina di chilometri da Palermo, e ha ucciso due persone. Una, il direttore tecnico, era Gianluca Grimaldi. E il duplice delitto aveva fatto emergere che il geologo era figlio di Elio Grimaldi, cancelliere della sezione misure di prevenzione: anche lui era stato nominato da Cappellano Seminara, recordman degli incarichi di amministrazione giudiziaria, accusato di avere «gratificato» la Saguto con incarichi dati a Caramma in mezza Sicilia, per compensi da 750 mila euro, ma anche con regali e denaro che avrebbe ricevuto Vittorio Saguto, padre della giudice, indagato con l’ipotesi di riciclaggio. Un altro caso riguarda Lorenzo Chiaramonte, accusato di abuso d’ufficio per avere nominato un avvocato al quale era molto legato. E ancora nel mirino c’è la scelta di Walter Virga, figlio di un ex consigliere del Csm, Tommaso, entrambi indagati perché il padre - sostiene l’accusa - avrebbe rallentato esposti contro la Saguto. Virga junior, classe 1980, aveva ricevuto l’incarico di gestire un patrimonio da 800 milioni, con un maxistipendio per sé. Doveva amministrare pure una concessionaria Bmw, Land Rover e Mini. Il direttore commerciale scelto da Virga, Giuseppe Rizzo, avrebbe preso per sé una Audi A4 e una Mini Cooper; uno dei consiglieri di amministrazione, Alessio Cordova, le avrebbe prese per la mamma e per la suocera, un altro, Dario Majuri, per la moglie. Un collaboratore di Virga, Alessandro Kallinen Garipoli, avrebbe pensato anche lui alla consorte. Andrea Vincenti, figlio di un ex presidente della sezione misure di prevenzione, prese una Land Rover: carte alla mano, ha però spiegato che lo sconto ottenuto era quello ordinario.

Si scoperchia un altro pentolone. Giro di incarichi alla "Fallimentare", scrive Giovedì 01 Ottobre 2015 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Il "sistema" delle nomine fiduciarie, che ha fatto crac alle Misure di prevenzione, diventa oggetto di una circolare dei giudici di un'altra sezione del Tribunale di Palermo. Nel mirino le incompatibilità e le consulenze "anomale". La circolare della Sezione fallimentare del Tribunale di Palermo arriva, scrivono i giudici, “a conclusione dei plurimi incontri avviatisi nell'ultimo semestre”, ma non si può non tenere conto che sia datata 18 settembre 2015, e cioè nel pieno dello scandalo che ha travolto un'altra sezione, quella delle Misure di prevenzione che nomina gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. L'oggetto della circolare della sezione guidata dal presidente facente funzioni Fabio Marino - “monitoraggio periodico degli incarichi” - fa capire sin d'ora che un altro pentolone potrebbe essere scoperchiato nella giustizia palermitana che ha nei rapporti fiduciari il suo pilastro. I giudici delegati Monica Montante, Raffaella Vacca, Flavia Coppola, Mauro Terranova, Clelia Maltese e Giuseppe Sidoti hanno avvertito la necessità, “al fine di rendere più efficiente l'attività di controllo nel settore delle nomine”, di fissare dei paletti, in alcuni casi di ribadire delle regole già operative con l'obiettivo, “ferma restando la discrezionalità del giudice” di nominare un curatore fallimentare, di garantire “un fisiologico turn over”. Ma è negli incroci di nomine e consulenze che i giudici delegati fissano le “condizioni limitative” più stringenti.

Come funziona la procedura fallimentare? Quando un'azienda o una società sono in crisi o in stato di insolvenza i libri contabili finiscono in Tribunale. A volte, raramente, è il titolare ad avviare le procedure. Altre volte è il pubblico ministero a chiedere il fallimento nel corso di un procedimento penale. Normalmente, però, è un creditore che presenta un ricorso per dichiarazioni di fallimento. Si apre, dunque, una fase prefallimentare per valutare la situazione economica. Solo dopo, il Tribunale dichiara il fallimento e nomina il giudice delegato che a sua volta, nella piena discrezionalità che gli è garantita dalla legge, sceglie il curatore fra gli iscritti all'ordine degli avvocati e dei commercialisti. Il curatore ha il compito di garantire l'interesse della massa dei creditori. Come? Mettendo in vendita il patrimonio del fallito. Ed è in base al rapporto attivo-passivo che viene poi stabilita la sua parcella che parte da un minimo di 800 euro circa. I fallimenti “vuoti” finiscono per essere un onere per chi se ne occupa, ma ci sono casi in cui bisogna disfarsi dei gioielli di famiglia. Va all'asta tutto ciò che ti attivo esiste nel fallimento: dalle case alle macchine, dai mobili agli oggetti più insignificanti. Nella sua attività il curatore si avvale di consulenti. Sono altri avvocati per seguire le cause legali innescate dal fallimento, tecnici per le perizie sugli immobili e sul patrimonio in generale, esperti contabili. La scelta spetta esclusivamente al curatore che l'ultima riforma del settore ha investito di pieni poteri. Il Tribunale di fatto interviene per autorizzare la liquidazione finale delle parcelle, ma ha pur sempre l'obbligo di vigilanza sull'attività del curatore. La circolare dei giudici delegati (indirizzata ai curatori fallimentari e trasmessa a Salvatore Di Vitale, il presidente del Tribunale che sta cercando di mettere ordine nella sezione Misure di prevenzione), ribadisce che per la nomina dei coadiutori e dei consulenti del curatore deve essere garantita, tra le altre cose, “l'inesistenza di subordinazione o vincoli coniugali”. Poi, oltre a stabilire il tetto di venti incarichi in un anno per lo stesso avvocato e fissare che un giudice delegato possa nominare lo stesso curatore per non più di tre volte all'anno, c'è un paragrafo della nota che prevede l'esclusione dei “professionisti protagonisti di reiterati scambi incrociati”. Ecco il passaggio più delicato, spia di una situazione su cui fare chiarezza: “I curatori dovranno astenersi dal nominare come legali altri professionisti inseriti nel proprio studio o con i quali vi siano collaborazioni continuative o rapporti di parentela o di coniugio”. Ed ancora: “Qualora lo stesso curatore sia un avvocato dovrà evitare e comunque contenere le nomine di legali che abbiano a loro volta nominato lui stesso come legale nelle procedure ad essi affidate (sempre che non si tratti di nomine occasionate dalla particolare esperienza del professionista). In generale, il curatore dovrà astenersi dall'effettuare nomine che possono fare ritenere operanti accordi per lo scambio di incarichi”. Sembrerebbe, invece - e la circolare ne sarebbe la spia - che degli scambi ci sia traccia in tante procedure fallimentari già avviate. Ecco perché non è escluso che la verifica già avviata alle Misure di prevenzione dal presidente Di Vitale non finirà per spostarsi anche nel settore fallimentare dove alcuni professionisti, senza che ciò rappresenti irregolarità, hanno raccolto molti più incarichi di altri. In alcuni casi, si parla di decine e decine di nomine che potrebbero avere provocato gli “scambi” stigmatizzati ora dai giudici, sia sul fronte degli incarichi legali che in quello delle perizie. La nota dei giudici si conclude con la necessità di ampliare la platea di alcuni professionisti. In particolare “si segnala il numero esiguo di dottori commercialisti e consulenti del lavoro che hanno maturato esperienza specifica in materia concorsuale” che rende “allo stato, difficoltosa una rigida applicazione dei suddetti criteri”.

Cappellano: "Ovunque incarichi a parenti di toghe", scrive “La Repubblica”. «Sin dal mio insediamento, quattro mesi fa, ho iniziato a svolgere accurati accertamenti sull'attività della sezione misure di prevenzione, richiedendo al presidente della sezione i necessari dati conoscitivi, ma i dati non sono ancora pervenuti». Dopo la procura di Caltanissetta, anche il presidente del tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, vuol vederci chiaro sugli incarichi conferiti dalla sezione Misure di prevenzione presieduta da Silvana Saguto. Ieri, come primo atto, ha firmato un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e definitiva verifica. E ha annunciato che quanto fin qui emerso è già stato comunicato al Csm e al ministero di Grazia e giustizia per eventuali provvedimenti. Per il momento Silvana Saguto resta al suo posto. «Sono estranea a qualsiasi accusa e chiederò di essere sentita subito per poter fugare ogni ombra dalla mia reputazione», ha detto ieri, mentre l'avvocato Cappellano Seminara respingeva al mittente tutte le accuse. «Gli incarichi all'ingegnere Caramma — ha spiegato — in qualità di coadiutore o consulente in alcune procedure di amministrazione giudiziaria sono stati decisi dai giudici delegati dei rispettivi tribunali, gli unici preposti a dette nomine e alla liquidazione dei relativi compensi. Il mio ruolo è stato quello di proporre la figura di un affermato e stimato professionista che, da oltre trent'anni, collabora quale consulente fiduciario con le procure della Repubblica e i tribunali siciliani, sia in sede penale che civile, incluso il tribunale di Caltanissetta». Cappellano Seminara ricorda che «Caramma non è mai stato da me proposto nell'ambito di misure di prevenzione del tribunale di Palermo presieduto da Saguto e le nomine del predetto, in talune procedure, sono avvenute diversi anni prima dell'incarico del giudice Silvana Saguto alla presidenza della sezione». Per avallare la sua tesi, l'avvocato osserva che «in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo a ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d'appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che invece avviene costantemente e senza rilievo alcuno ».

Sulla vicenda interviene anche la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi, che l'anno scorso, dopo la denuncia del prefetto Giuseppe Caruso, convocò in commissione sia l'ex direttore dei Beni confiscati che il presidente Saguto, finendo con il censurare la denuncia di Caruso. «Non spetta alla commissione accertare eventuali responsabilità penali personali, che sono rimesse invece all'esclusiva competenza dell'autorità giudiziaria, a cui deve rivolgersi chiunque venga a conoscenza di reati. Per questo motivo nel corso delle audizioni non sono mai state consentite generiche accuse che avrebbero potuto delegittimare un sistema giudiziario nel suo complesso, che ha prodotto significativi risultati in particolare in Sicilia, dove è stata finora sequestrata e confiscata la maggior parte dei beni».

Delegittimare la Magistratura?

QUALCHE GIORNO FA ABBIAMO SENTITO UNA POCO FELICE USCITA DEL GIUDICE MOROSINI, DA POCO ELETTO COME MEMBRO DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA E QUINDI IN VISITA A PALERMO, CIOÈ PRESSO LA PROCURA IN CUI HA LAVORATO E A CUI APPARTIENE, CON I SUOI COLLEGHI, SU INVITO DEL PRESIDENTE MATTARELLA, CHE DI QUEL CONSIGLIO HA FATTO PARTE, DOPO IL TERREMOTO CHE HA SCOSSO L’UFFICIO MISURE DI PREVENZIONE.

Compito del Consiglio è quello di individuare se, nell’operato dei cinque magistrati coinvolti, Saguto, Scaletta, Licata, Chiaromonte e Virga, ci sono gli elementi per un trasferimento per incompatibilità ambientale e quindi valutare l’opportunità di un loro trasferimento ad altra sede, scrive Salvo Vitale su "Telejato". Vogliamo precisare che Morosini, che è stato segretario nazionale di Magistratura Democratica è un giudice serio, competente, attento, che ha svolto un prezioso lavoro a Palermo: lo abbiamo ospitato nei nostri studi per un’intervista condotta da Salvo Vitale sul suo libro “Il Gotha di Cosa Nostra”. Adesso, non è chiaro se spinto da particolari personali motivi, riferendosi alle attuali vicende del tribunale di Palermo, ha detto che si sta correndo il rischio di delegittimare la magistratura. E qui vorremmo capire:  a quale magistratura si riferisce, giudice Morosini, a quella  della Saguto o quella del suo collega Di Matteo? Quella che diffonde la notizia di un attentato farlocco, basato su un’intercettazione vecchia di un anno, per rafforzare la sua immagine di giudice nel mirino, a cui, per questo, è stata comprata una macchina da 250 mila euro, o quella di un giudice sulla cui pelle passeggiano a Palermo cento chili di tritolo che non si trovano? Quella di suoi colleghi che spiccano decreti di sequestro su vaghi indizi o quella degli altri suoi colleghi, come Teresi, Del Bene, e altri che lei ben conosce, costantemente esposti, per la delicatezza del loro ruolo e delle loro indagini? Quella del giudice Carnevale, l’ammazzasentenze, o quella di Falcone, Borsellino, Chinnici, Costa, Terranova, e tanti altri, che hanno perso la vita per fare il loro dovere? L’uscita, la teoria che la magistratura non si tocca, perché venendo meno il potere giudiziario vengono meno le basi della convivenza civile, è rischiosa e inaccettabile per un paese democratico: le regole della società civile valgono anche per i magistrati ed è nella fiducia per la bontà del loro operato che la società civile si riconosce, non in leggi che, nate in certi momenti, rischiano di dare a chi vuole servirsene, poteri illimitati emettendo provvedimenti privi di quella sanzione che è la base su cui andrebbe emesso il provvedimento. Questa sorta di tabù che la sinistra si è portato appresso, secondo cui i magistrati non si toccano, non è accettabile. Fra l’altro la considerazione sembra simile a quella che la Saguto ha espresso alla Commissione Antimafia, chiaramente riferendosi alla nostra campagna giornalistica: “…ci troviamo davanti a un attacco al sistema…quando sta producendo più risultati” E quindi chi attacca “il sistema” fa il gioco della mafia. Scherziamo? Non è “il sistema”, ma il sistema “Saguto”. Quindi stia tranquillo, dott. Morosini, nessuno vuole delegittimare la magistratura, ma è nell’interesse nostro, di tutti e soprattutto di lei che la rappresenta, volere una magistratura onesta, corretta e che sia al servizio della comunità.

Il ministro Orlando: "Lo scandalo dell’antimafia è un gravissimo colpo alla credibilità delle istituzioni". In un intervento su Panorama in edicola dall'8 ottobre, il Guardasigilli commenta lo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo. "Quanto sin qui è emerso a Palermo, nonostante siano ancora in corso i doverosi accertamenti, rischia di rappresentare un colpo gravissimo alla credibilità delle istituzioni su un terreno delicato come quello del contrasto alle mafie". Così si esprime Andrea Orlando, ministro della Giustizia, in un testo affidato al settimanale Panorama. Panorama aveva interpellato il Guardasigilli sullo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo: da metà settembre quel Tribunale è scosso da un’inchiesta per corruzione che ha coinvolto finora cinque magistrati e ipotizza gravissimi abusi sull’attribuzione degli incarichi ai custodi giudiziari, con parcelle milionarie. Orlando aggiunge: "Il solo dubbio che nella gestione dei beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali possano essersi celati e sviluppati fenomeni di malaffare deve provocare la più vigorosa delle reazioni".

Misure di prevenzione e beni sequestrati: non basta cambiare la testa se il corpo rimane uguale, scrive Salvo Vitale su "Telejato. ADESSO CHE L’ONDA LUNGA SEMBRA ESSERE PASSATA, QUALCHE SPOSTAMENTO DI POLTRONA, UNA SORTA DI TARIFFARIO PER GLI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI. La proposta di un elenco, ma sarebbe più opportuno che si trattasse di una graduatoria, la promessa di una legge che centralizzerà su Roma la gestione dei beni confiscati, favorendo le associazioni di respiro nazionale, anziché quelle locali, ritorniamo su una questione di non facile soluzione: i difetti della norma sulle misure di prevenzione sono nella legge o negli uomini (e donne, s’intende) che la applicano? La legge conferisce al magistrato un enorme potere e gli consente di agire, anche sulla base di fragili indizi o, addirittura, su qualche dichiarazione, spesso pilotata e non riscontrata, di qualche presunto collaboratore di giustizia che, pur di avere un trattamento migliore è disposto a dire tutto quello che gli vogliono far dire. Le prerogative del magistrato, dal rinvio, alle proroghe, alla valutazione soggettiva nella scelta dell’amministratore, alla facoltà di reiterare la prevenzione anche se il procedimento penale si chiude con un’assoluzione o un proscioglimento, sono una delle cose più aberranti che mettono in discussione lo stesso significato di giustizia. Per non parlare della strana norma, unica in Europa, che riversa sull’indagato e non sul magistrato l’onere della prova. In pratica il magistrato che ha un sospetto può chiedere all’imputato di dimostrare che quel sospetto è immotivato e, se l’imputato non ha le carte o non lo sa fare, non c’è speranza, è fregato. Si tratta di un residuo di quelle norme che nel 1600 consentivano a re e vescovi di procedere alla confisca dei beni e alla condanna del presunto eretico senza la possibilità di una fase processuale in cui poter difendersi o rendendo una farsa teatrale i vari processi. E quindi è la legge che non va, ma se poi questa legge finisce nelle mani sbagliate, come è successo a Palermo, ecco che i poteri offerti dalla legge diventano arbitrio, delirio di onnipotenza, prepotenza, arroganza, corruzione, concussione, estorsione legalizzata, violenza su chi non ha, per motivi economici, possibilità di difesa, esibizione, controllo capillare di tutto ciò che può costituire ostacolo o promozione in carriera.

I nuovi padroni di Palermo: giudici, amministratori giudiziari e curatori fallimentari, continua Salvo Vitale. È STATO IL PREFETTO CARUSO, CHE PER QUALCHE ANNO, SU NOMINA DI ALFANO, HA RETTO L’AGENZIA DEI BENI CONFISCATI ALLA MAFIA”, SEDE A REGGIO CALABRIA, AD AVERE APERTO L’ACCESSO A UNA STRADA CHE SEMBRAVA SBARRATA, A CAUSA DELLA “SACRALITÀ” O DI UNA METAFISICA INFALLIBILITÀ CON CUI VIENE CONSIDERATO L’OPERATO DELLA GIUSTIZIA. Ciò che decide un giudice è solitamente inoppugnabile, o oppugnabile sino a sentenza definitiva, anche se dovesse presentare palesi discrepanze di giudizio. Ma qualsiasi giudizio si fonda sull’inoppugnabilità della prova, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel nostro caso ci troviamo invece davanti a una legge che è la negazione dei principi della giurisprudenza, soprattutto di quelli che garantiscono la libertà dell’individuo e il suo diritto alla proprietà. Una legge che dovrebbe essere cancellata e di cui non c’è bisogno, in quanto, come dice Pietro Cavallotti nel suo profilo su facebook, “il sistema penale prevede strumenti di aggressione patrimoniale efficaci ma di certo più compatibili con lo Stato di diritto. Il comma 7 dell’art. 416 bis c.p. prevede già la confisca obbligatoria nei confronti di chi viene condannato per mafia. Già l’art. 12 sexies della legge 356 del 1992 prevede la confisca nei confronti di chi viene condannato per il reato di trasferimento fraudolento dei valori. Già il c.p.p. prevede nelle more del processo il sequestro preventivo. Le misure di prevenzione servono solo per fregare le persone di cui non si riesce a provare la colpevolezza nel processo penale. Si può e si deve ragionare in che termini modificare la legislazione antimafia… il problema non sono solo le persone ma – fondamentalmente – la legge. E se non si mobilita qualcuno o qualcosa per tentare di cambiare la legge, rimaniamo fermi al solito punto. E se aspettiamo che siano gli altri a muoversi invecchieremo in questa posizione scomoda”. Tale obbrobrio giuridico è passato in un certo momento in cui tutti si schieravano con l’antimafia, nessun giudice e nessun legislatore avrebbe mai messo in discussione misure repressive per colpire i mafiosi nei loro beni e così si sono avallati due principi “mafiosi” per combattere la mafia, ovvero “il libero convincimento” del giudice, che, sulla base di sue credenze, fissazioni, deduzioni, arzigogolate ricostruzioni di passaggi e parentele può entrare nell’ordine di idee che i beni di un soggetto cui rivolge il suo interesse, siano di provenienza mafiosa, e la facoltà di spiccare il decreto di sequestro “preventivo” in attesa che l’imputato dimostri la liceità di provenienza dei suoi beni.  Pertanto i passaggi sono: sospetto, sequestro, affidamento in amministrazione giudiziaria, udienza per la dimostrazione di liceità, cioè “onere della prova”, che non sempre è documentabile, rinvii a ripetizione, sino alla definitiva confisca o alla restituzione. Il termine “restituzione” del “maltolto” ai cittadini o al proprietario, sa di beffa, perché non viene restituito niente, nel migliore dei casi solo quattro ruderi spogliati di tutto. Così tutti hanno perso, lo stato, i lavoratori delle aziende, licenziati, il proprietario, eccetto che l’amministratore, che ha guadagnato la sua parcella d’oro, in parte, ma molto in parte, con i soldi dello stato, in gran parte con i soldi dell’azienda sequestrata. Se poi queste aziende affidate sono una decina, la ricchezza è assicurata. Se un centinaio… Cappellano Seminara. E attenzione, quando si parla di amministratore giudiziario non si parla di un singolo soggetto, ma di una serie di collaboratori, curatori, controllori, verificatori, delegati, responsabili di zona, tutta gente nominata dall’amministratore giudiziario e pagata a parte. Re Cappellano ha dichiarato di dar lavoro a una trentina di avvocati, ma anche gli altri avvocati esterni alla sua parrocchia sono in qualche modo legati a lui, sia perché egli ci può mettere la buona parola, sia perché possono avere qualche incarico collaterale. Sono i “quotini”, presumibilmente un centinaio, forse il doppio, figli, nipoti, cugini, parenti alla larga di giudici, di cancellieri, di esponenti delle forze dell’ordine, di impiegati del tribunale, uscieri, di professionisti vari, tutti “in quota” o all’interno dello stesso cerchio magico. I nomi si ripetono con la stessa monotonia: Turchio, Dara, Santangelo, Rizzo, Virga, Benanti, Geraci, Miserendino, Ribolla, Scimeca, Aiello, Collovà, Modica de Moach. Un posto importante meritano i commercialisti, sia per la loro abilità nel “mettere a posto le carte”, sia per una qualche capacità imprenditoriale, che, almeno nella prima fase dell’amministrazione, serve per non dare subito la sensazione dell’ingordigia. Il cerchio si allarga ancora a coloro che sono finiti sotto le grinfie di questo settore della giustizia non giusta, ai quali è stato sequestrato tutto, pure le biciclette delle bambine, e che elemosinano qualche briciola, molto spesso per potere curare se e i propri parenti, ma che non trovano alcuna forma di umana pietà. Per non parlare dei loro avvocati, che cercano di ottenere qualcosa al giudice capo, tanto per far vedere che si guadagnano la pagnotta, e che finiscono con l’essere cooptati all’interno del sistema di prevaricazione su cui si fonda buona parte di questa legge. Manco a dirlo, la nomina degli amministratori è “fiduciaria”, cioè è nella facoltà del giudice nominare una persona, qualsiasi essa sia, che goda della sua fiducia: ed anche qua la correttezza d’azione all’interno di regole, tipo una graduatoria di merito degli amministratori, che possa costantemente scorrere, va a farsi friggere. Siamo nel regno dell’arbitrio e non in quello della giustizia, il tutto in nome della giustizia e “per il bene dello stato”. Stesso circuito con stesse perversioni, nomine criptate, sovrabbondanza di incarichi, scambi di favori tra parentele, e quant’altro può suggerire il male italico della corruzione, lo si può trovare nel campo dei curatori fallimentari. E’ sembrato quasi un “mettere il ferro  dietro la porta”, cioè una sorta di autodenuncia in tutela, la circolare del 18 settembre 2015 con la quale i sei giudici della Sezione Fallimentare  di Palermo hanno chiesto di procedere a un  “monitoraggio periodico degli incarichi al fine di rendere più efficiente l’attività di controllo delle nomine”. Sia chiaro, la discrezionalità del giudice non si tocca: egli rimane libero di nominare a suo piacimento chiunque sia iscritto all’ordine degli avvocati o dei commercialisti. Il curatore si mette al lavoro mettendo in vendita e mettendo all’asta il patrimonio del fallito, case, macchine, gioielli, mobili ecc. per pagare i creditori. Vendite ed aste possono essere pilotate: in fondo si tratta di affari a prezzi stracciati. Naturalmente il curatore nomina dei consulenti, dei contabili, dei periti, ufficiali giudiziari, tutto a spese del fallito. Quasi mai i creditori riescono a rifarsi. Altrimenti che senso avrebbe dichiarare fallimento? Per far vedere che vogliono “regolamentarsi” i giudici fallimentari hanno proposto che ogni curatore non può avere più di venti incarichi (verrebbe da dire: “e tè minchia!!!”) e che ogni giudice non possa nominare più di tre volte in un anno lo stesso curatore (ma va!!!). Si prescrive anche che “I curatori dovranno astenersi dal nominare come legali altri professionisti inseriti nel proprio studio o con i quali vi siano collaborazioni continuative o rapporti di parentela o connubio.” Se il curatore è un avvocato, dovrà evitare e comunque contenere” (bellissimo!!!) le nomine di legali che abbiano a loro volta nominato lui stesso come legale nelle procedure ad essi affidate, sempre che non si tratti di nomine occasionate dalla particolare esperienza del professionista, (bellissimo anche questo!!!). Se è spuntata questa circolare, vuol dire che sino ad adesso si è fatto così, nella doppia logica del “tiengo famiglia” e di “una mano lava l’altra e tutte e due lavan la faccia”. Fiore nell’occhiello, la circolare lamenta, forse a giustificazione delle vergogne sinora portate in atto, “un esiguo numero di dottori commercialisti consulenti del lavoro, che hanno maturato esperienza in materia concorsuale, che rende, allo stato, difficoltosa una rigida applicazione dei suddetti criteri”. Cioè, ci vorrebbero far credere che non ci sono in giro commercialisti cui affidare gli incarichi e che, per questo, li affidano sempre agli stessi. Con tutti i disoccupati economisti laureati o diplomati ragionieri, la cosa sembra una beffa o una presa in giro. Quando il prefetto Caruso sollevò la questione davanti alla Commissione Antimafia venuta a Palermo, tutti si voltarono dall’altra parte, Rosi Bindi alzò le spalle infastidita per quello che sembrava un attacco al lavoro della magistratura, ultima barriera contro lo strapotere mafioso e preferì perdere tempo ad ascoltare le pompose audizioni degli amministratori giudiziari e le loro insinuazioni, anche nei confronti di Caruso, il quale fu messo alla porta e pensionato, senza neanche i rituali ringraziamenti. Da allora il malessere è dilagato e rischia di diventare un’epidemia. Difficilmente si potrà cambiare tutto, si sposterà qualche tassello e poi il tempo farà tornare tutto al suo posto. E’ stata strombazzata, entro l’anno, una legge che regolamenti tutto con nuove norme, ma è improbabile che le novità siano tali da arrivare, come sarebbe auspicabile, all’abolizione dell’intera barbara legge sulle misure di prevenzione. In uno stato di diritto la sentenza definitiva di un tribunale va rispettata, e invece esistono centinaia di casi di imprenditori assolti definitivamente, con restituzione dei beni e che invece restano sotto la stretta delle misure di prevenzione, le quali possono riservarsi di ignorare la sentenza o di spiccare un altro ordine di sequestro cambiando qualche motivazione. Normale chiedersi se esiste una giustizia, quella del tribunale, o se esiste, come esiste, accanto ad essa, la giustizia del tribunale di prevenzione. In un periodo di povertà e di crisi galoppante, la Sicilia è la regione col maggior numero di disoccupati, l’emigrazione è l’unica possibilità di occupazione per i giovani, il lavoro nero è la norma, tra la morsa della necessità di sopravvivenza e quella dello sfruttamento bestiale. La concorrenza nel lavoro è alimentata dalle basse e irrisorie tariffe pagate a migranti, ma strozzata da norme, burocrazia e costi enormi per la “messa in regola”, che non è quella mafiosa. Persino diversi imprenditori si sono stancati del balzello mafioso del pizzo e si sono messi a denunciare i loro estorsori o ad invitarli, cosa non facile, a sloggiare.  La gestione dei beni sequestrati e confiscati, che in Sicilia è del 40% dell’ammontare nazionale e che si stima in  trentamila, qualcuno dice quarantamila miliardi, va al di là di qualsiasi finanziaria, stimola appetiti, corruzioni, arricchimenti, speculazioni, ma potrebbe essere, se fatta con criterio, una risorsa contro alcuni mali endemici del Mezzogiorno, nel rispetto del lavoro degli imprenditori ai quali è troppo facile appioppare una patente di mafiosità, nella  presenza dello stato che tenga conto della voglia di riscatto, di collaborazione, di rottura col passato di alcuni imprenditori che “hanno fatto il salto”,  e nella considerazione di intere famiglie che perdono, con il sequestro, il posto di lavoro e hanno ben poca possibilità di compensarlo. In fondo sono soldi nostri. Una casta di magistrati, avvocati e consociati ha sinora fatto il bello e il cattivo tempo, richiamando tecniche e caratteristiche che richiamano spesso quelle tipiche della mafia.

Gira la manovella e la musica è sempre quella. Non se ne può più. Per cambiare ci vuole per forza la rivoluzione?

A Palermo mancava solo l’associazione a delinquere di stampo antimafioso, scrive Maurizio Tortorella su “Tempi” il 4 ottobre 2015. I beni sequestrati ai clan criminali valgono 30-40 miliardi. Potrebbero produrre ricchezza, ma le indagini sull’ufficio preposto dicono il contrario: si ipotizzano solo abusi, ruberie, corruzione. Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola.  È autunno, e piove disperatamente sull’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, il delicatissimo organismo cui spetta nominare gli amministratori giudiziari che devono gestire beni, patrimoni, società sequestrate a soggetti indagati o in qualche modo sospettati di contiguità con la criminalità organizzata. La Procura di Caltanissetta, competente sui reati attribuiti ai magistrati palermitani, indaga su quello che, dalle cronache fin qui uscite, pare uno dei peggiori verminai nella storia della Repubblica. Si legge di magistrati indagati; di incarichi affidati sempre agli stessi professionisti; di stipendi e parcelle ultramilionarie che gli amministratori delegati dal Tribunale attribuiscono a se stessi o a consulenti vicini; di aziende gestite malissimo; di favoritismi e intrecci d’ogni genere. Ovviamente, si sospettano tangenti. Un vero disastro, insomma: di malagiustizia, d’immagine, e anche economico. Perché i beni sequestrati alle organizzazioni criminali messi tutti insieme valgono 30 miliardi di euro, chi dice addirittura 40. Potrebbero e dovrebbero produrre ricchezza, da restituire agli enti locali o alla giustizia stessa, notoriamente afflitta da penuria: si tratta di ipermercati, cliniche, ristoranti, residence, distributori di benzina, villaggi turistici, fabbriche, fattorie, allevamenti… Al contrario, le indagini raccontano tutt’altro. Si intravvedono solo abusi, soprusi, ruberie. I magistrati di Caltanissetta a metà settembre hanno iscritto nel registro degli indagati tre colleghi palermitani e in particolare il presidente dell’Ufficio misure di prevenzione, Silvana Saguto, in quell’incarico dal 1994. I reati ipotizzati sono gravi: corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, abuso d’ufficio. Saguto non si è dimessa, ha chiesto di essere trasferita ad altro ufficio dello stesso Tribunale, e ora si occupa di penale. Il 18 gennaio 2012, quasi quattro anni fa, l’allora direttore dell’Agenzia nazionale beni confiscati di Reggio Calabria, il prefetto Giuseppe Caruso, già segnalava alla Commissione parlamentare antimafia che «i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente». Più di recente, nel marzo 2014, Caruso aveva criticato «gli amministratori giudiziari intoccabili», professionisti che «hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi» e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. La risposta era stata brutale: la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, aveva convocato il prefetto in un’audizione trasformatasi quasi in processo, sottolineando il rischio che Caruso avesse potuto «delegittimare i magistrati e l’antimafia stessa». La stessa Associazione nazionale magistrati aveva isolato il prefetto con un comunicato che oggi grida vendetta: «I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro». Nel giugno 2014, anche per quelle paradossali polemiche, Caruso aveva lasciato la guida dell’Agenzia. Oggi dice: «Adesso c’è qualcuno che si dovrà difendere e qualcun altro che si dovrà dimettere». Per ora non lo ha fatto nessuno.

Perchè tanto silenzio sui miliardi di euro dell'antimafia? Si chiede Fabio Cammalleri su "La Voce di New York". Dopo che per anni i giornalisti della piccola Telejato diretta da Pino Maniaci avevano suonato l'allarme che nessuno voleva ascoltare, finalmente si indaga sulla gestione di beni sequestrati e confiscati per mafia in seno al Tribunale di Palermo. Ma i reati supposti potrebbero celare molto di più, e risultare un comodo capro espiatorio. Bisogna allargare lo sguardo, guardare l’insieme e non darsi alla fuga. Se vi riesce. Segnatevi questa frase: “...non ci vuole nulla a combinare un’accusa di associazione mafiosa, basta un contatto, uno scontrino, un’intercettazione fraintesa o manipolata, un documento che lasci supporre una presunta amicizia pericolosa, magari del padre o del nonno ed è fatta. Il denunciato dovrà preoccuparsi di dimostrare la legittimità di quello che possiede; ma, anche se fosse in grado di farlo, dovrà andare incontro a una serie di rinvii giudiziari, scientificamente studiati, che durano anni e che finiscono col distruggere la vita dell’incauto oltre che le aziende e i beni che gli sono sequestrati.” L’ha scritta Salvo Vitale, coraggioso come Peppino Impastato, di cui era amico e, come si diceva una volta, compagno di lotta. A Cinisi contro Gaetano Badalamenti, oggi, insieme a Pino Maniaci, anima e corpo di Telejato, contro.... Ora vedremo di che si tratta. Intanto rilevo che né Salvo Vitale né Pino Maniaci hanno mai pensato allo show business: libri di successo (e di insuccesso), prime serate, inchieste con telecamera fissa, con la musichetta, con il maxischermo al posto della lavagna del maestrino millenial, giornaloni, soldi. Sì, soldi: perché sempre i soldi contano; e si contano. No, questi due hanno fatto i giornalisti senza rimanere incollati al terminale o alla telecamera. Si sono messi a cercare, per strada, parlando con le persone, leggendo documenti: e hanno dubitato che il Tribunale di Palermo, Sezione Misure di Prevenzione, presentasse qualche problema di funzionamento. In particolare si sono occupati di sequestri e confische. Beni patrimoniali: terreni, fabbricati; aziende: conti correnti, beni aziendali, fatturato, stipendi, cioè flussi finanziari da e verso fornitori: soldi. Un sacco di soldi. Ma, più esattamente, bisogna considerare i flussi. Cosa è accaduto, lo spiega chiaramente lo stesso Maniaci a Giulio Ambrosetti, che meritoriamente lo ha intervistato per questo giornale e, se non sbaglio, si tratta ancora di un pezzo unico. Riassumo brevemente: la Procura di Caltanissetta ha avviato un’indagine che coinvolge, fin qui, quattro magistrati e svariati professionisti: perchè si sospetta che abbiano gestito i flussi, anziché le aziende. Amministratori giudiziari infedeli, di beni o aziende sequestrate o confiscate per sospetto mafioso. Qui interessano alcuni rilevi ulteriori che, senza offesa, in qualche modo depotenziano la rilevanza dell’indagine penale. Primo. Posto che gli accusati risultassero non colpevoli, non cambierebbe nulla. Perchè il punto non è la loro personale colpevolezza; in sè, sono ipotesi di reato come altre formulate in simili casi. Quello che dovrebbe interessare è il presupposto. Che è di duplice natura: normativa e culturale. Le denuncie dei due valenti giornalisti hanno già messo in luce il bubbone: che è la struttura normativa e le istituzioni, venutesi sviluppando, nel corso di questi ultimi due decenni, sotto l’insegna della c.d. antimafia. Com’è noto, proprio a partire dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Se una stessa persona può legittimamente ricoprire più di novanta cariche, cioè amministrare novanta diverse aziende, non è necessaria la malversazione, per rilevare la mostruosità della struttura normativa che consente simili concentrazioni di potere. Se la struttura istituzionale nata da quella struttura normativa è complessa, richiede e coinvolge l’opera di più persone, che hanno colleghi, referenti istituzionali, non è necessario attendere chissà chi, o chissà che, per chiedersi: ma, hanno fatto tutto da soli? Di qui l’analisi del presupposto culturale, per dir così. Io sono molto cauto di fronte alle stime, specie nella materia criminale; così, quando si dice che i patrimoni di interesse c.d. mafioso, e amministrati per via giudiziaria, ammonterebbero a circa trenta miliardi di euro, rimango molto cauto. Limitiamoci allora a dire che, però, sono comunque tanti soldi: anche se fossero la metà, o un terzo, di quella cifra. E che dieci miliardi di euro, considerati come flusso grezzo, e non entro una funzionalità e un criterio aziendale, che vive di margini sui flussi, e non di flussi (altrimenti si fallisce all’istante), dicevo, diciamo che dieci miliardi di euro, pronti in mano, sono una cifra dalle potenzialità tiranniche pressocché indescrivibili. Tiranniche, perché sistemiche; non criminali, cioè individuali. Si vuol dire che, a volte, il reato può assolvere alla funzione di utile capro espiatorio, o di foglia di fico. Specie quando si parla di stipendi, per quanto lauti, di benefit, per quanto satrapici. Cioè di minutaglia, rispetto all’intero. Sicchè, non solo è pressocchè irrilevante accertarlo, ma, in un certo senso, controproducente. Per questo scrivevo in quei termini dell’indagine in corso. Un pò di pazienza. Gli amministratori giudiziari sono nominati da magistrati. E bisogna dire magistrati, e non riferirsi agli uffici, altrimenti si smarrisce il senso delle cose. Messe le mani sui flussi, essendo provenienti da beni colpiti da scomunica maggiore (mafia), nessuno potrà inarcare un sopracciglio anche quando le aziende fallissero. O falliscono. Un qualsiasi gestore deve potenzialmente temere un rendiconto, o durante, o alla fine dell’opera. Se si elimina, di fatto, la possibilità del rendiconto, il flusso è disponibile nella sua interezza, fino ad esaurimento. I magistrati sono assegnati ai singoli uffici dai loro colleghi del CSM, e la componente togata è maggioritaria (18 su 27, gli altri, al più, negoziano); la componente togata è eletta secondo correnti, organizzate nell’ANM. Dieci miliardi di euro liberi. Come nel caso dei quattro magistrati per ora indagati, si stanno accertando le loro consistenze. Gli stipendi, pur cospicui, sono noti. Le eventuali incongruenze, ovviamente estendendo il campo ai prossimi congiunti, sono agevolmente accertabili. Il silenzio ostinato con cui tutti i maggiori giornali (in realtà note Lobby politico-finanziarie, che hanno assunto un ruolo politico patrizio e impropriamente ma efficacemente decisorio) stanno affrontando una vicenda che appare essere, semplicemente, il centro del sistema, è innaturale. E, più che innaturale, è insolente, come rileva lo steso Maniaci, che Milena Gabanelli, Michele Santoro, Rosy Bindi, Claudio Fava, ciascuno per la sua parte (dal ricco cortigiano al servo sciocco) abbiano nicchiato a precise richieste di intervento, e di sostegno alla ricerca, avanzate da Maniaci. In linea col doppio binario gli interventi di Don Luigi Ciotti: “parcelle spropositate che finivano nelle mani di pochi amministratori, ma anche ritardi”; e di Giancarlo Caselli: “Silvana Saguto è una delle donne economicamente più potenti di Palermo”. Ma sì, è solo, una pur preoccupante, questione di scrocconi, per questo non vi siete precipitati in prima serata, come ai bei tempi. Non è vero?  Certo, il silenzio, aggiunto alle dichiarazioni pro forma, significa che dalla Sicilia si è preso quello che si doveva prendere, in termini di costruzione del consenso e di potere; ma significa anche che vent’anni di scempio delle coscienze e delle istituzioni hanno prodotto scorie tossiche al sommo grado: da tenere assolutamente nascoste. Altro che terra dei fuochi. Dieci miliardi di euro. E un sistema connesso in minutissimi legami, tale per cui la nomina a dirigere un ufficio periferico determina quella a dirigerne uno importantissimo, magari distante due ore di aereo e, insieme, nè è determinata. Un sistema in cui i magistrati che accusano e quelli che giudicano sono colleghi. In cui, come nel corrente caso, a fronte di sospetti gravissimi, l’unico effetto imposto dalla struttura è spostarsi di una decina di passi ad un’altra stanza (il presidente Saguto, ora non è più Presidente del Tribunale, Sezione misure di Prevenzione, ma magistrato con altre funzioni). Un sistema che sui cadaveri di Falcone e Borsellino ha eretto una legittimazione emotiva che ha strattonato e percosso vent’anni di vita pubblica e istituzionale. Considerate i dieci miliardi di euro e la frase con cui abbiamo cominciato; poi aggiungete la storia d’Italia lungo l’asse Palermo-resto d’Italia. Considerate i coriacei silenzi dei Grandi Virtuosi e, con la mente al paradigma-Uno Bianca, considerate i singoli, le persone, le loro case e tutto quello che è loro, e ciò che gli è riconducibile senza soverchie difficoltà. Considerate tutto il potere che hanno amministrato e amministrano. Considerate le loro carriere, le nomine, le elezioni, la forza, che questa organizzazione ha dimostrato e dimostra, di annichilire il peso formale di decine di milioni di voti, comunque espressi: e provate a fare una somma. Troverete i soldi. Una montagna di soldi da spartirsi per una miriade di interessi, anonimi, quasi invisibili, ma che pure nascono e vivono insieme. Così, sopra la montagna di soldi, troverete la Tirannia. Dal centro alla periferia, e dalla periferia al centro. Ma prima i soldi, bisogna cercare i soldi: quelli veri. Diceva Falcone. 

Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive Giacomo Amadori su "Libero Quotidiano". L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».

La mafia dell’antimafia che avevamo previsto, scrive Giulio Cavalli su "Left" l'11 settembre 2015. L’avevamo scritto a marzo, in tempi addirittura sospetti per chi subisce il soffio delle priorità ed emergenze sotto dettatura: era il numero 10 di Left e Pino Maniaci, tra il fumo e le veline della sala di montaggio della sua piccola televisione comunitaria Telejato giù a Partinico, a cento passi da Corleone, ci aveva parlato del suo lavoro d’inchiesta su quella che senza esitazioni ha definito “la mafia dell’antimafia”. Ed è dalla voce di un coraggioso e pluriminacciato giornalista di provincia che è scaturita l’indagine che in queste ore fa tremare Palermo: la Procura di Caltanissetta contesta il reato di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio a Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. A dare notizia dell’inchiesta è stata la stessa Procura che ha diramato un comunicato “allo scopo – si legge – di evitare il diffondersi di notizie inesatte”: “Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”. Pino Maniaci ci aveva snocciolato i numeri impressionanti di aziende confiscate e gestite da Gaetano Cappellano Seminara, parcelle milionarie e soprattutto un patrimonio immenso di imprese sotto l’amministrazione di un’unica persona. Una scelta certamente poco produttiva oltre che inopportuna. E non è un caso che negli ultimi mesi se ne siano occupati sia la Commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che la Commissione antimafia regionale siciliana oltre ad alcune trasmissioni televisive. Lo stesso Prefetto Caruso (ex direttore dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati) pur senza fare nomi aveva denunciato l’eccessivo potere in mano a pochi nella gestione dei beni mafiosi. Eppure ricordo benissimo i sorrisini che accompagnavano le denunce di Pino Maniaci come se in fondo un giornalista così poco pettinato, così puzzolente di sigarette e fuori dall’antimafia borghese avesse una credibilità tutta da dimostrare. Non bastano le minacce, non bastano le inchieste: nel salotto buono dell’antimafia ci entri solo se hai imparato le buone maniere, le cortesie istituzionali e la moderazione. Mica per niente uno come Peppino Impastato ci avrebbe pisciato sopra all’antimafia di maniera che va forte in questi anni. E anche Pino Maniaci, certamente. Ora che l’indagine è in corso (ed è “terribilmente seria” come ci dice qualcuno dagli uffici appena perquisiti nel Tribunale di Palermo) partirà la solita litania dei contriti che piangeranno lacrime di polistirolo. Su quel numero di Left scrivemmo delle tante piccole realtà antimafia e di giornalisti mica da copertina che avevano un coraggio da custodire con cura. E forse ci avevamo visto giusto, eh.

Che affarone i sequestri e le amministrazioni giudiziarie. Aziende sottoposte ad amministrazione giudiziaria. Affidate a professionisti con parcelle milionarie. Un sistema di favoritismi, nepotismi e conflitti d’interessi ora sotto inchiesta. Che coinvolge anche diversi magistrati, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Quando parlava di professionisti dell’antimafia, Leonardo Sciascia non sapeva fino a che punto avesse ragione. Il passo dai professionisti agli affaristi è cosa fatta. Così, il manager più pagato d’Europa non è Martin Winterkorn, ex amministratore delegato della Volkswagen in carica dal 2007, allontanato dopo lo scandalo delle emissioni con 60 milioni di euro di buonuscita. È Gaetano Cappellano Seminara, 57 anni, re incontrastato degli amministratori giudiziari, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali. Per 200 giorni di lavoro l’avvocato palermitano ha chiesto 18 milioni di euro a Italcementi, pari a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.

Italcementi, che aveva subito un sequestro preventivo nel 2008, aveva già versato 7,6 milioni di euro al professionista, tutti autorizzati dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Il grosso della richiesta aggiuntiva, che non è passata dal vaglio del giudice, doveva fra l’altro compensare il rilascio di un’ “assurance”. È una sorta di certificato per garantire la guarigione di Italcementi da comportamenti passibili di censura giudiziaria, anche se non connessi al crimine organizzato. È l’equivalente in versione moderna delle indulgenze mercanteggiate dal clero nel cristianesimo preluterano. È giusto aggiungere che la cifra è riferita all’insieme del team formato da Cappellano Seminara e dai suoi coadiutori, sei impiegati in pianta stabile più altri avventizi. Ma è altrettanto corretto sottolineare che Italcementi è soltanto uno degli oltre cento incarichi ottenuti dal professionista siciliano, che è anche imprenditore in proprio con la Legal Gest consulting e con Tourism Project (hotel Brunaccini di Palermo). La parcella da 18 milioni ha guastato i rapporti fra Cappellano Seminara e il colosso del calcestruzzo, da poco passato in mano ai tedeschi. Italcementi si è rivolta alla giustizia. La causa ha superato due gradi di giudizio ed è al vaglio della Cassazione, che non ha ancora fissato la data dell’udienza. Ma finora i verdetti indicano che l’amministratore ha incassato più del dovuto e dovrebbe restituire una quota degli onorari di circa 2 milioni di euro. Nel frattempo il bubbone è esploso. A Palermo è venuto alla luce un sistema opaco di favoritismi, nepotismi e incarichi in conflitto di interessi che potrebbe non essere limitato al capoluogo siciliano, dove si gestiscono quasi metà dei beni sequestrati in tutta Italia, secondo valutazioni del presidente delle misure di prevenzione Silvana Saguto. Oltre a Cappellano Seminara, la procura di Caltanissetta indaga sulla stessa Saguto, assegnata ad altro incarico, su suo marito Lorenzo Caramma, consulente di Cappellano, sul suo collega di sezione Lorenzo Chiaramonte, sul sostituto procuratore Dario Scaletta e sull’ex componente togato del Csm Tommaso Virga. In attesa che si sviluppi il lavoro del pubblico ministero nisseno Cristina Lucchini e del colonnello Francesco Mazzotta della Guardia di finanza, proprio il Csm ha finalmente deciso di affrontare la questione del cumulo degli incarichi nell’amministrazione giudiziaria, diventata ormai un affare da decine di milioni di euro all’anno, soprattutto nelle regioni più colpite dal crimine organizzato. Anche la politica è dovuta tornare sull’argomento. L’ultima sistemazione datata 2011 si è rivelata disastrosa perché lascia una totale discrezionalità ai singoli tribunali sia nelle nomine sia nella definizione del tariffario che in parte è a carico delle aziende e in parte è a carico della pubblica amministrazione, quindi del contribuente. In cambio del potere incondizionato che si è dato ai giudici delle misure di prevenzione non c’è stata garanzia di trasparenza né di rotazione negli incarichi. L’allarme lanciato dall’ex direttore dell’agenzia nazionale dei beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso è rimasto inascoltato e la commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha preferito impegnarsi in lunghe audizioni di quegli stessi amministratori giudiziari che hanno trasformato la lotta alla mafia in un business altamente lucrativo.

Nel festival del conflitto di interessi spicca la vicenda Italgas. L’azienda torinese, controllata dalla Snam, finisce sotto sequestro in modo rocambolesco. L’avvocato Andrea Aiello, 44 anni, amministratore giudiziario della Euro Impianti Plus dei fratelli Cavallotti, sequestrata nel 2012 e in liquidazione a giugno del 2015, riferisce al pm Scaletta di alcune anomalie riguardanti i rapporti fra Euro Impianti e Italgas. In sostanza, Italgas avrebbe firmato un contratto di fornitura con Euro Impianti pur sapendo che i Cavallotti erano soggetti a rischio. In effetti, gli imprenditori di Belmonte Mezzagno sono stati assolti dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ma restano “socialmente pericolosi” e la testimonianza di Aiello fa scattare il sequestro di Italgas il 9 luglio 2014. Il giudice delegato Fabio Licata, che opera insieme ai colleghi Saguto e Chiaramonte ma non risulta indagato, nomina amministratore giudiziario proprio il teste dell’accusa Aiello. Da amministratore di Euro Impianti Plus, Aiello ha chiesto a Italgas un risarcimento di 20 milioni di euro per il contratto di fornitura non rispettato. Insieme all’avvocato palermitano, sono nominati amministratori anche l’ingegnere Sergio Caramazza, il docente Marco Frey e il commercialista Luigi Saporito. I quattro vengono retribuiti dal tribunale e la cifra non è pubblica. Ma c’è una quota consistente versata dall’azienda sotto sequestro. Italgas ha pagato per un anno di sequestro 6 milioni di euro a 43 coadiutori ingaggiati dagli amministratori, per una media di 140 mila euro a testa. Fra le criticità suggerite dagli amministratori giudiziari alla Deloitte, ingaggiata come consulente da Italgas, figura ogni genere di problema, inclusa la corretta profondità nell’interramento dei tubi, ma non profili collegati alla criminalità organizzata. La richiesta di dissequestro viene accolta a maggio del 2014 dal pm Dario Scaletta, poi indagato perché avrebbe informato Saguto dell’inchiesta che la riguardava. Nonostante questo, l’azienda viene riconsegnata il 9 luglio 2015, oltren un anno dopo il provvedimento. Ma nemmeno allora i professionisti delle misure di prevenzione si fanno da parte e riaffiorano nelle lunghe trattative per nominare il nuovo organo di vigilanza (Odv), incaricato fra l’altro dell’applicazione dei protocolli antimafia. La terna finale è guidata dal giurista di area Pd Giovanni Fiandaca insieme a Andrea Perini dell’università di Torino e a Gianluca Varraso, direttore con Fiandaca del corso di alta formazione per amministratori giudiziari della Cattolica di Milano, dove ha insegnato lo stesso Aiello. Seppure molto qualificato, l’Odv viene integrato da tre consulenti: Carlo Amenta, Gianfranco Messina e Cristina Giuffrida, dello studio Aiello. Tutti e tre figurano fra i coadiutori dello stesso Aiello durante il sequestro di Italgas.

L’inchiesta che ha condotto al sequestro di Italgas, cioè la caccia al tesoro dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, ha portato al sequestro di altre tre aziende italiane controllate dal colosso energetico spagnolo Gas Natural Fenosa. Anche in questo caso, la molla è stata la fornitura da parte dei fratelli Cavallotti. Il giudice Saguto e i suoi colleghi hanno incaricato Cappellano Seminara che, insieme ai colleghi Enzo Bivona e Donato Pezzuto, è stato amministratore giudiziario delle società dal 19 maggio 2014 fino al luglio scorso. Anche in questa vicenda c’è stato ricorso a decine di coadiutori che sono costati nell’ordine di 1 milione di euro: una bella somma considerando le dimensioni molto più ridotte delle aziende in termini di ricavi e dipendenti. Le traversie giudiziarie dei fratelli Cavallotti hanno un parallelo nella storia del gruppo Mollica. Le società dei costruttori di Gioiosa Marea (Messina), guidate dai fratelli Pietro, Domenico e Antonio, sono finite nel mirino come parte integrante di Cosa Nostra, secondo le dichiarazioni di Angelo “Bronson” Siino, il ministro dei lavori pubblici della mafia. Nel 2011, i fratelli Mollica sono stati assolti da questa accusa tanto che le loro imprese, raccolte nel consorzio Aedars, hanno ottenuto la certificazione per partecipare al rifacimento della Scuola della Misericordia a Venezia, in società con la Umana di Luigi Brugnaro. Nel giugno di quest’anno, con i lavori della Misericordia compiuti e Brugnaro diventato sindaco della Serenissima, le aziende dei Mollica sono state sequestrate in base a una sentenza del tribunale di Roma che ha bloccato beni per 135 milioni di euro. Niente mafia, stavolta. Tre mesi prima, a marzo del 2015, Pietro Mollica era stato arrestato con l’accusa di bancarotta fraudolenta dell’Aedars e delle società consorziate, riconducibili ai Mollica. I giudici romani hanno affidato il gruppo a Cappellano Seminara. L’avvocato palermitano adesso è a un bivio. Sembra che il presidente del tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, gradirebbe un passo indietro del superamministratore. Si attendono i passi avanti dei politici.

IN UN SERVIZIO SULL’ESPRESSO ALCUNE DELLE PARCELLE D’ORO DEL RE DEGLI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI. Cappellano sta male, continua Salvo Vitale. Non ha detto se gli fa più male la cappella o…: ha dichiarato che non si sente tranquillo, che si trova nell’occhio del mirino, perseguitato, non dai mafiosi, ma da giornalisti curiosi che vogliono danneggiarne l’immagine e rovinare la sua “azienda”, cioè il suo ufficio legale. Questi cattivi soggetti, così facendo lo mettono in pericolo e aizzano contro di lui le vittime del suo operato, spingendole addirittura all’omicidio, come recentemente successo nel caso della cava Giardinello di Trabia, dove un operaio licenziato ha ucciso i due responsabili della cava, da lui nominati. C’è addirittura chi, come Pino Maniaci, lo perseguita, ce l’ha con tutta la sua famiglia e giornalmente esercita su di lui lo “stalking” (caccia, inseguimento furtivo, appostamento, atteggiamento persecutorio ecc.). Non più di un anno fa la signora Saguto, alla Commissione Antimafia venuta ad ascoltarla, denunciava incazzata: “Stiamo assistendo ad un attacco al sistema. Non può essere un caso che in un momento in cui l’attività è particolarmente incisiva viene sferrato un attacco diffondendo dati falsi sugli amministratori che si arricchiscono e sui giudici indicati come conniventi”.  Come nella strategia di alcuni giudici e politici, chi osa mettere in discussione l’operato dei magistrati è un mafioso o un estremista. Così chi osava denunciare finiva con l’essere sospettato o indiziato di fare il gioco della mafia. Era evidente che si trattava di un’infame provocazione. Tuttavia la Saguto in una cosa aveva ed ha ragione: è un attacco, quello condotto dai suoi colleghi di Caltanissetta, ma principalmente da Telejato, poi ripreso da altre testate, contro il sistema di potere da lei stessa creato e che ben poco ha a che fare con l’amministrazione corretta della giustizia. E’ chiaro che, dopo che il complesso sistema di controllo dell’apparato dei beni confiscati alla mafia, e, sarebbe oggi bene aggiungere, alla presunta mafia, sta cominciando a venir fuori, a Cappellano forse comincia a bruciare qualche parte del corpo. Diciamo forse, perché il tipo, con l’arroganza che lo contraddice, continua a dichiarare di essere in una botte di ferro, dinon avere nulla da rimproverarsi, di volere restare al suo posto, anche per garantire tutti coloro che sono sotto la sua ala protettiva.  Non staremo a individuare i suoi possibili reati: è compito dei magistrati. Alcune cose le abbiamo denunciate, altre vengono fuori a poco a poco. Come quelle che ha scritto l’Espresso, nel numero di questa settimana. Il prestigioso giornale si è accorto del problema con molto ritardo e dedica al super-avvocato e alla sua compagna di merenda, la signora Saguto, quattro pagine. In particolare sono denunciati due fatti:

La Italcementi, una delle più grandi aziende italiane di calcestruzzo, adesso acquistata dai tedeschi, nel 2008 finisce sotto sequestro, continua ancora Salvo Vitale.  Cappellano, nominato amministratore giudiziario vi lavora per sette mesi e poi spara la sua parcella, 18 milioni di euro, “pari, scrive l’Espresso, a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.”  La Italcementi  con il permesso, e quindi con l’avallo della firma del giudice delle misure di prevenzione ha già pagato 7,6 milioni, ma Cappellano pretende un “fuori-busta”, cioè una sua personale parcella, non certificata dal giudice, chiamiamola un  “bonus”, per rilasciare una sorta di attestato di garanzia, in termini tecnici “un’”assurance” per attestare che l’industria è pulita o è stata ripulita da qualsiasi infiltrazione mafiosa e che è in regola con tutte le norme di legge, quindi non è passibile di procedimenti giudiziari di qualsiasi tipo: discorso chiaro: dammi altri 12 milioni e ti garantisco che nessuno verrà più a romperti le scatole. La Italcementi non ci sta, si rivolge al giudice che, tra un rinvio e un altro deve ancora decidere in Cassazione: i due verdetti precedenti indicano che il nostro grande esperto dovrebbe restituire almeno 2 milioni di quello che ha già incassato. La fame di denaro del gruppo d’affari legato a Cappellano si può anche rilevare dal milione di euro spillato alla Gas Natural Fenosa, un’azienda spagnola che si è trovata a gestire affari dai quali si risaliva a Vito Ciancimino, cosa che ci porta poi dritti dritti alla discarica di Glina in Romania, sulla quale Cappellano è indagato. Ma sarebbe troppo lungo elencare fatti e malefatte di questo signore.  Citiamo solo una lettera pervenuta a Telejato, che ci parla di due imprenditori  catanesi, Antonio e Luigi Padovani, ai quali nel 2011 la procura di Caltanissetta sequestra tutti i beni (immobili, noleggio macchinette da gioco, intrattenimento,  sale scommesse telematiche), affidandone l’amministrazione giudiziaria a Cappellano Seminara, che chiama come collaboratore il marito della Saguto, l’ing, Caramma e, dopo una serie di spese pazze e ingiustificate, mette in vendita, anzi in svendita, nel giro di pochi mesi, tutti i beni dell’azienda, e ne incassa il ricavato, a pagamento delle sue parcelle. C’è da chiedersi come mai dalla procura di Caltanissetta, dove l’incarico dei beni sequestrati è affidato al giudice Tona, si nomina un palermitano, legato, come si sa, al gruppo di giudici palermitani che fa capo alla Saguto, per controllare aziende di Catania, con costose trasferte, e come mai non sia stato preso alcun provvedimento malgrado le segnalazioni dei legali dei due imprenditori, ormai rovinati. Ma c’è anche da notare che, proprio dalla Procura di Caltanissetta, i cui magistrati provengono in gran parte dalla Procura di Palermo, dal pm Cristiana Lucchini, è partita l’indagine nei confronti della Saguto e dei suoi collaboratori. L’auspicio è che non si chiuda tutto con un abbraccio tra amici e colleghi. A proposito della Saguto, dopo la mazzata che le è caduta sul capo, sta male anche lei: appena guarita dalla frattura, con ingessatura, del braccio è entrata in depressione ed è attualmente in congedo. Un augurio di presta guarigione, anche perché in tribunale, dove l’hanno spostata, c’è un bel po’ di lavoro che l’aspetta.

L’ITALGAS È UN’AZIENDA DI BERGAMO, DI DIMENSIONI NAZIONALI, LEGATA ALLA SNAM. Dopo una serie di rocambolesche vicende l’azienda Euro Impianti plus, dei fratelli Cavallotti, una famiglia di imprenditori di Belmonte Mezzagno, finita, da ormai 15 anni nel mirino della magistratura perché accusata di godere della protezione di Bernardo Provenzano, e amministrata in modo disastroso da Modica de Moach, (quello che, intervistato dalle Iene ha fatto una figura pietosa), è stata affidata all’avvocato Andrea Aiello, il quale l’ha messa in liquidazione nel 2015. I Cavallotti sono stati assolti definitivamente dall’accusa di far parte del sodalizio mafioso, ma le loro aziende sono rimaste sotto sequestro per volontà dell’Ufficio di prevenzione. Aiello trova chela Italgas ha fatto un accordo e firmato un contratto con la Euro Impianti, lo riferisce al pm Scaletta, attualmente anch’esso trasferito d’ufficio. E’ chiaro che la Euroimpianti non avrebbe potuto sottoscrivere alcun accordo la firma dell’amministratore giudiziario, ma Scaletta, assieme al terzetto di  giudici delle misure di prevenzione Saguto,  Licata e Chiaramonte studiano un bel piano d’azione, e, con la scusa o l’accusa di un ipotetico pericolo di infiltrazioni mafiose affidano proprio ad Aiello, che intento aveva già chiesto alla Italgas 20 milioni per il pagamento di alcune forniture da parte della Euro impianti,  l’incarico di “ripulire” l’azienda assieme ad altri tre amministratori, l’ing. Caramazza, il prof. Frey e il commercialista Saporito, che nominano a sua volta altri 43 coadiutori, ai quali la Italgas versa parcelle di circa 140 mila euro a testa. Un anno di amministrazione giudiziaria, secondo i legali della Italgas è costato circa sette milioni di euro, ma il dissequestro, deciso da Scaletta nel 2014, non implica la riconsegna. L’ufficio misure di prevenzione studia un sistema di “amministrazione vigilata”, cioè si riconsegna l’azienda, nel luglio 2015, ma, viene nominato un organo di vigilanza composto dagli eminenti proff. Universitari Fiandaca, Perini e Varraso, cui si associano tre consulenti e coadiutori dello studio di Aiello, Amenta, Mesina e Giuffrida, che hanno assistito Aiello nel suo anno di amministrazione.

LA SCONCERTANTE VICENDA CHE VEDE COINVOLTI L’AVV. CAPPELLANO SEMINARA E LA DOTT.SSA SAGUTO, EX PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO, NONCHÉ IL DI LEI MARITO ING. CARAMMA, PER LA ANOMALA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI E CHE È OGGETTO DI INDAGINI DA PARTE DELLA PROCURA DI CALTANISSETTA, SI ARRICCHISCE DEL CONTRIBUTO FORNITO AGLI INQUIRENTI DA ANTONIO PADOVANI E SUO FIGLIO LUIGI FABIO. I due imprenditori catanesi, padre e figlio, hanno subito ad opera del Tribunale di Caltanissetta, sezione misure di prevenzione, il sequestro e la confisca di tutti i loro beni, consistenti in immobili e numerose società che operavano nel settore del noleggio delle macchinette da gioco ed intrattenimento, nonché nelle scommesse telematiche, racconta Salvo Vitale su "Telejato". Al momento del sequestro (dicembre 2011) venne nominato amministratore giudiziario il solito avv. Cappellano Seminara, che sin da subito si avvalse della collaborazione dell’ing. Caramma, che più volte si recò a Catania, continuando a farlo sino a pochi mesi fa (ma la dott.ssa Saguto non ha dichiarato ai media che suo marito aveva ricevuto un solo incarico nel 2009?). I Padovani si resero subito conto delle modalità di gestione dei beni sequestrati, messi in allarme da alcune stranezze, quali il trasferimento da Torino a Catania di una autovettura Ferrari berlinetta effettuato inviando a Torino una (o forse due) persona, con conseguenti spese di aereo, pernottamenti e vitto, assicurazione dell’auto e benzina: il tutto per un costo di circa 4 – 5.000,00 euro, mentre un trasferimento a mezzo autotreno sarebbe costato poche centinaia di euro. Questa stranezza venne segnalata in udienza al Tribunale (che peraltro aveva autorizzato simile procedura) dai difensori dei Padovani, gli avvocati Sergio Falcone e Deborah Zapparrata del Foro di Catania, ma la segnalazione non ebbe seguito alcuno: anzi, il Tribunale continuò ad autorizzare tutte le vendite successive: autovetture personali ed aziendali vendute a prezzi di gran lunga inferiori al valore di mercato, centinaia di macchine da gioco del valore di circa 800 – 900 euro ciascuna vendute a prezzi tra i 200 e 250 euro, la stessa Ferrari, valutata dal perito 40 – 45.000 euro venduta per 30.000,00 euro, una imbarcazione di valore prossimo ai 100.000,00 euro venduta per 40.000,00: ed altro ancora! In più, tutte le Aziende sono state chiuse nel giro di pochi mesi, tutti i loro beni, mezzi e attrezzature venduti con le stesse modalità, il personale licenziato. I Padovani denunziano la gestione, finalizzata esclusivamente (in totale spregio della legislazione vigente) a realizzare danaro per pagare le laute parcelle dell’Amministratore e dei suoi collaboratori. Alla fine, se la confisca dovesse essere revocata, ai Padovani verrà restituito….niente, cosi come niente incamererà lo Stato in ipotesi di definitività della confisca: gli unici a guadagnarci, e non poco, saranno gli amministratori. Trovano anche strano, i Padovani, che sia stato nominato Amministratore giudiziario dei beni sequestrati il Cappellano Seminara, dal momento che la maggior parte di essi si trova a Catania, e sarebbe stato più logico, sia per ragioni logistiche che di risparmio di spese (quali ad esempio le frequentissime trasferte a Catania sia del Cappellano che dei suoi collaboratori), ricorrere ad un professionista catanese. Tutto ciò è stato rappresentato alla Procura di Caltanissetta con un esposto denunzia firmato da entrambi i Padovani, i quali chiedono che si faccia chiarezza sulla gestione, sulla attualità della collaborazione (che si protrae da anni) dell’ing. Caramma con il Cappellano Seminara, e sulle ragioni per le quali il Tribunale di Caltanissetta, nonostante le segnalazioni dei Difensori, abbia continuato ad autorizzare simile modo di procedere da parte dell’Amministratore giudiziario.

UNA STORIA INTERESSANTE: NON HA PRESENTATO PER ALCUNI ANNI LA DICHIARAZIONE DEI REDDITI PERCHÉ LAVORAVA IN AMERICA E PERTANTO, I SUOI BENI SONO FRUTTO DI RICICLAGGIO. E’ PROSCIOLTO, MA FONTANA NON FIRMA LA SENTENZA. Tutto comincia dal sig. Evola Giuseppe, di Carini, che, grazie al suo lavoro di sansale conosce tutti, e pertanto concorre, in associazione mafiosa con alcuni di questi “tutti”, racconta ancora Salvo Vitale". Affitta un locale, dove c’era una pescheria, al bivio di Carini a Vito Caruso, uno indagato per piccolo spaccio di droga, che, secondo gli inquirenti, nelle intercettazioni era spacciata per gamberoni. Ci sono anche gradi di parentela della moglie di Evola con i boss di Carini Battista Passalacqua e Pecoraio Giuseppe. Evola è arrestato nel corso di dell’operazione Grande Padrino, rimane in carcere per due giorni, viene rilasciato e messo ai domiciliari per qualche mese sottoposto a processo è prosciolto da ogni accusa dal giudice Morosini, ma ecco che, quando tutto sembra finito arriva, il 20 giugn0 2014 la mannaia delle misure di prevenzione: tutto sequestrato, non solo ad Evola, ma anche alle due figlie, e quindi ai generi. Si trova che uno di essi, Antonio Nicastri non ha presentato dichiarazione dei redditi dal 2002 al 2007 e che quindi i suoi beni sarebbero   di provenienza illecita. Tra questi c’è una casetta di 70 mq, con annesso terreno, in affitto, una casa in costruzione e soprattutto un rinomato locale di ristorazione, in via Strasburgo, a Palermo, dal nome “Times Square”, dove si cucinano specialità americane. Le indagini non tengono conto, intenzionalmente, che il sig. Nicastro, da tempo è stato residente in America, dove ha regolarmente presentato le sue dichiarazioni di redditi e che quello che ha realizzato in Italia è frutto del suo lavoro e dei suoi risparmi, e che quindi non ha niente a che fare né con le attività del suocero, né con eventuali riciclaggi di soldi mafiosi. Il decreto di sequestro emesso dal solito trio Saguto-Licata-Chiaromonte è un capolavoro di arzigogolature, di deduzioni forzate, di illazioni riportate come conseguenze logiche, senza il briciolo di una prova. Fra l’altro non riporta una stima complessiva dei beni sequestrati. L’amministrazione giudiziaria viene affidata a uno dei re amministratori, Luigi Turchio, il quale, per i primi tre mesi riscontra che il fatturato era conforme a quello dichiarato. Turchio mette a rappresentarlo un ex funzionario della DIA, che passa il tempo a giocare in un vicino better gli incassi della giornata, anche più di 500 euro al giorno, e che sistema nel locale la figlia, la moglie e la nuora. Quando Turchio è avvisato dal titolare Nicastro licenzia tutti e quattro. Piano piano vengono licenziati gli undici lavoratori che vi prestavano servizio e tutto viene interamente chiuso il 4 giugno 2015. In un anno Turchio è stato capace di portare al fallimento uno dei locali più “in” di Palermo, senza un briciolo di resoconto del suo “non far niente”. All’atto della chiusura non si consente neanche una pulizia straordinaria con sgombero, viene lasciato il gelato ad ammuffire nei pozzetti, le derrate alimentari a marcire, ci sono scoli d’acqua, vermi, topi, devastazione e scomparsa delle attrezzature. Intanto Nicastri, attraverso un legale che sembra non legato al quotini palermitani, riesce a far valere le ragioni del suo cliente ed ottenere una sentenza di chiusura del caso e di restituzione dei beni. Scoppia intanto lo scandalo, la Saguto e Licata sono trasferiti e Nicastri si reca dal nuovo presidente delle misure di prevenzione dott. Fontana   per chiedergli di firmare la sentenza. Dopo cinque ore di attesa Fontana riceve il Nicastri, ma gli dice che firmare non è compito suo, ma dei giudici che hanno emesso il decreto, cioè Saguto, che è in malattia per depressione e Licata, che non si sa dov’è finito, forse in ferie. C’è da restare allibiti: un giudice la cui competenza è quella di firmare gli atti che gli sono stati lasciati da chi l’ha preceduto, dice che non è compito suo. E il povero Nicastri aspetta, mentre la moglie e gli altri due figli sono tornati in America. Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

Storie di ordinaria giustizia, scrive “Telejato”. SONO COME I MIGRANTI. ORMAI SI È SPARSA LA VOCE E OGNI GIORNO ARRIVANO PRESSO GLI STUDI DI TELEJATO PER RACCONTARE LE LORO STORIE. Ci chiedono che fare e non sappiamo cosa rispondere. Diciamo che noi facciamo i giornalisti e possiamo solo scrivere e loro ci dicono che va bene, bisogna che la gente sappia come si amministra la giustizia in Italia, tutti devono conoscere le loro storie, affinchè si tenti di smontare un sistema così perfetto che stritola la vita di coloro che hanno avuto la sfortuna di finirci dentro. Sono episodi allucinanti di persone che si sono viste sequestrare tutto, che hanno visto la loro vita e quella dei loro parenti distrutta, sono stati cacciate dalle loro case, sono state bloccate ogni volta che tentavano di iniziare un nuovo lavoro, che con le loro residue risorse o con prestiti sono riuscite a pagare un avvocato, spesso corrotto e che alla fine sono riuscite a far valere in tribunale le loro ragioni. Dopo i tre gradi di giudizio l’imputato è assolto, non ci sono sufficienti prove a suo carico, si dispone la restituzione dei beni. Ed è proprio quello il momento più triste: i beni non ci sono più, sono stati mangiati dall’amministratore giudiziario e dai suoi collaboratori ed è inutile chiedere di essere risarciti, perché la legge non lo prevede.  Addirittura arrivano bollette e fatture da pagare, che l’amministratore non ha pagato, pensando solo a spremere la mammella sino a quando c’era latte e, in questo caso, la risposta del tribunale è: paga per il momento, poi avvieremo La pratica giudiziaria per il rimborso e alla fine, tra qualche anno o tra qualche decennio riavrai i tuoi soldi. Ieri ne sono arrivati tre. Prima storia: Pino Pirrone aveva una gioielleria in viale Strasburgo. Il padre era conosciuto come uno dei più rinomati gioiellieri di Palermo e lui ne aveva continuato l’attività. In un certo momento  suo fratello, gioielliere anche lui, era stato ucciso nel corso di una rapina nel suo negozio ed egli aveva pensato di tutelare i suoi risparmi e gli interessi delle sue due figlie ascoltando il suggerimento di un suo amico, in servizio presso un corpo militare, di entrare in società con una signora, titolare di un’attività, riversando parte dei suoi soldi nel conto corrente di questa tizia Difficile capire cosa ci fosse sotto, probabilmente un tentativo di dirottare i soldi ad un prestanome, ma in un certo momento il Pirrone si ritrova addosso un’accusa di usura e, nel 2003, con un’ordinanza del giudice Cerami gli viene sequestrato il negozio e ogni altra proprietà. Amministratore giudiziario è nominato l’avv. Di Legami, cioè uno dei tanti in quota, cioè nella lista dei privilegiati dal tribunale di Palermo. Nel negozio rimane, per un certo tempo la figlia di Perrone, alla quale non viene pagata alcuna retribuzione, mentre viene assunta una “amica”, figlia dell’autista del giudice Bottone, cognato dell’avv. Di Legami, la quale, dopo qualche anno si licenzia e apre una sua gioielleria in via Pacinotti. Nuova assunzione di un’altra amica che, anch’essa, dopo un certo periodo di “lavoro” apre anche lei una gioielleria presso la chiesa di San Michele. L’iter giudiziario prosegue il suo corso e il Perrone viene assolto con formula piena sia in primo grado che in appello e quest’ultima sentenza diventa definitiva poiché non c’è stato da parte del giudice un’altra richiesta di giudizio.  Prosegue anche a vicenda dell’amministrazione del bene, che viene confiscato dal giudice Vincenti con la collaborazione dei giudici Chiaramonte e Scaletta, sino al 2012, quando viene annullata la confisca e disposto il reintegro dei beni. Quando viene data al proprietario la chiave del suo negozio egli non trova più nulla. Anzi, qualche giorno dopo gli viene recapitata un’intimazione di pagamento di 100.000 euro per l’affitto del negozio, a firma Cappellano Seminara, giudiziario dell’Immobiliare Leonardo Da Vinci, proprietaria del locale Cappellano ha aspettato che andasse via Di Legami, al quale non poteva chiedere nulla, sia perché non c’era più nulla, sia perché tra colleghi ci si rispetta. Perrone si rivolge al tribunale e gli dicono che, per prima cosa deve pagare, poi deve fare un ricorso e una richiesta di rimborso e aspettare.  Pervengono anche altre fatture per merce non pagata e al povero Pirrone non rimane altro che chiudere il locale, rivolgersi a un avvocato romano, che inoltra un ricorso alla Corte di Strasburgo. E infine, per colmo di beffa, al sig. Perrone viene restituita anche la chiave di un suo vecchio appartamentino: quando vi si reca per riprenderne possesso, vi trova alloggiata una famiglia che non ha alcuna voglia di sloggiare.  Piccola curiosità: tra i tanti avvocati di Pirrone c’è anche un certo Monaco, che è anche difensore di Cappellano Seminara.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Paolo Borsellino: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.

“Quel pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero al lavoro come sostituto alla Procura di Palermo e mi stavo occupando di un sequestro di persona. Mi chiamò molte volte la squadra mobile di Palermo, per motivi di lavoro. E quando squillò ancora una volta il telefono ero convinto si trattasse di una nuova comunicazione della Questura. E invece gli stessi funzionari con cui ero in contatto, mi avvisavano di un grave fatto accaduto, di cui non si conoscevano ancora i dettagli”. Alfredo Morvillo, procuratore della Repubblica di Termini Imerese e fratello di Francesca Morvillo, moglie del giudice Giovanni Falcone anch’essa uccisa a Capaci, racconta a “Voci del mattino”, Radio 1 del 21 maggio 2015, i drammatici momenti in cui apprese della strage. “Quando si è in prima linea come lo era Giovanni, ci si abitua a convivere con una certa tensione e si ci concentra unicamente sul lavoro. – aggiunge – Giovanni non sottovalutava i rischi cui andava incontro, ma da quando era Direttore al Ministero di Grazia e Giustizia, a Roma, aveva un po’ allentato l’attenzione sulla sicurezza, tanto è vero che qualche volta capitava di andare da soli, senza scorta, a fare due passi o al ristorante”. “È noto a tutti – continua – che Falcone avesse maturato rapporti difficili con taluni ambienti giudiziari e gli ostacoli incontrati lo avevano convinto a spostarsi a Roma, al Ministero. Alcuni, ben individuati colleghi, lungi dal riconoscere a Giovanni la sua grande capacità analitica e investigativa, non convinti del lavoro di squadra, lo ostacolarono in tutti i modi. Arrivarono anche a prenderlo in giro dicendo che, dopo la Procura Nazionale Antimafia, il suo obiettivo era creare la "Procura planetaria". In conclusione, all’interno del tribunale vi era una parte di colleghi che sicuramente non lo amava”. Per Morvillo inoltre “se si voleva eliminare soltanto Falcone, non serviva mettere in piedi un progetto criminale così clamoroso, con il rischio di uccidere decine di persone. Giovanni, come dicevo, a Roma aveva un po’ allentato le misure di sicurezza, pertanto ucciderlo lì non sarebbe stato affatto impossibile. Bastava pedinarlo mezza giornata e poi colpire. Chi ha ucciso Falcone voleva che questo atto avesse una chiara, inequivocabile impronta mafiosa; quindi, fatto a Palermo, con metodi mafiosi, in modo che per tutti fosse evidente che era stata la mafia e che non si potesse pensare ad altro”.

Giovanni Falcone spiega la crisi dei giudici: "più impiegati che professionisti. "Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili". Lo dice Giovanni Falcone, giudice istruttore a Palermo, scrive Fabrizio Ravelli il 06 novembre 1988 su “La Repubblica”. Parla di sé e dei propri colleghi: Tende a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato-impiegato. Basta col magistrato-impiegato, che si rifugia nelle comode e tranquillanti certezze di una carriera ispirata al criterio dell' anzianità senza demerito. Professionalità ci vuole: bisogna studiare, aggiornarsi, selezionare i migliori. E basta anche con un' Associazione magistrati che è sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi, basta con le correnti che si sono trasformate in macchine elettorali per il Consiglio superiore della magistratura. Falcone parla per mezz' ora davanti a una platea attenta. La sala affollata dal primo convegno nazionale del Movimento per la giustizia si aspetta un intervento importante. Ma le 26 cartelle che il giudice legge hanno comunque l' effetto di una cannonata. I temi sono quelli del Movimento nato pochi mesi fa: non c' è dubbio però che Falcone li passa in rassegna con una forza autocritica, con un vigore di analisi che fa scricchiolare le consuetudini formali. Punto di partenza, i risultati del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Battaglia persa, e se si abbandona la sindrome permanente da stato d' assedio bisogna prenderne atto: Non può non riconoscersi che il referendum, a prescindere da qualsiasi sua strumentalizzazione, ha consentito di accertare, senza equivoci, un dato estremamente significativo: e cioè che la stragrande maggioranza dell' elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non è svolta attualmente con la necessaria professionalità e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati. La gente non si fida di come lavorano i giudici. Bisogna riconoscere responsabilmente, in altri termini, che la competenza professionale della magistratura è attualmente assicurata in modo insoddisfacente: il che riguarda direttamente i criteri di reclutamento e quelli riguardanti la progressione nella cosiddetta carriera, l'aggiornamento professionale e i relativi controlli, la stessa organizzazione degli uffici e la nomina dei dirigenti. Il linguaggio è chiaro: l'azienda giustizia deve garantire un servizio ai cittadini, questo servizio è cattivo, non si vede perché non adottare quei criteri di rendimento e competitività che una qualsiasi azienda usa per evitare il fallimento. Professionalità: batte e ribatte su questo tasto il giudice Falcone. Professionalità di base, intanto: Il magistrato, attualmente, viene ammesso in carriera sulla base di un bagaglio culturale meramente nozionistico, e l'affinamento delle qualità professionali, in definitiva, è affidato esclusivamente al senso di responsabilità e alla buona volontà del singolo. Trasferimenti, assegnazione di funzioni e nomine ai posti direttivi solo in minima parte tengono conto delle specifiche attitudini e dell'esperienza professionale. Si vedono carriere in funzione di controllo dell'elettorato, che tendono a preferire chi assicura una migliore resa in termini elettorali. Decidono le correnti, macchine elettorali anche se per fortuna non tutte in egual misura: quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata anche in seno all' organo di autogoverno della magistratura, con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica. Caccia al voto esasperata e ricorrente e difesa corporativa della categoria: le conseguenze sono state di enorme portata e hanno investito la stessa professionalità del giudice. Autonomia e indipendenza sono valori che vengono sempre più interpretati dalla società come inammissibili privilegi di natura corporativa. E invece vanno difesi proprio garantendo un servizio-giustizia efficiente e adeguato. In questo senso, conclude Falcone, il nuovo codice di procedura penale sarà un severissimo banco di prova. Ma è una autentica conquista di civiltà: i magistrati vi si preparino adeguando anche le loro strutture mentali. E poi danno lezioni di legalità!

LA MORIA DEGLI AVVOCATI.

La moria degli avvocati nel sistema forense italiano. Secondo una riforma adottata dal Parlamento, chi non è ammanicato col sistema forense giudiziario, non sopravvive. I retroscena di come ci si abiliti all’avvocatura o alla magistratura. Chi studia giurisprudenza pensa che vale la forza della legge. Chi come me ha esperienza e perizia, afferma che vale la legge del più forte. Ossia: nei tribunali la prassi fotte la legge. In tutta Italia. L’unico consiglio che io posso dare è che, ormai in questa Italia, è meglio non fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato, e non avere nulla, perché si fottono tutto i legulei. Già, i legulei. I giornalisti approssimativi e disinformati da sempre ce la menano sul dato che in Italia ci siano 250 mila avvocati con la tendenza all’aumento di 15 mila unità all’anno. A loro è imputata ogni sorte di maldicenza. Al loro incremento numerico è addebitata la responsabilità della deriva della giustizia in Italia. Cosa più falsa non c’è. Sicuramente tra gli scribacchini ci sarà qualcuno che avvocato lo è o comunque ha partecipato invano all’esame per diventarlo e quindi la verità è a loro portata.

Abilitazione all’avvocatura nel sistema forense italiano. Eppure si sottace o si continua a negare l’evidenza sul come ci si abiliti all’avvocatura, alla magistratura, o ad ogni altra professione, così come attestato dalle sentenze dei Tar di tutta Italia. Un esame truccato nelle voglie dei commissari. Un sistema insito in tutti gli esami o i concorsi pubblici.

Abilitazione uguale a omologazione. Subisci e taci e non rompere il cazzo. Se sei diverso e ti ribelli: sei fuori.

Oggi c’è il paradosso che, a prescindere dall’esame truccato di abilitazione, non conviene più parteciparvi, in quanto, pur superandolo, non ci si può iscrivere agli albi per esercitare la professione. Un ostacolo ulteriore per chi entra, un impedimento a proseguire per chi già c’è. Ecco perché in tempo di crisi non si parla dell’imminente moria dei cosiddetti “pesci piccoli” forensi. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia e alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu .

Non paghi di aver partorito in Parlamento una riforma forense contro l’inclusione dei giovani nel mondo leguleico, i marpioni, sempre in Parlamento, hanno adottato un riforma, affinché chi sia entrato nel loro autarchico mondo venga espulso per stato di necessità. E cioè sono coloro che non ben ammanicati nel sistema forense giudiziario non ce la fanno a supportare le inani spese di gestione della professione. Di questo nessuno ne parla. Ed aimè tocca a me farlo per una categoria che non merita solidarietà, ma solo commiserazione. Da sempre il popolo forense si divide in due parti.

I dinosauri privilegiati con degni natali e con potere in Parlamento, ma genuflessi alla magistratura;

i loro followers per ignavia o per necessità, ossia i praticanti e i giovani avvocati.

Quanto costa mantenersi alla professione di avvocato nel sistema forense italiano

Il 7 agosto 2014, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha approvato il Regolamento attuativo dell’art. 21 della Legge Professionale n. 247 del 2012, che impone a tutti gli avvocati, iscritti all’apposito albo, l’iscrizione obbligatoria anche alla Cassa Forense, con versamento di un contributo di importo fisso indipendentemente dalle condizioni reddituali.

I contributi minimi dovuti dagli iscritti, rivalutati per ogni anno di iscrizione alla Cassa, sono i seguenti:

a) Contributo minimo soggettivo: € 2.780,00;

b) Contributo minimo integrativo: € 700,00;

c) Contributo di maternità: € 151,00.

Il regolamento prevede: o paghi o ti cancelli dall’Albo e nulla valgono le presunte agevolazioni previste. La conseguenza immediata di tale provvedimento è che, di qui a poco, circa cinquantamila avvocati italiani, soprattutto più giovani, rischiano di sparire dagli albi professionali, in quanto impossibilitati a far fronte agli onerosi contributi obbligatori richiesti! Molti avvocati con un reddito basso e insignificante non possono iscriversi alla Cassa per mancanza di liquidità economica e rischiano, pertanto, di subirne le relative conseguenze, ovvero la cancellazione forzata ed obbligata dai relativi albi professionali di appartenenza. Il versamento obbligatorio dei contributi previdenziali, così come previsto dalla nuova normativa, se per gli studi legali con giro d’affari multimilionario, risulterà praticamente insignificante, colpisce, tuttavia, una schiera di professionisti che avranno serie difficoltà a sostenere tale spesa: appunto, qualcosa come cinquantamila avvocati – coloro, cioè, che percepiscono un reddito inferiore ai 10.300 euro annui. Per loro sarà complicato trovare un’alternativa alla disoccupazione, vuoi per l’età, vuoi per l’alta specializzazione in un settore e in nessun altro», dice l’avv. Eugenio Gargiulo di Foggia.

Vero è che la contribuzione obbligatoria e l’esoso peso fiscale accompagnato dalla mano morta della burocrazia colpisce ogni categoria professionale. Ed è questa stagnazione dello status quo che alimenta la crisi economica.

Inoltre i liberi professionisti del ramo tecnico, ingegneri, architetti, geometri e periti sono alla fame. Nessuno ne parla. Sono un esercito di oltre 500.000 persone senza protezioni sociali.

E’ questa l’Italia che continuiamo a volere? Con l’astensionismo elettorale il popolo mette sotto processo la politica inconcludente ed ignava e rea di aver sfornato una classe dirigente inetta, frutto di familismo e raccomandazioni.

Perché in Italia, oramai, si lavora esclusivamente per mantenere le sanguisughe.

La rottamazione assoluta del sistema senza schemi identitari ed ideologici, se non ora, quando?

Quando? Mai! Perchè gli anni passano. le leggi si riformano, ma tutto rimane fermo ed immobile.

E' stata definitivamente approvata, giovedì 17 luglio 2003, la legge di conversione del Dl 112/2003 relativa agli esami per l'accesso alla professione di avvocato. Il Senato ha stabilito che le nuove regole troveranno applicazione dalla prossima sessione di dicembre 2003. Nel provvedimento è stata individuata una nuova causa di incompatibilità per la designazione dei componenti. L'avvocatura infatti, nell'espressione dei nominativi dovrà tener presente l'articolo 1-bis comma 6 di tale Legge che stabilisce che non possono essere designati come commissari di esame, gli avvocati che siano membri dei consigli dell'Ordine o rappresentanti della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense. Il principio affermato tende a impedire che i commissari di esame facenti parte di tali organismi, possano maturare crediti verso i candidati, sfruttando la benevolenza in occasione di nuove elezioni al Consiglio dell'Ordine o alla Cassa di previdenza. E' stato inoltre precisato che per le stesse ragioni gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni, una volta espletati gli esami, non possono candidarsi ai rispettivi Consigli dell'Ordine e alla carica di rappresentanti della Cassa alle elezioni immediatamente successive all'incarico ricoperto. La nuova legge precisa inoltre che rimangono in vigore le altre incompatibilità previste per la nomina di commissari, come ad esempio l'astensione per chi ha un parente (o coniuge) tra i concorrenti o per chi versa in stato di forte contrapposizione di interessi o, viceversa, chi è stato collega (come praticante) di studio. In questo ultimo caso, il limite alla possibilità di esaminare i propri ex praticanti, è circoscritto unicamente all'obbligo, per il commissario, di astenersi dal prendere parte alle prove orali, in quanto l'anonimato delle prove scritte è sufficiente garanzia di imparzialità nella correzione. Anonimato per la legge, di fatto conosciutissimi gli autori dell'elaborato.

In caso di naturale violazione penale delle norme concorsuali, tra cui l'abuso di ufficio o o la legge del 1925, il nuovo codice deontologico della professione forense presenta l’innovativo carattere della (tendenziale) tipicizzazione degli illeciti e delle sanzioni correlativamente applicabili. Ne consegue che, ai sensi dell’art. 72, la condotta dell’avvocato che, prima o durante la prova d’esame per l’abilitazione, faccia pervenire ad uno o più candidati testi relativi al tema proposto è punito con la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per un periodo compreso tra due e sei mesi. (Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza n. 3023/15; depositata il 16 febbraio).

Questo è quello esistente sulla carta, ma di fatto l'indicibile avviene perennemente ed impunemente.

Esami di avvocato con il trucco. Commissario scriveva compito a candidato: scatta l'inchiesta, scrive “Il Mattino di Napoli”. La scena è più o meno questa: scriveva il compito sul foglio di un candidato, poi quando è stato scoperto non si è perso d’animo. Ha strappato il compito, lo ha ridotto in mille pezzi, poi ha pensato bene di ficcarsi in tasca l’elaborato. Poi è scappato. È fuggito via, in un altro padiglione, provando a mimetizzarsi nel caos di quegli stand dove erano in corso le prove scritte. Brutta scena avvenuta lo scorso dicembre nel corso delle prove scritte dell’esame per diventare avvocato, tanto da rendere necessario un accertamento di natura penale. La Procura ha infatti deciso di aprire un fascicolo sugli esami di avvocati, a partire da una dettagliata relazione indirizzata da uno degli esponenti della commissione di esame. Mesi dopo l’episodio denunciato, c’è anche una sorta di svolta di natura investigativa: l’avvocato-commissario protagonista dell’impresa è stato infatti individuato, interrogato e indagato. Ora deve rispondere di falso per soppressione, in una storia che potrebbe riservare non poche sorprese. Ma andiamo con ordine, a partire da lontano, da quel giorno di metà dicembre in cui migliaia di praticanti avvocati si riversano negli stand della Mostra d’Oltremare per sostenere la prova della vita. Lo scritto poi è l’incubo di sempre. Si parte dalla trascrizione delle tracce, poi inizia il countdown. Tra i commissari però ce n’è uno che non passa inosservato: al telefono è riuscito ad avere il contenuto della traccia dopo aver contattato qualcuno in un altro distretto e non si è perso d’animo. Si è avvicinato ai banchi degli alunni e ha iniziato a scrivere sul foglio che recava il timbro del ministero e la firma delle commissioni di vigilanza. Una scena che non passa inosservata. Scrive, riempie almeno una facciata, quando un collega commissario se ne accorge e decide di vederci chiaro. A muoversi è un pm della Procura di Napoli, prestata per comporre la commissione di esame. Si avvicina e chiede spiegazioni: che cos’è questo industriarsi con quel foglio in mano? E cos’è quel foglio? Basta un’occhiata e appare chiaro che non si tratta di un appunto manoscritto, ma del documento con il timbro del Ministero, quindi si tratta di un elaborato originale destinato ad essere imbustato e presentato con la firma di un candidato alla commissione di esame. Colto sul fatto l’avvocato-commissario però non si perde d’animo e fa una cosa elementare: strappa il lembo del figlio con la firma del ministero, poi ci pensa su e fa a pezzi tutto il documento e se lo ficca in tasca. Momenti di caos. Mentre gli altri colleghi gli chiedono spiegazioni, lui arretra, volta le spalle e scappa. Fugge, se ne va in un altro padiglione, si cala nell’anonimato. Un episodio destinato a rimanere inesplorato, se non fosse per la decisione di un commissario-magistrato di mettere tutto nero su bianco, di denunciare quanto assistito. È l'inizio di una inchiesta condotta dal pool reati contro la pubblica amministrazione del procuratore aggiunto Francesco Greco, fascicolo affidato al pm Valter Brunetti. C’è un’ipotesi di reato abbastanza chiara: falso per soppressione, in relazione alla capacità del commissario di far sparire l’elaborato, nel tentativo di cancellare le tracce. Qualche mese di indagine e l’avvocato viene identificato e interrogato. Vicenda per molti versi amara, che ripropone il tema della correttezza delle prove di esame, mentre il presidente del Consiglio degli avvocati Francesco Caia assicura: «Speriamo sia un fatto isolato, appena avremo notizie ufficiali, interverremo in modo deciso».

Ed ancora.

Esame avvocato a Bari, la nipote candidata e lo zio commissario, scrive Giovanni Longo su “la Gazzetta del Mezzogiorno” il 7 settembre 2015. La nipote candidata. Lo zio in commissione. Nulla di penalmente rilevante. Ma quella che appare una evidente incompatibilità, sancita dallo stesso bando, rappresenta, almeno in termini d’immagine, un’altra tegola sull’esame d’avvocato edizione 2014-2015. La candidata era tra i banchi della Fiera del Levante, insieme a centinaia di aspiranti avvocati, mentre suo zio (un magistrato in pensione), fratello di suo padre, faceva parte della Commissione. Già l’anno prima si era verificata la stessa situazione, nonostante l’incompatibilità per i parenti sino al quarto grado. Ma non finisce qui. Perché dagli atti interni alla Commissione d’esame che la «Gazzetta» ha potuto consultare, risulta che per entrambe le prove, il commissario ha fornito per le comunicazioni interne, un indirizzo di posta elettronica con il nome e cognome della nipote candidata. Questo non vuole dire che le comunicazioni interne fossero lette dalla candidata, sia chiaro, ma, all’interno della Commissione, la circostanza non è sfuggita. Tutte vicende che non sarebbero finite nel fascicolo aperto dalla Procura di Bari per fare luce sui presunti aiuti che alcuni candidati (tra loro non figura la candidata che aveva suo zio in commissione) avrebbero ricevuto. Sul fronte penale (ribadiamo zio commissario e nipote candidata non risultano coinvolti), l’estate che volge al termine, è stata di grande lavoro per i Carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Bari. I telefonini del cancelliere della Corte di appello Giacomo Santamaria e della dirigente dell’Università di Bari Tina Laquale, indagati dalla Procura di Bari, iniziano a «parlare». Tracce delle prove scritte inviate via WhatsApp. Elaborati redatti in uno studio legale e poi consegnati a mano. Tecnologia e tradizione vanno a braccetto. L’inchiesta sui presunti «aiutini» che almeno una decina di candidati all’ultimo esame d’avvocato avrebbero ricevuto, si arricchisce di nuovi particolari. Santamaria e Laquale, ricordiamo, erano stati sorpresi durante la terza prova d’esame mentre nel quartiere fieristico si passavano di mano un plico contenente lo svolgimento del tema assegnato: la redazione di un atto giudiziario. Nella busta, pure un biglietto con nomi e destinatari. Dall’accertamento tecnico irripetibile disposto dal pm Luciana Silvestris, che coordina le indagini, sono giunte altre indicazioni utili per capire quali sarebbero state le modalità utilizzate per truccare la prova. Nel padiglione della Fiera del Levante ci sarebbe stato chi ha fotografato le tracce per poi inviare le foto all’esterno. Tramite WhatsApp. In uno studio legale, almeno Laquale, una sua stretta parente e un professionista avrebbero avuto il compito, codici alla mano, di scrivere gli elaborati. Da consegnare poi a domicilio. Nel mirino il ruolo che l’avvocato avrebbe avuto nella vicenda. Laquale si sarebbe messa in ferie proprio in concomitanza con la tre giorni di metà dicembre. Le ipotesi di reato, a vario titolo, sono: tentato abuso d’ufficio, violazione di una vecchia legge del 1925 sullo svolgimento degli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni, e corruzione. Gli inquirenti sono al lavoro per capire se la presunta «collaborazione» rientrasse «solo» in un sistema più ampio di scambi di favori o se, come sospettano, fosse stata retribuita. Ovvero soldi in cambio di una prova impeccabile per superare l’esame.

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

Esame per avvocati: «Una selezione poco motivata». Sono un giovane avvocato penalista di 31 anni che ha vissuto un’esperienza sconcertante. Laureato all’Università di Brescia, ho svolto il regolare periodo di pratica professionale forense - effettiva e non fittizia - ed ho superato l’esame di abilitazione alla professione di avvocato. Le prove scritte consistono nella redazione - a mano, ancora oggi - di due pareri motivati aventi ad oggetto una questione regolata dal codice civile, una dal codice penale e la redazione di un atto giudiziario. A dicembre di ogni anno si svolgono le prove scritte ed a giugno dell’anno successivo vengono comunicati i risultati; con rammarico apprendo che non sono stato ammesso all’esame orale poiché non ho ottenuto il punteggio complessivo di almeno 90 punti (30 per ogni prova). Ottengo la copia dei compiti e con grande sorpresa leggo in calce al primo parere «trenta, 30»; al secondo «trenta, 30» ed all’atto giudiziario «venticinque, 25». Mi chiedo, tutto qui? Nessun giudizio? Nessuna motivazione? Solo un numero. Perché non 30, 35 e 25? Sarei stato ammesso all’esame orale. Rileggo l’atto giudiziario valutato insufficiente alla disperata ricerca di un errore ortografico, di un’imprecisione nella sintassi di uno strafalcione giuridico... nulla. Chiedo allora un parere all’avvocato presso il quale ho svolto la pratica e con cui collaboro: «Non vedo errori». Sono rabbioso: perché non sono stato ammesso? Perché 25 e non 30? Dov’è l’errore? Come faccio a capire quale errore ho commesso da un numero? Mi sovviene allora il ricordo, dal corso di diritto amministrativo, dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi «compresi quelli concernenti (...) lo svolgimento dei pubblici concorsi». Voglio fare ricorso! Intendo fare ricorso perché da un numero non ho capito quale e dove sia il mio errore, perché già all’università quando studiai diritto penale e diritto processuale penale capii che l’avvocato era la professione che avrei voluto fare nella mia vita. Svolgo una ricerca giurisprudenziale sui ricorsi amministrativi contro i provvedimenti di non ammissione all’esame orale e dopo tre giorni ho già cambiato idea. Consiglio di Stato, sentenza n. 2557/2010: «I provvedimenti della commissione esaminatrice vanno di per sé considerati adeguatamente motivati, quando si fondano su voti numerici, attribuiti in base a criteri da essa predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, valendo comunque il voto a garantire la trasparenza della valutazione». Corte Costituzionale, sentenza n. 175/2011: «Il punteggio, già nella varietà della graduazione attraverso la quale si manifesta, esterna una valutazione che, sia pure in modo sintetico, si traduce in un giudizio di sufficienza o di insufficienza, a sua volta variamente graduato a seconda del parametro numerico attribuito al candidato». Aspetto sei mesi per rifare l’esame scritto con quattro certezze. La prima, ancora oggi a distanza di anni, non so quale errore, sempre che esista, mi abbia impedito di accedere all’esame orale. La seconda, non posso avere altre fonti di reddito: quale praticante abilitato al patrocinio, secondo l’art. 18 della nuova legge forense sono incompatibile con qualsiasi altro lavoro, autonomo o subordinato. La terza, non posso lavorare: sono abilitato a difendere persone accusate di reati non gravi ma solo, come ha stabilito la Corte Costituzionale nella sentenza n. 106/2010, se mi conoscono, se si fidano della mia professionalità e quindi mi nominano loro difensore di fiducia. Ma chi conosce un praticante avvocato del foro di Brescia dove in Lombardia ci sono circa 32.000 avvocati? Nessuno. La quarta ed ultima certezza è l’attualità del pensiero del filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham, che nella sua opera principale «Introduzione ai principi della morale e della giurisdizione» aveva già nel 1789 constatato un’evoluzione storica della giurisprudenza inversa a quella delle altre scienze: se in queste «si vanno sempre più semplificando le procedure rispetto al passato; nella giurisprudenza le si vanno sempre complicando. E mentre tutte le arti progrediscono moltiplicando i risultati con l’impiego di mezzi più ridotti, la giurisprudenza regredisce moltiplicando i mezzi e riducendo i risultati». Lettera firmata pubblicata su “Il Giornale di Brescia”.

Esame di Stato e praticanti avvocati. L'esame di Stato per avvocati: l'analisi di un candidato, continua “Il Giornale di Brescia”. Anche quest’anno, come i precedenti, sono stati comunicati i risultati delle prove scritte sostenute dai praticanti avvocati per l’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense che hanno visto, nel distretto di corte d’appello di Brescia, 330 candidati ammessi all’esame orale su 825 iscritti. L’esame di Stato ha l’importantissima finalità di garantire alla collettività un livello medio minimo ma sufficiente ed indispensabile di preparazione ed adeguatezza della classe forense, stante l’imprescindibile ruolo dell’avvocato che consiste nell’assicurare la difesa dei diritti del proprio assistito nel rispetto dei diritti altrui, con lealtà ed indipendenza, non condizionandola all’utile economico. L’obiettivo dell’esame è quindi quello di garantire ad ogni cittadino che qualsiasi avvocato, sia questi nominato di fiducia o d’ufficio, abbia un grado di professionalità tale da fornire un’adeguata assistenza legale al proprio cliente. Un esame con tali finalità dovrebbe necessariamente essere sì severo e selettivo ma necessariamente improntato a canoni di equità e meritevolezza ma soprattutto strutturato con parametri di correzione e di valutazione trasparenti ed oggettivi. Ma siamo sicuri che sia così? Siamo davvero sicuri che l’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense, per come è oggi strutturato, abbia davvero questa nobile finalità e non sia già funzionale ad altri e diversi interessi? Attualmente l’art. 17-bis del regio decreto n. 37/1934 prevede l’esecuzione di tre prove scritte: la redazione di due pareri motivati aventi ad oggetto una questione regolata dal codice civile ed una dal codice penale ed, infine, la redazione di un atto giudiziario «che postuli conoscenze di diritto sostanziale e di diritto processuale, su un quesito proposto, in materia scelta dal candidato tra il diritto privato, il diritto penale ed il diritto amministrativo». La commissione centrale istituita ogni anno presso il Ministero della giustizia ha definito per l’anno 2014 i seguenti criteri di valutazione degli elaborati scritti: «a) correttezza della forma grammaticale, sintattica ed ortografica e padronanza del lessico italiano e giuridico; b) chiarezza, pertinenza e completezza espositiva, capacità di sintesi, logicità e rigore metodologico delle argomentazioni ed intuizione giuridica; c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti trattati, nonchè degli orientamenti della giurisprudenza; d) dimostrazione di concreta capacità di risolvere i problemi giuridici anche attraverso riferimenti alla dottrina e l’utilizzo di giurisprudenza; e) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà, anche con specifici riferimenti al diritto costituzionale e comunitario per la soluzione di casi che vengano prospettati in una dimensione europea, ovvero presentino connessioni con altre materie giuridiche; f) coerenza dell’elaborato con la traccia assegnata ed esauriente indagine dell’impianto normativo relativo agli istituti giuridici di riferimento; g) capacità di argomentare adeguatamente le conclusioni tratte, anche se difformi dal prevalente indirizzo giurisprudenziale e/o dottrinario; h) dimostrazione della padronanza delle scelte difensive e delle tecniche di persuasione per ciò che concerne, specificamente, l’atto giudiziario». Dal corposo ed articolato elenco di criteri valutativi si dovrebbe ragionevolmente ritenere che il giudizio apposto su ogni elaborato dalla sottocommissione correttrice sia fornito di motivazione, seppur sintetica – che non si esaurisca in una clausola di stile – se non esaustiva quantomeno intelleggibile, in modo tale che ogni candidato possa comprendere le ragioni per le quali non è stato ammesso a sostenere la successiva prova orale. Dovrebbe quindi essere possibile vedere una correzione vicino ad un errore ortografico, si dovrebbero comprendere le motivazioni di un elaborato ritenuto poco chiaro, non pertinente od incompleto, oppure andrebbe spiegata la ragione per la quale un candidato ha dimostrato scarsa capacità argomentativa o non padronanza delle scelte difensive e delle tecniche di persuasione. E’ evidente, infatti, che solo la conoscenza dei motivi sottesi alla non ammissione, consentirebbe al candidato che intenda presentarsi l’anno successivo di prepararsi adeguatamente – correggendo gli errori commessi l’anno precedente – proprio per raggiungere quel grado di preparazione tecnica che l’esame di stato mira a garantire. Così non è. Il giudizio espresso su ogni elaborato è costituito da un numero. Una votazione numerica compresa tra 0 e 50 ed «alla prova orale sono ammessi i candidati che abbiano conseguito, nelle tre prove scritte, un punteggio complessivo di almeno 90 punti e con un punteggio non inferiore a 30 punti per almeno due prove». Ma come è possibile comprendere da un numero, da una votazione, se l’elaborato scritto sia grammaticalmente, sintatticamente od ortograficamente errato, oppure se sia illogico, privo di sintesi, non pertinente alla traccia assegnata od, ancora, se sia indice di non padronanza delle scelte difensive o delle tecniche di persuasione? Non è dato saperlo. Se, come ebbe modo di scrivere Voltaire, «il grado di civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri», allora non deve stupire se un paese incivile abbia un esame di abilitazione all’esercizio della professione forense altrettanto incivile. Un sistema autoreferenziale giuridicamente inaccessibile. Non sono così peregrine, allora, le numerose eccezioni di legittimità costituzionale di questo sistema di valutazione degli elaborati scritti sollevate da avvocati e recepite dai tribunali amministrativi regionali investiti dai ricorsi presentati dai svariati candidati non ammessi all’esame orale. L’espressione del giudizio attraverso il solo voto numerico – che di fatto non consente al candidato non ammesso alla prova orale di sapere le ragioni per le quali il suo elaborato è stato giudicato insufficiente – comporta un difetto di trasparenza in contrasto con il principio di imparzialità che postula la conoscibilità e pubblicità delle scelte amministrative anche tecniche (art. 97 Cost.), nonché con il principio di uguaglianza e di pari dignità di tutti i cittadini di fronte all’esercizio del potere amministrativo (art. 3 Cost.), lede il diritto di difesa ed alla tutela dei diritti e degli interessi legittimi contro gli atti amministrativi di ogni candidato (artt. 24 e 113 Cost.) ed, infine, contrasta con l’interesse legittimo – avente natura sostanziale e non solo processuale – degli stessi candidati all’accesso al lavoro (artt. 4 e 41 Cost.). Nonostante l’art. 3 della legge n. 241/1990 preveda che «ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti (…) lo svolgimento dei pubblici concorsi deve essere motivato» – la cui finalità è quella di rendere trasparente e controllabile l’esercizio del potere discrezionale della pubblica amministrazione – Consiglio di Stato prima e Corte costituzionale poi, hanno sempre tenuto una linea di assoluta intransigenza. La quarta sezione del Consiglio di Stato nella sentenza n. 2557/2010 ha infatti ritenuto che «i provvedimenti della commissione esaminatrice (…) vanno di per sé considerati adeguatamente motivati, quando si fondano su voti numerici, attribuiti in base ai criteri da essa predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, valendo comunque il voto a garantire la trasparenza della valutazione; né può sostenersi che la circostanza che sugli elaborati di un concorso pubblico non sia stato apposto alcun segno grafico di correzione sia elemento significativo da cui desumere la carenza di motivazione, sia perché essa non può significare che la prova non sia stata oggetto di correzione, sia perché la necessaria correlazione con i predeterminati criteri di valutazione è comunque garantita dalla graduazione ed omogeneità delle valutazioni effettuate mediante l'espressione della cifra del voto, con il solo limite della contraddizione tra specifici ed obiettivi elementi di fatto, criteri di massima prestabiliti e conseguente attribuzione del voto». Dal canto suo la Corte costituzionale nella sentenza n. 175/2011 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 17-bis, 23 e 24 del regio decreto n. 37/1934 sollevate dal tribunale amministrativo della Lombardia sostenendo che il «punteggio, già nella varietà della graduazione attraverso la quale si manifesta, esterna una valutazione che, sia pure in modo sintetico, si traduce in un giudizio di sufficienza o di insufficienza, a sua volta variamente graduato a seconda del parametro numerico attribuito al candidato». «Il punteggio espresso deve trovare specifici parametri di riferimento nei criteri di valutazione contemplati dall’art. 22 del regio decreto-legge n. 1578/1933» – ed integrati ogni anno dalla commissione centrale – «ed è soggetto a controllo da parte del giudice amministrativo che, pur non potendo sostituire il proprio giudizio a quello della commissione esaminatrice, può tuttavia sindacarlo, nei casi in cui sussistano elementi in grado di porre in evidenza vizi logici, errori di fatto o profili di contraddizione ictu oculi rilevabili, previo accesso agli atti del procedimento». Come è possibile rilevare «vizi logici, errori di fatto o profili di contraddizione» da un numero? Come è possibile comprendere da un numero se l’elaborato scritto non sia sufficiente a rispondere ai parametri previsti dall’art. 22 del regio decreto-legge n. 1578/1933, integrati ogni anno dalla commissione centrale istituita presso il Ministero della giustizia? E’ questo il vero interrogativo al quale Consiglio di Stato e Corte costituzionale dovrebbero rispondere, magari con ampia ed articolata motivazione, della quale tuttavia nelle due sentenze citate non v’è traccia. La reale ragione per la quale è sufficiente il solo giudizio numerico è una e molto semplice: se ogni elaborato avesse un giudizio costituito da una motivazione apprezzabile e non già da una manifestamente apparente, la medesima motivazione, qualora viziata, errata o contraddittoria se rapportata al giudizio dell’elaborato scritto, sarebbe oggetto di massiccio ricorso al tribunale amministrativo regionale. Una volta compreso che nessun candidato non ammesso all’esame orale abbia la possibilità di correggere le proprie mancanze in vista dell’esame dell’anno successivo e che tale sistema è protetto dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale, è agevole intuire che il vero obiettivo dell’esame di stato non sia quello di garantire un livello di preparazione e professionalità minimo della classe forense. Inizia quindi a prendere corpo la risposta al quesito iniziale e cioè quale sia la finalità dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense. La vera finalità dell’esame. Nonostante non sia esplicitato in nessun documento ufficiale o reso noto da nessuna commissione od Ordine Forense, la finalità sommersa ma reale ed unica dell’esame di stato è quella di limitare il più possibile l’accesso all’ordine forense di coloro i quali ogni anno intendano esercitare la professione d’avvocato. Il motivo è molto semplice: siamo troppi. Circostanza assolutamente vera ed inconfutabile se si considera che attualmente nella sola Lombardia esistono circa 32.000 avvocati quando in tutta la Francia – che ha 2 milioni di abitanti in meno dell’Italia (65 milioni e 67 milioni) – gli avvocati sono circa 47.000. Quindi non è un caso se ogni anno mediamente accedono all’esame orale, nel distretto di corte d’appello di Brescia, circa 300 candidati (330 nel 2014, 290 nel 2013, 300 nel 2012, 207 nel 2011, 258 nel 2010, 272 nel 2009, 172 nel 2008, 525 nel 2007, 400 nel 2006). Non è un caso se nessun avvocato oggi scrive manualmente un’istanza od un parere scritto – quando richiesto dal cliente – dovendo preoccuparsi di avere una calligrafia chiara e comprensibile al suo lettore; non è un caso se nessun avvocato oggi redige un atto d’appello avvalendosi delle sole massime di giurisprudenza riportate sui codici commentati e non già delle banche dati e delle riviste giuridiche, facoltà che – tra l’altro – a partire dall’anno 2017 non sarà più concessa. Se la finalità è quella – del tutto ragionevole – di ridurre l’accesso alla professione forense allora sarebbe più logico, efficace e soprattutto equo, apporre il filtro a monte e non a valle del percorso formativo dei giovani diplomati che intendano intraprendere questa strada: bisognerebbe introdurre il numero chiuso per limitare l’accesso alla facoltà di giurisprudenza, rendere tale università veramente selettiva e formativa. E’ del tutto inutile e persino dannoso se non addirittura illusorio ridurre il periodo di pratica forense da 2 anni ad 1 anno e 6 mesi come ha recentemente stabilito l’art. 5 della legge n. 247/2012 recante la “nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, come se l’apprendimento – effettivo – della professione forense potesse essere concentrato solamente in 18 mesi. La vera selezione della classe forense, infatti, è svolta dal tempo: un avvocato solo dopo anni di professione dignitosa e decorosa può realmente comprendere se gode di considerazione e stima nell’ambito della sua professione, dovendo egli meritare la fiducia dei suoi assistiti solamente attraverso la sua capacità professionale, la sua rettitudine e la considerazione che hanno di lui i colleghi e non già per la sua furbizia nel proporsi. Sarebbe dunque più equo e meritocratico – ed allo stesso tempo altrettanto selettivo – introdurre criteri di valutazione realmente oggettivi e comprensibili ai candidati che solo il test con quesiti a risposta multipla è in grado di garantire (come accade per l’esame di abilitazione alla professione di commercialista od all’ingresso dei laureati in medicina nelle varie specializzazioni professionali), magari prevedendo la soglia di promozione ed accesso all’esame orale prossima al anche 90% delle risposte corrette. Vi è tuttavia da segnalare che la nuova legge professionale forense prevede che a partire dall’anno 2015 la commissione esaminatrice debba annotare «le osservazioni positive o negative nei vari punti di ciascun elaborato, le quali costituiscono motivazione del voto che viene espresso con un numero pari alla somma dei voti espressi dai singoli componenti». Non rimane che attendere l’esito delle correzioni dei primi compiti per comprendere se «le osservazioni positive o negative» si esauriranno in semplici clausole di stile del tutto inidonee a costituire una motivazione apprezzabile oppure se consentiranno un effettivo controllo della correlazione tra la votazione numerica ed i parametri di valutazione stabiliti dalla commissione centrale istituita presso il Ministero della giustizia. La confisca di un anno di vita da parte dello Stato. Il praticante avvocato abilitato al patrocinio – cioè autorizzato ad assumere la difesa di persone imputate di reati per i quali è prevista una pena non superiore a 4 anni di reclusione e per il solo processo di primo grado – non ammesso all’esame orale non ha molte alternative: non può colmare le proprie lacune perché non gli è consentito sapere quali esse siano; nell’attesa del bando d’esame dell’anno successivo non gli è consentito ottenere una fonte di reddito alternativa a quella della propria professione – che non è abilitato a svolgere – perché, come qualsiasi altro avvocato, egli è sottoposto alle ipotesi di incompatibilità che la nuova legge professionale forense prevede al proprio art. 18, secondo il quale la professione è «incompatibile: a) con qualsiasi altra attività di lavoro autonomo; b) con l’esercizio di qualsiasi attività di impresa commerciale; c) con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario limitato». Il praticante, quindi, se collabora con un avvocato serio viene retribuito con «un compenso adeguato» come previsto dall’art. 40 del codice deontologico forense, se invece collabora con un avvocato meno serio e meno incline al rispetto delle norme deontologiche, è fortunato quando riceve una formazione proficua ma gratuita, è poco fortunato quando è ridotto a svolgere delle mansioni che non gli competono ovviamente non retribuite. Il praticante abilitato al patrocinio, non può neppure lavorare attivamente ed incrementare il proprio livello di preparazione e professionalità. Oltre allo studio degli atti processuali ed alla ricerca giurisprudenziale – prodromiche all’udienza –, l’attività di vera formazione dell’avvocato (soprattutto di quello penalista) è quella che viene svolta nelle aule di tribunale. Solo partecipando attivamente ai processi, infatti, il praticante può imparare ad interrogare testimoni dell’accusa e della difesa (quali domande porre e come formularle), prendere decisioni improvvise dettate da circostanze verificatesi nel corso dell’udienza e sollevare eccezioni processuali oppure prendere parte alla discussione orale che conclude il processo. Tali attività, dopo 77 anni dal loro ininterrotto svolgimento, dal 2010 sono precluse al praticante abilitato al patrocinio nel caso in cui il suo mandato defensionale non derivi direttamente dal cliente ma sia comunicato dall’ufficio della procura della Repubblica presso il tribunale che vi deve necessariamente provvedere prima del compimento di determinate attività d’indagine o processuali. La Corte costituzionale nella sentenza n. 106/2010 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 del regio decreto-legge n. 1578/1933 nella parte in cui prevede che i praticanti avvocati abilitati al patrocinio possano essere nominati difensori d’ufficio. La Corte costituzionale dopo avere premesso che «la differenza tra il praticante e l’avvocato iscritto all’albo si apprezza non solo sotto il profilo della capacità professionale (che, nel caso del praticante, è in corso di maturazione, il che giustifica la provvisorietà dell’abilitazione al patrocinio), ma anche sotto l’aspetto della capacità processuale, intesa come legittimazione ad esercitare, in tutto od in parte, i diritti e le facoltà proprie della funzione defensionale», indica due sintetiche ragioni. «In primo luogo, il praticante iscritto nel registro, pur essendo abilitato a proporre dichiarazione di impugnazione, non può partecipare all’eventuale giudizio di gravame». Vero. Ma la Corte avrebbe dovuto chiedersi cosa accadeva ed è accaduto durante i 77 anni precedenti. Il praticante avvocato portava a termine il suo mandato con la conclusione del processo di primo grado: in caso di condanna, se riusciva a mettersi in contatto con il cliente gli suggeriva di nominare un avvocato di fiducia affinché redigesse l’atto d’appello e lo difendesse nel secondo grado di giudizio oppure presentava la dichiarazione di impugnazione e la corte d’appello provvedeva a nominare un difensore – avvocato – d’ufficio. La seconda ragione consiste nella circostanza che «il praticante si trova, inoltre, nell’impossibilità di esercitare attività difensiva davanti al tribunale in composizione collegiale, competente in caso di richiesta di riesame nei giudizi cautelari». Sorprende come la Corte costituzionale ignori o abbia voluto ignorare che la stragrande maggioranza dei reati per i quali il praticante avvocato può assumere il patrocinio (previsti dall’art. 550 del codice di procedura penale con l’aggiunta dei reati che furono di competenza del pretore) non comportino la possibilità di applicare misure cautelari. Ma cosa accadeva ed è accaduto durante i 77 anni precedenti? E’ evidente che in precedenza nel caso in cui veniva disposta una misura cautelare era nominato d’ufficio un avvocato, in caso contrario poteva anche essere nominato d’ufficio un praticante abilitato al patrocinio. Tutto ciò dal 2010 non è più possibile. L’unica sua fonte di clientela e di lavoro può scaturire unicamente dalla nomina di fiducia: non è difficile comprendere come un praticante che si sia appena affacciato alla realtà forense – che vanta così tanti avvocati – veda ridotta vicino allo zero la possibilità essere nominato di fiducia da un cliente. E’ allora agevole intuire che al praticante abilitato al patrocinio non ammesso all’esame orale di alternativa ne rimane una sola: lasciare trascorrere l’anno solare nel quale egli non può migliorare la propria preparazione in vista dell’esame, non può aumentare il livello della propria professionalità perché non gli è consentito “lavorare” nelle aule di tribunale; quello stesso anno di vita che lo Stato, attraverso l’esame di abilitazione così strutturato, con finalità non dichiarate, e protetto dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale, ha deciso di confiscare. In realtà è ben triste rilevare in conclusione come sia alquanto attuale il pensiero del filosofo e giurista inglese Jeremy Behntam, il quale nella sua opera principale pubblicata nel 1789 “Introduzione ai principi della morale e della giurisdizione” aveva già constatato un’evoluzione storica della giurisprudenza inversa a quella delle altre scienze: se in queste «si vanno sempre più semplificando le procedure rispetto al passato; nella giurisprudenza le si vanno sempre complicando. E mentre tutte le arti progrediscono moltiplicando i risultati con l’impiego di mezzi più ridotti, la giurisprudenza regredisce moltiplicando i mezzi e riducendo i risultati».

TI SEI DIVERTITO? (OVVERO L’ESAME DI AVVOCATO), scrive Federico Baccomo su “Studio Illegale”. Nonostante quello che si può pensare, io non sono nato Avvocato. Ero uno qualunque prima che il superamento di un esame mi elevasse a un rango tale per cui la gente sbadiglia quando dico di cosa mi occupo. Dicevo. Ho superato un esame per essere quello che sono. Io, che vivo la mia vita professionale come un totano nella rete, ho superato un esame per essere quello che sono. Lo ripeto perché mi sembra molto divertente. Ed è questa la caratteristica principale dell’esame d’avvocato. E’ una delle cose più divertenti che possa capitare di fare. Scherzi, lazzi, giochi, burle. In una parola, un gran divertimento. Come ogni esame che si rispetti, l’esame d’avvocato è diviso in due fasi: lo scritto e l’orale. E questo sembra quasi banale. Ma sarebbe un errore pensarlo, perché, a differenza di ingegneri, architetti o altri professionisti poco spiritosi, la cosa divertente del nostro esame è che tra i due momenti – scritto e orale – può passare anche un anno. Un anno. Ci pensano le commissioni d’esame a creare la giusta suspence, rilasciando i risultati dopo sei/sette mesi dallo svolgimento delle prove, con il popolo dei candidati che, al rullare dei tamburi, dice “oooooooooOoOoOOOOOOOHHH”. E sembra proprio di stare allo stadio prima di un rigore. Un rigore con una rincorsa di sette mesi. Spassosissimo. E, per quelli che ce l’hanno fatta a fare centro, una media di altri tre/quattro mesi prima di sostenere l’orale. Col risultato di un esame che, come un bellissimo e lunghissimo gioco, occupa un anno di vita. Questo io lo trovo assolutamente divertente, perché permette di assaporare mille sensazioni (tra cui, l’ansia, l’agitazione, l’angoscia, l’amarezza, la demoralizzazione, ecc.) e di sentirsi gioiosamente parte di un felice meccanismo di selezione. Per alcuni colleghi, poi, è tutto ancora più divertente. Siccome può capitare che l’iter si prolunghi oltre l’anno senza che siano riusciti a sostenere l’esame orale, sono costretti, in attesa dell’orale, a rifare l’esame scritto nonostante l’abbiano già passato l’anno prima. E’ uno scherzo bellissimo. E loro si divertono molto, essendo persone che sanno stare al gioco. Certo, alcuni, all’inizio, si arrabbiano un po’, sostenendo che il Consiglio nazionale forense si disinteressa della dignità o della sorte dei suoi futuri appartenenti. Ma poi lo capiscono subito che è solo un bellissimo scherzo. Anzi, io credo che il Consiglio semplicemente voglia che il candidato arrivi al titolo con gradualità. Il successo, quando è improvviso, può dare alla testa. E poi si diventa presuntuosi. E non ci si diverte più. Oggi, è cominciato l’esame scritto. Dura tre giorni. Tre giorni per tre elaborati: un parere in materia civile, un parere in materia penale e un atto su una materia a scelta (civile, penale, amministrativo). A questo punto, in maniera molto superficiale, ci si potrebbe chiedere: io che mi occupo di fusioni e acquisizioni societarie, perché devo svolgere un tema d’esame su Caia, vicina di Tizio, che sbatte i tappeti fuori dalla finestra? Ha Tizio diritto a un risarcimento per il danneggiamento del cortile? E se Caia compie l’azione di pulitura del tappeto tutta nuda, ci sono profili per riconoscere la legittimità del gesto? Di più, sempre ingenuamente, si potrebbe notare che un chirurgo non è tenuto a saper curare una carie o un cardiologo a saper togliere le emorroidi. E allora perché l’avvocato deve provare di conoscere la disciplina del matrimonio e quella del tentato omicidio, la contrattualistica e il diritto condominiale, l’infanticidio e il contratto di locazione? Ma questo, come si diceva, è tutto frutto di ingenuità. E l’Ordine degli Avvocati non risponde all’ingenuità. E poi, finché il cliente paga, queste sono quisquilie di cui possiamo anche non tenere conto. Il fatto è che si fanno tre prove scritte per divertirsi. Presentarsi per tre giorni in un capannone dove solitamente tengono la fiera del ciclo e motociclo, insieme ad altri 3000 ragazzi, stipati in banchetti di 40×80, dalla mattina alle 8.00, per uscirne solo intorno alle 19.00, è qualcosa di molto divertente. Sembra un po’ di stare in colonia. Si mangiano i panini fatti in casa, ci si ritrova nei bagni per parlare, si fanno tante amicizie. E, proprio come in colonia, alle volte viene da piangere, con la malinconia della mamma. Ma è solo un attimo e poi si torna tutti a ridere felici. Purtroppo, però, si sentono dire tante cattiverie. In particolare, è facile sentire tanta gente che non sa stare allo scherzo dire una certa parola e fare la faccia di chi ha capito tutto. La parola in questione è Catanzaro. Catanzaro per un avvocato non è solo il capoluogo della Calabria. Catanzaro è un simbolo. Catanzaro è la Mecca del praticante avvocato. A Catanzaro, nel 1997, avvenne qualcosa di molto bello. I commissari d’esame, la mattina di una delle prove, entrarono con un foglio in mano e dissero: “Ora fate attenzione perché non ripeteremo”. E cominciarono a dettare la soluzione del compito. Pensate quante risate si sono fatti quando il 98% dei candidati ha passato l’esame, mentre nella maggior parte del resto d’Italia le teste dei candidati cadevano impietosamente (con percentuali tra il 10 e il 30% di promossi). Furono in 6 su 2.301 a non copiare. Naturalmente furono i meno spiritosi. Perché quando si scherza, è importante fare gruppo. Poi successe che qualche malvolente magistrato mise in piedi un’inchiesta, ma si scoprì presto che anche quello era solo un gioco e all’esito del processo si è festeggiata una prescrizione da tutti attesa e felicemente accolta. In fondo a Catanzaro quella era la tradizione. E, ancora più in fondo, si stava solo giocando. Chi non ha mai sbirciato le carte di quello andato al bagno? Chi non s’è mai aggiunto delle armate sulla Kamchatka mentre gli altri erano distratti? Chi non ha mai mosso un pochino il maglione per stringere la porta quando giocava a calcio ai giardinetti? Il legislatore, tuttavia, in quel caso se ne ebbe un po’ a male ed orchestrò una soluzione. Oggi, per evitare ingiustizie, si procede così: da ogni sede d’esame, partono alcuni tir che portano i compiti svolti, per esempio, a Roma e li fanno correggere a, per esempio, Bologna. E’ un po’ come se a scuola, invece di mantenere la disciplina durante un compito, si lasciassero gli studenti a fare quello che gli pare e poi si prendessero i temi e si facessero correggere alla professoressa del piano di sotto. E’ evidente che è tutto uno scherzo. Uno scherzo ancora più gustoso se si pensa a quanto può essere professionalmente importante questo esame per un ragazzo che impiega un paio di anni per potervi accedere. Come si vede, le premesse per divertirsi ci sono tutte. Ah… quanti ricordi che ho anche io del mio esame. Ricordo che, alla vigilia, ho dovuto presentarmi insieme a tutti gli altri candidati, con un trolley pieno di codici e una catena, presso la sede della Fiera Campionaria. Dopo cinque ore di coda, ho potuto raggiungere il mio banco all’interno di un enorme capannone e lì ho legato il bagaglio. I candidati, infatti, devono portare all’esame il proprio materiale di consultazione. I commissari d’esame, furbi come lepri marzoline, pretendono, però, di controllare tale materiale affinché nessun furbacchione introduca libri non autorizzati e/o bigliettini e/o note e/o appunti. E allora si deve passare in mezzo a una serie di controlli di questo manipolo di giovani e meno giovani professori/magistrati/avvocati che giocano al sergente controllore, per vedersi approvati i propri codici. Ogni codice ha più di 5.000 pagine. Ogni candidato ha almeno 4 codici. 3.000 i candidati. Che fanno 60.000.000 di pagine da controllare. A rifletterci ora, a mente fredda, sono stato fin troppo pessimista, visto che avevo infilato gli appunti nei calzini. Quello che non ci stava nei calzini, comunque, l’avevo messo in una tasca del trolley che non è stata aperta. Tutto questo avviene il giorno prima dell’inizio dell’esame, quando il candidato è in quello stato d’animo di contagiosa gioia che anima chiunque alla vigilia di una prova e lo spinge a riversarsi in piazza. Chi di noi ha bisogno di concentrarsi, studiare e/o rilassarsi? A noi piace fare una coda di ore, nella Milano di dicembre, per farci perquisire come terroristi legali. E anche tutto questo contribuisce al divertimento. E poi cominciò l’esame vero e proprio. Gli epici tre giorni. Ma quello che ivi avvenne – tra commissari compiacenti, errori nella dettatura dei temi d’esame, carabinieri che sorvegliavano i cessi, tentativi di rimorchio, svenimenti, acrobatici suggerimenti, scene isteriche, allarmi in funzione per ore, ecc. – non lo posso raccontare. Fa parte di quei ricordi personali che noi ex praticanti serbiamo nel cuore tra le cose più care e per i quali non esistono parole. (Dedicato a N. che ha fatto l’esame sette volte. Poi l’ha passato. E la moglie l’ha lasciato.).

Esame di Stato per Avvocato: vi racconto cosa accadde…Ogni anno, come sovente, tutte le sedi dell’Esame di Stato per Avvocato (una per ogni Corte d’Appello) saranno prese d’assalto da migliaia di fiduciosi, ma spesso scettici, aspiranti avvocati che, date le difficoltà dell’esame stesso (e forse la “quantità industriale” di avvocati già presenti sul territorio nazionale), spesso si ritrovano a essere puntualmente respinti e a doverlo ripetere ad oltranza (per fortuna ci sono sempre i “bravi e fortunati” che riescono a superarlo in un batter di ciglio e in prima battuta!). Anche quest’anno stressatissimi giovani avvocati già “giurati”, dunque, dopo aver studiato per mesi o dopo aver ripetuto per l’ennesima volta gli stessi codici, leggi e decreti, si recheranno nelle sedi dell’Esame di Stato per Avvocato con un sicuro altissimo livello di ansia e di tensione, spesso acuite dallo stesso contesto. Leggende metropolitane(?) raccontano di un ambiente alquanto “rigido” dove spesso il concetto di giustezza e di liceità nel modus operandi delle persone deputate a garantire l’ordine e la legalità di questo ufficialissimo “evento” pubblico, talvolta si confondono e vengano interpretati in maniera piuttosto personale ed arbitraria. Non basta, quindi, a quanto pare, aver sudato già le “doverose” sette camicie di rito per laurearsi in legge, non basta aver sopportato ingiustizie, angherie e più banalmente la spietata concorrenza dei tanti che prima e dopo di te si sono iscritti a giurisprudenza, non basta aver sopportato un vivere in quegli anni come in un sistema classista e gerarchico dove al vertice si erge quasi con “scettro e pastorale la sacra casta”! Sembra, infatti, che anche dopo, occorra recuperare delle “buone spalle larghe”, augurandosi che bastino per indossare nuovamente almeno altre 7 camicie!

Intervista: lo sfogo di una partecipante all’Esame di Stato per Avvocato, scrive Pasqualina Scalea su “Controcampus”. A tal proposito, a seguire, un’intervista o forse sarebbe più opportuno parlare di uno “sfogo”, una “confessione”, un “racconto” di uno dei tanti aspiranti avvocati campani che ha voluto raccontare per Controcampus la sua ultima esperienza di Esame di Stato per Avvocato in Campania, dopo aver conseguito la laurea presso un’università nella stessa regione. Per ovvi motivi il nostro “quasi avvocato e lettore” di Controcampus rimarrà nell’anonimato, così come preferiamo stendere il silenzio sul luogo specifico di svolgimento dell’Esame di Stato per Avvocato.

Tra qualche mese, a dicembre, ci ritroveremo tutti al patibolo. Ogni anno la percentuale dei promossi all’esame di stato per avvocato, è più bassa dell’anno precedente. Pertanto, se non ti dispiace, comincerei dalla fine invece che dal principio, giusto per rendere spiegabile l’ansia e la frustrazione che ognuno di noi vive nel corso dei tre giorni di esame. E’ chiaro a tutti che ormai la volontà politica generale è quella di ridurre il numero degli avvocati. La maggior parte dei parlamentari è un avvocato e nessuno ama la concorrenza. Siamo rimasti tra (se non l’unico) Paese in Europa ad aver mantenuto un esame di stato per avvocato per l’accesso alla professione quando, invece, la selezione dovrebbe farla il mercato. Tra l’altro ci si dovrebbe interrogare su questa riflessione: se alcuni anni fa a superare l’esame erano il 96% dei candidati e oggi il 17-30% cosa vuol dire? Che tutti gli incapaci sono nati nelle ultime due generazioni o che molti degli ATTUALI avvocati sono in realtà degli incapaci? Allora perché non fare un esame per restare nell’albo? Troppo pericoloso, forse? Cane non morde cane?"

“C’è, poi, un altro paradosso che devi conoscere. Dopo un anno di pratica è possibile sostenere un giuramento (che non prevede alcun esame ma solo la lettura di una formula) e patrocinare cause per un valore non superiore a € 25mila. Io, grazie a questo nulla osta, ho oggi un fatturato di circa diecimila euro (e nessuna di queste pratiche mi è stata passata da mio padre, per chiarirci). Questo “nulla osta” vale per sei anni dal momento del giuramento; dopo di che, se non hai superato il famoso esame di stato per avvocato, non può più patrocinare. Dunque, il paradosso: dopo un anno di pratica appena, posso patrocinare ma dopo 7 anni di pratica, cause mie, un mio fatturato, no. Allora? Come si spiega? Si spiega col fatto che i patrocinanti con il nulla osta sono utili a quegli avvocati che non possono andare in udienza e mandano questi ragazzi (a costo generalmente pari a zero! Per essere chiari l’ho fatto e lo faccio anche io). Il nulla osta esiste solo per questo. Ma quando questi ragazzi, manovalanza a costo zero, diventa concorrenza, diventano degli incapaci.”

“E continuo dalla fine, posso?” La correzione dei compiti: vogliamo parlarne? Una farsa. Nel mio caso (che è uguale a quello di tutti gli altri, non sono una vittima) tre compiti di almeno 4 pagine intere ciascuno. Corretti con una media di due minuti e mezzo, senza alcun segno di correzione. Assolutamente plausibile credere che non siano stati letti, no? Anche perché nella sostanza, col senno di poi, si è in grado di dire se uno ha scritto sciocchezze o cose giuste. Le mie erano cose giuste! E, voglio dire, non esiste solo il massimo dei voti ma anche la sufficienza. Pare che se ne siano dimenticati!"

“Ho visto i compiti di alcuni miei amici che li hanno fatti uguali (sì hanno copiato tra di loro), te lo giuro, IDENTICI (qualche sinonimo qua e là del tipo o-oppure, inoltre-in più, etc.) con voti assolutamente diversi: un promosso a voti pienissimi, una promossa “rosicata”, un bocciato che con quei voti avrebbe dovuto ritirarsi. Mah! E andiamo alla tre giorni dello scorso anno. Io l’ho sostenuto già due volte e posso farti un paragone. La prima volta è stato tutto molto tranquillo, forse fin troppo; i membri della commissione ti davano una mano, se chiedevi un consiglio te lo davano (ok, ognuno diverso dall’altro il che ti metteva in crisi…chi aveva ragione? Ma almeno ci provavano), se chiedevi un bicchiere d’acqua, mamma mia, te lo portavano (devi sapere che non ci sono distributori, quindi se ti sei portata qualcosa, bene se no, niente). Devo essere sincera il primo anno fu un po’ anche un paradosso: ho visto cellulari sui banchi e gente che copiava dallo schermo. Ora dico, anche questo forse era troppo, ma il secondo anno (2010) è stato assurdo.”

“Intanto si è presentato questo ispettore “mandato direttamente dal ministro Alfano per vigilare sul Concorso”. Ecco, appunto. Non è un CONCORSO. E’ un esame di stato per avvocato ma da ignorante qual è, non conosce la differenza. Il secondo giorno si è presentato in compagnia di un membro importante dell’ordine forense, personaggio veramente ignobile, secondo me. Non una parola di sostegno, no, contro di noi a trattarci come criminali. Ci ha detto insieme all’ispettore che chi copiava commetteva reato (anche su questo vorrei aprire una parentesi: I REATI SONO SOLO QUELLI PREVISTI DAL CODICE PENALE. Non è un reato “copiare”, al massimo è un illecito amministrativo tant’è che tra i trenta/cinquanta espulsi dello scorso anno nessuno è stato perseguito).”

“L’ispettore e i suoi bravi giravano nelle classi, ci fermavano davanti ai bagni e nei corridoi e ci urlavano addosso. Ecco, nella mia esperienza personale questo tizio mi ha urlato in faccia “Che cos’hai? Caccia quello che hai! URLAVA, con dei modi!!!! “Io ti faccio perquisire” se non che con molta calma gli ho detto “Guardi che lei mi sta trattando come una criminale ma io nella mia vita non ho neanche mai preso una multa”. Un’umiliazione, uno stress, una tensione che ci-mi faceva stare fisicamente male. Io mi sono sentita malissimo. Non mi sono mossa dal banco. Qualcuno dirà, chi non aveva nulla da temere non doveva avere paura. Non è così. Per la prima volta l’ho capito. Era l’aria che si respirava, quel modo di fare, di urlare che faceva stare male. Ogni tanto qualcuno della commissione o qualche esaminando entrava in aula e diceva, fuori un altro! Hanno espulso una quantità di gente. E, mi risulta, anche qualcuno “sulla base del sospetto” il che ovviamente non si può fare (ma questi sono fortunati, se fanno ricorso, lo vincono necessariamente). Una ragazza al momento della consegna dell’ultimo compito si è abbassata per firmare e l’ispettore ha visto o ha creduto di vedere una sagoma nella tasca dei jeans e le ha urlato di cacciare il cellulare. La ragazza (sangue freddo) ha detto che erano sigarette, che lui non poteva metterle le mani addosso e che quindi se ne andava. L’ha trattenuta chiedendo a dei militari (mi pare finanzieri) di perquisirla ma si sono rifiutati. La perquisizione è possibile solo per armi e droga e su mandato di un giudice. Non può venire un tizio qualsiasi a dire, perquisitela (una donna poi!). Forse anche l’ispettore dovrebbe rifare l’esame di stato per avvocato. Ma questo non tutti lo sapevano o hanno avuto la lucidità di dirlo e sembra che nei bagni la polizia (femminile) abbia chiesto alle ragazze di levare gli stivali e alzarsi le maglie. Nemmeno questo possono fare. Perfino all’aeroporto per farti levare le scarpe TE LO CHIEDONO e non te lo intimano e ti danno dei calzini.”

“Alla fine, mia cara chi doveva copiare ha copiato comunque. Chi aveva i suoi santi in paradiso ha ricevuto il compito bello e fatto e amen. Come al solito la mano dura colpisce quelli che sono soli. Nel mio caso, il giorno del terrore è stato il secondo, compito di penale. Quando quello mi ha urlato addosso, a me veniva da piangere e non mi sono mossa più, non ho parlato più con nessuno (anche se lì è un vociferare continuo). Quel giorno sapevo di essermi giocata l’esame e il terzo giorno sono andata spavalda. Non avevo altro da perdere (e non sbagliavo). E come me ho avuto l’impressione che fossimo tutti più spavaldi, consapevoli. Metterceli contro, non ci pesava più. Non li avremmo più rivisti e molti sapevamo che ormai il dado era tratto (in negativo). Ho camminato spavalda nei corridoi e amen. L’ispettore sembrava quasi spaventato e, infatti, alla fine non è uscito se non dopo molte ore e scortato.”

“Ci hanno trattato come criminali e invece stavamo solo facendo un esame di stato farsa e tra i banchi a controllarci c’erano molte persone che mi chiamano “collega” in udienza, mi chiedono favori, non di rado “consigli” e cercano di trattare con me le loro cause (perse)!”.

Un esame all'italiana, scrive “Pensiero Precario”. Venerdì 20 giugno 2014 sono usciti i risultati della prova scritta dell’esame di stato di avvocato 2013/2014 che ha suscitato gioie ma soprattutto dolori, pianti, polemiche, rabbia, sconforto. E’ normale. Dopo 2 anni di praticantato (ora 18 mesi) - spesso e volentieri non pagato o sottopagato - il praticante si ritrova a dover superare un doppio esame (scritto e orale) che potrebbe (e sottolineo potrebbe) finalmente dargli la chance di una vita normale. Diventare avvocato al giorno d’oggi non vuol dire più molto. Non ha di certo il significato che poteva avere anche solo 20 anni fa. Per la maggior parte delle persone oggi diventare avvocato vuol dire avere uno stipendio senza dover soccombere alle leggi del mercato che vedono il praticante un “nessuno” senza alcuna tutela, forza lavoro in eccesso e pertanto non retribuibile. Per molti pertanto, diventare avvocato significa raggiungere una posizione socialmente riconosciuta, ottenere un minimo potere contrattuale che permette di strappare al proprio datore di lavoro il tanto agognato corrispettivo. Tuttavia, non è sulla condizione dei praticanti avvocati che voglio soffermarmi. Ne uscirebbe un discorso troppo lungo per quanto meritevole di attenzione. Il trattamento vergognoso a cui questi sono soggetti non è una novità, ma in un momento di crisi del genere la drammaticità di tale condizione viene ancora più in risalto senza che però se ne parli a sufficienza. Qualcosa finalmente è stato fatto. Ora, il nuovo codice deontologico prevede l’obbligo, dopo sei mesi, di retribuzione da parte del dominus nei confronti del collaboratore. Tuttavia si tratta di un provvedimento debole, una finta risposta alle reiterate lamentele di chi si sente umiliato dopo anni di studi e sacrifici. Un’apparenza di cambiamento che non comporterà alcun cambiamento. Parlavo quindi della speranza di diventare avvocato come possibile inizio di una vita normale. Normale nel senso di acquisire quel minimo di indipendenza economica che possa permetterti di chiedere un mutuo, di poter pagare un affitto e iniziare a costruire una famiglia, di poter affrontare le piccole difficoltà quotidiane senza il continuo ma fondamentale supporto dei propri genitori. Ebbene, la porta d’accesso a tale vita per chi sceglie la professione forense è, nella maggior parte dei casi, l’esame di stato. Un esame apparentemente come gli altri, ma paradossale nelle modalità di svolgimento. Solo a Milano quest’anno ci sono stati circa 3.250 candidati che hanno sostenuto le tre prove scritte all’interno del padiglione della vecchia fiera. Una schiera di aspiranti avvocati che si ritrovano, il giorno prima delle prove, in file interminabili con trolley alla mano, in attesa di entrare in questo enorme hangar che sarà il loro unico riparo per tre lunghi ed intensi giorni. Si entra e si aspettano ore prima che arrivi il proprio turno. Sembra di essere all’imbarco di un aeroporto: metal detector, perquisizione e via, ciascuno (bagaglio alla mano) parte per il proprio personale “viaggio” verso l’acquisizione del titolo. Dopo aver incatenato per bene il trolley (contenente i costosi codici commentati) al banco – ebbene sì, è necessario incatenarli perché in assenza del candidato c’è gente che si diletta a rubarne il contenuto – torni a casa, aspettando con la massima concentrazione ed un po’ di tensione la tre giorni intensiva che ti aspetta. Le voci che girano intorno a quest’esame tuttavia danno l’impressione che la preparazione non sia l’arma sufficiente per svolgere l’esame con successo. Da quanto si tramanda di praticante in praticante, sembra quasi che non esista modo per affrontare nel modo migliore tale prova se non il votarsi a Dio, alla Fortuna o a qualsivoglia entità astratta. Il perché di queste voci è subito svelato il primo giorno della prova. Dopo aver dettato le tracce d’esame e aver dato il via alle scritture, i commissari devono subito cominciare a preoccuparsi di arginare il caos che si crea all’interno dell’enorme stanza. La situazione non è facilmente descrivibile: candidati che passeggiano tra i banchi, modelli di atti e pareri che passano di mano in mano, commissari che tengono banco in mezzo a capannelli di esaminandi che penzolano dalle loro labbra in cerca di un indizio risolutivo, continui richiami all’ordine e alla continenza (ebbene sì, proprio quella considerate le finte code ai bagni). Se volessi paragonare tale situazione ad un’immagine, quell’immagine – con le dovute proporzioni – sarebbe il gran bazaar di Istanbul. Un enorme spazio dove all’interno di centinaia di viette – i corridoi creati tra un blocco di banchi ed un altro – si muovono centinaia di persone che passeggiano e chiacchierano amabilmente. Non c’è che dire, una fortuna per i candidati che possono contare anche sul supporto di migliaia di altre teste. L’unione fa la forza! Peccato che tutto ciò faccia somigliare l’esame scritto ad una farsa, ad una rappresentazione teatrale dell’assurdo più che ad un concorso pubblico. Ed è a quel punto che il pensiero torna ai mesi precedenti: mesi di studio, mesi di esercitazioni, mesi di corsi intensivi. Ritrovi carbonari durante i quali scrivere atti e pareri a profusione secondo schemi e formule predefinite elaborati da scuole iper-costose. Eh sì! C’è il sistema Just Legal Service, c’è il metodo Ius and Law, ci sono i modelli, i trucchetti, i segreti che ogni singolo corso vende ai propri iscritti in cambio di una somma che varia a seconda della validità del metodo insegnato e dei servizi offerti. Non si va mai comunque al di sotto dei 650 Euro e si arriva anche a 3.000 Euro per tre mesi (intensivi) di lezione. Ebbene, nella maggior parte dei casi si scopre subito che tutto quello che i corsi vendono a caro prezzo non è altro che un enorme specchietto per le allodole. Tornando alla tre giorni di prove scritte, dopo aver concluso i compiti ed averli minuziosamente imbustati e consegnati, l’esame diventa pian piano un ricordo annebbiato, che annega nel mare degl’impegni lavorativi e ogni tanto torna a galla grazie alle parole di un collega o un amico. In quel lasso di tempo – 6 mesi per l’esattezza – i candidati vivono in un limbo di incertezze, fra chi ottimisticamente pensa di averlo passato e chi fatalisticamente pensa che sia solo una questione di “fattore C”. Infatti non è forse quella dello svolgimento dell’esame la fase peggiore di tale procedura concorsuale. Ma è il momento della correzione degli scritti. Tralasciando le numerose storie (vere ma non dimostrabili se non con testimonianze di vecchi commissari) sui criteri di selezione officiosi (quali la calligrafia, o peggio ancora, un numero limite prestabilito di candidati ammissibili sulla base di una curva pseudo-gaussiana), è un dato di fatto che: i compiti che vengono “corretti” sono intonsi, senza alcun segno indicativo della parte errata o inopportuna, senza alcuna motivazione scritta del voto assegnato o anche solo dell’esito finale; da verbale risulta che spesso e volentieri i commissari non dedicano tempo sufficiente alla correzione del compito, facendo pensare ad una lettura superficiale (se lettura c’è stata) piuttosto che ad una attenta valutazione di un elaborato di non immediata comprensione. Ma com’è possibile? Perché un concorso pubblico in cui c’è in ballo il futuro professionale di migliaia di persone, per cui molte persone hanno speso molto in termini di tempo, denaro e fatica viene gestito in modo così approssimativo e superficiale? Quali sono gli interessi che spingono coloro che hanno il potere di cambiare lo status quo a non cambiare nulla? Perché fare ancora affidamento su un sistema di valutazione e selezione vetusto, senza criterio e non meritocratico? Apparentemente è un problema comune a tutti i concorsi pubblici tanto da diventare una prassi accettata. Ogni tanto si legge qualche articolo sul tema (relativamente al concorso di magistratura di quest’anno, si veda "Il Fatto Quotidiano"), ma poi inevitabilmente tutto finisce nel dimenticatoio. Il mio grido di protesta vuole essere quello di tutti quegli aspiranti avvocati che amano il loro lavoro, ma che vedono i loro sforzi frustrati da un sistema illogico che accoglie gli incompetenti e troppo spesso allontana dalla professione i meritevoli. Affinchè però il mio grido non sia solo di protesta e distruttivo, con questa lettera voglio anche proporre delle piccole misure (condivise dalla quasi unanimità della base praticante forense – e non solo) che possono portare ad un miglioramento della situazione attuale. Seguirà quindi un elenco dei principali problemi legati alla procedura d’esame di avvocato con le rispettive possibili soluzioni:

1) Il numero eccessivo di candidati

Come spesso si sente dire in giro: “Ci sono più avvocati a Roma che in tutta la Francia”. Effettivamente il numero di laureati in giurisprudenza è elevato. Non essendoci numero chiuso e venendo tale facoltà considerata come una delle più appetibili in termini di sbocchi lavorativi garantiti, molte persone scelgono questa strada. Il problema è che il sistema non è in grado di accogliere tutti questi laureati in giurisprudenza: ci sono i concorsi di notaio e di magistrato, ma non ogni anno e i posti sono pochi; ci sono le aziende ma in questo momento di crisi, anche le offerte provenienti dal privato sono in calo. Cominciare la pratica legale è l’unico modo per avere un posto di lavoro ed un salario certi. Ovviamente ciò crea delle forti distorsioni in tema di diritti del lavoratore: rapporti di lavoro non regolarizzati, paghe da miseria, orari di lavoro eccessivi, tutto questo perché la domanda è elevata e i giovani, pur di lavorare, sono disposti ad accettare tutto. La soluzione quindi è diminuire il numero della forza-lavoro a disposizione. Ciò permetterebbe di acquisire una maggiore forza contrattuale nei rapporti con il dominus, con sicure ripercussioni sulla qualità del lavoro (in termini di mansioni e retribuzione). I modi per contenere ed abbassare tale numero sono molti: 1) numero chiuso alla facoltà di giurisprudenza; 2) abolire la possibilità di andare fuori corso a meno che non si presenti all’università un regolare contratto di lavoro (che appunto certifichi impegni extrascolastici che giustifichino il ritardo negli studi); 3) obbligo di retribuzione del praticante quale condizione necessaria per l’iscrizione e la permanenza nell’Albo (da provare attraverso la presentazione mensile all’Ordine del cedolino/fattura); 4) la previsione di un pre-test a crocette sul diritto civile, penale e amministrativo prima delle tre prove scritte al fine di effettuare una prima scrematura oggettiva basata sulla cultura giuridica generale.

2) Irregolarità nel corso delle prove

Un numero più basso di laureati e praticanti porta ad avere di conseguenza un numero più basso di candidati. Ciò permetterebbe di gestire molto meglio la situazione caotica sopra descritta. Tolleranza zero per chiunque parli, copi, si alzi senza un valido motivo; con i commissari (e i delegati) non si deve parlare se non per questioni di “cancelleria” (fogli aggiuntivi, modalità di correzione di errori ecc…); fissare orari precisi per l’inizio e la fine del compito (in altre parole, dopo le 7 ore si smette di scrivere).

3) Tempi d’attesa biblici

Il numero inferiore di candidati porterebbe un altro vantaggio: ridurrebbe drasticamente il periodo intercorrente tra lo svolgimento delle prove e l’uscita dei risultati. Definire incivile un’attesa di 6 mesi è dir poco.

4) Criteri di correzione poco chiari

Infine ritengo un diritto della persona esaminata l’essere valutato sulla base di criteri certi, oggettivi e ben definiti. E soprattutto, è un diritto del candidato sapere quali siano stati gli errori commessi nello svolgimento delle prove (attraverso le dovute segnalazioni) e, se respinto, la motivazione sulla base della quale i commissari hanno maturato la decisione.

Queste sono solamente alcune delle idee proposte dall'ambiente degli aspiranti avvocati per cambiare questa "porcata" di procedura selettiva. Tante altre sono presenti in blog, forum, documenti più o meno ufficiali, ma rimangono rigorosamente inascoltate. Spero che questo "grido di rabbia" possa scuotere un po' le coscienze e far sì che, anche per la categoria dimenticata dei praticanti avvocati, qualcosa possa cambiare.

Concorso magistratura 2014, “Irregolarità”. Piovono denunce, rischio annullamento. Torna a far discutere il concorsone che aveva rischiato di slittare per il ricorso di un candidato invalido. Dopo le prove alla Fiera di Roma fioccano segnalazioni su codici vietati, tracce già disponibili, commissari compiacenti. Tutto da verificare, ma alcuni candidati varcano la soglia della Procura e il Codacons chiede i verbali. E il Ministero, imbarazzato, per ora tace, scrive Thomas Mackinson su "Il Fatto Quotidiano" del 4 luglio 2014. Si presentano in 7mila, affamatissimi di un posto tra i 365 in palio. Ma qualcosa va storto. Segnalazione dopo segnalazione, prende piede il sospetto che anche gli aspiranti magistrati della Repubblica commettano illeciti d’ogni tipo pur di diventarlo: smartphone imboscati con cui farsi dettare le risposte, tracce diffuse in anteprima da alcuni rispetto alla dettatura per tutti,codici commentati introdotti abusivamente fino al classico compito collettivo. Peggio, i magistrati chiamati a vigilare sulla correttezza della prova, secondo le testimonianze, avrebbero fatto spallucce delle tante segnalazioni rese dai partecipanti, omettendo di prendere gli opportuni provvedimenti, e perfino di verbalizzarle. Insomma, un putiferio sul concorso dei magistrati. E proprio mentre si torna a parlare di riforma della giustizia.  Il concorso incriminato è quello per ordinari della Magistratura che aveva già fatto notizia per il rischio che saltasse tutto, dopo il ricorso di un ragazzo disabile impossibilitato a partecipare alle prove per tre giorni consecutivi (poi scongiurato da una sentenza lampo del Consiglio di Stato). Ma evidentemente il concorso è destinato a fare ancora notizia e forse a saltare davvero, stavolta per annullamento. Bandito con decreto il 30 ottobre 2013 è stato preso d’assalto con 20mila domande. Le prove scritte si sono tenute per tre giorni, 25, 26 e 27 giugno 2014, alla Fiera di Roma. L’ultima, quella di venerdì, sarebbe stata scandita da una serie di irregolarità tali da spingere alcuni candidati a varcare la soglia della Procura di Roma, il Codacons a chiedere i verbali della commissione, molti altri “aspiranti” a organizzare via web una protesta che potrebbe portare in piazza un sacco di gente, il 7 luglio. Sullo sfondo il Ministero che, contattato, non ha saputo fornire alcuna conferma o smentita circa i fatti. Restano una collezione di testimonianze che fioccano da ogni parte e alimentano la polemica, soprattutto sul web. Ad esempio sul sito www.miniterno.it che è il ricettacolo dei commenti pre e post e degli affanni dei concorsisti dilagano ricostruzioni e testimonianze che si spingono alla “parente del commissario con la traccia già scritta in bagno”. Ma c’è anche chi sta raccogliendo testimonianze circostanziate e non anonime, che saranno utili a chi vorrà vederci chiaro. Un giornalista del Corriere Università, Raffaele Nappi, le sta collezionando una ad una visto che di prove documentali (tracce audio-video) anche le vittime dei brogli non ne hanno potute produrre per mancanza di quei supporti che, invece, sembra impazzassero tra i colleghi meno onesti. I problemi sembra abbiano riguardato i padiglioni 3 e 4. “Più di uno aveva codici commentati” e con tanto di timbro del commissario, racconta ad esempio Fabrizio Ruggeri. Che aggiunge: “I candidati con i codici commentati sono stati espulsi. Pertanto, se, a fronte di una irregolarità così macroscopica sono stati espulsi i candidati, è evidente che la Commissione giudicatrice ha ripristinato la regolarità del concorso”. “Ho visto alcuni candidati fare il compito a gruppetti, e la commissione invece di intervenire ha solo chiesto di fare meno rumore”, racconta Giovanni R. Una candidata racconta che, a fronte di nessun controllo su alcuni, ad altri veniva effettuata una perquisizione corporale da criminali di strada, parti intime comprese. Altre testimonianze ancora potranno arrivare dagli avvocati dello studio Santi Delia e Michele Bonetti a loro volta hanno ricevuto diverse segnalazioni e in seguito il mandato da parte di un gruppo di candidati per presentare istanza di accesso al Ministero della Giustizia per chiedere copia dei verbali di concorso. Sullo stesso fronte si muove poi il Codacons che circostanzia la sua azione al caso, l’unico per ora che sembra trovare riscontri netti, di tre candidati in possesso di codici commentati. “Qualora risultasse accertato quanto denunciato – spiega l’associazione in una nota – si determinerebbero serie e gravi responsabilità sia per i 3 candidati autori dell’illecito sia per i membri della Commissione, qualora non abbiano adottato le misure previste dalla legge nei confronti dei tre candidati scorretti”. Insieme a tutto il resto, è un’altra vicenda da chiarire.

TUTTO PER MERITO...NIENTE PER RACCOMANDAZIONE.

Il regime illiberale dei figli di papà, scrive Cesare Alfieri su "L'Opinione". Renzi è incapace di riformare e il nostro Paese è e rimane in un regime illiberale che si sostanzia in un “credo” sinistrorso retorico unanime incarnatosi nella burocrazia totalmente insofferente alla competizione e alla possibilità di governare in base a una concezione diversa da quella di sinistra, movimento che sarebbe alla base della democrazia liberale che, da noi, non esiste. E, infatti, il Paese è fermo. Esemplificativi del corpo amministrativo burocratico sinistrorso che deve cambiare volente o nolente sono Giulio Napolitano e Bernardo Mattarella, rispettivamente figli di Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, presidenti della Repubblica. Giulio Napolitano, guarda caso, è in cattedra nell’università cosiddetta dei Ds Roma tre, da quando è nato in pratica anzi forse anche prima, dato che, guarda caso, il rettore è suo zio. Consulente della giunta comunale di Veltroni, guarda caso, messo da Nomisma, società di Romano Prodi, guarda caso, nel comitato scientifico insieme a un altro figlio, quello di Andreatta, Filippo, guarda caso, vice presidente della fondazione comunista Arel di Enrico Letta, guarda caso. Giulio Napolitano è stato anche fidanzatino mancato di Marianna Madia, attualmente, guarda caso, al ministero della pubblica amministrazione. Frequentatori della spiaggia costosissima (ma quando i soldi sono regalati, non si bada alle spese) di Capalbio, una spiaggetta niente di che, con mare inferiore a quello della limitrofa Ansedonia e inferiorissimo a quello di Porto Ercole, se non fosse che è il ritrovo della sinistra imbrogliona e ladrona sulla pelle dei cittadini italiani, che si presta lì ad essere turlupinata, mai uno scontrino fiscale, dai fratelli gestori della plage sinistrorsa. Marianna Madia intraprese la storia sentimentale quando il paparino Giorgio Napolitano già si occupava per il partito comunista italiano della ricezione dei soldi dall’Urss. E chi è il capo dell’ufficio legislativo del ministero della Madia? Ca va sans dire, Bernardo Mattarella, cioè il figlio dell’attuale presidente della Repubblica, nominato da Renzi mai eletto, con Parlamento abusivo alle spalle, giudicato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale di cui Sergio Mattarella faceva parte fino a ieri. L’illegittimità è la guazza in cui si sguazza in Italia oggi, con Matteo Renzi presidente del consiglio non eletto, Sergio Mattarella presidente della repubblica in odor di mafia eletto da abusivi, e maggioranza truffa composta da traditori voltagabbana per tenersi la poltrona, e lo stipendio, il nostro. Tornando ai “nostri”, il figlio di Sergio Mattarella, Bernardo, e il figlio di Giorgio Napolitano, Giulio, siedono e si fanno compagnia nel comitato direttivo dell’Istituto ricerche della pubblica amministrazione, insieme al giudice costituzionale Sabino Cassese, scartato alla presidenza della Repubblica delle banane. Il master in diritto amministrativo? Lo fa Giulio Napolitano mentre Bernardo Mattarella lo dirige, e così via dicendo. Durante lo sfacelo democratico voluto da Giorgio Napolitano con il suo primo governo non eletto di Mario Monti, quello attaccato a filo doppio alla poltrona regalata da senatore a vita (paghiamo sempre noi), è arrivato a fare da sottosegretario alla giustizia Andrea Zoppini. Piovutogli addosso di tutto e di più, il tapino si ritirò vergognosamente sperando non si scoprissero tutte quante le malefatte sul lavoro e non da avvocato, consulente, arbitro, eccetera, fatte in precedenza. Altro frequentatore del think tank di figli di papà incapaci di Enrico Letta “Vedrò”, è Michael Martone, quello che, miracolato nella carriera accademica e professionale in quanto figlio di papà pure lui, diceva ai ragazzi italiani di darsi una mossa, dimenticando che, barando, lui e i suoi amici avevano occupato tutto, senza merito e solo grazie al loro paparino. Merito? Responsabilità? Onestà? Mandare a casa i figli di papà, e ristabilire alcune regole fondamentali della concorrenza? Mai. Le “carriere” di Giulio, Bernardo, Andrea e Michael dimostrano quanto in Italia si sia lontani ani luce dal mercato. Questi invece si sollazzano e profittano di parentela e “giro”. Chi è consulente delle partecipate del Tesoro? Andrea Zoppini. Chi è stato chiamato da Giorgio Napolitano a fare il presidente del consiglio del governo non eletto, dopo Monti e prima di Renzi (tutti non eletti)? Enrico Letta il quale tra l’altro ha fatto una figura così meschina poveretto, “perdendo” addirittura il governo rubatogli dall’ imbroglione ancor più viscido e ruspante, Renzi. Mentre pagavamo tutti noi, come succede tuttora, Enrico Letta ha dispensato cariche e onori a Giulio Napolitano, facendolo essere sempre consigliere giuridico fisso, e poi al Coni, alla Federcalcio, alla Camera di conciliazione e arbitrato per lo sport, alla commissione per la riforma della disciplina delle società sportive, a Roma 2020, e chi più ne ha più ne metta. Tutti incarichi “truccati” e dati tra amichetti di papà ai figlioletti preferiti, perché gli altri, ove vogliano provare, neanche li vedono. Provare per credere. Poi Giulio, Renzuccio bello vigente, è nel board di Telecom Italia su indicazione dell’Agcom l’autorità per le comunicazioni in cui è “pargheggiato” quatto quatto, pure da dirigente, il fratello di Giulio, Giovanni Napolitano, insieme ad altra figliola d’arte Anna di Donato Marra segretario al Quirinale di Napolitano, e Giovanni Calabrò, figlio del presidente stesso dell’autorità della concorrenza. Paghiamo ovviamente tutto sempre noi. Ma di quale “concorrenza” di preciso si tratta all’Agcom? Quale, nel nostro Paese? E veniamo a Bernardo Mattarella, figliolo quarantasettenne del siciliano attuale presidente Mattarella. Subito in cattedra pure lui all’università di Siena che muore di debiti perché male amministrata e male gestita, ha tante pubblicazioni. Si deve sapere tuttavia che non si riesce a pubblicare se non sei figlio di, dunque ecco che già il mare di pubblicazioni dimostra quanto sia figlio di papà Mattarella, prima alla Corte Costituzionale, adesso nientedimeno che alla presidenza. Si prevedono dunque un sacco di altre pubblicazioni. Vicino a Marcello Clarich cioè al presidente della Fondazione Monte dei Paschi (oddio), con la Madia al ministero della pubblica amministrazione a duecentomila euro, si è messo in aspettativa dall’università, così poi ci ritorna, e non perde lo stipendio della malmessa università. E’ stato incaricato di studiare la pubblica amministrazione italiana a nostre spese da Sabino Cassese il quale scrive ottimi libri sulla riforma dello Stato che contribuisce a sviare, poi ha con Pietro Ichino inteso appesantire le nostre tasche con l’inutile ulteriore authority della valutazione dei dipendenti pubblici, lavoro concessogli da Prodi. Come una specie di tangente che si paga per esistere, Brunetta gli avrà dovuto elemosinare di uno studio sulla class action che si sarebbe potuto risparmiare, potendone disporre entrando in una qualsiasi biblioteca. E’ poi approdato alla Scuola superiore della pubblica amministrazione, ricettacolo di trombati riforniti di obolo assistenziale a nostre spese. Fa parte di Astrid di Franco Bassanini, il presidente cioè della ricchissima nostra Cassa depositi e prestiti amministrata totalmente gestita dalla sinistra che bara al potere, e di cui fanno parte Tiziano Treu, Valerio Onida, Francesco Merloni, Giovanni Maria Flick, Giulio Napolitano (dove non è), De Vincenti, Marcello Clarich medesimo. Tutti quelli di Astrid, compreso Bernardo Mattarella, in compagnia di molti giudici della Corte Costituzionale ed ex presidenti della stessa tipo Casavola, Elia, Zagrebelsky e Onida hanno firmato l’appello contro la riforma proposta dal governo Berlusconi. Come li riformiamo noi tutti questi? Come si riforma l’esercito di italiani, raccomandati e pagati a gratis? Immettendo tutto e tutti nel mercato vero. L’Università? Si privatizza. Lo Stato? Si assottiglia, sino al minimo. Sino a fare stare e a fare “esistere” tutto autonomamente economicamente. Ci vuole un governo eletto democraticamente, e liberale, che intriso e forte di vera cultura liberale proceda a riformare nella dovuta direzione.

La Ministra Madia “raccomandata di ferro” ex fidanzata del figlio di Napolitano, scrive Claudio Rossi su “Uomo Qualunque”. In 7 anni la Madia ha avuto incarichi dappertutto: nelle segreterie del PD, in Parlamento, nell’alta politica, in fondazioni, in centri studi, persino in cinema e televisione. Un’escalation incredibile che stuzzica la maliziosa domanda: da dove è saltata fuori Marianna Madia? Una raccomandata di ferro, con un pedigree lungo come il catalogo del Don Giovanni. Alle elezioni del 2008, Walter Veltroni usa le prerogative del porcellum per candidare capolista alla Camera per il Pd nella XV circoscrizione del Lazio la sconosciuta ventisettenne Marianna Madia. Alla conferenza stampa di presentazione, agli attoniti giornalisti la signorina dichiara gigionescamente di “portare in dote la propria inesperienza”. Ma perché Veltroni si affezionò così tanto a questa giovane ragazza? L’ex sindaco di Roma era grande amico di Stefano Madia, consigliere comunale della Capitale, eletto con la “Lista Civica per Veltroni”, e scomparso alla prematura età di 49 anni. Veltroni partecipò al funerale e rimase colpito dal discorso che Marianna fece durante la funzione. Un po’ per affetto, un po’ perché la considerava un elemento valido, Veltroni non ebbe dubbi ad intromettere la Madia nella politica che conta. In effetti il percorso accademico della Madia era più che buono. Pronipote di Titta Madia, deputato del Regno con Mussolini, e della Repubblica con Almirante, dopo essersi diplomata alla scuola francese “Chateaubriand” di Roma, si è laureata con il massimo dei voti in Scienze Politiche a La Sapienza, per poi specializzarsi e svolgere il dottorato in Economia del Lavoro presso l’Istituto di Studi Avanzati di Lucca. Fin qui tutto bene, ottima studentessa e ottima preparazione. Enrico Letta la volle al Centro Studi Economici AREL, agenzia di ricerche e legislazione fondata da Nino Andreatta. Poi entrò nella Presidenza del Consiglio del governo Prodi II (2006-2008), in qualità di membro della segreteria tecnica del sottosegretario. Nel 2008, divenne poi deputata. Per molti sarebbe il traguardo finale. Per lei era solo all’inizio. Fidanzata di Giulio Napolitano, figlio del presidente dalla Repubblica. La storia poi finì, oggi è felicemente sposata con Mario Gianani, fondatore della casa cinematografica Wildside e socio di Fausto Brizzi, regista e amico di Matteo Renzi. Nel 2012 partecipa al film “Pazze di me”, targato proprio Brizzi. Ma anche la televisione non manca: ospite di Economix su Rai3 e collaboratrice di Giovanni Minoli su Rai Educational. La sua carriera sembra inarrestabile. Dopo essere stata collocata nel comitato di redazione della rivista “Italianieuropei”, della fondazione di Massimo D’Alema (altro suo pater politico), la Madia è stata rieletta alla Camera anche nelle elezioni Politiche 2013. Dopo aver sostenuto Pierluigi Bersani, la Madia ha avuto una vera e propria folgorazione (reciproca) con Matteo Renzi, che l’ha nominata responsabile del Lavoro nella sua segreteria. A tal proposito, Il Tempo ha raccontato una gaffe che la Madia avrebbe compiuto con Flavio Zanonato. Sembra infatti che, appena nominata, abbia voluto presentare al ministro del Lavoro le idee e le aspettative della segreteria renziana ma, invece di presentarsi nell’ufficio di Enrico Giovannini, la Madia sarebbe piombata nell’ufficio di Zanonato, ministro dello Sviluppo Economico che, imbarazzato, le avrebbe detto di aver sbagliato Ministero. Zanonato poi smentì l’episodio, ma la Madia si attirò le prese in giro del web e ringalluzzì chi da tempo l’accusava di essere inesperta ed incompetente. In parlamento la Madia brilla come una delle 22 stelle del Pd che non partecipano, con assenze ingiustificate, al voto sullo scudo fiscale proposto da Berlusconi, che passa per 20 voti: dunque, è direttamente responsabile per la mancata caduta del governo, che aveva posto la fiducia sul decreto legge. Di nuovo fa scandalo, questa volta per l’assenteismo. La sua scusa: stava andando in Brasile per una visita medica, come una qualunque figlia di papà. Invece di essere cacciata a pedate, viene ripresentata col porcellum anche alle elezioni del 2013. Ma poi arriva il grande Rottamatore, e la sua sorte dovrebbe essere segnata. Invece, entra nella segreteria del partito dopo l’elezione a segretario di Renzi, e ora viene addirittura catapultata da lui nel suo governo: ministra della Semplificazione, ovviamente, visto che più semplice la vita per lei non avrebbe potuto essere. Altro che rottamazione: l’era Renzi inizia all’insegna del riciclo dei rottami, nella miglior tradizione democristiana. La riciclata ora rispolvererà l’argomento che aveva già usato fin dalla sua prima discesa paracadutata in campo: “Non preoccupatevi di come sono arrivata qui, giudicatemi per cosa farò”. Ottimo argomento, lo stesso usato dal riciclatore che dice: “Non preoccupatevi di come ho ottenuto i miei capitali, giudicatemi per come li investo”. Se qualcuno ancora sperava di liberarsi dai rottami e dai riciclatori, è servito. L’Italia, nel frattempo, continui ad arrangiarsi. (Fonti  ibtimes – micromega).

Matacena, Speziali: scontro tra Renzi e Napolitano su nomina ministro Madia. Telefonata tra l'imprenditore e Scajola: "Lei è mia cugina", scrive “Il Velino”. “Marianna Madia è mia cugina, siamo figli di due cugini. È a causa sua che Napolitano e Renzi si sono scannati ieri al Quirinale altro che per la Giustizia...”.  Vincenzo Speziali dal Libano ricostruisce in maniera assolutamente inedita i retroscena che stanno dietro le tre ore di permanenza al Quirinale di Matteo Renzi con la lista dei ministri. Lo fa conversando con l'ex ministro dell'Interno Claudio Scajola alle 9,52 del 22 febbraio 2014. La telefonata oggi finisce nell'ordinanza che chiede l'arresto di Speziali e muove nuove accuse all'ex ministro nel quadro delle attività che questi avrebbero messo in essere per evitare la cattura di Amedeo Matacena, ex parlamentare azzurro, e l'estradizione di Marcello Dell'Utri. E' Scajola ad aprire il discorso, sostenendo che Renzi ha insistito per nominare Nicola Gratteri a ministro della Giustizia ma il veto del presidente Giorgio Napolitano è stato fermo. Speziali contesta questa chiave di lettura, o meglio spiega che lo scontro tra Matteo Renzi e Giorgio Napolitano aveva ben altra ragione: “Marianna Madia, che ti ripeto è mia cugina, è stata per lungo tempo compagna di Giulio Napolitano. Lo sapevi?”. Scajola cade dalle nuvole e Speziali aggiunge: “Allora te lo dico io per cognizione diretta. Figurati che quando, nel 2008, io stavo preparando il mio matrimonio loro già convivevano da quattro anni. Ricordo che Giulio e Marianna chiesero alla moglie di Napolitano di chiamare Veltroni per farla candidare. Poi Marianna decise di lasciarlo e Giulio entrò in depressione. Una brutta depressione. Quando il presidente l'ha vista nella lista dei ministri con Renzi si sono scannati per tre ore”.

Madia, la super raccomandata che ha stregato tutti i leader Pd. Nel suo curriculum Marianna Madia scrisse: "Laurea con lode tra un mese". Subito assunta. E' stata fidanzata con Napolitano jr, poi un lavoro in Rai con Minoli, scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Articolo ripreso da "Libero Quotidiano".

Mi chiedi, caro, per quali meriti Marianna Madia sia ministro a 33 anni senza avere dato prova di sé. Tanto più, osservi, che il ministero per la Pubblica amministrazione e la Semplificazione a lei affidato, ancorché senza portafoglio, presume conoscenza dello Stato e parrebbe più adatto a un fine carriera che a un debutto.

Le tue riserve sono quelle che circolano nel Pd, il partito di Madia, dove però sono tinte di bile. Il neo ministro è infatti considerata una super raccomandata per amicizie e lignaggio.

Ma davvero Marianna è figlia dell'oca bianca? Già per l'ovale armonico, l'incarnato avorio e i densi capelli color del grano maturo, sembra un'eroina preraffaellita dai destini eccezionali.

C'è in lei la grazia della buona educazione e la nonchalance di chi ottiene senza chiedere. Questo charme, che implica autoconsapevolezza e ferma coscienza borghese, l'ha aiutata a imporsi e spiega l'invidia degli anatroccoli che si annidano tra i suoi colleghi.

Un accenno alle origini potrà servire, mio caro, a illuminarti. Il ceppo dei Madia è nella Calabria Ionica e il capostipite, bisnonno della nostra Marianna, è Titta, principe del Foro la cui fama attraversa il '900 fino al 1976, anno della morte. Titta fu più volte deputato durante il Ventennio e deputato del Msi negli anni '50. Ecco, dunque, individuato il seme della politica, poi germogliato anche in Stefano Madia, papà di Marianna, giornalista e attore. All'estremo della sua breve vita (è morto a 49 anni, nel 2004), Stefano, legato all'allora sindaco di Roma, Walter Veltroni, fu consigliere comunale del Pds. Veltroni andò al funerale e incontrò per la prima volta la figlia che gli rimase impressa. Ti dirò poi, caro, come e perché.

Siciliana è invece la stirpe materna dei Messina. Della mamma so solo che è graziosa ed ebbe un flirt con Vittorio Sgarbi, da lui divulgato. Ma il personaggio centrale, da cui Marianna ha molto assorbito, è il nonno, Normanno Messina, tra i decani del giornalismo parlamentare. Scomparso diversi anni fa, Normanno era stretto a doppio filo con la Dc per conto della quale fu consigliere di amministrazione dell'Efim, ambita posizione di sottogoverno. L'uomo era di forti convinzioni civili e religiose. Una volta, mio caro, mi bacchettò per un articolo in cui ironizzavo su Oscar Luigi Scalfaro, allora al Quirinale, che chiacchierava con la Madonna coniando epiteti come, «Madre del Bell'Amore, Castellana d'Italia...». «Non rispetti i credenti - mi disse - Anch'io, al bisogno, invoco la Madonna e le parlo».

La medesima religiosità traspare nella nipote. Marianna si è detta contro l'aborto e l'eutanasia e favorevole alla famiglia, intesa come matrimonio tra eterosessuali. È a messa ogni domenica e ha continuato ad andarci anche quando rimase incinta nel 2011, rifiutando di dire di chi, indecisa se sposarsi. Poco prima di dare alla luce il bimbo, rivelò che il padre era Mario Gianani, produttore cinematografico (vicino a Matteo Renzi), ma tergiversò ancora un paio d'anni prima di impalmarlo. Quando nacque il piccino, in Aula a Montecitorio accadde questo gustoso episodio. La presidente di turno, Rosy Bindi, annunciò: «Marianna Madia ha avuto un bimbo. A mamma e figlio i nostri calorosi auguri». Interrompendo il subito applauso, Alessandra Mussolini, patita di pari opportunità, gridò: «Auguri anche al padre, no?». Presa di sprovvista, Bindi replicò infelicemente: «Non so chi è il padre...». Ne seguì, mio caro, uno sghignazzare omerico. Oggi, Marianna è in attesa di una bimba.

Corollario della sua solida famiglia, furono i buoni studi di Marianna. Col quel nome, che simboleggia la Francia col berretto frigio, la ragazza non poteva che finire al Lycée Chateaubriand, scuola francese di Roma considerata snob dai patiti dell'egualitarismo. Di qui, nuove malevolenze dei detrattori. Tuttavia anch'io, che non ho di questi pregiudizi, trovo, mio caro, che codesta formazione francese le abbia dato un tic esterofilo. Tutti i suoi discorsi parlamentari sono, infatti, di questo tenore: «Chiediamo all'Europa di aiutarci a essere più europei... dobbiamo vincere l'anomalia italiana... fare come l'Europa più avanzata... la Francia la Germania», ecc. Questa ossessione, ne converrai, non si addice a un ministro della Repubblica.

Vengo ora alla sua carriera politica. Inizia, casualmente, alla vigilia della laurea in Scienze politiche, ascoltando Enrico Letta che affrontava in una conferenza gli argomenti oggetto dei suoi studi. Lei si esalta e si complimenta con lui che la invita a un meeting dell'Arel, la fondazione ereditata da Beniamino Andreatta. Lei va, portando astutamente il proprio curriculum che completa anticipando: «Laurea con lode tra un mese». L'improntitudine piacque a Enrico che un mese dopo le telefonò dicendo: «Se hai davvero preso la lode, c'è uno stage per te». Entrò così nell'Arel. Nelle more, conobbe Giulio Napolitano, figlio di Giorgio, col quale ebbe una gradevole liaison e un invito a cena al Quirinale. Gianni Minoli, giornalista Rai, la prese sotto la sua ala, facendola lavorare un po' in tv. Letta, intanto, ripeteva in giro: «Marianna è straordinaria». A questo punto - siamo nel 2008 - si sveglia anche Veltroni, recente fondatore del Pd, che le telefona e dice: «Mai dimenticato il discorso che hai fatto al funerale di tuo papà». Lei replica: «Neanche ricordavo di avere parlato. Sai in quei momenti...». Walter, incantato, la fece eleggere alla Camera. Entrando in Parlamento, Marianna disse: «Porto in dote la mia straordinaria inesperienza». Frase, mio caro, che troverai pure tu, come me, molto chic, ma sprecata per l'ambiente gretto del Pd che, infatti, le rovesciò addosso critiche e contumelie.

Nell'emiciclo di Montecitorio, Marianna sedette per l'intera legislatura a fianco da Max D'Alema che l'apprezzò a sua volta e la volle nella redazione di Italianieuropei, rivista della sua fondazione. La nostra giovinetta si schierò poi con Bersani, fu rieletta, fece un giro di valzer con Pippo Civati, per approdare a Renzi che l'ha portata in segreteria e al governo. Insomma, ha avuto l'agilità dell'ape che sceglie fior da fiore e trae linfa per il suo miele. Ma senza raccomandazioni, come invece l'accusano, bensì facendo da sé, da seduttrice di talento. Nel concludere, mi accorgo, mio caro, di non averti saputo rispondere sul perché Marianna sia ministro. Infatti, mi è incomprensibile, come la laurea di Di Pietro.

Ps. Adesso, ho forse la spiegazione. Vedo che le hanno affiancato il sottosegretario, Angelo Rughetti, altro renziano di ferro e vero esperto di Pubblica amministrazione. Lui passerà i fogli, lei li leggerà.

Marianna Madia, enfant prodige con le amicizie giuste. Frequentazioni importanti e accuse di raccomandazione. Ora dichiara guerra ai dirigenti pubblici, scrive Marco Fattorini su “L’Inkiesta”. Un dicastero a trentatré anni. «Non me l’aspettavo, stavo guardando Peppa Pig in tv con mio figlio». Presto il piccolo Francesco avrà una sorellina, custodita nel pancione del nuovo ministro della Semplificazione e della Pubblica Amministrazione che ha prestato giuramento al Quirinale. Ottavo mese di gravidanza, un impegno niente male: «Non sarà semplice ma mi organizzerò, è pieno di donne che allattano e lavorano». Marianna Madia scaccia le paure, davanti ai flash semina ottimismo e sorrisi con buona pace dei maligni, tra cui c’è qualcuno che scommette: «A breve andrà in maternità e Renzi si prenderà le sue deleghe». Carnagione bianco latte e capelli ricci biondissimi, già ribattezzata «Vergine botticelliana», Madia è il secondo ministro più giovane dell’esecutivo. Classe 1980, cede il passo solo all’altra amazzone renziana, lei sì della prima ora, quella Maria Elena Boschi nata nel gennaio 1981. D’altronde il padrino politico del neoministro della Pubblica Amministrazione fu Walter Veltroni che nel 2008 la volle a tutti i costi candidata alla Camera, capolista nel Lazio a 27 anni, una delle bandiere che l’ex sindaco di Roma fece sventolare sul suo piano di rinnovamento. «Walter partecipò al funerale di mio padre Stefano, sostiene di essere rimasto colpito dal piccolo discorso che feci fino alla fine, ma io nemmeno ricordo di aver parlato». Giornalista e attore, papà Madia era consigliere comunale a Roma eletto con la "Lista Civica per Veltroni”. Scomparso prematuramente a 49 anni, vinse un premio al Festival di Cannes ma aveva lavorato pure a Porta a Porta e Mixer. Anche Marianna avrebbe collezionato un’esperienza professionale con Giovanni Minoli a Rai Educational: «Un grande maestro, mi ha dato un’opportunità». Il curriculum è da secchiona. La gioventù passata a Fregene, il liceo alla scuola francese Chateaubriand, avamposto d’Oltralpe ma culla della Roma bene, poi la laurea con lode in scienze politiche alla Sapienza, specializzazione e dottorato a Lucca, un volume sul welfare per il Mulino. Ma c’è un passaggio decisivo: a fine università Enrico Letta la fa entrare all’Arel, centro studi economici promosso da Nino Andreatta, dove si rafforza il rapporto di stima e collaborazione tra i due. «Marianna è straordinaria», ha ripetuto più volte l’ex premier parlando con interlocutori di prestigio. L’enfant prodige veltroniana entrerà poi nella segreteria tecnica del sottosegretario alla Presidenza Del Consiglio durante il governo Prodi 2006-2008, quello in cui tra i quattro sottosegretari figura proprio Enrico Letta. Col tempo accede alla grande famiglia del think tank Vedrò ma figura anche tra i componenti del comitato di redazione a Italianieuropei, la fondazione di D’Alema. «È giovane però non le mancano entrature e contatti», ripetono i bene informati. Le amicizie di peso sono esemplificate dai «tre grazie importanti» che a margine della candidatura nel 2008 lei stessa formulò a Walter Veltroni, Enrico Letta e Giovanni Minoli. Tre talent scout, tre maestri che a loro insaputa l’hanno fatta diventare oggetto di chiacchiere e accuse. Etichette dure a morire come «cocca di Walter» e «nipote di», con riferimento allo zio Titta Madia, avvocato difensore di Clemente Mastella. Nel calderone mediatico tutto fa brodo e l’intellettuale Piergiorgio Odifreddi affila la penna: «È una raccomandata di ferro con un pedigree lungo come il catalogo del Don Giovanni, è figlia di un amico di Veltroni e la sua candidatura è espressione del più antico e squallido nepotismo mascherato da novità giovanilista e femminista». Le cronache gossippare la ricordano per una storia d’amore con Giulio Napolitano, figlio di Re Giorgio davanti al quale Madia ha appena giurato in qualità di ministro. Marianna e Giulio sono stati paparazzati in giro per Roma e insieme allo stadio, ma lei puntualizza: «Con lui cominciai una storia sentimentale quando suo padre Giorgio era ancora solo un ex e illustre dirigente del Pci, poi sono stata a cena sul Colle, una sola volta». Acqua passata. Oggi la vita privata la vede sposata con Mario Gianani, rampante fondatore della casa di produzione cinematografica Wildside nonché socio in affari di Fausto Brizzi, regista e fedelissimo della Leopolda, il cui loft a San Lorenzo è forse l’unico «salotto» romano regolarmente frequentato da Matteo Renzi. Marianna ha anche partecipato al film di Brizzi “Tutte pazze di me” con un cammeo al fianco di Francesco Mandelli, volto di Mtv e protagonista de “I soliti Idioti”. A Palazzo Madia si comporta bene, dicono. Arrivata nel 2008 in quota Veltroni, nel 2013 si misura alle primarie dei parlamentari Pd e incassa cinquemila preferenze con altrettanti buoni motivi per respingere al mittente le accuse di paracadutismo. Alla Camera non è una seconda linea qualsiasi: si occupa di lavoro e precariato, vanta una buona media presenze sia nella sedicesima che nella diciassettesima legislatura, molti anche i disegni di legge presentati nonché le interrogazioni e gli emendamenti su cui spicca la sua firma. È riuscita a stupire persino il compagno di banco Massimo D’Alema, uno che dall’alto dei suoi baffi ha visto morire decine di peones. Madia ha lottato da subito per non restare una meteora, ha risposto coi fatti alle accuse di nepotismo e alle chiacchiere malevole che scivolano rapide sui sampietrini della Capitale. Poi però agli onori delle cronache balzano le gaffe, quelle vere e presunte. Come quando al momento della sua elezione nel 2008 esordì con una dichiarazione per qualcuno ingenua e infelice: «Porto in dote la mia straordinaria inesperienza». Nel giugno scorso scatenava un putiferio al Nazareno dopo essersi lasciata scappare che «nel Pd ho visto delle vere e proprie piccole associazioni a delinquere sul territorio». A dicembre in qualità di responsabile lavoro della segreteria Pd, nominata da Renzi a dicembre, avrebbe confuso la sede del ministero dello sviluppo economico con quella del lavoro, circostanza che l’ha scaraventata nella centrifuga di sberleffi sul web. Nel mezzo anche la polemica sollevata dall’ex direttrice di Youdem Chiara Geloni che le rimproverava di essere stata prima veltroniana, poi dalemiana, lettiana, bersaniana e infine renziana. Un percorso che Aldo Grasso sul Corriere commenta così: «Per essere giovane e inesperta la Madia ha imparato subito e bene a risalire le correnti». Oggi è in prima linea nella squadra dell’ex sindaco innescando qualche mal di pancia tra i renziani doc, «leopoldini della prima ora» che scandiscono un ritornello prossimo alla bocciatura: «Madia al governo? Più che un errore è una presa in giro». Ad altri la ragazza sembra fin troppo esile per affrontare a mani nude l’elefantiaco apparato della burocrazia italiana. Checchè ne dicano i detrattori, il programma del ministro è ambizioso e tutto all’attacco. Lo spiega lei stessa: «Va affrontata una riforma della pubblica amministrazione partendo dai dirigenti, per cui ci dev’essere una rotazione degli incarichi e quindi una mobilità. Ci sembra inaccettabile che tanti di loro restino bloccati nei loro prestigiosi incarichi per anni accumulando potere e disinteressandosi del funzionamento della macchina». Parole rivoluzionarie, quasi un grido di battaglia. Chissà se sarà quello giusto per seppellire chiacchiere e pregiudizi.

Da “Vanity Fair” del 22 luglio 2014.

Pupilla di Enrico Letta, poi di Veltroni, molto vicina a D’Alema, ora è ministro con Renzi. Ma alle primarie del 2012 ha votato Bersani: perché?

«Ho sbagliato. Non avevo capito quanto ci fosse bisogno di Renzi nel Paese. E ho risbagliato di recente, nel passaggio complicato con Letta: non ero convinta fosse la cosa giusta. Poi con i risultati delle Europee si è capito che la gente è con lui».

Anche per questo, ammette Marianna Madia in un’intervista a Vanity Fair, che la pubblica nel numero in edicola da mercoledì 23 luglio, è stata una sorpresa vedersi offrire dal premier la poltrona di ministro per la Pubblica amministrazione e la Semplificazione. Non renziana, 33enne e, al momento della nomina a febbraio, incinta di 8 mesi (di Margherita).

Gli ha risposto subito sì?

«Tentennavo. Più che altro perché ero incinta e con a casa un altro bambino (Francesco, 2 anni, ndr). Ma lui su questo è stato categorico: “Non bisogna limitarsi per i figli”, e ha insistito ancora di più».

Un ministro donna, giovane e incinta. Sembra un’operazione di marketing.

«Ci si interrogava sull’opportunità di nominare una persona che, in un momento così difficile per il Paese, non avrebbe potuto dedicarsi completamente alla missione. Me lo sono chiesto anch’io. Alla fine ho accettato anche perché avvertivo la responsabilità di fare parte di un governo di rottura: non volevo sottrarmi proprio quando c’è in gioco la riuscita o la sconfitta di una nuova classe dirigente».

Suo marito, il produttore cinematografico Mario Gianani, l’aiuta?

«È stato il primo a spingermi ad accettare l’incarico, il suo socio è Fausto Brizzi, nell’entourage renziano dalla prima ora».

I maligni dicono che Renzi ha voluto una squadra di persone non troppo forti, per poter decidere tutto. 

«La vedo in un modo diverso: è vero che lui è il regista, ma quando si devono fare delle riforme rivoluzionarie è importante non agire individualmente come ministri ma avere dietro una comunità politica forte e fare squadra. Certo, sostituire Emma Bonino con Federica Mogherini, per quanto preparata, è stato un rischio, ma osare è la specialità di Renzi».

Nell’intervista, il ministro contesta inoltre l’etichetta di «raccomandata» che si porta dietro da quando, a 27 anni, venne candidata da Veltroni.

Ha avuto un legame con Giulio Napolitano, figlio di Giorgio.

«Durato qualche mese. Ci siamo conosciuti quando, dopo essermi laureata alla Sapienza in Scienze politiche con indirizzo Politica economica, collaboravo all’Arel, il centro studi fondato da Andreatta. L’elezione di suo padre al Quirinale nel 2006, quando avevo seguito Enrico Letta che era diventato sottosegretario di Prodi al governo, ci sorprese tutti e penso abbia inciso sulla fine della nostra storia, che fino ad allora era stata vissuta con spontaneità».

Suo padre è stato consigliere comunale del Pd con Veltroni. La passione per la politica l’ha ereditata da lui?

«No, mio padre era prima di tutto un giornalista. Dopo un po’ di anni da attore (Stefano Madia era stato premiato a Cannes nel 1979 come migliore attore non protagonista per Caro papà di Dino Risi, ndr), era ripartito da dove la fantasia della vita, con il film di Risi, l’aveva strappato. Lavorava in Rai, però era sempre un precario, quindi fece causa all’azienda. In quel periodo gli fu proposto di candidarsi alle comunali nella lista civica di Veltroni ma era solo un riempilista, prese appena 300 voti – quelli dei parenti calabresi della mia famiglia materna –, eppure fu eletto. La politica attiva non gli è mai interessata... Morì poco dopo essere diventato consigliere comunale. Veltroni lo conobbi al funerale. Continuò a tenermi d’occhio: alle elezioni del 2008 mi inserì in una lista protetta come candidata di rottura, e arrivai alla Camera».

Ha perso suo padre giovane.

«È morto a 49 anni, un tumore al pancreas fulminante se l’è portato via in cinque mesi. Avevo 24 anni, laureata da tre mesi, l’ho vissuta tutta, ho visto la forza con cui ha affrontato la malattia. Questa perdita segna il prima e il dopo nella mia vita. Hai la consapevolezza piena che, qualunque cosa bella ti possa capitare, la vivrai con questa cosa dentro che non ti lascerà più, e non potrai più essere bianco, pulito, leggero».

Intervista di Fabrizio Roncone su “Il Corriere della Sera del 01 marzo 2008. La 27enne capolista nel Lazio: parlai al funerale di papà, Walter mi notò. «Vada per carina, raccomandata no». Marianna Madia: il Pd mi ha sedotto. Sì, ho cenato al Colle e preso il tè con Cossiga.  

«Va bene... facciamola, questa intervista... tanto più che su di me, finora, sono state scritte due sole cose esatte: l'età, perché li ho davvero 27 anni, e il ruolo che Veltroni ha avuto il coraggio di affidarmi nel Pd: capolista, nel Lazio, per la corsa alla Camera.. quanto al resto...».

Quanto al resto, signorina Marianna Madia, circolano un paio di concetti essenziali: molto carina e molto raccomandata.

«Molto carina, lo dice lei...».

Si fidi.

«Sarà. Raccomandata, però, proprio no».

Lo spieghi.

«Due settimane fa, squilla il telefonino. È Veltroni. Dice di avermi seguita negli ultimi tre anni e...».

Come nasce la sua amicizia con Veltroni?

«Walter partecipò al funerale di mio padre Stefano. Sostiene di essere rimasto colpito dal piccolo discorso che feci alla fine, ma io nemmeno ricordo di aver parlato... ».

Il dolore di un funerale può cancellare pezzi di memoria.

«Infatti... Comunque poi Walter mi convoca al Loft. E mi spiega che pensa a me, per una candidatura importante. Dice che mi stima».

E lei?

«Io lo ascolto e so di fare un sacco di cose che mi piacciono... però quest'idea del Pd, l'idea di una politica nuova, rapida, responsabile, decisionista, è subito molto...».

Molto?

«Ha presente la seduzione?».

Discretamente...

«Ecco, io subisco la seduzione di questo nuovo orizzonte politico».

Cenni biografici.

«Scuola superiore a Roma, allo Chateaubriand, scuola pubblica francese, con mention bien, una roba rarissima, e poi laurea in Scienze Politiche con indirizzo economico: 110 e lode».

Una secchiona.

«Secchionissima».

Infatti, prima ancora di laurearsi, viene assunta ad Arel, il centro studi di Enrico Letta.

«Una leggenda meschina».

La verità.

«Sto preparando la tesi e mi dicono che c'è una conferenza in cui s'affrontano proprio i miei argomenti. Così, vado. E lì, tra gli altri, ascolto Enrico Letta. Mi entusiasma. Glielo dico e gli racconto della mia tesi. Lui, un po' annoiato, mi invita a una roba organizzata, tre giorni dopo, appunto da Arel».

Lei si presenta.

«Lei non l'avrebbe fatto? Non solo: porto un curriculum. Ma siccome non so cosa metterci, scrivo: "Laurea con lode prevista per il prossimo 26 marzo 2004"...».

Geniale.

«Quelli restano basiti. E, un mese dopo, mi chiamano: se davvero ha preso la lode, c'è uno stage per lei».

La professoressa Chiara Saraceno, l'altra sera, in tivù, ospite di «Ballarò», ha ironizzato sul suo essere una giovane economista.

«Credo che una delle sfide del Pd sia anche quella di avere una generazione politica più anziana che segue, accompagna, consiglia una generazione più giovane, forte e inesperta...».

Hanno scritto: la Madia è una «pariolina ». Il che, in certi ambienti radical-chic, a Roma, non è esattamente un complimento.

«Mai abitato ai Parioli. Vivo con mia madre a Fregene».

Viene comunque da una famiglia di celebri avvocati: il fratello di suo padre, Titta Madia, è il legale della famiglia Mastella e...

«E crede che questa possa essere una buona raccomandazione? Mastella? Che ha fatto cadere il governo? Comunque, mio zio mi ha spedito solo un sms, se è questo che vuol sapere».

Le va di parlare di suo padre?

«È morto a 49 anni. Uomo bellissimo e con molti interessi. Giornalista professionista che decide di iscriversi a un corso di recitazione. Lo vede Dino Risi e lo scrittura per il film Caro papà. 1979. Un trionfo: come "attore non protagonista", infatti, vince a Cannes. Poi torna al suo lavoro. Ma da precario: programmista-regista in Rai. Lavora a Porta a porta, poi a Mixer, quindi fa causa alla Rai. Dopo dieci anni, due mesi fa ho ricevuto la sentenza: il giudice ordina assunzione e reintegro con giusta manzione. Perciò, in Parlamento, lo giuro: di due cose, certamente, mi occuperò. La lentezza della Giustizia e il dramma del precariato».

Giovanni Minoli, la stima molto.

«È una domanda che... però, okay, le rispondo. Lavoro con lui, mi ha dato un'opportunità... La verità è che per una donna, specie se giovane, in questo Paese, è ancora molto difficile avere successo... ha capito?».

Com'è la storia del suo incontro con l'ex Presidente Cossiga?

«Avendo in comune il fisioterapista, mi ha scritto una lettera sul quotidiano Il Tempo, in cui mi invitava a lasciar perdere con la politica e a sposarmi e fare figli. Così l'ho chiamato e lui mi ha invitato a casa sua, per un tè. Occasione per scoprire che era amico del mio nonno materno, Normanno Messina, un giornalista».

Con il Quirinale, lei ha una certa confidenza. «Mi ascolti bene: con Giulio Napolitano cominciai una storia sentimentale quando suo padre Giorgio era ancora solo un ex e illustre dirigente del Pci. Poi... beh, sono stata a cena, sul Colle, una sola volta. Ma non credo che, ai lettori del Corriere, interessino le mie vicende amorose. Specie se sono finite».

E adesso?

«Adesso, cosa?».

È fidanzata? «No, perché?».

Così, una curiosità.

Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.

Superare una prova dell’esame da avvocato senza aver studiato nulla. E’ quanto hanno dimostrato le telecamere di Studio Aperto che ha messo in onda un filmato realizzato con telecamera nascosta da un giornalista che ha preso il posto di un candidato assente e si è fatto “passare” il compito scritto valido come secondo test della prova per l’iscrizione all’albo degli avvocati. Il reportage ha messo in evidenza tutti i “vizi” tipici degli esami di Stato in Italia. Il cronista del tg di Mediaset e’ entrato tranquillamente nella sala d’esame e nessuno ha mai controllato la sua identità. Sarebbe potuto essere un magistrato che sostituisce un parente impreparato o un avvocato deciso ad aiutare un collega principiante. Il reporter si è tranquillamente seduto sul banco vuoto destinato a tal Federico C. poi – una volta cominciata la prova – si è fatto passare tutto il compito riempiendo gli appositi moduli timbrati e firmati dalla Corte d’Appello di Roma. Il tutto sotto l’occhio di una telecamerina che ha anche filmato come nella vasta aula ci si passassero manuali, e suggerimenti atti a superare la prova. Infine nel filmato di Studio Aperto si documenta anche come nei bagni del mega-hotel che ha ospitato gli esami i candidati abbiano potuto consultarsi sui contenuti del compito e passarsi le relative soluzioni.

Copi alla maturità, a un esame o a un concorso o a un esame di Stato? Ecco cosa rischi legalmente. Hai il vizietto di copiare? Lo sai che in alcuni casi si rischia anche l'arresto? Ecco, caso per caso, cosa rischi a livello legale quando copi. Quante volte incappate in persone che copiano agli esami o a un concorso pubblico, o magari chissà..siete voi stessi a farlo. Quello che forse non sapete è che copiare non è uno scherzo, ma in molte circostanze costituisce un vero e proprio reato perseguibile a livello penale.

Se copi vi è il reato di plagio. Secondo l'art. 1 della legge n. 475/1925 infatti: Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito.

Se poi qualche commissario ti aiuta nell'ordinamento italiano, vi è l’abuso d'ufficio che è il reato previsto dall'art. 323 del codice penale ai sensi del quale: 1. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. 2. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.

Se chi ti aiuta ti obbliga o ti induce a pagare c’è la concussione. La concussione (dal latino tardo concussio «scossa, eccitamento» dunque «pressione indebita, estorsione») è il reato del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o delle sue funzioni, costringa (concussione violenta) o induca (concussione implicita o fraudolenta) qualcuno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità anche di natura non patrimoniale. Reato tipico dell'ordinamento giuridico penale della Repubblica Italiana, la fattispecie concussiva non è presente nella maggior parte degli ordinamenti europei e internazionali (al suo posto troviamo l'estorsione aggravata). I beni tutelati dalla fattispecie sono pubblici (buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione) e allo stesso tempo anche privati (tutela contro abusi di potere e lesioni della libertà di autodeterminazione). Tra i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, la concussione è il reato più gravemente sanzionato. Oggi, a seguito della riforma introdotta dalla l. 6 novembre 2012, n.190, è prevista la reclusione da sei a dodici anni (anche ante riforma era il reato contro la P.a. più sanzionato). La normativa italiana di contrasto al fenomeno concussivo è contenuta nel codice penale e precisamente nel Libro II, Titolo II "Dei delitti contro la pubblica amministrazione" (art. 314-360).

Se chi ti aiuta si fa pagare è corruzione ed indica, in senso generico, la condotta di un soggetto che, in cambio di danaro oppure di altri utilità e/o vantaggi che non gli sono dovuti, agisce contro i propri doveri ed obblighi. Il fenomeno ha molte implicazioni, soprattutto dal punto di vista sociale e giuridico; uno stato nel quale prevale un sistema politico incontrollabilmente corrotto viene definito "cleptocrazia", cioè "governo di ladri", oppure "repubblica delle banane". In Italia il concetto di corruzione è riconducibile a diverse fattispecie criminose, disciplinate nel Codice Penale, Libro II - Dei delitti in particolare, Titolo II - Dei delitti contro la pubblica amministrazione. Le relative fattispecie criminose sono tutte accomunate da alcuni elementi:

reati propri del pubblico ufficiale

accordo con il privato

dazione di denaro od altre utilità

Quindi, la corruzione è categoria generale, descrittiva dei seguenti reati:

art. 318 c.p. - Corruzione per l'esercizio della funzione

art. 319 c.p. - Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio

art. 319 ter c.p. - Corruzione in atti giudiziari

art. 320 c.p. - Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio

art. 321 c.p. - Pene per il corruttore

In base all'art. 319 codice penale il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da due a cinque anni. È definita questa corruzione propria ed è la forma più grave di corruzione poiché danneggia l'interesse della pubblica amministrazione a una gestione che rispetti i criteri di buon andamento e imparzialità (art.97 cost). Di questo reato (corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, art. 319 c.p.) può essere ritenuto responsabile anche un Consigliere Regionale per comportamenti tenuti nella sua attività legislativa. In base alla definizione dell'art. 357 c.p. è pubblico ufficiale anche colui che esercita una funzione legislativa. È priva di fondamento la tesi secondo cui nell'esercizio di un'attività amministrativa discrezionale, ed in particolare della pubblica funzione legislativa, non può ipotizzarsi il mercanteggiamento della funzione, nemmeno qualora venga concretamente in rilievo che la scelta discrezionale non sia stata consigliata dal raggiungimento di finalità istituzionali e dalla corretta valutazione degli interessi della collettività, ma da quello prevalente di un privato corruttore. Non è applicabile la speciale guarentigia sanzionata dal quarto comma dell'art. 122 della Costituzione secondo cui i Consiglieri Regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Questa speciale immunità non trova applicazione qualora il Consigliere Regionale non sia perseguito dal giudice penale per avere concorso alla formazione ed alla approvazione di una legge regionale, ma per comportamenti che siano stati realizzati con soggetti non partecipi di tale procedimento al fine di predisporre le condizioni per il conseguimento di un vantaggio illecito.

In base all'art. 318 codice penale il pubblico ufficiale che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Questa forma di corruzione viene definita corruzione impropria antecedente poiché l'oggetto della prestazione che il pubblico ufficiale offre in cambio del denaro o dell'altra utilità che gli viene data o promessa, è un atto proprio dell'ufficio e la promessa o la dazione gli vengono fatti prima che egli compia l'atto. Il disvalore della condotta è sicuramente minore poiché pur nella violazione dei beni giuridici di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione non ci sono atti che ledano gli interessi della stessa, come avveniva invece nella corruzione propria con ritardi o omissione di atti dovuti ovvero con il compimento di atti contrari ai doveri d'ufficio. Il pubblico ufficiale non sarà imparziale avendo accettato una retribuzione non dovuta e venendo meno all'espresso divieto che gli pone la legge e pertanto sarà punito.

La legge 13 gennaio 2003, n. 3 ha istituito nell'ordinamento italiano l’Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito all’interno della pubblica amministrazione. L'articolo 68, comma 6, del decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008, ha successivamente soppresso l’Alto Commissario. Con DPCM del 5 agosto 2008 le relative funzioni sono state attribuite al Dipartimento per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione che ha istituito il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. L'Italia ha aderito al Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO), unità del Consiglio d'Europa a Strasburgo che monitora la corruzione, il 30 giugno 2007. GRECO è stato fondato nel 1999 da 17 paesi europei, oggi ne conta 49, e include anche paesi non europei. L'ultima valutazione di GRECO sullo stato della corruzione in Italia è stato pubblicato in marzo 2012, ed è disponibile in inglese e francese.

Se poi chi ti aiuta falsifica i verbali d’esame vi è Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici , previsto dall'art. 476 C.P. Il pubblico ufficiale, che, nell'esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero, e' punito con la reclusione da uno a sei anni. Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da tre a dieci anni.

Se poi chi ti aiuta, afferma in atti pubblici, che tu inabile al ruolo, sei invece capace e meritevole, vi è Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, punito dall'art. 479 c.p.: Il pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell'articolo 476.

Se poi chi ti aiuta fa parte di una commissione di esame (formata da avvocati od altre figure professionali specifiche al concorso o dall'esame; magistrati; professori universitari)  ed è d’accordo con i solidali vi è un’associazione a delinquere. L'associazione per delinquere è un delitto contro l'ordine pubblico, previsto dall'art. 416 del codice penale italiano. I tratti caratteristici di questa fattispecie di reato sono:

la stabilità dell’accordo, ossia l’esistenza di un vincolo associativo destinato a perdurare nel tempo anche dopo la commissione dei singoli reati specifici che attuano il programma dell’associazione. La stabilità del vincolo associativo dà al delitto in esame la tipica natura del reato permanente;

l'esistenza di un programma di delinquenza volto alla commissione di una pluralità indeterminata di delitti. La commissione di un solo delitto non integra la fattispecie in esame.

Parte della dottrina e della giurisprudenza richiede inoltre l’esistenza di un terzo requisito, vale a dire il fatto che l’associazione sia dotata di una "organizzazione", anche minima, ma adeguata rispetto al fine da raggiungere. Sul punto però non v'è uniformità di vedute: secondo taluno in dottrina non è necessaria alcuna organizzazione; secondo altri, invece, è indispensabile una struttura ben delineata "gerarchicamente" organizzata. Infine, soprattutto in giurisprudenza, si è sostenuto talvolta che è sufficiente una struttura "rudimentale". L'associazione per delinquere va ricondotta nella categoria dei reati a concorso necessario e presenta delle affinità con il concorso di persone nel reato (definito eventuale, poiché integra la fattispecie monosoggettiva); ciononostante i due istituti vanno tenuti nettamente separati. Infatti, mentre nel concorso di persone due o più soggetti s'incontrano e occasionalmente si accordano per la commissione di uno o più reati ben determinati dopo la realizzazione dei quali l'accordo si scioglie, nell'associazione per delinquere, invece, tre o più soggetti si accordano allo scopo di dar vita a un'entità stabile e duratura diretta alla commissione di una pluralità indeterminata di delitti per cui dopo la commissione di uno o più reati attuativi del programma di delinquenza i membri dell'associazione restano uniti per l'ulteriore attuazione del programma dell'associazione. Diretta conseguenza di ciò è che l'associazione per delinquere è punibile, teoricamente (non è questo il caso di trattare problemi di carattere probatorio), per il solo fatto dell'accordo, con un'eccezione rispetto alle ordinarie norme penali.

Se l'organizzazione stabilita ha carattere di sistema generale, taciuto, impunito e ritorsivo contro chi si ribella vi è l'associazione per delinquere di stampo mafioso. Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa un'associazione è quindi la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di omertà che ne deriva.

Gli obiettivi sono:

il compimento di delitti;

acquisire il controllo o la gestione di attività economiche;

concessioni;

autorizzazioni;

appalti o altri servizi pubblici;

procurare profitto o vantaggio a sé o ad altri;

limitare il libero esercizio del diritto di voto;

procurare a sé o ad altri voti durante le consultazioni elettorali.

Ciò nonostante si può star tranquilli che in Italia nulla succede se chi delinque sono quelle istituzioni che dettano legge ed operano i controlli.

Bari. Test per avvocati 2014-2015, trovati i soldi l’accusa: ora è di corruzione. Blitz a Giurisprudenza. Sequestrati i computer della dirigente Laquale, sotto inchiesta.  Indagate madre e figlia: pagarono per ottenere le tracce dell’esame, scrive Francesca Russi su Repubblica. Blitz dei carabinieri ieri mattina all'Università di Bari. I militari del nucleo investigativo si sono presentati negli uffici amministrativi di Giurisprudenza con un decreto di perquisizione firmato dalla pm della procura di Bari Luciana Silvestris. Al centro dell'indagine, che riguarda il tentativo di truccare le prove per l'esame da avvocato, c'è, infatti, il nome della dirigente amministrativa Tina Laquale in servizio a Giurisprudenza. Alla dipendente universitaria, 62 anni, accusata di aver passato gli elaborati delle prove scritte per la professione di avvocato a diversi candidati, sono contestati oltre alla violazione della legge 475 del 1925 che punisce chi presenta come proprio un lavoro altrui, anche i reati di corruzione in concorso e abuso d'ufficio. Ed è proprio questa la novità nelle indagini. Spunta il reato di corruzione. L'ipotesi, dunque, è che i candidati, per ottenere copia degli elaborati d'esame, abbiano pagato. Alla base dunque ci sarebbe stato uno scambio di soldi. Un elemento che finora non era ancora emerso e su cui si concentrano adesso le attenzioni degli investigatori. I carabinieri che si sono presentati a sorpresa ieri mattina negli uffici amministrativi di Giurisprudenza hanno sequestrato il computer in uso alla 62enne e hanno ascoltato anche altri dipendenti universitari in servizio in quello stesso ufficio e che potevano avere accesso a quel pc. I dati presenti in memoria nel computer verranno passati ora al setaccio dai periti informatici a caccia di prove che possano documentare quel tentativo di truccare il concorso di dicembre scorso a Bari. Anche eventuali file cancellati da dicembre scorso, quando i carabinieri intervennero nel corso dell'esame sequestrando copie degli elaborati pronte a essere distribuite tra i banchi ad alcuni candidati, a oggi potrebbero essere recuperati. Le perquisizioni sono state estese anche in casa della Laquale e nell'abitazione di altre due persone, Carmela Di Cosola e Rossella Trabace, rispettivamente mamma e figlia, iscritte nel registro degli indagati perché avrebbero, secondo la procura, consegnato denaro per poter passare l'esame. L'accusa nei confronti della Laquale, si legge nel decreto di perquisizione a firma del sostituto procuratore Silvestris, è di "ricezione illecita, nella sua qualità di pubblico ufficiale, di denaro corrisposto da Di Cosola in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio consistiti nella predisposizione e messa a disposizione, per mezzo di altri soggetti, in favore di Trabace degli elaborati riferiti alle prove scritte dell'esame di abilitazione alla professione di avvocato ". E anche, prosegue l'accusa, "in favore di numerosi candidati procurando loro il relativo vantaggio patrimoniale ingiusto ". Nei confronti di madre e figlia, 60 e 27 anni, invece, pesano le accuse di "illecita dazione di denaro materialmente corrisposto da Di Cosola Carmela a Laquale Nunzia, pubblico ufficiale che accettava la dazione in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio" (l'articolo 321 del codice penale che prevede le pene per il corruttore) e di violazione della legge 475 in particolare la "presentazione come propri degli elaborati da altri procurati". Bisognerà attendere ora le consulenze informatiche per capire se tra il materiale sequestrato ci siano elementi utili per l'inchiesta. Secondo quanto emerso finora dalle indagini dei carabinieri, il sistema si basava sulla presenza, all'interno del padiglione della Fiera del Levante in cui era in corso l'esame di avvocato, di un cancelliere della Corte d'appello, Giacomo Santamaria, segretario di una commissione, che avrebbe avuto il compito di fare arrivare ad alcuni ragazzi i compiti redatti all'esterno da tre professionisti, che potevano contare sul dirigente amministrativo del dipartimento di Giurisprudenza di Bari, Tina Laquale. Sarebbe stata lei, secondo i carabinieri, a portare dentro gli elaborati, accompagnata in Fiera da un autista della stessa Università di Bari. Sarebbero stati sei i giovani aspiranti avvocati che avrebbero dovuto beneficiare di quell'aiuto. Per averlo, è la nuova ipotesi contenuta nell'avviso di garanzia recapitato ieri alla Laquale, avrebbero pagato una somma in denaro. L'inchiesta, però, è ancora agli inizi e potrebbe ulteriormente allargarsi.

Catanzaro. Esame di Avvocato 2013-2014. Copiano gli esami per avvocato, annullati 120 compiti. Nulle le prove scritte degli aspiranti avvocati del distretto di Corte d’Appello: contenevano passaggi identici. La commissione ammette agli orali soltanto il 40% degli oltre 1.600 candidati, scrive “La Gazzetta del Sud”. La “sorpresa” all’apertura delle buste contenenti i compiti degli aspiranti avvocati del distretto di Catanzaro appena corretti a Firenze: ci sono passaggi identici nella bellezza di 120 prove scritte, molto probabilmente copiate da Internet. E pensare che non hanno avuto neanche la “furbizia” di modificare le prime due o tre righe. Naturalmente i 120 autori dei compiti risultati copiati sono stati tutti esclusi dall’esame; ritenteranno, nella speranza che serva loro da lezione. Resta però il dato di una mezza ecatombe: circa l’8% degli aspiranti avvocati dell’ultima sessione, a Catanzaro, ha copiato è stato punito dalla commissione. Le prove orali, secondo quanto è stato stabilito dal presidente della commissione, inizieranno il prossimo 4 luglio. E il sorteggio ha decretato che si comincerà con la lettera “L”. Accede agli orali, complessivamente, il 40% circa degli oltre 1.600 candidati. La percentuale di stangati si attesta dunque sulla media delle ultime stagioni. 

Lecce. Esame di Avvocato 2012-2013. L’Interrogazione parlamentare del  dr Antonio Giangrande, scrittore e Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia.

Al Ministro della Giustizia. — Per sapere – premesso che: alla fine di giugno 2013 si apprendeva dalla stampa che a Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di esame di avvocato presso la Corte d’Appello di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati dell’esame di avvocato sessione 2012 tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce. Più di cento scritti sono finiti sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati.

Tenuto conto che le notizie sono diffamatorie e lesive della dignità e dell’onore non solo dei candidati accusati del plagio, ma anche di tutta la comunità giudiziaria di Taranto, Brindisi e Lecce coinvolta nello scandalo, si chiede di approfondire alcune questioni (in relazione alle quali l’interrogante ritiene opportuno siano comunicati con urgenza dati certi) per dimostrare se di estremo zelo si tratti per perseguire un malcostume illegale o ciò non nasconda un abbaglio o addirittura altre finalità.

Per ogni sede di esame di avvocato ogni anno qual è la media degli abilitati all’avvocatura ed a che cosa è dovuta la disparità di giudizio, tenuto conto che i compiti corretti annualmente presso ogni sede d’esame hanno diversa provenienza. Se per l’esame di avvocato è permesso usare codici commentati con la giurisprudenza; Se le tracce d’esame di avvocato indicate del 2012 erano riconducibili a massime giurisprudenziali prossimi alla data d’esame e quindi quasi impossibile reperirle dai codici recenti in uso i candidati e se, quindi, i commissari, per l’impossibilità acclamata riconducibile ad errori del Ministero, hanno dato l’indicazione della massima da menzionare nei compiti scritti;

Nella sessione di esame di avvocato 2012 a che ora è stabilita la dettatura delle tracce; presso la sede di esame di avvocato di Lecce a che ora sono state lette le tracce; se in tal caso la conoscenza delle stesse non sia stata conosciuta prima dell’apertura della sessione d’esame con il divieto imposto dell’uso di strumenti elettronici; Quali sono le mansioni delle commissioni d’esame di avvocato: correggere i compiti e/o indagare se i compiti sono copiati e quanto tempo è dedicata ad  una o all’altra funzione;

Quali sono i principi di correzione dei compiti, ed in base ai principi dettati, quali sono le competenze tecniche dei commissari e se corrispondono esattamente ai criteri di correzione: Chiarezza, logicità e metodologia dell’esposizione, con corretto uso di grammatica e sintassi; Capacità di soluzione di specifici problemi; Dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati e della capacità di cogliere profili interdisciplinari; Padronanza delle tecniche di persuasione. Tra i principi indicati qual è la figura professionale tra avvocati, magistrati e professori universitari che ha la perizia professionale adatta a correggere i compiti dal punto di vista lessicale, grammaticale, sintattico,  persuasivo ed ogni altro criterio di correzione riconducibile alle materie letterarie, filosofiche e comunicative.

Quanti e quali sono le sottocommissioni in Italia che da sempre hanno scoperto compiti accusati di plagio e in base a quali prove è stata sostenuta l’accusa;

Quante e quali sono le sottocommissioni di Catania che hanno verificato il plagio de quo e quanti sono gli elaborati accusati di plagio ed in base a quali prove è sostenuta l’accusa.

Se le Sottocommissioni di Catania coinvolte erano composte da tutte le componenti necessarie alla validità della sottocommissione: avvocato, magistrato, professore.

Se tutti i compiti di tutte le sottocommissioni di esame di avvocato di Catania (contestati, dichiarati sufficienti, e dichiarati insufficienti) presentano segni di correzione (glosse, cancellature, segni, correzioni, note a margine);

Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (anche quelle che non hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione (apertura della busta grande, lettura e correzione dell’elaborato, giudizio e motivazione, verbalizzazione e sottoscrizione);

Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (quelle che hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione e quanto tempo alla fase di indagine con ricerca delle fonti di comparazione e quali sono stati i periodi di pausa (caffè o bisogni fisiologici).

Al Ministro si chiede se si intenda valutare l’opportunità di procedere ad un indagine imparziale ed ad un’ispezione Ministeriale presso le sedi d’esame coinvolte per stabilire se Lecce e solo Lecce sia un nido di copioni, oppure se la correzione era mirata, anzichè al dare retti giudizi,  solo a fare opera inquisitoria e persecutoria con eccesso di potere per errore nei presupposti; difetto di istruttoria; illogicità, contraddittorietà, parzialità dei giudizi.

Copiano all’esame, nei guai 12 avvocati salernitani, scrive "Salerno Notizie". Inchiesta sulla prova scritta del 2011 – 2012 per l’abilitazione professionale. La soluzione del compito fu presa da un sito internet, secondo l’accusa che ha portato sotto inchiesta 12 avvocati salernitani destinatari di un avviso di conclusione delle indagini . A darne notizia il quotidiano La Città oggi in edicola. La questione è seguita dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva. Al momento della correzione dei compiti dodici svolgimenti risultarono identici tra loro e uguali a quello proposto dal sito internet dal quale sarebbe stato copiato il compito. Il tema – scrive La Città - era quello del ruolo di pubblico ufficiale assegnato ai notai, e l’analisi dei dodici praticanti poi finiti sotto inchiesta era così uguale finanche nei dettagli da non lasciare ai membri della commissione nessun margine di dubbio.

Salerno. Copiano all’esame, indagati 12 avvocati. Inchiesta sulla prova scritta della sessione 2011/2012, scrive Clemy De Maio su La Città di Salerno. Che tra gli esaminandi di ogni categoria vi sia una quota che provi a “copiare” è storia vecchia, ma stavolta la tentazione di truccare la selezione è costata cara a dodici avvocati, finiti sotto inchiesta e destinatari di un avviso di conclusione delle indagini firmato pochi giorni fa dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva. Nel mirino c’è la sessione 2011/2012 per l’abilitazione alla professione forense e in particolare la prova scritta che nel dicembre di quattro anni fa si svolse nel campus universitario. Una prova finita da subito al centro delle polemiche perché alcuni candidati lamentarono un sistema di controllo d’impronta poliziesca, con l’utilizzo persino di metal detector. Eppure nemmeno quella sorveglianza così rigorosa bastò a evitare che qualcuno riuscisse a utilizzare in aula telefoni di ultima generazione e si collegasse al web per copiare un tema che nel frattempo era stato inserito sul sito Altalex, specializzato in argomenti giuridici. La commissione però se ne accorse. Al momento della correzione dei compiti dodici svolgimenti risultarono identici tra loro e uguali in tutto e per tutto all’elaborato circolato su internet. Il tema era quello del ruolo di pubblico ufficiale assegnato ai notai, e l’analisi dei dodici praticanti poi finiti sotto inchiesta era così uguale finanche nei dettagli da non lasciare ai membri della commissione nessun margine di dubbio. La correzione si svolse a Lecce, in ossequio al principio di incrocio tra le sedi che era stato introdotto per evitare il rischio di collusioni tra esaminandi ed esaminatori. Lì furono annullati i compiti copiati e da lì partì pure la segnalazione alla Procura, che dopo quasi tre anni e mezzo ha chiuso l’inchiesta. Nel frattempo quei giovani praticanti sono divenuti avvocati, superando l’esame negli anni successivi e specializzandosi chi nel diritto civile e chi in quello penale. Ora rischiano di dover affrontare un processo con l’accusa di violazione delle norme sul diritto d’autore, e hanno venti giorni di tempo per chiedere al magistrato di essere ascoltati e fornire la propria versione. «Valuteremo se richiedere l’interrogatorio» commenta l’avvocato Antonio Zecca, secondo il quale la vicenda impone ancora un approfondimento, innanzitutto sulla “paternità” del testo pubblicato sul web. «È mia opinione che il tema non sia stato redatto da chi lo ha firmato – spiega – ma che questi lo abbia preso a sua volta da altri testi e si sia limitato a divulgarlo». Qualcuno ha poi diffuso la notizia che lo svolgimento della traccia era on line e in dodici, secondo l’accusa, lo hanno copiato tal quale pensando così di assicurarsi il superamento dell’esame. Furono invece bocciati (come accadde in quell’anno al 51 per cento dei candidati) e ora si trovano sottoposti a un procedimento penale.

Salerno, l’inchiesta sull’esame divide gli avvocati. In dodici sono indagati per avere copiato da internet. Il presidente Montera: «Si controllino pure magistrati e notai», scrive Clemy De Maio su "La città di Salerno". «La Procura indaga sugli esami degli avvocati? E perché non si verificano pure quelli per magistrati o notaio, visto che negli anni scorsi un concorso al notariato è stato persino annullato perché qualche figlio “illustre” conosceva già le tracce prima di entrare». Più che una difesa, quello di Americo Montera è un contrattacco. E tanto per essere chiaro il presidente dell’Ordine degli avvocati getta subito la “palla” nel campo degli inquirenti: «Certo è stranissimo che si sia potuto copiare – osserva – visto che la prova si svolge sotto la stretta sorveglianza di una commissione di cui fanno parte anche magistrati». La sessione finita nel mirino è quella 2011/2012: agli scritti del dicembre 2011 parteciparono oltre 1250 candidati e in dodici sono ora sotto inchiesta con l’accusa di avere violato le norme sul diritto d’autore, copiando lo svolgimento di una traccia dal sito internet Altalex. Nei giorni scorsi hanno ricevuto un avviso di conclusione delle indagini firmato dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva e rischiano di dover affrontare un processo, sebbene nel frattempo siano divenuti avvocato superando gli esami degli anni successivi. Tre anni fa la loro prova fu invece annullata, la commissione di Catania che corresse gli scritti si accorse di quei compiti ciclostilati e decretò le bocciature. Ne nacque prima un contenzioso amministrativo, perché qualcuno presentò ricorso al Tar, e poi una denuncia penale che ha dato origine all’inchiesta. E dire che proprio quell’anno gli esami erano già finiti al centro delle polemiche per presunti eccessi nelle misure di vigilanza, giunte per la prima volta all’utilizzo del metal detector. A volerlo fu il presidente di commissione Andrea Di Lieto, avvocato e docente universitario, che ora apprende con sorpresa dell’esistenza di un procedimento penale: «Non ne avevamo saputo nulla – spiega – e d’altronde, non correggendo noi gli elaborati non potevamo renderci conto che ve ne fossero di uguali». Neanche i numeri delle bocciature avevano destato sospetti, perché statistiche alla mano i compiti annullati per irregolarità erano stati al di sotto della media. Però il sospetto che l’uso degli smartphone potesse inquinare la selezione lo avevano avuto: «Per questo pensammo ai metal detector – ricorda Di Lieto – ma dei sei che avevamo richiesto ne arrivarono solo tre. Li utilizzammo a rotazione sui vari varchi e ottenemmo la consegna volontaria di cento telefoni. Però controllare tutti era impossibile».

Eppure secondo il docente il potenziamento della vigilanza è soprattutto una questione di volontà ministeriale: «Di più si può fare, ma aumentando i costi e allungando i tempi, impiegando più personale e strumenti sofisticati. Altrimenti, se non si attivano tutte le procedure in astratto prevedibili, si deve ritenere fisiologico che una parte dei candidati non sia corretta. Accade ovunque e vale per tutte le categorie». Qualche modo per stringere la vite dei controlli ci sarebbe, magari prendendo a prestito gli strumenti da concorsi come quello per l’ingresso in magistratura «dove i libri devono essere consegnati nei giorni prima, in modo che la commissione possa visionarli». Ma su un irrigidimento della sorveglianza non tutti sono d’accordo, a cominciare dal presidente Montera che da quindici anni è alla guida dell’avvocatura salernitana. «Il nostro – sottolinea – è solo un esame per l’abilitazione professionale, cosa diversa dai concorsi che danno accesso a un posto di lavoro. E poi anche questa inchiesta... Non ne conosco i dettagli ma sulle ipotesi di plagio bisogna andarci cauti. Francamente? Mi pare si stia un po’ esagerando».

Gli aspiranti avvocati copiano i temi: 110 indagati a Potenza. L'esame di abilitazione è stato corretto a Trento nel 2007, scrive “La Stampa”. La Procura della Repubblica di Potenza ha inviato 110 avvisi. Un centinaio di elaborati troppo simili per poter parlare di semplice coincidenza. La Commissione esaminatrice di Trento, che nel dicembre 2007 ha corretto le prove scritte degli aspiranti avvocati lucani per l’esame di abilitazione professionale, decide per questo motivo di annullarle in quanto «copiate in tutto o in parte da altri lavori», segnalando poi l’accaduto alla Procura della Repubblica di Potenza: ne è scaturita un’inchiesta che ha portato a 110 avvisi di garanzia per gli esaminandi. La vicenda è emersa nel luglio 2008, con la pubblicazione dei risultati delle prove che si sono svolte a dicembre dell’anno precedente: l’esame prevede la redazione di due «pareri» (uno di diritto civile e uno di diritto penale) e di un atto a scelta, e si è svolto a Potenza con una Commissione composta da avvocati del Distretto. Gli elaborati, come da prassi, vengono poi inviati per la correzione a una Commissione esterna, stabilita attraverso un sorteggio. Nel 2007 è toccato a Trento, «così come per i tre anni precedenti - ha spiegato uno degli esaminandi - e abbiamo l’impressione che i commissari si siano accaniti contro di noi». Al termine delle correzioni un centinaio di elaborati sono stati annullati: non sarebbe stato però un unico testo quello copiato, ma tre diversi che hanno «ispirato» altrettanti gruppi di esaminandi lucani. La Commissione non si è però fermata alla bocciatura, ma ha segnalato l’accaduto alla Procura della Repubblica di Potenza, che ha aperto un’inchiesta per capire se, ed eventualmente come, le tracce sono state «passate» agli aspiranti avvocati. Il tutto è proseguito fino ai giorni scorsi, quando il pm di Potenza, Sergio Marotta, ha inviato 110 avvisi di garanzia e di conclusione delle indagini. Per il momento nessuno ha voluto commentare l’accaduto: l’Ordine degli avvocati di Potenza preferisce ricevere una comunicazione ufficiale dalla Procura prima di prendere una posizione e decidere eventuali provvedimenti disciplinari. La vicenda però ha avuto un effetto immediato, forse casuale, già nella sessione successiva, nel dicembre 2008, quando la sede per lo svolgimento della prova scritta è stata trasferita da un quartiere centrale di Potenza a una zona periferica e isolata della città. Dove, per altro, i cellulari hanno pochissimo campo.

Campobasso. Trentotto persone sono indagate nell'ambito di un'inchiesta sullo svolgimento dell'esame per diventare avvocato. L'esame, tenutosi nel dicembre del 2007 in Molise, sarebbe stato "truccato", scrive "Altro Molise". I compiti svolti da molti concorrenti sarebbero identici, cioè copiati. Il caso è finito nelle mani della Procura di Campobasso che ha iscritto sul registro degli indagati 38 persone, tutti concorrenti, quasi tutti molisani. Sono accusati del reato di attribuzione a sé di elaborati altrui in materia di concorsi pubblici. Sono stati già ascoltati dai giudici. Ma presto potrebbero essere contestati altri reati. Il presidente della commissione esaminatrice, l'avvocato Lucio Epifanio, difende l'operato dei commissari e ribadisce che tutto si è svolto nel rispetto delle leggi.

Ci sono molti giovani molisani fra gli indagati dello scandalo dei temi copiati all’esame di abilitazione alla professione di avvocato, scrive "Primo Numero". Dopo la comunicazione di chiusura delle indagini da parte del sostituto procuratore di Campobasso Rossana Venditti, emergono nuovi particolari sul caso dei temi copiati durante l’esame dell’anno 2007. Secondo l’accusa infatti, i 38 aspiranti avvocati ora indagati, avrebbero copiato in parte o nella totalità le tre prove previste, vale a dire un atto giuridico e due pareri legali. Secondo quanto emerso, la commissione giudicante, composta dalla Corte d’Appello di Trieste, avrebbe riscontrato temi uguali e divisi in sottogruppi. In alcuni casi il testo giuridico sembra sia stato copiato per filo e per segno. Il magistrato Venditti attende ora la scadenza dei 20 giorni durante i quali gli indagati potranno farsi interrogare o potranno presentare memorie giuridiche. Scaduto quel termine è molto probabile il rinvio a giudizio.

Copiano esame per diventare avvocati: 5 termolesi nei guai, continua "Primo Numero". Ci sono anche cinque ragazzi di Termoli e uno di Montenero di Bisaccia tra i 20 indagati dalla Procura di Campobasso per aver copiato l’esame per diventare avvocati. Passaggi importanti del tema di diritto civile e di diritto penale sono identici nei 20 elaborati che sono stati annullati dalla Commissione esaminatrice. Stanno per scadere i 20 giorni di tempo per essere ascoltati dal Pm. Stesse parole, punteggiatura identica, intere frasi copiate. La Procura di Campobasso non ha dubbi: 20 candidati molisani che hanno partecipato al concorso per avvocati nel dicembre del 2007 hanno copiato, e per questo ora sono indagati "per aver attribuito a se stessi elaborati altrui in materia di concorsi pubblici". Tra di loro ci sono anche cinque termolesi tra i 30 e i 33 anni, tre ragazzi e due ragazze e un giovane di Montenero di Bisaccia. Sono difesi dagli avvocati Antonio De Michele e Oreste Campopiano. In questi giorni, dopo aver ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, alla chetichella si stanno recando dal pm di Campobasso Rossana Venditti, chi a farsi interrogare chi a presentare memorie difensive. Sono accusati di aver copiato passaggi importanti sia del tema di diritto civile che di quello di diritto penale. Ora si dovrà capire chi è il vero autore degli elaborati e chi invece ha copiato anche se non sarà facile. I temi infatti non sono stati scaricati da internet come invece si era detto in precedenza. Ma c’è stato qualcuno che ha redatto gli elaborati e tutti gli altri invece si sono semplicemente limitati a svolgere il ruolo comprimario di amanuensi. Le prove erano state annullate a tutti i candidati con temi uguali dalla commissione esaminatrice della Corte di Appello di Trieste, sorteggiata per la correzione degli elaborati molisani. I membri della stessa poi avevano provveduto a mandare tutti gli atti alla Procura della Repubblica di Campobasso.

Sotto inchiesta la prova scritta che si è tenuta a Catanzaro nel '97. Avvisi di garanzia a legali di tutta Italia. Avvocati, all'esame di Stato hanno copiato 2.295 candidati su 2.301, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Laudemus sanctum Ivonem, qui fuit advocatus sed non latro. O res mirabilis!». Per decenni, quelle righette carogna contenute nel breviario dei parroci in ricordo di Sant' Ivo alla Sapienza, «avvocato ma non ladro», hanno fatto ridere e irritare intere generazioni di penalisti e civilisti. Una foltissima schiera di giovani legali, però, se l'è tirata. L'ha scoperto la Guardia di Finanza di Catanzaro che sta smistando 2.295 avvisi di garanzia ad altrettanti laureati in legge che, scesi in massa da tutte le lande italiche fino a Catanzaro per passare l'esame di Stato e diventare avvocati a fine '97, hanno fatto (o res mirabilis!) esattamente lo stesso identico compito. Esame per avvocato, compiti tutti uguali Truffa scoperta a Catanzaro: su 2.301 partecipanti solo sei non avevano copiato Riga per riga, parola per parola, virgola per virgola: 2.295 temi in fotocopia su 2.301 partecipanti. Fate i conti: a non avere avuto già il tema in tasca erano in 6. Lo 0,13% di onesti contro un 99,87% di truffatori. Riassunto per i non addetti. Per diventare avvocato occorre prendere la laurea in giurisprudenza, iscriversi all'albo dei praticanti procuratori, fare due anni di pratica nello studio di un avvocato, frequentare le aule di giustizia per accumulare esperienza e «imparare il mestiere», farsi timbrare via via dai cancellieri un libretto sul quale viene accertata l'effettiva frequenza alle udienze e infine superare l'esame di Stato, che viene indetto anno dopo anno nelle sedi regionali delle corti d'appello. Esame non facile. Basti dire che sulla prova scritta (che prevede tre temi: diritto penale, civile e pratica di atti giudiziari) o sulla successiva prova orale si schianta in media oltre la metà dei concorrenti. Con qualche ecatombe qua e là, soprattutto al Nord, segnata da picchi del 94% di respinti. A Catanzaro no. Sarà l'aria buona, sarà il profumo del bergamotto, sarà la percentuale di ferro nell' acqua, ma non c'è allievo che, messo davanti al foglio protocollo o assiso davanti a una commissione, non riesca a tirar fuori il meglio di sé. Basti leggere le tabelle dei promossi e dei bocciati agli esami di maturità pubblicata ieri dalla Gazzetta del Sud. Promossi: 98,84%. Bocciati: 1,16%. Ma molti istituti hanno fatto di meglio: tutti promossi i 133 ragazzi del liceo classico «Fiorentino», tutti i 207 dello scientifico «Siciliani», tutti i 209 dell'Itis «Scalfaro» e così via: 19 istituti su 34 senza un trombato. Fantastico il rendimento alle magistrali «Cassiodoro»: sono usciti col massimo dei voti (100 su 100) 34 giovani su 141 iscritti. Un genio ogni quattro. Va da sé che la voglia di respirare queste brezze salutari, benefiche anche per gli aspiranti avvocati (se è vero che nel 1995, per prendere un anno a caso, venne promosso oltre il 90 per cento dei candidati, è cresciuta di anno in anno, a mano a mano che la fama di Catanzaro risaliva la Penisola, dilagava tra le colline dell'Astigiano, si incuneava nelle valli della Carnia, allagava le piane mantovane. Ma come superare l'handicap della legge, che stabilisce che tu possa fare l' esame a Trento oppure a Palermo soltanto se risulti residente lì da almeno 6 mesi, durante i quali devi aver fatto parte di uno studio legale del posto e aver fatto timbrare il tuo libretto di pratica negli uffici giudiziari locali? Un bel problema. Irrisolvibile se gli avvocati catanzaresi, che per bontà d' animo e disponibilità verso la gioventù non hanno eguali al mondo, non avessero via via accolto nei loro studi mandrie annuali di laureati in legge provenienti da Roma (14%), Torino (6%), Milano (3%), Genova (3%) e così via. Giovani comunisti umbri, leghisti lombardi, forzisti veneti, diessini liguri, postfascisti laziali, popolari friulani. Magari accomunati nella feroce contestazione verso il «lassismo» meridionale, ma compatti nel cercare di prender parte alla spartizione della torta. E che torta! Pensate solo che nel ' 95 i partecipanti in corsa a Catanzaro furono esattamente quanti quelli di Milano e il doppio di quelli di Torino. E che nel '97, l'anno finito nel mirino dei sostituti procuratori Luigi De Magistris (poi trasferito a Napoli) e Federica Baccaglini (una padovana che fra un mese dovrebbe lei pure passare a un'altra sede), riuscirono a superare l'esame, in tutta intera l'Italia, circa 8.000 procuratori legali. Ai quali, se non fosse saltato tutto per la scoperta della truffa, si sarebbero aggiunte altre duemila «pagliette» promosse nel solo capoluogo calabrese. Una su cinque. Meglio di una fiera dell'agricoltura o del passaggio del Festivalbar era, per Catanzaro, l'appuntamento annuale con l'esame. I 260 posti nei 5 alberghi cittadini venivan prenotati con mesi d'anticipo, nascevano qua e là «pensioni» improvvisate per accogliere le torme di pellegrini giudiziari, riaprivano in pieno inverno i villaggi sulla costa che talora offrivano il pacchetto completo: camera, colazione, cena e minibus per portare gli ospiti direttamente alla sede dell' esame dove erano attesi dalla commissione: avvocati, magistrati di corte d'appello, giudici di cassazione, professori universitari. Il tutto senza che i vertici del Palazzo di Giustizia locale, tra cui c'era ad esempio l' attuale «governatore» regionale forzista Giuseppe Chiaravalloti, sentissero mai puzza di bruciato. Finché, un bel giorno ai primi del 1998, grazie probabilmente a una soffiata anonima di chi non ne poteva più dell'andazzo, non viene fuori che una ventina di compiti svolti in dicembre dai candidati riuniti al liceo classico «Galuppi» erano identici. Calligrafie diverse, ovvio. Ma i testi parevano fotocopiati: pagina dopo pagina, riga dopo riga. In marzo, il ministero chiede informazioni. La Commissione d'esame, tenetevi forte, risponde che «non è corretto fare riferimento a gravi irregolarità» ma «soltanto» (testuale: soltanto...) a «comportamenti improvvidi quanto sciocchi di candidati che, al postutto si ritorcono a loro danno, avendo provveduto questa Commissione all' annullamento degli elaborati identici». Cosa abbiano scoperto in realtà, setacciando uno per uno tutti i temi, i due magistrati autori dell' inchiesta e i finanzieri che con il capitano Fulvio Marabotto si sono dovuti sciroppare il noiosissimo confronto tra i 2.301 temi trovando infine quei sei sparuti «fessi» che non avevano copiato l' abbiamo raccontato. Come abbiano fatto tutti quegli aspiranti «uomini di legge» a infognarsi in una faccenda così zozza senza che alcuno sentisse poi il bisogno di andare dal giudice lo racconteranno loro stessi nei prossimi interrogatori. A noi resterà, comunque, un piccolo rovello: superato lo scritto, come se la sarebbero cavata con l'esame orale di deontologia? Potete scommetterci: sarebbe stato un trionfo.

Cassazione SU: l’avvocato che favorisce i candidati durante l’esame di abilitazione va sospeso, scrive Francesca Russo su Filo Diritto del 16 febbraio, le Sezioni Unite hanno rinviato al Consiglio nazionale forense la decisione sulla sospensione di un avvocato per aver aiutato un candidato durante l’esame di abilitazione. Nel caso in esame, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma aveva irrogato ad un avvocato la sanzione disciplinare della cancellazione dall’Albo, avendolo ritenuto colpevole della violazione dei doveri di probità, dignità e decoro (articolo 5 del vigente Codice deontologico forense), di lealtà e correttezza (articolo 6 Codice deontologico forense) nonché del dovere di agire in modo tale da non compromettere la fiducia che i terzi debbono avere nella dignità della professione (articolo 56 Codice deontologico forense). L’avvocato era accusato di essersi abusivamente introdotto munito di appunti e trasmettitori, esibendo tesserino simile a quello in dotazione ai commissari di esame e qualificandosi delegato del Consiglio dell’ordine, nelle aule di un Hotel, mentre si svolgeva la sessione di esami di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato per l’anno 2010, ed aver tentato di favorire partecipanti all’esame. Avverso la decisione del Consiglio nazionale forense, di integrale conferma di quella del Consiglio territoriale, l’avvocato aveva proposto ricorso per Cassazione in quattro motivi, lamentando:

1) la mancata sospensione del giudizio nonostante la pendenza, in relazione ai medesimi fatti, di procedimento penale per il reato di cui agli articoli 340 e 494 del codice penale;

2) il mancato rilievo della nullità del giudizio di primo grado per avervi preso parte un componente del Consiglio dell’Ordine, poi dichiarato decaduto con decisione del Consiglio nazionale;

3) la carenza di prova, con particolare riguardo alla mancata ammissione di testi a discarico;

4) la misura eccessiva e sproporzionata della sanzione in rapporto al comportamento ascrittogli.

Per quanto riguarda il primo motivo, la Cassazione ritiene che non può omettersi di rilevare che non risulta provato in atti il concreto esercizio di azione penale a carico del ricorrente per i medesimi fatti oggetto del giudizio.

Quanto al secondo (sulla composizione del collegio del Consiglio territoriale dell’Ordine), deve considerarsi che la decisione del Consiglio nazionale forense appare aver tratto, dalla natura amministrativa delle funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli dell’Ordine degli avvocati e del correlativo procedimento (Cassazione, SU 20360/07, 23240/05), coerente corollario in merito alla validità di deliberazione, che, in rapporto alla circostanza dedotta, non risulta specificamente censurata con riguardo all’osservanza del quorum prescritto.

Il terzo motivo (sulla prova dell’illecito), secondo la Cassazione, si rivela, poi, inammissibile, giacché il ricorrente riporta in termini essenzialmente generici il contenuto delle prove testimoniali che sostiene ingiustificatamente non ammesse dal giudice disciplinare; mentre le uniche circostanze concrete in proposito riferite (in merito alle giustificazioni fornite al personale di vigilanza sulla sua presenza nel luogo dell’esame) non risultano decisivamente contraddire il tenore dell’incolpazione attribuitagli.

Pertanto, la Corte, a Sezioni Unite, rigetta i primi tre motivi di ricorso e, decidendo sul quarto motivo incidente sulla misura della sanzione, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, al Consiglio nazionale forense. (Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 16 febbraio 2015, n. 3023).

UNA COSA E’ CERTA. NESSUNO DI COLORO CHE HA USUFRUITO O HA AGEVOLATO UN CONCORSO TRUCCATO E’ STATO MAI CONDANNATO O RADIATO. SE POI VAI A PARLAR CON COSTORO SI DIPINGONO ANIME BIANCHE E TI ACCUSANO DI MITOMANIA O PAZZIA. ADDIRITTURA ARRIVANO A DIRTI: TI RODI PER NON AVER SUPERATO L'ESAME O IL CONCORSO!!!

Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Chi non è raccomandato, scagli la prima pietra.

Essere raccomandati in un’azienda privata è una cosa lecita. Esser raccomandati per vincere un concorso pubblico o un esame di Stato è reato. Spesso, però, per indulgenza o per collusione, le cose si confondono.

Se non basta un muro di parole per vincer la resistenza degli scettici, allora è solo mala fede in loro.

La Costituzione all'art. 3 non cita che siamo tutti uguali o tutti discendenti di eccelsi natali, esplica solo che tutti siamo uguali, sì, ma di fronte alla legge!!!

Calcio, politica e soldi. Tutti i luoghi comuni dell'italiano medio. Da "i ricchi evadono" al "solito inciucio": ormai le litanie dilagano. E chi le recita si sente un po' più onesto degli altri, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. A cominciare dalla considerazione «Solo in Italia». Solo in Italia ci sono mille parlamentari. Solo in Italia non trovano i colpevoli dei delitti. Solo in Italia la giustizia funziona male, ovviamente se per caso tocca noi, se tocca un altro «dovrebbero metterlo dentro e buttare la chiave», come fanno all'estero. Tanto nessuno conosce l'estero, per questo ogni legge elettorale te la propongono alla francese, alla tedesca, all'americana, per mostrare di conoscere il mondo quando non si sa un cavolo neppure di come si vota in Italia. Coltivando il mito di paesi nordici come la Scandinavia o la Norvegia, dove i servizi funzionano a meraviglia, dove lo tasse sono bassissime, basta che non domandi dove sta la Norvegia perché non saprebbero neppure indicartela sulla carta geografica. Sebbene abbiano sentito Grillo che ti spiega come lì si ricicli anche la pupù. Ma perché non cerchi lavoro? Perché tanto «non c'è lavoro», perché «bisogna andare fuori», e poi tutti sono sempre qui, mai che muovano il sederino, come all'estero appunto. Tanto «è tutto un magna magna», e «tutti rubano», sempre a sottintendere che chi lo dice non appartiene alla categoria, sempre a sottolineare una propria specchiatissima onestà, perché solo in Italia «i ricchi evadono lo tasse», l'hanno visto da Santoro e a Report, te lo dice il barista che intanto non ti rilascia lo scontrino fiscale e il medico o l'idraulico che senza fattura, se vuoi, paghi meno, e tu ci stai perché tanto mica te la scarichi, come in America. Tanto «gli italiani so' tutti ignoranti», sbotta quello che non ha mai aperto un libro e un quotidiano lo sfoglia a scrocco mentre sbocconcella il cornetto, leggendo solo i titoli, non per altro quanto a lettura di giornali veniamo dopo la Turchia, e l'editoria è in crisi qui più che altrove, perché se si legge qualcosa «l'ho letto su internet». Che poi se cerchi lavoro, è noto, «prendono solo raccomandati», e intanto non è che per caso conosci qualcuno? In un paese dove «non c'è meritocrazia», e mica se ne lamenta il laureato a Harvard, se ne lamentano tutti, un popolo di meritevoli, informati, studiosi, sentono che c'è «la fuga dei cervelli» e si identificano subito col cervello in fuga. Mai sentito nessuno che ammetta di non essere all'altezza, di aver studiato poco, di non meritarsi nulla, tutti sanno tutti, in qualsiasi campo, dalla medicina all'economia. Convintissimi che se i parlamentari si tagliassero lo stipendio si abbasserebbe il debito pubblico. O almeno potrebbero «dare l'esempio», quasi che i deputati fossero arrivati in parlamento con un'astronave e non li avessero votati loro. Perché qui «è tutto un inciucio», e nel frattempo pure a me scrittore, nel mio piccolo, arrivano in posta sporte di manoscritti mediocri che vogliono essere letti da gente che non ha mai letto niente, tanto meno me, ma se glielo fai notare rispondono «Mica sarà peggio di tanti che pubblicano?». È il diritto alla mediocrità, solo in Italia.

Eguaglianza «aritmetica» o «proporzionale», secondo la distinzione di Aristotele? Nel punto d'arrivo o di partenza? Verso l'alto o verso il basso, come vorrebbero le teorie della decrescita? Se due mansioni identiche ricevono retribuzioni differenti, dovremmo elevare la peggiore o abbassare la piú alta? Ed è giusto che una contravvenzione per sosta vietata pesi allo stesso modo per il ricco e per il povero? Sono giuste le gabbie salariali, il reddito di cittadinanza, le pari opportunità? E davvero può coltivarsi l'eguaglianza fra rappresentante e rappresentato, l'idea che «uno vale uno», come sostiene il Movimento 5 Stelle? In che modo usare gli strumenti della democrazia diretta, del sorteggio e della rotazione delle cariche per rimuovere i privilegi dei politici? Tra snodi teorici ed esempi concreti Michele Ainis ci consegna una fotografia delle disparità di fatto, illuminando la galassia di questioni legate al principio di eguaglianza. Puntando l'indice sull'antica ostilità della destra, sulla nuova indifferenza della sinistra verso quel principio. E prospettando infine una «piccola eguaglianza» fra categorie e blocchi sociali, a vantaggio dei gruppi piú deboli. Una proposta che può avere effetti dirompenti.

Siamo tutti bravi a sciacquarci la bocca sull'uguaglianza. Ecco il fenomeno dei populisti.

Il largo uso che i politici e i media fanno del termine "populismo" ha contribuito a diffonderne un’accezione fondamentalmente priva di significato: è rilevabile infatti la tendenza a definire "populisti" attori politici dal linguaggio poco ortodosso e aggressivo i quali demonizzano le élite ed esaltano "il popolo"; così come è evidente che la parola viene usata tra avversari per denigrarsi a vicenda – in questo caso si può dire che "populismo" viene talvolta considerato dai politici quasi come un sinonimo di "demagogia".

Ritorsioni se dici la verità: sì, ma come si fa a tacere queste mascalzonate?

Equitalia, milioni di cartelle a rischio: 767 dirigenti nominati senza concorso, scrive Blitz quotidiano.

La Corte Costituzionale abbatte Equitalia. I dirigenti? Tutti falsi, scrive Angelo Greco su “Legge per Tutti”.

"Università, altro che merito. E' tutto truccato. Vi racconto come funziona nei nostri atenei". Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati. Un ex dottorato spiega nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra raccomandazioni e correnti di potere. E qualcuno non vuole che il libro in cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato, scrive Maurizio Di Fazio su “L’Espresso”.

Chi non è raccomandato scagli la prima pietra. Più di quattro milioni di italiani sono ricorsi a una raccomandazione per ottenere un'autorizzazione o accelerare una pratica. E 800mila hanno fatto un "regalino" a dirigenti pubblici per avere in cambio un favore. Sono alcuni dati emersi da una ricerca realizzata dal Censis.

Non solo. Il coro di voci, che hanno chiesto le dimissioni al Ministro Lupi del governo Renzi, è roboante. Tra i vari aspetti della vicenda Incalza che lo vedono coinvolto, al ministro delle Infrastrutture non viene perdonata la presunta raccomandazione per il figlio. Ma è davvero così peccaminoso prodigarsi per il proprio figlio come ogni genitore farebbe, oltretutto, in un Paese dove la raccomandazione è all'ordine del giorno?

E’ inutile negarlo, la pratica della raccomandazione è la sola che funziona perfettamente nel nostro Paese, anche perché coinvolge ognuno di noi in maniera democratica senza distinzione di genere, scrive “Panorama”. Ci sono gli italiani che raccomandano e gli italiani che si fanno raccomandare, una sorta di catena di Sant’Antonio che prosegue all’infinito. Almeno una volta nella vita bisogna provare l’ebbrezza della spintarella, anche quando si è coscienti che questa non servirà a nulla per raggiungere l’ambita destinazione, qualsiasi essa sia (il posto di lavoro, la visita medica, l’esame all’università) e non importa se alla meta arriverà un altro, perché la nostra osservazione sarà “chissà chi lo ha raccomandato…!” E poi ci sentiamo a posto con la coscienza per due motivi, il primo perché, comunque, il tentativo lo abbiamo fatto, il secondo perché la volta successiva non ci faremo trovare impreparati, anzi ci organizzeremo meglio cercando una spinta più potente. Forse un giorno potremo anche inserirla nel curriculum vitae.

Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Questi avvocati esercitano.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”.

Ma guarda un po’, sti settentrionali, a vomitar cattiverie e poi ad agevolarsi del…sole calabro.

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Quando si dà la caccia ai figli per colpire i padri, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. E poi dicono, i potenti, povero ministro Lupi. Un figlio laureato con 110 e lode al Politecnico di Milano, e tutto quello che gli trova è un lavoretto su un cantiere Eni a partita iva da 1300 euro mese. Un precario aggiunto ai milioni di giovani senza posto fisso. E sì che mica lo poteva infilare in una delle cooperative di Comunione e liberazione, quelle ormai stanno nell’occhio del ciclone, e poi che fai, vai a pulire il culo degli ammalati negli ospedali, dai i pasti alla mensa, ti sbatti coi tossici, ricicli i libri usati, oh, c’ha una laurea al Politecnico. E però, per i figli si farebbe tutto, certo. Anche mettendoti a rischio. I figli sono pezzi di cuore, sono quello per cui ti sbatti, sono quello che rimarrà di te, sono il punto debole. È una costante questa. Sarà che noi italiani c’abbiamo il familismo amorale, c’abbiamo. Prima di tutto la famiglia, i figli.

Chissà se hanno telefonato per i loro figli in carriera. Indignazione per Lupi jr, ma nessuno si chiede se i rampolli dei leader democratici abbiano avuto l'aiutino. Dagli eredi dei presidenti alle ragazze di Veltroni e D'Alema, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Mio figlio è laureato al Politecnico con 110 e lode, gli faccio sempre questa battuta: purtroppo ha fatto Ingegneria civile e si è ritrovato un padre ministro delle Infrastrutture» si difende Maurizio Lupi, accusato di familismo all'italiana. Quella è una sfortuna che capita spesso ai figli di potenti, quasi sempre dotati di grande talento tanto da meritare posti prestigiosi, carriere formidabili, magari in settori affini a quelli di papà o mammà. Così viene il sospetto, malizioso e certamente infondato, che qualche telefonatina per lanciare i rampolli, una sponsorizzazione paterna o materna, sia prassi diffusa. Anche a sinistra, magari a partire da chi si indigna per Lupi jr. Avere parenti potenti non serve, se si è bravi, però aiuta. Sempre che non li intercettino.

Caso Lupi, Giampiero Mughini su Dago critica Giuliano Ferrara: "Tutti siamo stati raccomandati, anche tu", scrive “Libero Quotidiano”. Chi è senza raccomandazione alzi il ditino da moralista. Giampiero Mughini interviene a piedi uniti nel dibattito sul ministro Maurizio Lupi e la sospetta raccomandazione che avrebbe fatto al figlio ingegnere per farlo lavorare. A far saltare la mosca al naso di Mughini è un pezzo di Giuliano Ferrara sul Foglio che in un passaggio scrive: "Non mi hanno ristrutturato case a buon prezzo, assunzioni di parenti no e poi no, non li conosco. Le cricche mi sono lontane". Apri cielo: Mughini in una lettera a Dagospia prima ricostruisce il suo ingresso nel mondo del lavoro, ricordando la lettera di raccomandazione scrittagli da Gian Carlo Pajetta per lavorare a Paese Sera. Poi passa proprio all'Elefantino, sulla cui vita ha anche scritto un libro in passato: "Era stato Alberto Ronchey, negli anni Cinquanta moscoviti collega di papà Maurizio Ferrara, a intercedere presso il Corriere della Sera perché Giuliano potesse iniziarvi una sua collaborazione". Con il ministro di Ncd, Mughini dice di non avere legami, quindi nessuna difesa di ufficio. Se poi venisse confermata la telefonata con la quale Lupi avrebbe chiesto un lavoro per il figlio: "Io - scrive Mughini - altissimamente me ne strafotto. E tutti quelli che si stanno alzando con il ditino puntato - continua - hanno a che vedere con la faziosità politica".

"La credibilità dello Stato oggi è ampiamente compromessa e il primo atto, lo dico non per ragioni giudiziarie, ma per ragioni politiche, dovrebbe essere una bonifica radicale del ministero delle Infrastrutture, e anche le dovute dimissioni del ministro competente". Lo ha detto il leader di Sel e presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, parlando il 17 marzo 2015 oggi a Bari con i giornalisti in merito alla maxi operazione dei Cc del Ros sulla gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere. Certo che non vi è vergogna nei nostri politici. Si parla delle dimissioni di Lupi che non è indagato. Mentre chi le chiede, e gli esponenti del suo partito, nel processo a Taranto "Ambiente Svenduto", per loro la Procura ha chiesto al giudice per l'udienza preliminare Wilma Gilli il rinvio a giudizio. Chiesto dalla Procura il rinvio a giudizio per il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, per il sindaco di Taranto, Ezio Stefàno, per gli attuali assessori regionali all'Ambiente, Lorenzo Nicastro, e alla Sanità, Donato Pentassuglia, quest'ultimo all'epoca dei fatti presidente della commissione regionale Ambiente, nonché per l'allora assessore regionale Nicola Fratoianni, oggi deputato di Sel.

Vittorio Feltri: “Se Santoro è giornalista la colpa è mia che l’ho promosso all’esame. Si dà infatti il caso che Santoro sia diventato giornalista professionista con il mio contributo, giacché facevo parte della commissione all'esame di Stato che lo promosse e gli consentì l'iscrizione all'Ordine nazionale dei giornalisti. Era il 1982. Me lo ricordo perché erano in corso i Mondiali di calcio in Spagna, quelli vinti dall'Italia con Sandro Pertini in tribuna d'onore. La vita del commissario esaminatore aveva qualche risvolto piacevole. Feci comunella con Giuseppe Pistilli, vicedirettore del Corriere dello Sport, il quale sedeva con me nel sinedrio. La sera andavamo a cena insieme. Il ponentino e il Frascati ci aiutavano a dimenticare le miserie cui avevamo assistito durante la giornata nel valutare i candidati. Ancora non avevo maturato la convinzione che l'Ordine dei giornalisti fosse un ente inutile, anzi peggio: dannoso. Pistilli contribuì a instillarmi qualche sospetto, illustrandomi come funzionava la commissione d'esame. Esempio: un aspirante scriba ti era stato raccomandato o ti stava a cuore? Bene, si trattava di farsi dare da lui le prime righe dell'articolo che aveva steso durante la prova scritta. Nessuno comincia un pezzo nella stessa maniera del compagno di banco, chiaro no? Perciò, non appena s'iniziava la lettura ad alta voce e in forma anonima degli elaborati, all'udire l'attacco familiare il commissario dava un calcetto sotto il tavolo a chi gli stava accanto. Costui a sua volta sferrava un calcetto al commissario più vicino, e avanti così. Con sei calcetti, il candidato era promosso. Dopodiché ricevevi a tua volta altri colpi negli stinchi e dovevi restituire il favore ricevuto. In questo modo passavano l'esame (e lo passano tuttora) asini sesquipedali.”

Il tribunale del popolo guidato da Di Pietro, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Maurizio Lupi non è un indagato. È un condannato dal Tribunale del Popolo composto di giornalisti invidiosi, magistrati esibizionisti e una folla di tricoteuses opportunamente istigata dai Paladini della Virtù che passeggiano per i talkshow spargendo il proprio verbo, la propria “moralità”. Il 17 marzo 2015 mattina si è svegliato presto Antonio Di Pietro, si è collegato subito con Radio24, poi è corso in Rai per farsi intervistare ad Agorà sgusciando poi via velocemente per planare su La7. Una fatica per chi ha tante lezioni di moralità da elargire al ministro Maurizio Lupi. Che non è indagato, ma condannato perché “forse” si è lasciato regalare un vestito da un imprenditore suo amico di famiglia, il quale avrebbe anche donato un orologio costoso a suo figlio in occasione di una laurea particolarmente brillante al Politecnico di Milano. Tra le imputazioni di stampo moralistico c’è anche un posto di lavoro temporaneo al neo-ingegnere in un cantiere. Giusto quindi che intervenga subito il Pm più famoso d’Italia. Un plauso a tutti i conduttori che hanno pensato di invitare proprio Di Pietro a commentare i comportamenti di Lupi. È uno che se ne intende.

Da quale pulpito vien la predica?

Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.

L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.

Corrado Carnevale: "Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato...", scrive “Libero Quotidiano”. Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi su “Il Giornale”.

Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”.

Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”: L'Italia è una repubblica fondata sullo scandalo. Dai tempi di Cavour a Mani Pulite: ogni vent’anni un’indagine-choc. Corsi e ricorsi storici delle tangenti, specchio di un Paese che non cambia. Il commento dello scrittore-magistrato. La fiction “1992” è bella e coraggiosa. Racconta - ed è già questo un merito innegabile - la controversa stagione di Mani Pulite. Lo fa con la disinvolta ferocia narrativa che è il marchio di fabbrica delle grandi serie. “1992” è televisione avanzata. Ma ha anche un altro merito. “1992” declina con linguaggio di oggi una vicenda che affonda radici profonde nella storia d’Italia. Una storia antica: la storia della nostra corruzione. Una storia cominciata tanti anni fa. Conquistato il Sud grazie all’impresa dei Mille, il conte di Cavour si mette all’opera per disegnare il futuro della nuova nazione. Giorgio Asproni, deputato sardo, alta carica massonica, ex-prete, esponente dell’estrema sinistra mazziniana, nei suoi impietosi diari annota disgustato l’incessante processione di faccendieri, ufficiali, imprenditori che assediano l’ufficio di Cavour a Palazzo Carignano. Tutti a vantare inesistenti meriti patriottici, tutti a implorare un incarico, una commessa, un’onorificenza. Ciò che l’incendiario Asproni non può sapere è che in quegli stessi momenti Cavour, il liberale, l’odioso tessitore di trame che i democratici accusano di essersi impossessato per turpi fini della bandiera della Patria, proprio Cavour, prova, nei confronti dei questuanti, sentimenti non molto dissimili. Al punto da bollare i clientes con parole di fuoco. Asproni e Cavour, ciascuno eroico a suo modo, divisi da visioni radicalmente inconciliabili della Storia (e della natura umana) su un punto concordano: il disprezzo per quei molli figuri che non versarono una sola goccia di sangue per la “causa” e ora si avventano sulla greppia dell’Italia unita. Ma se Asproni li metterebbe volentieri al muro, corrotti e corruttori, Cavour, secondo il suo costume, pensa di poterne agevolmente “trarre partito”. Costruire dal nulla un’identità nazionale è compito arduo, ai limiti dell’impossibile. Nella fase d’avvio non si può andare tanto per il sottile. Anche gli affaristi servono, e servono i faccendieri. Cavour opera una scelta di campo destinata a ipotecare pesantemente il nostro futuro. Il destino fa il resto. Cavour, che forse sarebbe riuscito a contenere le smanie predatorie nell’alveo della fisiologia democratica, muore troppo presto. I suoi successori non si riveleranno all’altezza. Quindici anni dopo l’Unità, nel 1875, un popolano trasteverino accoltella a morte Raffaele Sonzogno, coraggioso giornalista calato a Roma dal Nord, animatore di inchieste sul dilagante malaffare post-unitario. Il sicario viene subito arrestato, ma è chiaro che, secondo uno schema destinato a ripetersi drammaticamente negli anni, se il pugnale viene dalla strada, l’ordine è partito dal Palazzo. Giancarlo De Cataldo Dietro l’uccisione di Sonzogno c’è una colossale speculazione edilizia sui terreni espropriati al Vaticano. Sono coinvolti banchieri, palazzinari, preti attenti al portafoglio, pezzi della Destra storica, che uscirà sconfitta dalle elezioni dell’anno dopo, e pezzi della Sinistra che già pregusta la vittoria, e persino un rampollo “agitato” dell’eroe dei Due Mondi. Una pregevole compagnia di giro che ritroveremo spesso nella cronaca del nostro Paese. Troppo, per una nazione appena nata. L’inchiesta, abilmente pilotata, porta alla condanna del deputato Luciani. Movente: una questione di corna. Luciani becca una condanna tombale, e invano, per anni, minaccerà sconvolgenti rivelazioni. Dalla speculazione verranno poste le basi per uno dei tanti, anch’essi ricorrenti, “sacchi” di Roma. Qualche anno dopo, nel 1892, un giornale satirico della capitale, “Il carro di Checco”, svela la vicenda finanziaria che passerà alla storia come “scandalo della Banca Romana”. Incalzato dal battagliero Napoleone Colajanni, il governo è costretto a nominare una commissione d’inchiesta. Emergono notevoli reati: si va dalla fabbricazione e spaccio di monete false al falso in bilancio, dalle false fatturazioni alla corruzione dei funzionari e deputati incaricati dei controlli, passando per la costituzione di “fondi neri” riversati nelle tasche di personaggi pubblici. Coinvolto il gotha politico del tempo, Giolitti in testa, lambita Casa Savoia. Giolitti, anche se non è più ministro, pretende e ottiene una giurisdizione “politica”. Il finale è deprimente, con la morte per suicidio di un onorevole accusato di un reato minore e il proscioglimento generale. Favorito, si disse, da un’attenta “gestione” dei materiali probatori concordata fra Governo e vertici della magistratura. Grande e diffusa fu la frustrazione. Un giurista scrisse che si era consacrata «l’immoralità di chi ha troppo mangiato e che dopo il pasto pare abbia, come la lupa di Dante, più fame di pria». La stampa, come sovente accade, deplorò. E tutto ricominciò come prima. Fra l’altro, proprio mentre si dibatteva della Banca Romana, in Sicilia veniva assassinato Emanuele Notarbartolo di San Giovanni. Un banchiere onesto che si era messo di traverso alle speculazioni ordite da quella che, allora, si chiamava “Alta Mafia”. Fu incriminato per questo omicidio l’onorevole Palizzolo, poi assolto all’esito di un interminabile processo. Il vecchio liberale Gaetano Mosca parlò di «disfatta morale». Gli amici festeggiarono la liberazione di Palizzolo noleggiando una nave con tanto di gran pavese. In tempi più recenti, sembra essersi affermata una paradossale “legge del venti”. Nel senso che ogni vent’anni circa il Paese “scopre” uno o più colossali scandali a base di corruzione. Si deplora, si invocano cambiamenti legislativi, emergono demagoghi più o meno versati nell’arte di arringare le masse promettendo “pulizia”, si adottano misure asseritamente restrittive, si fanno esami di coscienza, si va in Tribunale. Nel 1974 alcuni giovani giudici, definiti con un certo risentimento “pretori d’assalto” (l’anticamera del “giudici ragazzini” di qualche anno dopo), scoprono che i petrolieri pagano i ministri per ottenere leggi favorevoli alla propria lobby. Sandro Pertini, Presidente della Camera, li incoraggia a «non guardare in faccia a nessuno», inclusi i suoi compagni del Partito Socialista. Minaccia, in caso di insabbiamento, le dimissioni. Il governo cade. Gli imputati sono giudicati dalla Commissione Parlamentare per i procedimenti di accusa. Pertini non si dimette. Esito del giudizio: due ministri archiviati, due prescritti, due assolti dopo qualche tempo. Mani Pulite, si è detto, esplode nel 1992, quindi a circa vent’anni dallo scandalo dei petroli. Fra il 1992 e il 1993 si consumano gli ultimi delitti eccellenti e le ultime stragi di mafia. Curiosa coincidenza con quanto era accaduto esattamente un secolo prima. Ieri corruzione a Roma e morte di un banchiere onesto in Sicilia, oggi corruzione a Milano e non solo, piombo e tritolo per politici, giudici e inermi cittadini in Sicilia e non solo. Quasi a voler sottolineare che gli inconfessabili legami e lo spregiudicato uso della violenza e della corruttela, col tempo, invece di attenuarsi, si sono rafforzati. Le stragi mafiose e Mani Pulite suscitarono un’ondata di indignazione. Furono approvate leggi per favorire il fenomeno del pentitismo e confiscare i beni dei mafiosi. Una nuova classe politica spazzò via la precedente: e anche questo era accaduto, cent’anni prima. Poi, col tempo, tutto si è sopito e troncato. I pentiti sono diventati più o meno degli appestati. Mani Pulite è oggetto di revisione storiografica critica. Ritocchi normativi bipartisan hanno reso sempre più disagevole l’operato degli investigatori. A risvegliare i dormienti, guarda caso a vent’anni da Mani Pulite, gli scandali Expo, Mose, e, infine, l’inchiesta “Mafia Capitale”. Che, fra l’altro, come all’epoca del trapasso fra Destra storica e Sinistra, propone uno spaccato di cointeressenze fra gente che dovrebbe, teoricamente, militare su opposte sponde. Oggi la stampa deplora. Sono allo studio inasprimenti di pena. Si nominano authority anticorruzione e assessori alla legalità. Intanto, si vara una legge punitiva sulla responsabilità civile dei magistrati e si tuona contro il loro “protagonismo”: senza mai riempire di contenuto questa parola dal suono, si direbbe, gnostico. Si giura, soprattutto, che è venuto il momento di voltare pagina. Come diceva Nino Manfredi: «Fusse ca fusse...». Dobbiamo dunque ritenerci rassegnati e sfiduciati? Ci mancherebbe! A un ragazzo che si affaccia alla vita non puoi trasmettere il messaggio del “tutto è perduto”. Sarebbe delittuoso. Però un minimo di onestà intellettuale non disturba, anzi. Bisogna spiegare che fra corruzione e legalità si combatte una guerra aspra, senza esclusione di colpi. Che corrotti e corruttori offrono scorciatoie convincenti, indossano maschere seducenti, vantano - e purtroppo sovente a ragione - indiscutibili successi. Sono simpatici, mondani, ricchi di fascino, corrotti e corruttori. “Legalità” è invece una parola astratta che ossessivi, abili messaggi fanno apparire sempre più ostile, odioso patrimonio di arcigni, e dunque antipatici, guardiani. “Moralista” fa oggi sorridere, “incorruttibile” suscita panico. Bisogna spiegare che giudici e poliziotti sono patologi del sistema, intervengono quando il danno è stato fatto. Bisogna insistere sull’istruzione e sulla cultura, e persino sull’estetica: si può combattere, consapevoli della disparità fra le forze in campo, anche per il solo gusto di non darla vinta alla società dei magnaccioni. E dopo, a casa, magari, tutti a vedere “1992”, la serie. Con Asproni che digrigna i denti e Cavour che perde un po’ alla volta il suo ironico sorrisetto.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

MAMMA RAI, SPECCHIO D’ITALIA, FONDATA SULLA SELEZIONE TRUCCATA O SULL’ALBERO GENEALOGICO?

Concorso giornalisti Rai in Procura. Class action: "Una selezione fraudolenta". Da un giornalista romano parte un ricorso diretto a Perugia com il quale si contestano date, location, quesiti e diffusione dei risultati: "E' emerso chiaro l'intento di creare odiosa selezione, che automaticamente scalasse gli iniziali 4982 a un numero assai ridotto", scrive “Affari Italiani”. Un civilista e un penalista cassazionista sono da giorno al lavoro per preparare uno "scherzo" alla Rai, degno delle migliori trasmissioni di Canale 5. Umiliati dalle date, costretti a viaggiare per raggiungere la "centralità" di Bastia Umbra, i giornalisti che ambivano ad entrare nella graduatoria per un posto nelle sedi regionali Rai e scartati dalla prima manche del concorsone del giorno 1 luglio, preparano una class action. L'obiettivo dell'esposto che nei prossimi giorni verrà recapitato al Procuratore Capo di Perugia è di far saltare una selezione che ha generato più di qualche problema. A partire dalla data, per finire con la scelta dell'Umbria, in aggiunta a quiz giudicati "inadeguati" alle conoscenze che dovrebbe avere un giornalista. Soprattutto se ambisce ad un posto in una sede regionale dove si "mastica pane e cronaca", invece delle domande poste nello show di Bastia, incentrate su improbabili "archi a sesto acuto", cariatidi" e chi era il vincitore delle politiche in India e Turchia con l'aggiunta dei partiti turchi. Per non parlare di Quintino Sella e del suo pareggio di bilancio. I ricorrenti, una trentina di giornalisti per il momento capitanati da Massimiliano Cannalire, di Radio Cusano Campus, attaccano la Rai per aver taciuto per "13 mesi" e sostengono che dalle procedure di selezione "è emerso chiaro l'intento di creare una fraudolenta, odiosa selezione, che automaticamente scalasse gli iniziali 4982 a un numero assai ridotto". Così la scelta dell'1 luglio 2015, "quando tanti colleghi professionisti avevano già preso accordi per le sostituzioni di quelli andati in ferie e non sarebbero mai stati in grado di farsi, a loro volta, sostituire... per la trasferta". E a riprova dell'accusa, gli avvocati Luca Ciai e Marco Cinquegrane, sostengono che alla prova abbia partecipato solo il 44% degli iscritti, "ricusando un comportamento di rara arroganza degli organizzatori e una maniera indecente di gestire una situazione professionale così delicata". E poi il giallo degli hotel di Bastia, dove i ricorrenti sostengono che alcune prenotazioni siano arrivate "prima del 9 giugno", quasi a paventare una fuga di notizie. Quindi, l'attacco durissimo ai quesiti: "Come è possibile - scrivono - in un concorso Rai non porre una domanda sulla storia delle televisione e radio di Stato? E Come è possibile inserire la domanda su un unico cantautore, Guccini, che di certo non è il più popolare?". L'ultima "osservazione" è dedicatala rispetto della privacy. I ricorrenti scrivono alla Procura: "Non è mai stata resa pubblica una graduatoria con i relativi punteggi di fianco a nomi e cognomi, ma una lista totale con il dato sensibile della data di nascita" mentre la lista degli ammessi è stata prima resa pubblica on line e poi accessibile agli interessati tramite le credenziali fornite in precedenza. Insomma c'è n'è abbastanza perché la Procura di Perugia si metta al lavoro.

La selezione in RAI: cronaca di un concorso mancato, per i pubblicisti, scrive Piera Mastantuono su “Formiche”. Sono una giornalista iscritta all’albo dei giornalisti del Lazio, elenco pubblicisti.  La premessa è doverosa in un contesto in cui le diciture, terminologie e burocrazie varie sono fondamentali. La pietra dello scandalo è la selezione in RAI che scade proprio oggi, impropriamente definita concorso, poiché, essendo la suddetta società partecipata, risulterebbe avere il pieno diritto di far regole proprie escludendo un intero elenco di giornalisti dalla selezione appena citata. Ho letto di questo concorso tramite i giornali e, come altrettanti colleghi, sono andata all’assemblea dell’ODG del Lazio del marzo 2014. Quale luogo migliore per chiedere spiegazioni sulla questione che non il consesso con Presidente, tesoriere e tutti gli altri colleghi? La premessa non aveva tenuto da conto che, nonostante l’ordine del giorno riguardasse l’approvazione di bilanci, il tema che avrebbe scaldato gli animi sarebbe stato quello della formazione obbligatoria, tutt’oggi dibattuto. Riassumendo brevemente dunque, all’intero albo dei giornalisti, professionisti e pubblicisti, è adesso richiesta la formazione obbligatoria, ma, per una selezione professionale vengono attuati dei distinguo. Quindi ad un dovere corrisponde la mancanza di un diritto. Tuttavia, procedendo con ordine, appunto, il giorno dell’Assemblea ho ottenuto, a domanda diretta, una risposta in merito alla selezione RAI dal Presidente dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, Enzo Jacopino, ovvero consultare il blog di Franco Abruzzo:

2. Cassazione: “I pubblicisti svolgono l’attività giornalistica non come professione”. In merito agli effetti dell’iscrizione all’albo dei giornalisti, elenco dei pubblicisti, va disattesa l’istanza di rimessione della relativa questione alle Sezioni unite della Corte; è, infatti, principio univoco quello della nullità del contratto di lavoro subordinato stipulato dal giornalista pubblicista per la prestazione in via esclusiva dell’attività di redattore, stante la violazione dell’art. 45 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, che proibisce l’esercizio della “professione” di giornalista a chi sia privo iscrizione nell’albo professionale. Tale iscrizione non può che riferirsi all’elenco dei giornalisti professionisti, a nulla rilevando, quindi, il diverso inserimento nel suddetto elenco dei “pubblicisti”, i quali svolgono l’attività giornalistica non come professione, cioè senza essere caratterizzati nel mercato del lavoro da un determinato status. (Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 12-11-2007, n. 23472; Il Messaggero S.p.A. c. D.F.M.).

3. Cassazione civile: per l’esercizio del lavoro giornalistico di redattore ordinario, è necessaria l’iscrizione nell’albo dei giornalisti professionisti. Non è idonea ad integrare detto requisito la iscrizione nel diverso albo dei giornalisti pubblicisti. “La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso che per l’esercizio del lavoro giornalistico di redattore ordinario, cioè del giornalista professionista stabilmente inserito nell’ambito di una organizzazione editoriale o radiotelevisiva, con attività caratterizzata da autonomia della prestazione, non limitata alla mera trasmissione di notizie, ma estesa alla elaborazione, analisi e valutazione delle stesse, è necessaria l’iscrizione nell’albo dei giornalisti professionisti, e che non è idonea ad integrare detto requisito la iscrizione nel diverso albo dei giornalisti pubblicisti”. (Cass. civ. Sez. lavoro, 05-04-2005, n. 7016; FONTI Mass. Giur. It., 2005; Dir. e Pratica Lav., 2008, 6 All. PL, 297). 

In merito al punto 2. ed in particolare al periodo “nullità del contratto di lavoro subordinato stipulato dal giornalista pubblicista per la prestazione in via esclusiva dell’attività di redattore stante la violazione dell’art. 45 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, che proibisce l’esercizio della “professione” di giornalista a chi sia privo iscrizione nell’albo professionale. Tale iscrizione non può che riferirsi all’elenco dei giornalisti professionisti,” aggiungo, per completezza, il testo stesso dell’articolo 45 in questione (dalla legge costitutiva dell’ordine 3 febbraio 1963 n.69 aggiornata al 26 marzo 2010 n.59): “Capo III. Dell’esercizio della professione di giornalista. 45) Esercizio della professione. Nessuno può assumere il titolo né esercitare la professione di giornalista, se non è iscritto nell’albo professionale. La violazione di tale disposizione è punita norma degli artt. 348 e 498 del cod. pen., ove il fatto non costituisca un reato più grave.” La definizione si riferisce dunque all’albo professionale, nella sua interezza, costituito da tutti i giornalisti, come premesso nell’articolo 1. della medesima legge “è istituito l’ordine dei giornalisti ad esso appartengono i giornalisti professionisti e pubblicisti iscritti nei rispettivi elenchi dell’albo.” La differenza principale rimarrebbe perciò nelle modalità di ammissione agli elenchi, dato che, per i professionisti è obbligatorio un esame di stato, mentre per i pubblicisti dipende dalla libera iniziativa dei singoli ordini regionali e non è comunque definito come esame di stato. Le mie domande finali, dopo tanti dati e leggi, si compongono di un elenco di perché ai quali continuerò strenuamente a cercare delle risposte nella mia carriera professionale:

Perché non essere ammessi ad un concorso quando si appartiene “solo” ad un diverso elenco? Perché un’opportunità professionale ci è preclusa?

Quanta onestà intellettuale c’è nella convinzione che si possa sempre scegliere tra essere pubblicisti o professionisti, e quanto non sia una condizione di reddito, determinante nel poter o meno frequentare una Scuola di giornalismo riconosciuta?

Quanta consapevolezza della realtà professionale c’è nel credere che nelle redazioni, in un’ideale parità di condizioni, tra il “pagare” (le virgolette sono dovute) un futuro pubblicista ed assumere a salario minimo un futuro professionista i dubbi saranno ben pochi?

Continuerò ad appassionarmi ed a portare avanti con dignità il mio lavoro, anche perché, constato ogni giorno, d’essere in ottima e numerosa compagnia.

Il concorso Rai visto dai giornalisti che ci hanno provato. Patrizio Cacciari racconta per Blogo il famigerato concorsone Rai. Un diario da Bastia Umbra dal punto di vista di chi ha partecipato. È la mattina del 9 giugno 2014 quando improvvisamente i telefoni delle strutture ricettive di Bastia Umbra iniziano a squillare all’impazzata. La proprietaria del grazioso B&B Laura, abituata al tranquillo turismo religioso della vicina Assisi, non riesce a capire perché la sua mail sembri sotto un attacco hacker. Non si tratta di spam, né di un virus, sono i giornalisti, quelli che hanno fatto domanda per partecipare al Concorso Rai e che il 9 giugno, dopo quasi un anno e mezzo dall’uscita del bando e con la più totale assenza di comunicazioni, hanno ricevuto la più terrificante delle notizie: la chiamata alle armi di mamma Rai, con soli 21 giorni di preavviso e una sede, quella di Umbriafiere, non facilissima da raggiungere per tutti. Nessun testo particolare indicato per prepararsi alle 100 domande a risposta multipla, ma le solite indiscrezioni che tutti sanno e che nessuno conferma: deontologia professionale, diritto penale, storia della Rai, e tanti bla bla bla. Su Facebook nascono i primi gruppi: scambio di informazioni, richiesta di passaggi in macchina, prenotazioni e info utili. E’ il giornalismo 2.0 dice qualcuno, che sarà presente anche nei quiz (aiuto). Sui social intanto è panico: “Tsipras? Ti pare che non c’è?”. “Chi condusse Fantastico 8?”. Le tre settimane passano in fretta, la gente si organizza, in tanto rinunciano, “troppo complicato”, “È inutile”, “Il gioco non vale la candela”. In effetti a guardarlo bene si tratta di 100 posti a tempo determinato, per i quali hanno presentato domanda quasi 5 mila giornalisti professionisti. E’ fame da lavoro, un lavoro che forse non esiste più. Ma che oggi un contratto da precario “seppur di lusso” venga ancora rincorso come un sogno qualcosa vorrà dire. Che riflettesse chi continua a licenziare e chi continua ad accettare iscrizioni per svolgere una professione che viene presentata in questa maniera ai più giovani: “Scordati di trovare qualcuno che ti faccia un contratto vero”. La notte passa in fretta, i secchioni e i nerd ripassano fino all’alba, i più scanzonati ne approfittano per stappare un Sagrantino con gli amici e colleghi, dopo la telefonata della buonanotte alle mogli lasciate a casa per una sera a badare ai figli. La convocazione è per le 10.30, orario comodo, almeno quello. Tutto fila liscio: c’è parcheggio, i bar, nessuna fila, tutto in ordine. “Possibile che si tratti di un concorso per la Rai?”. Il posto è facilmente individuabile, organizzazione eccellente. Viene consegnato il foglio con le dettagliate spiegazioni, la busta avana dove inserire la scheda biografica, il pennarello nero della Carioca, “Accidenti, 5 mila pennarelli, che colpo!” avrà pensato più di qualcuno. In realtà sono di meno, perché in tanti hanno rinunciato, forse troppi. Dice la Rai che hanno partecipato al concorso 2828 giornalisti. “Siamo molto soddisfatti - ha dichiarato Valerio Fiorespino Direttore delle Risorse Umane della Rai – perché quasi 3000 giornalisti son arrivati a Bastia Umbra per sostenere la prima prova della selezione pubblica. Un passaggio importante che ci permetterà di scegliere i migliori cento”. Dove sarebbe il successo se circa il 40% degli iscritti non si è presentato? Evidentemente in questo Paese va di moda l’astensionismo. In sala si vede di tutto: giornalisti delle tv locali, addetti stampa, collaboratori, portavoci di politici scomparsi dalla scena, precari di tutte le testate, anche quelle nazionali, tante “teste bianche”. L’età media sembra piuttosto alta. In molti si riconosco e si salutano in maniera cortese, ma tra l’imbarazzo generale, “Hai visto c’è anche Tizio? Ma non aveva il contratto?”, “Hai salutato Caio? Quelli stanno messi male, c’è tutta la redazione”. La consapevolezza di vivere un momento difficile si respira nell’aria. Insieme alla speranza di non fare una figuraccia. Perché gente laureata, che parla correttamente lingue straniere, con anni di professione alle spalle, sta per essere scartata a causa di un quizzone in stile Chi vuol esser Milionario. Lo speaker spiega dettagliatamente le operazioni per non invalidare la prova, Ferruccio De Bortoli, presidente di commissione, augura un esame equanime a tutti. Che bellezza. C’è anche una buona notizia: la risposta sbagliata vale meno 0,33 e non meno 0,50 come invece nei giorni scorsi aveva indicato (non ufficialmente) il presidente dell’Odg Enzo Iacopino, uno dei più infuriati per le modalità di convocazione del concorso. Meglio così, in molti cercano di rifare mentalmente i conti, “Meglio non rispondere o nel dubbio meglio tentare?”. Il countdown sta per partire: 75 minuti di tempo. Via! Non tutti si rendono immediatamente conto che copiare è impossibile, le domande e le risposte infatti sono distribuite in ordini differenti, e così le imprecazioni vengono trattenute a stento. Qualcuno prova ad alzarsi, ma durante la prova niente toilette. E ovviamente niente smartphone e niente di niente. Al massimo una bottiglietta d’acqua. Iniziano i primi sorrisi nel leggere le domande, la Carta di Milano, le elezioni turche, la storia dell’arte (tantissima), le serie tv (?!?!), un po’ di logica e l’immortale Secolo Breve di Hobsbawn. Nessuna domanda sullo sport, sulla cronaca, sulla storia della Rai, sulla storia del giornalismo. Incredibile. Forse la ragazza che ha sorteggiato la busta con la Prova numero 2 avrebbe fatto meglio a pescare la numero 1. In tanti si erano andati a rivedere chi aveva condotto Fantastico 8, ma non è servito. Si finisce in 75 minuti, qualcuno ha consegnato prima, si esce in maniera educata e sorridente. Tutti sembrano essersi tolti un peso “Ci ho provato, ma tanto poi lo sanno tutti che questi concorsi sono truccati”. Il sorriso delle persone è amaro, c’era tanta cultura generale nei test, ma tutti sono consapevoli che studiando un po’ di più le materie giuste, superare la prova non era impossibile. Resta un fatto: nel Paese dove c’è chi chiede la liberazione dei tre Marò, esiste una professione in cui bisogna sapere tutto, dall’arco acuto a cosa fece Quintino Sella, che scritte così sembrano facili, ma con quattro risposte simili non lo erano affatto. Sui social parte la corsa alla ricerca dell’errore, del vizio di forma. Forse qualcuno lo trova: “C’era una domanda su un quadro dipinto sia da Manet che da Monet. E ora che si fa?”. Probabilmente nulla. In 400 passeranno la prima selezione e già dalla prossima settimana saranno impegnati nella seconda prova, questa volta a Saxa Rubra, sede della Rai a Roma. Si comincerà dalla lettera V, e come al solito ci saranno quelli che dal 9 giugno avranno avuto circa un mese e quelli che invece avranno il tempo di prepararsi fino a ottobre. Anche se i secchioni e i nerd a questo giro sono spacciati: per chi non è già un bravo giornalista, ci sarà poco da studiare. Peccato che non tutti abbiano avuto la possibilità di dimostrarlo. Tra loro e mamma Rai ci si è messo Quintino Sella. Ah, Fantastico 8 lo condusse Celentano.

SCANDALO RAI: PARLA AGOSTINO SACCA'

Disintegrato dalle intercettazioni sul caso Rai e reintegrato per sentenza sul posto di lavoro. Agostino Saccà, direttore di Rai Fiction indagato dalla procura di Napoli in un’inchiesta di veline e veleni, ha conosciuto in questi mesi il doppio volto della giustizia. Saccà è un tipo coriaceo, dall’identikit multiforme. È la quintessenza del dirigente Rai, ha la consuetudine a trattare con il potere, presenta qualche aspetto decisamente démodé, come la passione per i formalisti russi, ed è passato ai disonori delle cronache come il collettore delle raccomandazioni. Saccà è la Rai, di tutto, di più.

Saccà, è da molto tempo che non usa il telefonino?

No, lo uso continuamente, addirittura a fine mattina s’era esaurita la batteria di uno dei miei due cellulari. La mia vita non è cambiata.

Che impressione le ha fatto leggere le sue telefonate con Silvio Berlusconi?

Non credevo potesse mai accadere, anche se avevo visto tante cose in passato, ma ritenevo a ragione di essere nel giusto perché non avevo nulla da nascondere. Allora non immaginavo vi fosse un Grande orecchio che praticamente ascolta tutti perché tutti parlano con tutti.

Lei ha visto il materiale dell’inchiesta che la riguarda?

Sì, le telefonate sono quelle di un pezzo dell’establishment italiano, non solo politico.

La chiamavano un po’ tutti; destra, sinistra, centro. Tutti segnalavano delle persone, sempre in maniera molto garbata. L’Italia è un paese fondato sul lavoro o sulla raccomandazione?

Guardi, penso che vada così in tutto il mondo.

Berlusconi la chiama per segnalarle attrici come Evelina Manna, Elena Russo e Antonella Troise. Lei che fa?

Le indico al capostruttura per il provino, che viene poi valutato da una commissione che io ho istituito. I miei predecessori facevano di testa loro. Col senno di poi, ho fatto bene per due ragioni: per garantire la qualità e per proteggermi. Sapendo di essere sottoposto a chiamate, potevo rispondere che non ero solo a decidere e dire “non ci posso fare nulla “.

Perché la Rai è un’azienda dove è necessaria la raccomandazione?

Non penso solo alla Rai, ma dappertutto. Il sistema è così in tutti i paesi, solo che all’estero sono più coperti, passano meno attraverso la politica e più grazie alle lobby degli amici e dei sistemi di potere.

Non vorrà far credere che lei era una centrale telefonica che riceveva chiamate da tutti e diceva no a tutti…

No, non dicevo sempre no a tutti.

È vero che tra le persone che ha aiutato c’è la fidanzata di un sodale politico di Walter Veltroni?

Era un consigliere comunale, ma non l’ho aiutata io. E qui mi fermo.

Lei è di destra o di sinistra?

Sono sempre stato di sinistra. Solo che la sinistra oggi sta a destra. L’attenzione ai più deboli e il garantismo oggi sono da quella parte.

L’ex presidente della Rai Enrico Manca ricordava che “anche il Pci raccomandava”. Cosa è cambiato nel sistema rispetto alla Prima repubblica?

Allora la raccomandazione era più organica, c’era come una sorta di canale diretto fra i partiti e i rappresentanti della Rai. Oggi invece telefonano i leader, conta il rapporto individuale tra il dirigente e il leader politico. In passato era una questione di partito, di politica culturale e propaganda.

Il suo deve essere un mestiere poco allegro. Sempre al telefono a ricevere chiamate di raccomandazione.
Cerchiamo di essere obiettivi: ne avrò ricevute una o due a settimana di quelle chiamate. E se le concentriamo in 4 anni… Io non avrei mai tollerato una richiesta meno che educata e perbene. Sono più i no che ho detto dei sì. Credo che Berlusconi mi abbia sempre stimato proprio per i miei no.

Immagino che il suo non fosse l’unico telefono bollente di Viale Mazzini.

Appunto, non scherziamo.

C’è qualcuno che le deve la carriera?

Molti. Ho preso Fiorello che s’era spento alla Mediaset. Ho preso Panariello quando non era nessuno e ho investito su di lui. Ho recuperato Morandi, lanciato lo show di Celentano.

Si è guardato molto in questa storia al “lato b” della faccenda, alle femmine. Ma immagino che le raccomandazioni non arrivassero solo per le belle donne ma anche per gli uomini.

Assolutamente sì. Persone importanti chiamavano per segnalare anche attori bravi.

Torniamo alle raccomandazioni. Che cosa hanno in comune Antonella Troise, Evelina Manna ed Elena Russo?

Tutti gli attori cercano un posto, ma c’è un problema: tutti vogliono essere protagonisti, però protagonisti si nasce.

Andare a letto con un dirigente Rai o con un politico potente aiuta o no?

Il confronto e il conflitto tra i sessi si gioca in mille modi. Così va il mondo da sempre, non è che voglio essere disincantato, è un dato antropologico. E non mi scandalizza.

SCANDALO RAI: PARLA FRANCESCO COSSIGA

Presidente Cossiga, è vero che si autodenuncerà per aver commesso fatti analoghi a quelli imputati dalla procura di Napoli a Silvio Berlusconi per la famosa telefonata con Agostino Saccà?

«Certamente, lo farò lunedì, presso la stazione dei carabinieri territorialmente competente».

Qual è il motivo di questo gesto?

«L’illuminazione mi è venuta dopo la richiesta di rinvio a giudizio per Berlusconi per il quale non ho mai votato ma che è mio amico personale. Berlusconi è senza dubbio il maggior perseguitato giudiziario della storia d’Italia, quasi a pari punti con Giulio Andreotti. Ci dimentichiamo troppo spesso che in questo Paese hanno condannato Andreotti in prima istanza per collusione con la mafia e come mandante dell’omicidio di quel famoso giornalista di Op. E a muoversi è sempre il pacchetto di mischia di Palermo e Perugia».

Lei si autodenuncia come «raccomandatore-confesso». A favore di chi spese la sua influenza?

«Dopo la vittoria del centrosinistra intervenni a favore di Donna Bianca Berlinguer, ovvero di mia nipote, perché le fosse assicurata una posizione di maggior rilievo nel Tg3, e della signora Federica Sciarelli, già peraltro premiata con l’affidamento della conduzione della brillante trasmissione “Chi l’ha visto?”. E ciò al fine di rafforzare la sua influenza nella Rai».

Federica Sciarelli le manda a dire che lei, in Rai, è entrata per concorso.

«Guardi che è tutto vero quello che dico, non me lo sto certo inventando! Non ho raccomandato per l’assunzione Federica Sciarelli perché lei era dipendente del Senato e poi ha vinto una borsa di studio e siccome è brava è passata in Rai. Comunque non rispondo alla signora Sciarelli perché non voglio vedermi notificato un avviso di garanzia da parte di qualche sostituto procuratore della Repubblica di Potenza».

Bianca Berlinguer nega di aver mai richiesto il suo intervento. E la prega di astenersi per il futuro da simili raccomandazioni.

«Da sardo pronipote di un pastore e di un aristocratico della piccola nobiltà giacobina sarda non posso permettermi di replicare a una ragazza, anzi a una già ragazza, dell’aristocrazia sardo-catalana. Comunque Donna Bianca può stare tranquilla: con il cognome che porta non avrà alcun problema né danno. Anzi se torna Berlusconi la promuoverà subito e, anche se non ce n’è bisogno, sarò io stesso a richiederlo».

Ma questi interventi da chi le furono sollecitati?

«Ma da loro due in persona! La signora Sciarelli venne a chiedere che intervenissi sul capo del personale affinché le fosse aumentato lo stipendio. Donna Bianca Berlinguer venne a chiedere una posizione più eminente».

Il suo intervento andò a buon fine?

«Le raccomandazioni a favore di Donna Bianca Berlinguer non partorirono alcun risultato positivo. Quelle a favore della signora Sciarelli ebbero sul piano economico un risultato largamente positivo».

Perché a distanza di anni ha tirato fuori questa vicenda?

«Venerdì ho sentito Donna Bianca condurre una trasmissione di insulti su Mastella con la consueta faziosità e mi è tornata in mente questa vicenda».

Non le dà fastidio essere etichettato come «raccomandatore»?

«Ascoltai personalmente l’omelia di un cardinale che definiva le raccomandazioni un atto di carità cristiana. D’altra parte le segnalazioni sono un istituto mondiale. Erano la prassi nella burocrazia britannica. Così come a West Point si entra soltanto dietro segnalazione dei senatori dei diversi Stati della Confederazione».

Non ha mai fatto mea culpa per qualche raccomandazione concessa alla persona sbagliata?

«Ma no. E poi nelle campagne elettorali tutti usano le raccomandazioni. D’altra parte mi sa dire uno che in Rai non sia raccomandato? Io non ne conosco».

Ci faccia il nome di un altro suo raccomandato illustre.

«Be’, ad esempio il mio amico Giuseppe Fiori che poi ha scritto libri bellissimi anche su Enrico Berlinguer. Fui io a farlo assumere alla Rai di Cagliari e poi a farlo trasferire a Roma».

Lei parla apertamente di raccomandazioni. Perché ancora oggi c’è questo velo di ipocrisia sulle vicende Rai e nessuno dei suoi colleghi riesce ad ammettere ciò che è sotto gli occhi di tutti?

«Perché per fare politica, saper dire bugie non è necessario ma è utile. Anzi essere ipocriti è utile. Basta pensare a Rosy Bindi che va alla dimostrazione a favore del Papa. Ma come! Una cattolica adulta e una cattolica democratica che si è schierata contro le Dichiarazioni teologiche della Congregazione della Dottrina della Fede emanate da Ratzinger, e contro le direttive della Conferenza episcopale italiana partecipando al coro dei detrattori del cardinal Ruini va a dimostrare la sua solidarietà a un Papa di cui non condivide l’insegnamento?».

L’Unità 20-5-2007 Tutti parenti, alla Rai? Ma anche Mediaset tiene famiglia. Di Marco Travaglio

Tutti parenti, alla Rai? Ma anche Mediaset tiene famiglia Una valanga di parenti al Biscione. E in viale Mazzini l'ex Premier ha imposto molti dei suoi: dirigenti, conduttori, giornalisti di Marco Travaglio

NEL REPARTO FRATELLI & SORELLE, Angela Buttiglione, Nicola Cariglia, Sandro Marini, Antonio Sottile (nel senso di Salvo, quello del caso Gregoraci), Maria Zanda.

NEL REPARTO MOGLI & MARITI: Roberta Carlotto (consorte di Alfredo Reichlin), Simona Ercolani (di Fabrizio Rondolino), Ginevra Giannetti (di Altero Matteoli), Giuseppe Grandinetti (marito della senatrice verde Loredana De Petris), Anna Scalfati (moglie di Giuseppe Sangiorgi, membro demitiano dell'Agcom).

NEL RESTO DEL PARENTADO: Ferdinando Andreatta (nipote di Nino), Adriana Giannuzzi (cognata dell'ex senatore Ernesto Stajano), Alfonso Marrazzo (cugino di Piero), Marco Ravaglioli (genero di Andreotti), Tommaso Ricci (cognato di Buttiglione), Luigi Rocchi (genero di Biagio Agnes).

Poi ci sono i fuoriclasse della Grande Famiglia Rai: il turbo-berlusconiano Agostino Saccà, direttore della Fiction, s'è portato la nuora spagnola, Sandra Steinert Jorge Santos, e il figlio Enrico Silvestrin, attore nelle fiction; il capo del Personale Gianfranco Comanducci, intimo di Previti, ha la moglie Anna Maria Callini dirigente alla segreteria di Raidue e la cognata Ida Callini responsabile Risorse umane Corporate.

Quanto ai raccomandati, il Cavaliere portò in viale Mazzini la sua bionda segretaria Deborah Bergamini, ora direttore Marketing; l'ex dirigente Fininvest e poi di Forza Italia Alessio Gorla, capo dei palinsesti da poco in pensione (la cui moglie si occupava dei casting); l'ex addetto stampa forzista Riccardo Berti, promosso conduttore di "Batti e ribatti" al posto di Biagi; e poi Marcello Ciarnò, che prima si occupava degli spostamenti di Berlusconi e ora vicedirige il Centro di produzione Rai. Senza dimenticare Mario Bianchi, passato direttamente da Publitalia ad amministratore della Sipra, cioè della diretta concorrente. E l'ex deputato forzista Fabrizio Del Noce, direttore di Rai1, che poi ha fatto assumere come funzionario Gianluca Ciardelli, figlio della segretaria di Licio Gelli. E l'ex vicedirettore del Tg5 Clemente J. Mimun, passato a dirigere il Tg1: ora, compiuta la missione, torna al Tg5 da direttore.

Naturalmente l'essere parenti non esclude l'esser bravi. Anzi, ce ne sono parecchi, di bravi.

Ma l'aspetto curioso dell'intemerata berlusconica è che a casa sua, MEDIASET, se possibile, è anche peggio.

Nel '95,quando il Cavaliere fece una sparata simile su "Parentopoli", il settimanale "Cuore" si divertì a elencare i parenti nelle sue aziende: il fratello-prestanome Paolo al Giornale (con figlia Alessia al seguito) e all'Edilnord; i figli Marina e Piersilvio detto Dudi a Mondadori e a Mediaset; Guido Dall'Oglio, fratello della prima moglie, "coordinatore dei jingle" della Fininvest; lo zio Luigi Foscale e signora al teatro Manzoni; il cugino Giancarlo Foscale alla Standa e sua moglie Candia Camaggi alla finanza estera in Svizzera; Yives Confalonieri, figlio di Fedele, dirigente a Publitalia insieme al cugino Guido; Lella, nipote di Confalonieri, giornalista al Tg5, col marito Carlo M. Lomartire a Studio Aperto; poi la famiglia Dell'Utri, con Marcello e il gemello Alberto a Publitalia (e dunque a Forza Italia), e un nipote al Giornale. Poi i figli degli amici: quello di Malgara, re dei pubblicitari e dell'Auditel, a Publitalia; quello del giudice corrotto Diego Curtò, inviato del Tg4; quella di Roberto Gervaso, che reclutò il Cavaliere nella P2, al Tg5; e la sorella dell'avvocato Dotti al Tg4. Ora, 12 anni dopo, la lista va aggiornata.

Alla Camera siede Mariella Bocciardo, prima moglie di Paolo Berlusconi. Al Giornale ha una rubrica fissa l'ex fidanzata dello stesso Paolo, Katia Noventa, mentre Silvia Toffanin, compagna di Dudi, conduce "Verissimo" su Canale5 e ha una rubrica su Libero.

MA IL MEGLIO E' IL TG5: più che un telegiornale, un Family Day, pieno com'è - direbbe il padrone - "di fratelli, sorelle, cugini, parenti e affini dei protagonisti della vecchia e nuova politica". Lucrezia Agnes, figlia del dc Biagio. Chiara Geronzi, figlia del banchiere Cesare e cofondatrice della Gea con i figli di Moggi, Tanzi, Cragnotti, Lippi, Calleri e De Mita. Giancarlo Mazzucchelli, figlio della moglie di Petruccioli. Fabio Tricoli, nipote dell'avvocato di Dell'Utri. Valentina Loiero, figlia del governatore Agazio. La vaticanista Marina Ricci, sorella di Rocco e Angela Buttiglione. Giulio De Gennaro, figlio del capo della Polizia Gianni. Sebastiano Sterpa, figlio del forzista Egidio. Elena Caputo, figlia del giornalista e poi sottosegretario forzista Livio. Silvia Reviglio, figlia dell'ex ministro socialista Franco. Giuliano Torlontano, figlio del ds Glauco. Ultimo arrivo: Barbara Palombelli in Rutelli. A Studio Aperto lavora Alessandro Del Turco, figlio del più noto Ottaviano, e da pochi giorni Alfredo Vaccarella, figlio del giudice costituzionale uscente Romano. Il figlio dell'ex presidente della Consulta Vincenzo Caianiello invece si chiama Guido e lavora per Rete4. Poi ci sono Martelli e Pivetti. Non sono parenti dell'ex ministro pregiudicato e dell'ex presidente della Camera. Sono proprio loro.

(Giampaolo Letta, figlio di Gianni, è vicepresidente di Medusa Cinema. Yves Confalonieri, figlio di Fedele, è direttore generale di Mediadigit. Lella Confalonieri, nipote di Fedele. Pietro Suber, genero di Corrado Augias. Lucrezia Agnes, figlia di Biagio. Donata Scalfari, figlia di Eugenio. Veronica Gervaso, figlia di Roberto. Chiara Geronzi, figlia del banchiere Cesare. Barbara Parodi, moglie di Paolo Mieli. Giangiacomo Mazzucchelli, figlio di Giovanna Nuvoletti, moglie di Claudio Petruccioli. Isabella Josca, figlia dell'ex corrispondente del Corriere della Sera Giuseppe. Eduardo Orlando, figlio del giornalista Federico. Marina Ricci, sorella di Rocco e Angela Buttiglione.

La Rai non è soggetta a interferenze politiche. Va detto. E’ invece un ambiente familiare di figli, padri, cugine, cognati e nuore. Impermeabile ai partiti. Un blocco di relazioni indistruttibile che sopravvive a qualunque governo. Con matrimoni combinati sin dalla nascita tra i figli di capostrutture e di programmisti. Una difesa naturale dall’ingerenza della politica e anche della libera informazione. Una riaffermazione dei valori della famiglia e dell’impiego statale. L’elenco che pubblico è in rete da tempo. E’ probabile che sia incompleto o in parte superato. E che tra relazioni affettuose e accoppiamenti dei circa 11 mila dipendenti del gruppo, all’interno e all’esterno della struttura, il numero dei figli di, nipoti di, cognati di, sia proliferato. Un po’ come avviene nelle conigliere.

Figli (f): Tinni Andreatta, responsabile fiction di Raiuno, (f) dell'ex ministro dc Beniamino. Natalia Augias, Gr, (f) del giornalista e scrittore Corrado. Gianfranco Agus, inviato, (f) dell'attore Gianni. Roberto Averardi, Gr, (f) di Giuseppe, ex deputato Psdi. Francesca Barzini, Tg3, (f) dello scrittore e giornalista Luigi junior. Bianca Berlinguer, conduttrice del Tg3, (f) di Enrico, segretario del Pci. Barbara Boncompagni, autrice, (f) di Gianni. Claudio Cappon, direttore generale, (f) di Giorgio, ex direttore generale dell'Imi. Antonio De Martino, Gr, (f) dell'ex ministro socialista Francesco. Antonio Di Bella, direttore Tg3, (f) di Franco, ex direttore del "Corriere della Sera". Claudio Donat-Cattin, capostruttura Raiuno, (f) dell'ex ministro democristiano Carlo. Jessica Japino, programmista regista delle edizioni di "Carramba", (f) di Sergio. Giancarlo Leone, amministratore delegato di Rai Cinema e responsabile della Divisione Uno, (f) dell'ex presidente della Repubblica Giovanni. Marina Letta, contrattista a tempo determinato, (f) di Gianni, sottosegretario alla Presidenza a Palazzo Chigi. Pietro Mancini, Gr, (f) del socialista Giacomo. Maurizio Martinelli,Tg2, (f) del giornalista Roberto. Stefania Pennacchini, Relazioni istituzionali Rai, (f) di Erminio, ex sottosegretario Dc. Claudia Piga, Tg1, (f) dell'ex ministro dc, Franco. Francesco Pionati, notista politico del Tg1, (f) dell'ex sindaco di Avellino. Alessandra Rauti, redattore del Gr, (f) di Pino, segretario del Movimento Sociale-Fiamma Tricolore. Silvia Ronchey, autrice e conduttrice di programmi, (f) di Alberto, ex ministro dell'Ulivo ed ex presidente di Rcs. Paolo Ruffini, direttore Gr, nipote del cardinale e (f) di Attilio, ex deputato e ministro dc. Sara Scalia, capostruttura di Raidue, (f) della giornalista Miriam Mafai. Maurizio Scelba, Tg1, (f) di Tanino, ex portavoce del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Mariano Squillante, ex corrispondente da Londra, poi a RaiNews 24, (f) dell'ex giudice Renato. Giovanna Tatò, Raitre, (f) di Tonino, consigliere di Enrico Berlinguer. Carlotta Tedeschi, Gr, (f) di Mario, senatore Msi. Daniel Toaff, capostruttura e autore della ‘Vita in diretta’, (f) dell 'ex rabbino di Roma, Elio. Stefano Vicario, regista di Giorgio Panariello, (f) del regista cinematografico Marco. Rossella Alimenti, Tg1, (f) di Dante, ex vaticanista Rai. Paola Bernabei, Ufficio stampa, (f) dell'ex direttore generale della Rai, Ettore, proprietario della società di produzione Lux. Giovanna Botteri, Tg3, (f) di Guido, ex direttore sede Trieste Rai. Manuela De Luca, conduttrice Tg1, (f) di Willy, ex direttore generale Rai. Giampiero Di Schiena, Tg1, (f) di Luca, ex direttore dc del Tg3. Annalisa Guglielmi, sede Rai di Milano, (f) di Angelo Guglielmi, ex direttore di Raitre. Piero Marrazzo, conduttore di ‘Mi manda Raitre’, (f) dello scomparso giornalista Giò. Simonetta Martellini, Raiuno, (f) di Nando, radiocronista sportivo. Luca Milano, dell'ufficio contratti, (f) di Emanuele, ex direttore Tg1 ed ex vice direttore generale. Barbara Modesti, Tg1, (f) dell'annunciatrice Gabriella Farinon e del regista Rai Dore. Monica Petacco,Tg2, (f) di Arrigo, storico e consulente di programmi Rai. Andrea Rispoli, Raidue, (f) del conduttore Luciano, ex Rai. Fiammetta Rossi, Tg3, (f) di Nerino, ex direttore del Gr2, e moglie del ex segretario dell'Usigrai, Giorgio Balzoni, caporedattore al politico del Tg1. Cecilia Valmarana, (f) di Paolo, uno dei padri del cinema coprodotto dalla Rai, nella struttura di RaiCinema. Paolo Zefferi, (f) di Ezio, giornalista, è a Rainews 24.

Fratelli (fr) e sorelle (s): Angela Buttiglione, direttore dei Servizi Parlamentari, (s) di Rocco, segretario del Cdu. Nicola Cariglia, sede Rai di Firenze, (fr) di Antonio, ex segretario del Psdi. Silvio Giulietti, telecineoperatore nella sede Rai di Venezia, (fr) di Giuseppe, uomo Rai e Usigrai, ex responsabile dell'informazione dei Ds. Max Gusberti, vice di Stefano Munafò a Raifiction, (fr) di Simona, capostruttura di Raidue. Sandro Marini, Tg3, (fr) di Franco, ex segretario del Ppi. Giampiero Raveggi, capostruttura di Raiuno, (fr) dell'ideatore del programma "Odeon" Emilio Ravel (nome d'arte). Antonio Sottile, programmista regista di "Linea Verde'', (fr) di Salvo, portavoce di Gianfranco Fini. Maria Zanda, capo della segreteria di Roberto Zaccaria, (s) di Luigi, ex responsabile dell'Agenzia del Giubileo.

Mogli e mariti (m): Milva Andriolli, sede Rai di Venezia, è l'ex (m) di Silvio Giulietti, fratello di Giuseppe. Anna Maria Callini, dirigente alla segreteria di Raidue, (m) di Gianfranco Comanducci, vice direttore della Divisione Uno. Roberta Carlotto, direttore Radiotre, (m) dell'ex esponente Pci Alfredo Reichlin. Sandra Cimarelli, Palinsesto Raidue, (m) di Franco Modugno, direttore dei Servizi immobiliari Rai. Antonella Del Prino, collaboratrice a "La vita in diretta", (m) del giornalista Oscar Orefice. Simona Ercolani, autrice di programmi Rai, (m) del giornalista Fabrizio Rondolino, ex portavoce di Massimo D'Alema. Paola Ferrari, conduttrice, (m) di Marco De Benedetti. Anna Fraschetti, vice del capo ufficio stampa Bepi Nava, (m) di Mario Colangeli, vice direttore Tg3 e sorella di Luciano, quirinalista Tg3. Giovanna Genovese, compagna di Sergio Silva, padre della ‘Piovra’ è delegata alla produzione. Ginevra Giannetti, consulente Rai International, (m) di Altero Matteoli, ministro dell'Ambiente, An. Giuseppe Grandinetti, Gr, (m) della senatrice verde Loredana De Petris. Francesca Manuti, produttrice di "Sereno variabile" di Raidue, (m) di Paolo Carmignani, vicedirettore Raidue. Lucia Restivo, capo struttura Raidue, (m) di Sergio Valzania, direttore Radiodue. Anna Scalfati, Tg1, conduttrice di programmi, (m) di Giuseppe Sangiorgi, membro dell'Authority ed ex portavoce di De Mita. Cristina Tarantelli, Servizi Parlamentari, (m) di Carlo Brienza, RaiSport. Daniela Vergara, anchorwoman del Tg2, (m) del conduttore Luca Giurato.

Nipoti (n), cognati (c) e vari: Ferdinando Andreatta, dirigente di Rai- Way, (n) di Nino. Guido Barendson, conduttore Tg2, (n) di Maurizio. Aldo Mancino, dirigente RaiWay (n) dell'ex presidente del Senato, Nicola. Giuseppe Saccà, (n) di Agostino, direttore di Raiuno, nell'orchestra del programma di Raiuno ‘Torno sabato-La lotteria'. Adriana Giannuzzi, ufficio Diritti d'autore, (c) dell'ex senatore ed ex membro del Csm Ernesto Stajano e moglie del vicedirettore della Divisione Due Luigi Ferrari. Alfonso Marrazzo, Tg2, cugino di Piero. Marco Ravaglioli, Tg1, marito di Serena Andreotti, figlia di Giulio. Tommaso Ricci, Tg2, (c) di Angela e Rocco Buttiglione. Carlotta Riccio, regista, (c) di Claudio Cappon direttore generale Rai. Luigi Rocchi, dirigente area Business&development, genero di Biagio Agnes. Laura Terzani,Tg3, nuora di Antonio Ghirelli.

- Richiesta di integrazione: Milva Andriolli è entrata in RAI per concorso (bandito dall'azienda nel '88) e ha incontrato il futuro e poi ex marito Silvio (e futuro e poi ex cognato Beppe) solo nel '92 con l'assunzione presso la sede di Venezia il 2 marzo 1992 (il matrimonio il 26 agosto 1992). - L'avv. Luca Silvagni, legale del dott. Stefano Ziantoni, comunica quanto segue: "Contrariamente a quanto sino ad oggi pubblicato nella lista denominata "Conigliera RAI" preciso che Stefano Ziantoni non è figlio di Violenzio, ex presidente della provincia di Roma". Ne prendo atto, invitando gli utenti del blog a fare altrettanto.

I RACCOMANDATI IN RAI, UN’AZIENDA FONDATA SULL’ALBERO GENEALOGICO. Ecco a voi una lunga lista di dipendenti Rai legati da parentela o amicizia a qualche personaggio famoso. La Rai - azienda pubblica radiotelevisiva italiana - è da sempre alla mercé della politica, essendo spartita dai partiti e dai dipendenti stessi, i quali vi hanno messo a lavorare coniugi, fratelli, sorelle, figli, nipoti e amici, in barba a qualsiasi regola di selezione fondata sul merito. Interessato a scovare gli innumerevoli raccomandati, ho trovato sul Blog di Beppe Grillo un bel listone esauriente che riporta tutti i dipendenti Rai legati tramite parentela o amicizia a qualche politico, personaggio influente o semplice dipendente. Fa specie leggere come, anche rinomati moralizzatori come Enrico Berlinguer o Corrado Augias, abbiano piazzato la propria figlia. Tanto per citarne qualcuno. Nella lista non sono presenti i semplici impiegati e operai, altrimenti sarebbe molto più lunga. Dunque divertitevi a leggerla, magari cercando qualche giornalista o presentatore che abbia un cognome famoso per rilevarne l’effettivo legame di parentela. O magari qualche dipendente particolarmente scarso per capire se effettivamente è stato piazzato lì da un Santo in cielo. Se conoscete altri raccomandati non presenti nella lista, non esitate a segnalarli. Buon divertimento. E se siete disoccupati o semplicemente pagate il canone Rai, buon rodimento. Elenco pubblicato su vari siti web, tra cui la pagina facebook di Salvatore Oliviero e Roberto Fico, deputato M5S.

FIGLI ECCELLENTI:

Tinni Andreatta, responsabile fiction di Raiuno, figlia di Beniamino, ex-ministro DC.

Natalia Augias, Gr, figlia del giornalista e scrittore Corrado.

Gianfranco Agus, inviato a "La vita in diretta", nipote dell'attore Gianni.

Roberto Averardi, Gr, figlio di Giuseppe, ex-deputato PSDI.

Francesca Barzini, Tg3, figlia dello scrittore e giornalista Luigi junior.

Bianca Berlinguer, conduttrice del Tg3, figlia di Enrico, ex-segretario del PCI.

Barbara Boncompagni, autrice, figlia di Gianni.

Claudio Cappon, direttore generale, figlio di Giorgio, potente ex-direttore generale dell'Imi.

Antonio De Martino, Gr, figlio dell'ex ministro socialista Francesco.

Fabrizio Del Noce, Tg1, direttore Raiuno, figlio del filosofo Augusto.

Antonio Di Bella, direttore Tg3, figlio di Franco, ex-direttore del "Corriere della Sera".

Claudio Donat-Cattin, capostruttura Raiuno, figlio dell'ex-ministro democristiano Carlo.

Jessica Japino, programmista regista di tutte le edizioni di "Carramba", figlia di Sergio, compagno di Raffaella Carrà.

Giancarlo Leone, amministratore delegato di Rai Cinema e responsabile della Divisione Uno, figlio dell'ex-presidente della Repubblica Giovanni.

Marina Letta, contrattista a tempo determinato, figlia di Gianni, già sottosegretario alla Presidenza a Palazzo Chigi.

Pietro Mancini, Gr, figlio del socialista Giacomo.

Maurizio Martinelli ,Tg2, figlio del giornalista Roberto.

Stefania Pennacchini, Relazioni istituzionali Rai, figlia di Erminio, ex-sottosegretario DC.

Claudia Piga, Tg1, figlia di Franco, ex-ministro DC.

Francesco Pionati, notista politico del Tg1, figlio dell'ex-sindaco di Avellino, la cui assunzione, secondo quanto si narra, fu decisa durante una partita a carte di Ciriaco…

Alessandra Rauti, redattore del Gr, figlia di Pino, segretario del Movimento Sociale-Fiamma Tricolore.

Silvia Ronchey, autrice e conduttrice di programmi, figlia di Alberto, ex-ministro dell'Ulivo ed ex presidente di Rcs.

Paolo Ruffini, direttore Gr, nipote del cardinale e figlio di Attilio, ex-deputato e ministro DC.

Sara Scalia, capostruttura di Raidue, figlia della giornalista Miriam Mafai.

Maurizio Scelba, Tg1, figlio di Tanino, ex-portavoce del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

Mariano Squillante, ex-corrispondente da Londra, ora a RaiNews 24, figlio dell'ex-giudice Renato.

Giovanna Tatò, Raitre, figlia di Tonino, consigliere di Enrico Berlinguer.

Carlotta Tedeschi, Gr, figlia di Mario, senatore MSI.

Daniel Toaff, capostruttura e autore della "Vita in diretta'', figlio di Elio, l'ex-rabbino capo di Roma.

Stefano Vicario, regista preferito di Giorgio Panariello, figlio del regista cinematografico Marco.

Flavio Fusi, TG3, Figlio dello scomparso Torquato, senatore PCI

FIGLI RAI:

Rossella Alimenti, Tg1, figlia di Dante, ex vaticanista Rai.

Paola Bernabei, Ufficio stampa, figlia di Ettore, ex-direttore generale della Rai e proprietario della società di produzione Lux.

Giovanna Botteri, Tg3, figlia di Guido, ex-direttore sede Rai di Trieste.

Manuela De Luca, conduttrice Tg1, figlia di Willy, ex-direttore generale Rai.

Giampiero Di Schiena, Tg1, figlio di Luca, ex-direttore DC del Tg3.

Annalisa Guglielmi, sede Rai di Milano, figlia di Angelo Guglielmi, ex-direttore di Raitre.

Piero Marrazzo, conduttore di "Mi manda Raitre'', figlio dello scomparso giornalista Giò.

Simonetta Martellini, Raiuno, figlia di Nando, storico radiocronista sportivo.

Luca Milano, dell'ufficio contratti, figlio di Emanuele, ex-direttore Tg1 ed ex-vicedirettore generale.

Barbara Modesti, Tg1, figlia dell'annunciatrice Gabriella Farinon e del regista Rai Dore.

Monica Petacco, Tg2, figlia di Arrigo, storico e consulente principe di programmi Rai.

Andrea Rispoli, Raidue, figlio del conduttore Luciano, già alla Rai.

Fiammetta Rossi, Tg3, figlia di Nerino, ex direttore del Gr2, ma anche moglie del potente ex-segretario dell'Usigrai,

iorgio Balzoni, oggi caporedattore al politico del Tg1.

Cecilia Valmarana, figlia di Paolo, uno dei padri del cinema coprodotto dalla Rai ("L'albero degli zoccoli'' di Ermanno Olmi), segue le orme del papà nella struttura di RaiCinema.

Paolo Zefferi, figlio di Ezio, giornalista e autore di fortunati approfondimenti, è a Rainews 24.

Francesca Orichuia, figlia di Carlo Orichuia (dirigente Rai).

Paolo Di Giannantonio, figlio di un ex onorevole della DC, tale Natalino Di Giannantonio.

Alberto Angela, figlio di Piero.

Diana De Feo, giornalista TG1, figlia di una dei primi direttori generali Rai e moglie di Emilio Fede.

FRATELLI E SORELLE:

Angela Buttiglione, direttore dei Servizi Parlamentari, sorella di Rocco, già segretario del CDU.

Nicola Cariglia, sede Rai di Firenze, fratello di Antonio, ex-segretario del PSDI.

Silvio Giulietti, telecineoperatore nella sede Rai di Venezia, fratello di Giuseppe, uomo Rai e Usigrai, ex-responsabile dell'informazione dei DS.

Max Gusberti, vice di Stefano Munafò a Raifiction, è fratello di Simona, capostruttura di Raidue.

Sandro Marini, Tg3, fratello di Franco, ex-segretario del PPI ed ex-Presidente del Senato.

Giampiero Raveggi, capostruttura di Raiuno, fratello dell'ideatore del programma "Odeon" Emilio Ravel (nome d'arte).

Antonio Sottile, programmista regista di "Linea Verde'', fratello di Salvo, portavoce di Gianfranco Fini.

Maria Zanda, capo della segreteria di Roberto Zaccaria, è sorella di Luigi, ex-responsabile dell'Agenzia del Giubileo.

Veronica Pivetti, attrice, sorella di Irene, già Presidente della Camera nelle file della Lega. Anch’ella appare spesso in Rai come opinionista.

MOGLI E MARITI:

Anna Maria Callini, dirigente alla segreteria di Raidue, è moglie di Gianfranco Comanducci, vice direttore della Divisione Uno e uomo dei contratti Rai.

Anna Cammarano, vice direttore delle Teche Rai, moglie di Paolo Bracco, della famiglia degli omonimi industriali farmaceutici.

Roberta Carlotto, direttore Radiotre, moglie dell'ex-esponente PCI Alfredo Reichlin.

Sandra Cimarelli, Palinsesto Raidue, moglie di Franco Modugno, direttore dei Servizi immobiliari Rai.

Alda D'Eusanio, conduttrice, vedova del sociologo del PSI Gianni Statera.

Antonella Del Prino, collaboratrice a "La vita in diretta", moglie del giornalista Oscar Orefice.

Simona Ercolani, autrice di programmi Rai, moglie del giornalista Fabrizio Rondolino, ex-portavoce di Massimo D'Alema.

Paola Ferrari, conduttrice, moglie di Marco De Benedetti.

Anna Fraschetti, vice del capo ufficio stampa Bepi Nava, è moglie di Mario Colangeli, vicedirettore Tg3, e sorella di Luciano, quirinalista Tg3.

Giovanna Genovese, delegata alla produzione, compagna di Sergio Silva, padre della "Piovra'' ed ora produttore in proprio con contratti blindati in Rai.

Ginevra Giannetti, consulente Rai International, è sposata con Altero Matteoli, AN, già ministro dell'Ambiente.

Giuseppe Grandinetti, Gr, è marito della ex-senatrice verde Loredana De Petris.

Francesca Manuti, produttrice di "Sereno variabile" di Raidue, moglie di Paolo Carmignani, vicedirettore Raidue.

Lucia Restivo, capo struttura Raidue, è moglie di Sergio Valzania, direttore Radiodue.

Daniela Rosati, conduttrice, ex-compagna di Adriano Galliani, passata in Rai in coincidenza con la separazione.

Anna Scalfati, Tg1, conduttrice di programmi, è moglie di Giuseppe Sangiorgi, membro dell'Authority ed ex-portavoce di Ciriaco De Mita.

Cristina Tarantelli, Servizi Parlamentari, è la moglie di Carlo Brienza, RaiSport.

Luca Giurato, conduttore su Raiuno, è sposato con Daniela Vergara, anchorwoman del Tg2.

Linda Lanzilotta, moglie di Franco Bassanini, già Ministro.

Anna Serafini, deputata 10 volte, moglie di Fassino.

NIPOTI:

Ferdinando Andreatta, dirigente di Rai- Way, nipote di Nino, ex-parlamentare DC.

Guido Barendson, conduttore Tg2, è nipote di Maurizio, l'ideatore di "Novantesimo minuto".

Giuseppe Saccà, nipote di Agostino, direttore di Raiuno, è nell'orchestra di Paolo Belli del programma di Raiuno "Ballando con le stelle".

Adriana Giannuzzi, ufficio Diritti d'autore, cognata dell'ex-senatore ed ex-membro del Csm Ernesto Stajano e moglie del vicedirettore della Divisione Due Luigi Ferrari.

Alfonso Marrazzo, Tg2, cugino di Piero, attuale Presidente della Regione Lazio ed ex-giornalista Rai.

Marco Ravaglioli, Tg1, marito di Serena Andreotti, figlia di Giulio.

Tommaso Ricci, Tg2, cognato di Angela e Rocco Buttiglione.

Carlotta Riccio, regista, cognata di Claudio Cappon, direttore generale Rai.

Luigi Rocchi, dirigente area Business&development, genero di Biagio Agnes.

Laura Terzani, Tg3, nuora di Antonio Ghirelli.

AMICI CARI:

Bertilla Patruno Ambrosio, responsabile segreteria Raiuno, è nelle grazie di Roberto Di Russo, ex potente capo del personale.

Giorgia Caruso, conduttrice a Rai International, è sostenuta da Giancarlo Leone.

Laura Cason, Tg1, è apprezzata da Gustavo Selva, deputato di AN.

Teresa de Santis, capostruttura Raiuno, molto stimata da Maurizio Beretta, ex-direttore di Raiuno, passato alle Relazioni esterne Fiat.

Marilù Lucrezio, quella del bigliettino di Mario Landolfi denunciato da Gad Lerner, oggi al Tg1, è molto apprezzata da Massimo Magliaro, direttore di Rai International in quota AN.

Simonetta Martone, conduttrice e autrice, già compagna di Michele Santoro, è attualmente legata a Gregorio Paolini, l'inventore di "Target" passato da Mediaset alla Rai.

Francesca Montinaro, scenografa ed ex di Paolini, è stimatissima da Antonio Maccario, capostruttura di Raiuno.

"Sandra Steinert Jorge Santos" nuora di Agostino Saccà.

N.B. Inutile dire che la lista è in costante aggiornamento….

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

La Costituzione all'art. 3 non cita che siamo tutti uguali o tutti discendenti di eccelsi natali, esplica solo che tutti siamo uguali, sì, ma di fronte alla legge!!!

Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Questi avvocati esercitano.

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano.

Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Calcio, politica e soldi. Tutti i luoghi comuni dell'italiano medio. Da "i ricchi evadono" al "solito inciucio": ormai le litanie dilagano. E chi le recita si sente un po' più onesto degli altri, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. Mica c'è bisogno dell'Istat e dei sondaggi, per capire gli italiani basta vedere di cosa si lamentano in continuazione, lagne entrate nel linguaggio popolare come tic, frasi fatte che si sentono ovunque, una volta solo al bar o in famiglia o se prendevi un tassì a Roma, ormai perfino in televisione. A cominciare dalla considerazione «Solo in Italia». Solo in Italia ci sono mille parlamentari. Solo in Italia non trovano i colpevoli dei delitti. Solo in Italia la giustizia funziona male, ovviamente se per caso tocca noi, se tocca un altro «dovrebbero metterlo dentro e buttare la chiave», come fanno all'estero. Tanto nessuno conosce l'estero, per questo ogni legge elettorale te la propongono alla francese, alla tedesca, all'americana, per mostrare di conoscere il mondo quando non si sa un cavolo neppure di come si vota in Italia. Coltivando il mito di paesi nordici come la Scandinavia o la Norvegia, dove i servizi funzionano a meraviglia, dove lo tasse sono bassissime, basta che non domandi dove sta la Norvegia perché non saprebbero neppure indicartela sulla carta geografica. Sebbene abbiano sentito Grillo che ti spiega come lì si ricicli anche la pupù. Ma perché non cerchi lavoro? Perché tanto «non c'è lavoro», perché «bisogna andare fuori», e poi tutti sono sempre qui, mai che muovano il sederino, come all'estero appunto. Tanto «è tutto un magna magna», e «tutti rubano», sempre a sottintendere che chi lo dice non appartiene alla categoria, sempre a sottolineare una propria specchiatissima onestà, perché solo in Italia «i ricchi evadono lo tasse», l'hanno visto da Santoro e a Report, te lo dice il barista che intanto non ti rilascia lo scontrino fiscale e il medico o l'idraulico che senza fattura, se vuoi, paghi meno, e tu ci stai perché tanto mica te la scarichi, come in America. E comunque ve lo immaginate un inglese o in americano che si lamenta del magna magna e dice « it's all an eat eat »? Tanto «gli italiani so' tutti ignoranti», sbotta quello che non ha mai aperto un libro e un quotidiano lo sfoglia a scrocco mentre sbocconcella il cornetto, leggendo solo i titoli, non per altro quanto a lettura di giornali veniamo dopo la Turchia, e l'editoria è in crisi qui più che altrove, perché se si legge qualcosa «l'ho letto su internet». Che poi se cerchi lavoro, è noto, «prendono solo raccomandati», e intanto non è che per caso conosci qualcuno? Troppi immigrati, «arrivano solo da noi, perché non li mandiamo in Francia e in Germania?», che però ne hanno più di noi, e al contempo gli italiani sono pure tutti cattolici (non praticanti, per carità), con un papa che gli immigrati, cristianamente, li farebbe entrare tutti, per dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati. Noi al massimo porgiamo l'altra guancia, ma degli altri, insomma «se ne dovrebbe occupare l'Europa!», la quale Europa quando elargisce i finanziamenti a noi spariscono non si sa dove, e però «è tutta colpa della Merkel!». Se non altro stiamo rivalutando Andreotti, Craxi, «loro sì che erano politici», e quando c'erano loro i nostalgici pensavano a Mussolini, «con lui non si rubava». In un paese dove «non c'è meritocrazia», e mica se ne lamenta il laureato a Harvard, se ne lamentano tutti, un popolo di meritevoli, informati, studiosi, sentono che c'è «la fuga dei cervelli» e si identificano subito col cervello in fuga. Mai sentito nessuno che ammetta di non essere all'altezza, di aver studiato poco, di non meritarsi nulla, tutti sanno tutti, in qualsiasi campo, dalla medicina all'economia. Convintissimi che se i parlamentari si tagliassero lo stipendio si abbasserebbe il debito pubblico. O almeno potrebbero «dare l'esempio», quasi che i deputati fossero arrivati in parlamento con un'astronave e non li avessero votati loro. Perché qui «è tutto un inciucio», e nel frattempo pure a me scrittore, nel mio piccolo, arrivano in posta sporte di manoscritti mediocri che vogliono essere letti da gente che non ha mai letto niente, tanto meno me, ma se glielo fai notare rispondono «Mica sarà peggio di tanti che pubblicano?». È il diritto alla mediocrità, solo in Italia.

Guardate l'orologio: entro un'ora, in Italia, avranno pubblicato 7 nuovi libri scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Entro mezzanotte saranno 170. Ogni anno fanno 60mila nuovi, e circa il 60 per cento resterà invenduto. Sì, perché solo il 43 per cento degli italiani legge almeno un libro all'anno: e ancora meno - il 37 per cento - lo acquista. Di questo 37, solo il 4 per cento è formato da lettori forti: ma in generale calano i lettori e calano le vendite, come non era mai successo. Conoscevate questi dati? Sì? Perché la verità è che noi italiani non leggiamo un tubo.

«Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in 2 e cercano una stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano 4, 6, 10. Parlano lingue incomprensibili, forse dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina; spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici, sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, di attività criminali. Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione».

____________________________

Fonte: Relazione dell'Ispettorato per l'immigrazione del Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati italiani, ottobre 1919.

Razzismo, la gaffe di Germano: falso il testo letto ai bimbi rom. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione contro Salvini. Ma ha fatto una clamorosa gaffe, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione delle anime belle contro Salvini e il pericolo della destra intollerante e, soprattutto, ignorante. Per questo ha realizzato un video contro il razzismo; ha preso un gruppo di bambini Rom sullo sfondo di una roulotte, si è seduto in mezzo a loro e ha iniziato a leggere un documento con tono recitato (come si addice ai grandi attori) e l’aria di chi sta svelando al mondo una verità nascosta ma scontata. Il testo è una descrizione offensiva e razzista degli italiani emigrati in America agli inizi del ‘900, definiti ladri, puzzolenti, stupratori, abituati a vivere dentro baracche fatiscenti e organizzati secondo regole di clan. Elio Germano spiega che quel testo è un documento dell’allora Ispettorato per l’Immigrazione degli Stati Uniti. L’obiettivo dell’attore è ovvio: dimostrare che certi italiani di oggi sono razzisti verso gli immigrati e i Rom, come lo erano gli americani verso gli italiani all’inizio del secolo. Tutto molto bello e politically correct, se non fosse che, a quanto pare, quel documento è una patacca, un falso. Il testo, che gira da molti anni su internet, fu già utilizzato nel 2013 da Roberto Saviano (uno che di patacche se ne intende) nel salottino televisivo di Fabio Fazio. Più recentemente, Carlo Giovanardi, l’agguerrito deputato di centrodestra, ha pubblicato il vero documento originale della Commissione Dillingham sull’Immigrazione, che non contiene nulla di quanto letto dagli antirazzisti di mestiere, ma al contrario è un’attenta analisi dell’immigrazione italiana del periodo. Che giudizi sprezzanti e spesso offensivi contrassegnassero l’opinione pubblica americana nei confronti degli italiani (soprattutto meridionali) è cosa appurata storicamente da diversi studi. Ma quel documento che i fulgidi artisti di sinistra si passano di mano in ogni occasione per dare del razzista a chiunque contesti l’immigrazione clandestina, è una patacca degna della loro inutile demagogia.

Saviano va in tv a spiegare che una volta eravamo noi italiani gli zingari d’America. Ma è una bufala. Giugno 12, 2013 Carlo Giovanardi. Ospite di Fabio Fazio, lo scrittore cita «un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione Usa» che tratta gli italiani come zecche. Peccato che sia una patacca Domenica 26 maggio Roberto Saviano, intervistato da Fabio Fazio nella trasmissione Che tempo che fa, per combattere quella da lui definita l’ondata di «odio morale verso gli immigrati» ha letto un testo. Cito testualmente le sue parole: «Avevo visto e trascritto qui alcune parole della relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano, quindi un documento ufficiale del governo americano del 1912, così descrive gli italiani». Ecco il testo letto da Saviano: «Gli italiani sono generalmente di piccola statura e di pelle scura, non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane, si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Si presentano di solito in due, cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci, tra loro parlano lingue a noi incomprensibili probabilmente antichi dialetti. Molti bambini  vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, fanno molti figli che poi faticano a mantenere. Dicono siano dediti al furto, e le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si parla di stupri o agguati in strade periferiche. Propongo che si privilegino le persone del nord, veneti e lombardi, corti di comprendonio e ignoranti, ma disposti più degli altri a lavorare». Concludeva poi Saviano: «Incredibile che il nostro paese tutto questo non lo ricordi, non ne faccia memoria attiva, ma lo trasferisca quando si rivolge ad altre comunità o “etnie”». Conosco bene la storia dell’emigrazione italiana e delle terribili discriminazioni e umiliazioni di cui i nostri connazionali sono stati vittime all’estero ma, trovandomi per caso quella sera davanti alla tv di Stato, mi è parso del tutto evidente il fumus di “patacca” che emanava da frasi così volgari ed offensive in un documento ufficiale del Senato degli Stati Uniti nei confronti di un intero popolo. Una rapida ricerca su Google mi ha permesso di scoprire che già Paolo Attivissimo sul sito del CICAP (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), aveva a suo tempo verificato che di quel testo erano in circolazione varie versioni, una delle quali, lanciata da Rainews24, citava come fonte il giornalista e conduttore televisivo Andrea Sarubbi che nel 2009  aveva pubblicato un articolo con quella citazione. Sarubbi, interpellato, aveva precisato di non aver tratto la citazione direttamente dal documento statunitense originale. La sua frase: «Ho fra le mani un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione», non era quindi letterale, ma derivava da una fonte italiana, «un articolo pubblicato un anno fa sul giornale Il Verona dall’avv. Guarenti». Guarenti, a sua volta, dichiarava di averlo trovato «in un libro di un anno fa» ma  non era in grado di citare il titolo del libro. Insomma, concludeva Attivissimo: «Siamo di fronte ad una situazione almeno di terza mano di cui non si sa la fonte intermedia». Sulla traccia di Attivissimo ho interpellato pertanto formalmente l’ambasciata americana che mi ha risposto il 30 maggio: «La commissione sull’immigrazione degli Stati Uniti conosciuta come la Dillingham Commission dal nome del senatore del Vermont che l’ha presieduta ha lavorato dal 1907 al 1911 e ha pubblicato 41 volumi  di rapporti contenenti dati statistici sull’immigrazione negli Stati Uniti, l’occupazione degli immigrati, le condizioni di vita, la scolarizzazione dei bambini, le organizzazioni sociali e culturali, delle comunità degli immigrati e la legislazione sull’immigrazione a livello statale e federale». Continuava poi l’ambasciata americana: «Questi sono gli unici rapporti ufficiali sull’immigrazione elaborati in quegli anni e disponibili al pubblico. Da una visione superficiale, la citazione da lei riportata nella sua mail non appare in nessuno di questi rapporti, ma per esserne certi bisognerebbe eseguire una ricerca più accurata, per la quale purtroppo noi non siamo in grado di aiutarla in questo momento». Aiutati che Dio ti aiuta, ho consultato tramite la mail inviatami dall’Ambasciata tutti i volumi senza trovar traccia del documento citato da Saviano, ma viceversa una interessantissima disamina sull’immigrazione dell’Italia che ho fatto tradurre dall’inglese e si può leggere sul sito www.carlogiovanardi.it. Per il resto ringrazio Saviano che mi permette di aggiungere il XII ed ultimo capitolo al libro intitolato Balle che sto pubblicando, dove spiego come l’opinione pubblica italiana fonda le sue convinzioni su vere e proprie bufale che vengono troppo spesso disinvoltamente spacciate come verità.

61ª legislatura, Documento n. 662, RELAZIONI DELLA COMMISSIONE SULL'IMMIGRAZIONE. DIZIONARIO DELLE RAZZE O POPOLI. Presentato da DILLINGHAM il 5 dicembre 1910 alla Commissione sull'immigrazione [...] ITALIANO. La razza o il popolo dell'Italia. L'Ufficio dell'immigrazione [Bureau of Immigration] divide questa razza in due gruppi: Italiani settentrionali e Italiani meridionali. Fra i due gruppi vi sono delle differenze materiali, riconducibili a lingua, aspetto fisico e carattere, e delle differenze relative, rispetto alla distribuzione geografica. Il primo gruppo identifica gli italiani nativi del bacino del Po (compartimenti del Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emelia [sic], i distretti italiani in Francia, Svizzera e Tirolo (Austria) e i loro discendenti. Tutti i popoli della penisola geograficamente definita e delle isole della Sicilia e della Sardegna sono Italiani meridionali. Anche Genova è meridionale.

Linguisticamente, l'italiano rappresenta una delle grandi divisioni del gruppo di lingue romanze derivate dal ceppo latino della famiglia ariana. Esso è articolato in molti dialetti, la cui separazione e conservazione è favorita dalla configurazione geografica dell'Italia. Hovelacque divide questi dialetti in tre gruppi: superiore, centrale ed inferiore. Il primo comprende i dialetti genovese, piemontese, veneto, emiliano e lombardo; il gruppo centrale comprende toscano, romanesco e còrso; il gruppo inferiore comprende napoletano, calabrese, siciliano e sardo. Questi dialetti differiscono fra di loro molto più che i dialetti inglesi o spagnoli. Si dice che è difficile per un Napoletano o un Sardo farsi capire da un nativo della pianura padana. Forse più che in qualsiasi altro paese, le classi colte restano tenacemente aggrappate all'uso del dialetto in àmbito familiare, preferendolo alla forma letteraria nazionale della lingua. Tale forma letteraria è rappresentata dal dialetto toscano di Firenze, come codificato nella letteratura di Dante, Petrarca e Bocaccio [sic] nel XIV secolo. Anche altri dialetti, tuttavia, hanno una considerevole letteratura, soprattutto il veneto, il lombardo, il napoletano e il siciliano. Quest'ultimo ha una poesia particolarmente ricca. Tutto il gruppo superiore di dialetti – per restare alla definizione di Hovelacque – tranne il genovese, è settentrionale. Tali dialetti contengono molti elementi gallici o celtici e mostrano affinità con le lingue provenzali e retoromanze (ladino e friulano), con le quali confinano ovunque tranne che al sud. Il genovese e i dialetti del gruppo centrale ed inferiore sono parlati dagli Italiani meridionali.

Fisicamente, gli Italiani sono una razza tutt'altro che omogenea. La catena montuosa degli Appennini forma una linea geografica che costituisce un confine fra due gruppi etnici distinti. La regione a nord di questa linea, la valle del Po, è abitata da persone – i Settentrionali – abbastanza alte e con la testa larga (la razza "alpina"). Gli abitanti delle zone orientali ed occidentali di questa regione mostrano apporti teutonici in Lombardia ed un'infusione di sangue slavo in Veneto. Tutta l'Italia a sud dell'Appennino e tutte le isole adiacenti sono occupate da una razza "mediterranea", di bassa statura, scura di pelle e con il viso lungo. Si tratta dei "Meridionali", che discenderebbero dall'antica popolazione italica dei Liguri, strettamente imparentati con gli Iberici della Spagna e i Berberi del Nordafrica. Il principale etnologo italiano, Sergi, li fa derivare dal ceppo amitico (v. Semitico-Amitico) del Nordafrica. Bisogna ricordare che gli Amitici non sono negritici, né veri africani, sebbene si possa rintracciare un apporto di sangue africano in alcune comunità in Sicilia e in Sardegna, oltre che in Nordafrica. L'Ufficio dell'immigrazione pone gli Italiani settentrionali nella divisione "celtica" e quelli meridionali in quella "iberica". La commistione fra i due gruppi etnici è stata relativamente scarsa, anche se molti Italiani settentrionali hanno doppiato gli Appennini ad est, facendo ingresso nell'Italia centrale. Pertanto, la linea di demarcazione fra Emiliani e Toscani è molto meno netta che fra Piemontesi e Genovesi. Un sociologo italiano, Niceforo, ha indicato che questi due gruppi etnici differiscono profondamente fra di loro, da un punto di vista sia fisico sia caratteriale. Egli descrive il Meridionale come irritabile, impulsivo, molto fantasioso, testardo; un individualista poco adattabile ad una società ben organizzata. Al contrario, descrive il Settentrionale come distaccato, risoluto, paziente, pratico e capace di grandi progressi nell'organizzazione politica e sociale della civiltà moderna. Sia i Settentrionali sia i Meridionali sono dediti alla famiglia, d'animo buono, religiosi, artistici ed industriosi. Sono quasi tutti di religione cattolica. La maggior parte dell'immigrazione italiana negli Stati Uniti è reclutata fra le classi contadine ed operaie. In America, tuttavia, essi non hanno conseguito successo come agricoltori, con l'eccezione della frutticoltura e dell'enologia, soprattutto in California, dove figurano ai primi posti.

L'esperto di statistica italiano Bosco ammette che l'Italia è tuttora al primo posto in termini di numero di reati contro la persona, anche se questi sono diminuiti notevolmente in seguito al miglioramento del sistema di istruzione e all'ampio flusso di emigrazione. Su questo versante l'Italia è seguita nella graduatoria dall'Austria, dalla Francia e, a una certa distanza, dall'Irlanda, la Germania, l'Inghilterra e la Scozia. Niceforo indica, sulla base dei dati statistici italiani, che tutti i reati, soprattutto i crimini violenti, sono molto più numerosi tra i Meridionali che tra i Settentrionali. Il gioco d'azzardo è diffuso. Il gioco del lotto è un'istituzione nazionale che viene utilizzata per alimentare le casse dello Stato. Il brigantaggio è ormai pressoché estinto, fatta eccezione per alcune parti della Sicilia. Le organizzazioni segrete come la Mafia e la Comorra [sic], istituzioni molto influenti tra la popolazione che esercitano la giustizia in proprio e sono responsabili di molta parte della criminalità, prosperano nell'Italia meridionale. La maggiore difficoltà nella lotta alla criminalità sembra risiedere nella propensione degli Italiani a non testimoniare contro alcuno in tribunale e a riparare i torti ricorrendo alla vendetta (v. Còrsi).

E' indicativo il fatto che l'Italia sia uno dei paesi con il maggiore tasso di analfabetismo in Europa. Nel 1901 il 48,3% della popolazione dai sei anni in su non sapeva leggere e scrivere. In quell'anno in Calabria, la parte più meridionale della penisola, il tasso di analfabetismo tra le persone dai sei anni in su era pari al 78,7%. Il tasso di analfabetismo più basso si registra nella valle del Po, nell'Italia settentrionale. I Lombardi e i Piemontesi sono gli italiani più istruiti. La situazione è tuttavia migliorata dopo che il governo ha reso l'istruzione gratuita e obbligatoria tra i 6 e i 9 anni nei comuni dove vi erano le sole scuole elementari e dai 6 ai 12 anni nei comuni dove erano presenti scuole di più alto grado.

Tra le classi più umili la povertà è estrema; le persone vivono in alloggi miseri e hanno accesso a un'alimentazione carente, basata principalmente su granoturco mal conservato. Perfino a Venezia sembra che un quarto della popolazione viva ufficialmente di carità.

I confini geografici della razza italiana sono più ampi di quelli dell'Italia. Gruppi numerosi sono presenti in paesi vicini come Francia, Svizzera ed Austria. Le province del Tirolo e dell'Istria, in Austria, sono per un terzo italiane.  Ampi gruppi sono inoltre presenti nel Nuovo Mondo. L'Italia stessa è quasi interamente italiana. Ha una popolazione di 34 milioni di persone e comprende solo piccoli bacini di altre razze (circa 80.000 Francesi nell'Italia nordoccidentale, 30.000 Slavi nell'Italia nordorientale, circa 30.000 Greci nell'Italia meridionale, circa 90.000 Albanesi in Italia meridionale e in Sicilia e 10.000 Catalani (Spagnoli) in Sardegna. Un certo numero di Tedeschi, forse meno di 10.000, è presente nelle Alpi italiane. Circa due quinti della popolazione dell'Italia si trovano nella valle del Po, ovvero in meno di un terzo della lunghezza del paese. Suddivisa approssimativamente in compartimenti, la popolazione di quest'area, occupata da Italiani settentrionali, conta circa 14 milioni di persone. Questa cifra include i Friulani dell'Italia nordorientale i quali, pur parlando una lingua latina distinta dall'italiano, sono difficilmente distinguibili dagli Italiani settentrionali. Il loro numero si situerebbe, a seconda delle diverse stime, tra 50.000 e 450.000. La popolazione dei distretti meridionali è di circa 19.750.000 persone, di cui 125.000 appartengono ad altre razze. La maggior parte degli Italiani della Francia, della Svizzera e dell'Austria sono sul piano della  razza Italiani settentrionali. Quelli della Corsica, isola appartenente alla Francia, sono Italiani meridionali.

Distribuzione degli Italiani (stima riferita al 1901)

In Europa:

Italia 33.200.000

Francia 350.000

Svizzera 200.000

Austria 650.000

Corsica 300.000

Altre parti d'Europa 300.000 

Totale 35.000.000 

Altrove:

Brasile 1.000.000

Rep. Argentina 620.000

Altre parti del Sudamerica 140.000

Stati Uniti 1.200.000

Africa 60.000 

Totale 3.020.000

Totale nel mondo (cifra approssimata) 38.000.000 

A partire dal 1900, in alcuni anni oltre mezzo milione di italiani è emigrato nelle diverse regioni del mondo. All'incirca la metà di tale flusso ha come destinazione altri paesi europei ed è di carattere temporaneo, in quanto riguarda sopratutto la popolazione maschile. Dal 1899 fino a tutto il 1910  negli Stati Uniti sono stati ammessi 2.284.601 immigrati italiani, ed è stata altresì consistente  l'immigrazione italiana verso l'America del Sud. La maggior parte delle persone che giunge negli Stati Uniti rientra successivamente in patria. Tuttavia, soprattutto a New York e negli altri Stati dell'Est il numero di coloro che rimangono è elevato. Nel 1907 gli immigrati provenienti dall'Italia meridionale sono stati oltre 240.000, un numero più che doppio rispetto alla razza di immigrazione che come consistenza si colloca subito dopo quella degli immigrati italiani meridionali. Il numero degli arrivi di Italiani settentrionali è solo un quinto di tale cifra. La notevole capacità della razza italiana di popolare altre parti del mondo risulta evidente dal fatto che la presenza italiana supera numericamente quella degli Spagnoli nell'Argentina spagnola e dei Portoghesi in Brasile, nonostante quest'ultimo sia un paese "portoghese". (vedi Ispanoamericani).  Attualmente, ai fini dello studio del fenomeno dell'immigrazione il flusso migratorio degli Italiani verso gli Stati Uniti è forse il più significativo, e non solo perché risulta essere molto più consistente di ogni altro gruppo nazionale in qualunque anno di riferimento e perché è elevata la percentuale degli Italiani per ogni mille immigranti che entra sul territorio degli Stati Uniti. Ancora più significativo è il fatto che questa razza  è più numerosa di qualsiasi altra tra la decina di razze che figurano ai primi posti come tasso di immigrazione. In altre parole, in virtù di una popolazione di 35.000.000 e di un elevato tasso di natalità, questa razza continuerà a primeggiare anche quando la spinta delle altre razze, attualmente responsabili dell'ondata di immigrazione, tra cui gli Ebrei (8.000- 000[sic]), gli Slovacchi (2.250.000) e il gruppo Sloveno-Croato (3.600.000), sarà esaurita,  come di fatto sta già avvenendo per gli Irlandesi. Un fatto non necessariamente noto è che nel decennio 1891-1900 l'Italia era il principale paese di origine dell'immigrazione in America. All'inizio degli anni ottanta, ovvero quasi trent'anni fa, l'Italia aveva già cominciato a guadagnare terreno rispetto ai paesi dell'Europa settentrionale. Tuttavia bisognava attendere il 1890 per vedere gli Stati Uniti sorpassare  l'America meridionale come destinazione privilegiata dei flussi migratori provenienti dall'Italia. Nel decennio precedente e nei periodi antecedenti il Brasile ha accolto più italiani della Repubblica Argentina, sebbene si ritenga erroneamente che sia quest'ultima ad ospitare la più grande comunità italiana dell'America meridionale. Nel 1907 gli Stati Uniti hanno accolto 294.000 dei 415.000 Italiani emigrati oltreoceano. Nello stesso anno le persone emigrate, per lo più temporaneamente, dall'Italia verso altri paesi europei sono state 288.774. L'immigrazione italiana negli Stati Uniti è stata finora prevalentemente di carattere temporaneo. Mosso calcola che il periodo medio di permanenza degli Italiani negli Stati Uniti sia di otto anni. L'emigrazione più consistente verso oltreoceano dall'Italia ha la sua origine nelle regioni a sud di Roma, abitate dagli Italiani meridionali. Gli emigrati provengono soprattutto dalla Sicilia e dalla Calabria, ovvero dai territori meno produttivi e meno sviluppati del paese. L'emigrazione dalla Sardegna (Vedi) è scarsa. Il compartimento della Liguria, territorio di provenienza dei Genovesi, anch'essi appartenenti alla razza degli Italiani meridionali, registra più emigrazione di qualsiasi altra provincia dell'Italia settentrionale. Il flusso complessivo dell'immigrazione verso l'America da alcuni compartimenti italiani  ha raggiunto proporzioni  ingenti, al punto da superare più volte il tasso di crescita naturale della popolazione. Questo ha già causato il parziale spopolamento di alcuni distretti agricoli. Se confrontati con altre razze di immigrati e con il numero assoluto degli arrivi, gli Italiani meridionali sono i più numerosi: 1.911.933 nei dodici anni compresi tra il 1899 e il 1910, seguiti dagli Ebrei, 1.074.442, dai Polacchi, 949.064, dai Tedeschi, 754.375 e dagli Scandinavi, 586.306. I  Settentrionali sono al nono posto nell'elenco relativo allo stesso periodo: 372.668, subito dopo gli Inglesi e gli Slovacchi, ma prima dei Magiari, dei Croati e degli Sloveni e dei Greci. Per quanto riguarda il tasso del movimento transatlantico, è piuttosto evidente un contrasto tra Settentrionali e Meridionali: ad esempio, nel 1905 l'emigrazione dalla Calabria è stata undici volte maggiore di quella proveniente dal Veneto. Nel 1907 l'indice dello spostamento dei Settentrionali verso gli Stati Uniti è stato di circa il 3 per 1000 della relativa popolazione presente in Italia, mentre quello degli Italiani meridionali è stato del 12 per 1000. L'indice di movimento dei Settentrionali è stato più o meno lo stesso di quello degli Svedesi e dei Finlandesi, è stato il triplo di quello dei Tedeschi, ma solo la metà di quello dei Ruteni provenienti dall'Austria-Ungheria. Il tasso di movimento dei Meridionali verso gli Stati Uniti, d'altra parte, è superato solo dal gruppo Croato-Sloveno, che nel 1907 è stato del 13 per mille della popolazione, e dagli Ebrei e dagli Slovacchi che, nello stesso anno, è stato del 18 per mille della popolazione. Gli immigrati italiani giungono negli Stati Uniti, oltre che dall'Italia, principalmente dai seguenti paesi: il Nordamerica britannico (3.800 nel 1907), l'Austria-Ungheria (1.500), il Regno Unito (600), il Sudamerica (600) e la Svizzera (200). Quelli provenienti dalla Svizzera e dall'Austria-Ungheria generalmente sono Settentrionali.

Nei dodici anni tra il 1899 e il 1910, le principali destinazioni negli Stati Uniti dei due gruppi di Italiani sono state le seguenti:

Settentrionali

New York 94.458

Pennsylvania 59.627

California 50.156

Illinois 33.525

Massachusetts 22.062

Connecticut 13.391

Michigan 13.355

New Jersey 12.013

Colorado 9.254 

Meridionali

New York 898.655

Pennsylvania 369.573

Massachusetts 132.820

New Jersey 106.667

Illinois 77.724

Connecticut 64.530

Ohio 53.012

Louisiana 31.394

Rhode Island 30.182

West Virginia 23.865

Michigan 15.570

California 15.018 

Una poesia per i pataccari di sinistra, scrive “L’Anarca” (Giampaolo Rossi ) su “Il Giornale”. I discepoli intellettuali del politically correct hanno l’abitudine di prendersi troppo sul serio; succede sopratutto quando si cimentano nel nobile mestiere dell’impegno sociale mettendo la loro fama e la loro arte a disposizione della lotta all’oscurantismo reazionario. È successo anche a Elio Germano, l’attore militante che ha realizzato il video-patacca contro il razzismo di cui abbiamo denunciato il falso in questo articolo di ieri. Il video si conclude con l’attore che legge, ad un gruppo di bambini Rom visibilmente annoiati e usati come scudi della sua vanità ideologica, una poesia di Trilussa in romanesco. Per non essere da meno, ho deciso di scrivere una poesia anche io, proprio nel dialetto di Trilussa, dedicandola a Elio Germano, ai maestrini radical-chic e alle loro false “verità assolute” diffuse come un virus. Un piccolo omaggio ironico all’abitudine pataccara della sinistra intellettuale e artistica di spargere scemenze spacciandole per verità.

L’ARTISTA DE SINISTRA

Il razzismo, se sa, è brutta robba.

È segno de incivile intolleranza tipica de chi ragiona co’ la panza.

Ma, di certo, ‘na cosa assai più brutta

è l’intellettuale quanno rutta.

Quanno se erge cor dito moralista

e come er Padreterno,

dei buoni e dei cattivi fa la lista.

Filosofo o scrittore, poeta o cantautore, attore o saltimbanco,

è come se la storia s’inchinasse all’astio livoroso e intelligente

de chi se crede sempre er più sapiente.

Spesso nun sa manco de che parla, ma parla per parla’

e per l’impegno preso e coltivato con lo sdegno

de chi è convinto che deve lascià un segno.

L’artista de sinistra in tracotanza,

dall’alto del suo ego trasformato,

diventa un drogato de arroganza.

Lui se convince de esse come un Faro,

invece, spesso, è solo un gran Cazzaro.

Chi non è raccomandato scagli la prima pietra. Più di quattro milioni di italiani sono ricorsi a una raccomandazione per ottenere un'autorizzazione o accelerare una pratica. E 800mila hanno fatto un "regalino" a dirigenti pubblici per avere in cambio un favore. Sono alcuni dati emersi da una ricerca realizzata dal Censis. L'Istituto ha fatto luce sulla percezione che della pubblica amministrazione hanno i cittadini. Il risultato è sconfortante. Per il 50,5% degli italiani la pubblica amministrazione funziona male (il dato sale al 59% al Sud) e solo per meno dell'1% funziona molto bene. Per il 63,5% non è cambiata e per il 21,5% è addirittura peggiorata. Per farla funzionare meglio gli italiani chiedono il pugno di ferro per corrotti e fannulloni: il 45,3% vorrebbe regole più severe e licenziamenti nel pubblico impiego. Il 34,7% vorrebbe l'assunzione di dirigenti giovani, dinamici e capaci di organizzare meglio le cose. Il 22,1% chiede che i dipendenti pubblici siano licenziabili come quelli che lavorano nel privato e il 19,3% vuole che i più meritevoli vengano pagati meglio. A parole tutti bravi, verrebbe da dire. "Intanto però - continua il Censis - per ottenere autorizzazioni e accelerare pratiche restano le solite maniere: dalla raccomandazione al regalino. Per ottenere un'autorizzazione o accelerare una pratica nella pubblica amministrazione 4,2 milioni di italiani hanno fatto ricorso a una raccomandazione o all'aiuto di un parente, amico, conoscente. All'inefficienza della pubblica amministrazione gli italiani si adattano secondo una doppia morale. Sono quasi 800.000 le persone che hanno fatto un qualche tipo di regalo a dirigenti e dipendenti pubblici per avere in cambio un favore. Un altro sintomo delle difficoltà di rapporto dei cittadini con la pubblica amministrazione è il ricorso a soggetti di intermediazione (Caf, patronati, ecc.) per relazionarsi con gli uffici pubblici: nell'ultimo anno lo hanno fatto 3,3 milioni di italiani". 

Non solo. Il coro di voci, che hanno chiesto le dimissioni al Ministro Lupi del governo Renzi, è roboante. Tra i vari aspetti della vicenda Incalza che lo vedono coinvolto, al ministro delle Infrastrutture non viene perdonata la presunta raccomandazione per il figlio. Ma è davvero così peccaminoso prodigarsi per il proprio figlio come ogni genitore farebbe, oltretutto, in un Paese dove la raccomandazione è all'ordine del giorno?

E’ inutile negarlo, la pratica della raccomandazione è la sola che funziona perfettamente nel nostro Paese, anche perché coinvolge ognuno di noi in maniera democratica senza distinzione di genere, scrive “Panorama”. Ci sono gli italiani che raccomandano e gli italiani che si fanno raccomandare, una sorta di catena di Sant’Antonio che prosegue all’infinito. Almeno una volta nella vita bisogna provare l’ebbrezza della spintarella, anche quando si è coscienti che questa non servirà a nulla per raggiungere l’ambita destinazione, qualsiasi essa sia (il posto di lavoro, la visita medica, l’esame all’università) e non importa se alla meta arriverà un altro, perché la nostra osservazione sarà “chissà chi lo ha raccomandato…!” E poi ci sentiamo a posto con la coscienza per due motivi, il primo perché, comunque, il tentativo lo abbiamo fatto, il secondo perché la volta successiva non ci faremo trovare impreparati, anzi ci organizzeremo meglio cercando una spinta più potente. Forse un giorno potremo anche inserirla nel curriculum vitae. Alberto Moravia nel suo racconto breve intitolato guarda caso La raccomandazione narrava di un disoccupato sfinito che di raccomandazione in raccomandazione si ritrovava alla fine davanti alla persona a cui per primo si era rivolto, constatando di persona il fallimento di ogni suo tentativo, come nel gioco dell’Oca dove, se si capita nella casella sbagliata, si finisce al punto di partenza per ricominciare daccapo. Anche in questo argomento, la Storia italica è piena di precedenti sin da prima della sua Unità (come non avrebbe potuto essere altrimenti dal momento che fa parte del nostro DNA). Il re delle Due Sicilie, Ferdinando II, durante il suo soggiorno proprio in Sicilia per salutare i suoi sudditi, ricevette in un mese ben 28mila raccomandazioni. All’epoca il 90% della popolazione era analfabeta, ma in questa arte i nostri antenati avevamo dimostrato di essere ben istruiti. A dimostrazione della sua endecimità è la perseveranza con cui resiste a ogni regime politico Monarchia, Dittatura o Democrazia. In alcuni casi si è anche cercato di legalizzarla come riportava il Foglio di Disposizione datato 8 febbraio 1933 in cui Achille Starace scriveva “è superfluo rinnovare il tentativo di sradicarlo, anche perché, alla fin fine, quando le raccomandazioni sono fatte a scopo di disinteressata assistenza, nulla vieta che siano accolte ed esaminate benevolmente”. Ma anche il Segretario del Partito Nazionale Fascista tentava di porre un freno quando il 21 agosto dello stesso anno ammoniva “accade che i meno raccomandabili riescono a procurarsi delle raccomandazioni. Quando si verifichino inconvenienti del genere è bene mettere il raccomandato in condizioni di non nuocere”. Facile a dirsi, difficile a farsi diremmo oggi leggendo le cronache di queste ore con l’erede dei Lupi che chiede “legittimamente” la sua parte di spintarella. Proviamo a immaginare, anche solo per un istante, che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, faccia uno dei suoi annunci via Twitter e proclamasse urbi et orbi che le raccomandazioni sono bandite definitivamente dall’Italia. Quale potrebbe essere la reazione in ognuno di noi? Probabilmente avremmo allo stesso tempo più disoccupati e un maggior numero di depressi. Per esempio nel maggio del 1959 il ministro dell’Interno, Mario Scelba, tentò una simile mossa e inoltrò a tutti i grandi uffici pubblici, ministri e burocrati, una circolare di questo tenore “Ho dovuto rilevare che, purtroppo, sussiste ancora, nei candidati ai pubblici concorsi, il convincimento che elemento indispensabile per la riuscita sia quello di procurarsi una raccomandazione. In pratica, come è noto, il valore delle segnalazioni è nullo, ma se pure la raccomandazione non costituisca un danneggiamento per i terzi, non conferisce all’educazione dei cittadini”. Ovviamente l’invito cadde nel vuoto. Potremmo suggerire all’attuale ministro dell’Interno Angelino Alfano di recuperare quella circolare, che sicuramente è stata protocollata, e, apportando i dovuti aggiornamenti, in questo caso solo la data, inoltrarla ai colleghi. Ma, siamo certi che qualcuno commenterà “da quale pulpito!”. Il 25 giugno del 1969 l’agenzia Adn Kronos riferì una dichiarazione fatta dal ministro del lavoro Giacomo Brodolini, quello che si batté con tutte le sue forze per lo Statuto dei Lavoratori, “per le duemila assunzioni previste dall’Inps, ho ricevuto oltre 40mila lettere di raccomandazioni. Non si contano poi le telefonate e i messaggi personali”. Già perché come dicevamo all’inizio, ogni partito ha le sue clientele e dispone, non per legge ma per consuetudine, di un certo numero di poltrone dove far atterrare le natiche dei relativi clienti. Naturalmente i più sfortunati sono i comuni cittadini che bussano alla porta dei deputati per qualsiasi motivo. Pensate che alle ultime elezioni per il Presidente della Repubblica, i mille Grandi Elettori hanno ricevuto telefonate e messaggi da parte di parenti, amici, conoscenti e anche parroci che chiedevano di scrivere il proprio nome sulla scheda. Che giocherelloni che siamo. Tuttavia, proprio per non perdere la speranza ci piace concludere con le parole sempre sagge del grande giornalista Vittorio Gorresio che definiva l’Italia “la Repubblica dei raccomandati” aggiungendo che “questa grande istituzione nazionale ha le stesse origini della massoneria (come la si intende nel senso volgare) della mafia e della camorra”.

Quando si dà la caccia ai figli per colpire i padri, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. E poi dicono, i potenti, povero ministro Lupi. Un figlio laureato con 110 e lode al Politecnico di Milano, e tutto quello che gli trova è un lavoretto su un cantiere Eni a partita iva da 1300 euro mese. Un precario aggiunto ai milioni di giovani senza posto fisso. E sì che mica lo poteva infilare in una delle cooperative di Comunione e liberazione, quelle ormai stanno nell’occhio del ciclone, e poi che fai, vai a pulire il culo degli ammalati negli ospedali, dai i pasti alla mensa, ti sbatti coi tossici, ricicli i libri usati, oh, c’ha una laurea al Politecnico. E però, per i figli si farebbe tutto, certo. Anche mettendoti a rischio. I figli sono pezzi di cuore, sono quello per cui ti sbatti, sono quello che rimarrà di te, sono il punto debole. È una costante questa. Sarà che noi italiani c’abbiamo il familismo amorale, c’abbiamo. Prima di tutto la famiglia, i figli. Per un figlio, cambiò la politica italiana degli anni Cinquanta. L’undici aprile 1953, giorno della vigilia di Pasqua, sulla spiaggia di Torvaianica, presso Roma, venne rinvenuto il corpo senza vita di una ventunenne ragazza romana, Wilma Montesi, scomparsa due giorni prima. Rapidamente tutto precipita in uno scandalo di proporzioni enormi. Oltre a varia umanità, viene coinvolto Piero Piccioni. Piccioni era un musicista jazz (noto col nome d’arte di Piero Morgan), fidanzato di Alida Valli, star del cinema, e figlio di Attilio Piccioni, vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e uno dei più influenti esponenti della Democrazia Cristiana. La Dc, che raccoglie quasi la metà dei voti elettorali, è dilaniata da lotte intestine: è il passaggio di potere che chiuderà l’era degasperiana. Piccioni è uno dei più accreditati eredi. È lui l’uomo che tutti ritengono sarà il prossimo presidente del Consiglio. Non andrà così: lo scandalo Montesi lo travolgerà, benché il figlio non avesse niente a che fare con quella dannata storia. Negli stessi giorni del delitto, era in corso la campagna elettorale per le elezioni politiche e l’opinione pubblica era incendiata sulla legge truffa, voluta a tutti i costi da De Gasperi, consistente nell’assegnazione del 65 percento dei seggi della Camera dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse raggiunto il 50 percento più uno dei voti validi. Un premio di maggioranza che avrebbe dato alla Dc una sorta di potere assoluto. Si votò a giugno e vuoi anche per lo scandalo, la Dc non ci riuscirà solo per lo 0,8 percento dei voti (la legge verrà abrogata l’anno successivo). Ne trarrà vantaggio Amintore Fanfani, che tutti accrediteranno essere stato la “manina” che ha concentrato un fuoco di fila di accuse contro il giovane Piccioni. Fanfani, nel bene e nel male, plasmerà la politica economica italiana – le nazionalizzazioni, l’impulso all’industria di Stato, gli investimenti nel Mezzogiorno, l’edilizia popolare – di tutti gli anni Cinquanta e oltre. Non sarebbe successo se Attilio Piccioni non avesse fatto un passo indietro, sotto l’onda d’urto delle accuse contro il figlio. Fu, se così si può dire, uno “scambio”: il figlio – che non aveva colpe reali – ne venne fuori, lui perse il potere. E per un figlio fu costretto a dimettersi Carlo Donat-Cattin, potente democristiano piemontese ex-sindacalista – lo chiamavano il “ministro dei lavoratori” – osso duro per i denti della Confindustria. Marco Donat-Cattin era un militante di spicco di Prima linea, una delle organizzazioni armate, e aveva partecipato all’omicidio del giudice Emilio Alessandrini. Quando il generale Dalla Chiesa acchiappa Patrizio Peci delle Brigate rosse e lo fa cantare, quello fa tutti i nomi che gli venivano in mente, fra i quali quello di Donat-Cattin. È il 1980. Dalla Chiesa avvisa Cossiga, Cossiga chiama Donat-Cattin: sta per partire un mandato di cattura e la notizia diventerà pubblica, e in più i verbali di Peci stanno per essere pubblicati, una “manina” li ha allungati al quotidiano «Il Messaggero». Cossiga la racconterà poi così: «Verificai la notizia con il generale Dalla Chiesa. E avvertii il mio ministro che suo figlio era ricercato. E chiesi a Donat-Cattin di dire al figlio di consegnarsi e raccontare tutto quanto sapeva. Scoppiò a piangere. Mi disse che non sapeva dove fosse suo figlio». Il figlio è già lontano, in Francia. Carlo Donat-Cattin è vicesegretario unico della Dc, la solidarietà nazionale col Pci è già finita e lui è l’autore del «preambolo», un cambio di strategia democristiana che esclude qualsiasi accordo di governo coi comunisti. Cossiga ne parla con Berlinguer, che è il capo dei comunisti ma anche suo cugino. Berlinguer vuole la sua testa, poi cambia idea, chiede la testa di Donat-Cattin e Cossiga poteva restare dov’era. Il vero obiettivo di Berlinguer è escludere i socialisti dalla maggioranza. Cossiga non molla Donat-Cattin, che però presenterà le sue dimissioni, ritirandosi dalla vita politica, per il procedimento parlamentare relativo all’accusa, mai provata in alcun procedimento giudiziario, che avesse aiutato la fuga all’estero del figlio. Cossiga, presidente del Consiglio, fu sospettato di favoreggiamento nei confronti di Marco Donat-Cattin, accusa dalla quale venne poi scagionato dalla Commissione inquirente che decise, a maggioranza, l’archiviazione. Marco Donat-Cattin fu arrestato in Francia e estradato in Italia. Per un figlio, il leghismo celodurista si ammosciò. Forse per due, Riccardo e Renzo il Trota, Loro mettono a profitto il successo politico del padre, spendono e spandono, si tolgono capricci, ricevono incarichi, prebende, posti, denari. Non che lui, il padre, ne vada particolarmente fiero, chi meglio di lui ne sa i limiti? Però, proprio per quello, perché sa che nella vita non avranno che affanni meglio dargli una qualche sicurezza, è sangue suo, no? D’altronde, ce ne sono in giro tanti, di cazzoni e miracolati, che è riuscito a far eleggere, a portare in parlamento, a assicurargli stipendio e vitalizio, perché non a quei figli suoi? Meglio farlo alla luce del sole, poi. I leghisti si mandano giù tutto, figurarsi se qualcuno dice una parola. Finché scoppia lo scandalo e per fare fuori il Bossi lo attaccano dove più è debole. Dalla Prima repubblica alla Seconda o alla Terza, segui il figlio se vuoi fottere il padre. Sembra una regola. Che poi gli avranno pure regalato il rolex d’oro da diecimila euro, al figlio del ministro Lupi, ma adesso che è a New York, presso un grosso studio, “an American architectural, urban planning, and engineering firm”, come recita il loro sito, puoi scommetterci che non vedrà l’ora di disfarsene, di andare dal Pawnbroker, l’uomo del banco dei pegni – troppo pacchiano, roba da spacciatori sudamericani, da negri dell’hip hop, da russi arricchiti. Da italiani degli appalti pubblici. Che imbarazzo.

Il tono è diretto, la richiesta esplicita, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. «Non ho mai chiesto nulla per lui», aveva detto il ministro Maurizio Lupi quando si era scoperto che il figlio Luca era stato assunto dal manager Stefano Perotti, finito in carcere con l’alto funzionario Ercole Incalza con l’accusa di aver pilotato i lavori delle grandi opere in cambio di incarichi e soldi. Il testo della telefonata allegato agli atti dell’inchiesta di Firenze sembra dimostrare come Lupi abbia invece sollecitato Incalza a provvedere. Non solo. Le carte processuali mostrano quanto ampia e articolata fosse la rete sulla quale il ministro poteva contare per ottenere voti e favori, soprattutto delineano in maniera ancor più evidente il legame con Incalza e Perotti.

È l’8 gennaio 2014, Lupi chiama Incalza.

Lupi: dove stai?

Incalza: al ministero sono...

Lupi: ma stai lavorando?

Incalza: certo! adesso alle 4 abbiamo la riunione con...

Lupi: ascolta, se fra un quarto d’ora ti mando questo che è venuto da Milano a Roma a far due chiacchiere?

Incalza: chi? dimmi tutto, dimmi...

Lupi: nel senso di avere consulenze e suggerimenti eccetera...

Incalza: dimmi chi viene... dimmi!

Lupi: viene mio figlio Luca...

Incalza: quando vuoi ... ma figurati! ... nessun problema!

Lupi: no, quando vuoi dimmi a che ora te lo faccio venire in modo che...

Incalza: o adesso o alle cinque quando finisce il Tesoro no?

Lupi: no allora conviene che venga adesso così ...

Incalza: io sto qua...

Lupi: okay, ciao...

Incalza: ciao...

Annotano i carabinieri: «Alle 14.29 immediatamente successive Incalza chiama Perotti e gli chiede intanto quando può essere a Roma. Perotti risponde che per l’indomani non ce la fa, ma pensa di essere a Roma il venerdì successivo 10 gennaio. Incalza si rivolge a una persona che è nel suo ufficio, Luca Lupi, e gli chiede se gli va bene fissare l’incontro Perotti per il 10 gennaio».

Ed ancora. Le telefonate dimostrano che sarebbe stato proprio Lupi a «sistemare» il nipote di monsignor Francesco Gioia. E infatti il 2 febbraio 2014 Perotti chiama il prelato e gli riferisce il messaggio del ministro: «Ti volevo dire che ieri ho visto Maurizio, gli ho detto che tu lo ringrazi tantissimo e mi ha detto che è ben felice di essere stato di aiuto e ha detto che ... “mi raccomando monsignore, si ricordi quando ci sarà la battaglia elettorale di stare con noi e non stare con gli altri”». Gioia non si tira indietro: «Lo farò volentieri».

Per ottenere appoggi elettorali Lupi si affida anche a Salvatore Menolascina, della cooperativa «La Cascina», finita in diverse inchieste compresa Mafia Capitale. All’incontro organizzato a Bari per l’Ncd Lupi specifica che «di noi c’è io, Quagliarello, Angelino, Schifani e Cassano, però non fare una cosa da 50 persone. Lì parlerai per dire “dateci una mano, attenzione eh! Cioè non di merito ma più politicamente, cioè non è che stiamo a cazzeggiare tutto il tempo. Quindi noi diremo “noi vogliamo che ci diate tutti una mano”». Menolascina accetta ma pone una condizione: «Però l’importante che noi 10 minuti prima... tanto alle cose nostre son 10 minuti». A parlare di «pressioni» subite da Lupi è Giuseppe Cozza, l’ex dg della Metropolitana Milanese, interrogato dai pm. Due settimane fa, al telefono con Giulio Burchi, l’ex presidente di Italferr, dice: «Con noi ci ha provato. Io gli ho tenuto botta pesantemente ma in quel caso lì era il Lupi che insisteva, capisci? E c’era il suo segretario che adesso è anche al ministero, Cavallo, era consigliere in Metropolitane, di Cl, che veniva a perorare da me e poi un giorno mi ha portato dall’assessore al bilancio che è un altro di Cl, che c’era questo Perotti, per vedere se potevamo dargli l’incarico per la M5 e per la M4. So che da Incalza sono arrivate pressioni sul sindaco di Milano per Perotti, per fargli assegnare degli incarichi di direzione lavori, in cambio di un supporto ministeriale ai progetti». Quale sia il legame tra Lupi e Incalza emerge nel novembre scorso quando Incalza manifesta la sua contrarietà a destinare i soldi per la Variante di valico alle opere distrutte dall’alluvione in Liguria, come proposto da alcuni parlamentari, e il ministro dice: «Tranquillo sono d’accordo con te». Ma ancor di più in una telefonata di un anno fa, quando si scopre che è stato proprio Incalza a scrivere il programma di Ncd, poi sottoposto allo stesso Lupi e, dice l’alto funzionario, anche ad Angelino Alfano.

Lupi: Ercole...

Incalza: si dimmi Maurizio...

Lupi: ... ma mi hai abbandonato?

Incalza: (ride) io sto qua ... abbandonato...

Lupi: dovendo prendere delle decisioni importanti nella mia vita se tu mi abbandoni io le prendo senza sentire...

Incalza: ti hanno dato il programma? chi l’ha fatto il programma?

Lupi: ma mi han dato il programma. Ti ho detto cazzo! prendi ‘sto Cipe, rivoluzioniamolo, ribaltiamolo...

Incalza: c’abbiamo tutti i provvedimenti pronti anche!

Lupi: siccome ti considero prima ancora che un validissimo funzionario del ministero delle Infrastrutture ma un amico, non ho capito cosa pensi tu, hai capito?

Incalza: io penso che fin quando non c’è certezza converrebbe non salire su questo governo ... bisogna vedere che programma è, che ruolo... a quel punto hai visto? quella parte che ci riguarda ho elencato dettagliatamente anche la parte economica i tempi e tutto l’hai visto no? o non l’hai visto?

Lupi: tu suggerisci, mandala sulla e-mail, ma tu suggerisci di rimanere? cioè io sono dubbioso veramente o mi rifaccio il partito, oppure di rimanere dentro con questo pazzo, oppure no? e rimanere a fare che cosa?

Incalza: certo, deve essere un periodo completamente diverso da questi 10 mesi anche se 10 mesi sono stati enormi.

Se non linci qualcuno che italiano sei? Scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Hanno sbranato il ministro Lupi. Non ha ricevuto neppure un avviso di garanzia, ma lo hanno avvisato i giornalisti e questo basta. Di che è accusato? Truffa, falso in bilancio, tangenti, prostituzione minorile? No, è accusato di avere aiutato il figlio a trovare lavoro. Non si sa se è vero, probabilmente no, ma non è importante. E’ un ministro: è colpevole. Il figlio fa l’ingegnere ed ha avuto un posto di lavoro precario per il quale era pagato oltre 1200 euro netti al mese. Non è bello. In questi casi si dice: non ci sarà rilevanza penale, ma si deve dimettere perché c’è responsabilità politica. I figli dei ministri, vuole la nuova morale (imposta dal duo Travaglio-Salvini) anche se hanno una laurea devono andare a chiedere l’elemosina. Altrimenti: zaccc. Mi pare che nessuno abbia difeso Lupi. Questa è la vera vergogna. Un ceto politico pusillanime, intimidito, tremante, vigliacco. Scusate il gioco di parole: pecore, si lo hanno sbranato le pecore. E intanto i pastori tedeschi dell’Anm hanno aggredito Renzi. Gli hanno detto: ”Tu carezzi i corrotti e punisci i giudici”. E’ un avviso: non di garanzia, di guerra. Un messaggio che dice: o ritiri ogni disegno di riforma della giustizia, e rientri nel tuo recinto del Jobs Act, o ti spezziamo le reni. C’è un clima cileno, dico del Cile del 73.

Chissà se hanno telefonato per i loro figli in carriera. Indignazione per Lupi jr, ma nessuno si chiede se i rampolli dei leader democratici abbiano avuto l'aiutino. Dagli eredi dei presidenti alle ragazze di Veltroni e D'Alema, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Mio figlio è laureato al Politecnico con 110 e lode, gli faccio sempre questa battuta: purtroppo ha fatto Ingegneria civile e si è ritrovato un padre ministro delle Infrastrutture» si difende Maurizio Lupi, accusato di familismo all'italiana. Quella è una sfortuna che capita spesso ai figli di potenti, quasi sempre dotati di grande talento tanto da meritare posti prestigiosi, carriere formidabili, magari in settori affini a quelli di papà o mammà. Così viene il sospetto, malizioso e certamente infondato, che qualche telefonatina per lanciare i rampolli, una sponsorizzazione paterna o materna, sia prassi diffusa. Anche a sinistra, magari a partire da chi si indigna per Lupi jr. Come Antonio Di Pietro, ex ministro delle Infrastrutture, tornato in grande spolvero sui giornali per dire che lui, il presunto corrotto Incalza, quello che si dava da fare per agevolare il figlio di Lupi, lo aveva mandato via appena arrivato al ministero. Per il talento politico di Cristiano Di Pietro, invece, primogenito di Di Pietro, c'è stato posto, eccome. Infilato nelle liste dell'Idv, partito del padre, per prima nel Comune di Montenero di Bisaccia, terra natìa del padre, fino alla Regione Molise, dove siede tuttora, Di Pietro ha sempre respinto ogni accusa di favoritismo: «Cristiano non è un Trota: non ha ricevuto nessuna spintarella! Ha fatto la gavetta come tutti». Dopo la gavetta Giulia D'Alema, figlia dell'ex premier e leader Ds, ha trovato un posto che le amiche le invidieranno: Marketing and Event Specialist nella sede newyorkese della Tod's, l'azienda del marchigiano Diego Della Valle, azionista del Corriere e imprenditore molto attento alle vicende politiche (specialmente a sinistra). Si frequenterà volentieri con l'amica Martina, figlia dell'altro nome storico del Pd Walter Veltroni, altrettanto storico cinefilo nonchè creatore del Festival del cinema di Roma. La figlia Martina, sempre per la suddetta sfortuna che affligge i figli dei potenti, si è ritrovata a lavorare come assistente in diverse società di produzione cinematografica a Roma, prima di approdare anche lei tra i grattacieli di Manhattan, come supervising producer di Vice.news. Sfortuna anche per Aldo Berlinguer, carriera lampo universitaria (oggetto di interrogazioni parlamentari) con contratti anche nell'Università di Siena dove il padre Luigi Berlinguer, altro notabile Pd, è stato rettore, prima di diventare ministro dell'Istruzione. Sempre per un caso sfortunato Aldo Berlinguer, stimato professore che oggi fa anche l'assessore alle Infrastrutture della Regione Basilicata (a guida Pd), era nel Cda di banca Antonveneta, quella acquistata ad un prezzo monstre da Mps, la banca costruita attorno ai Ds. Fenomenale anche la carriera universitaria (e non) di un altro junior tutto d'oro, Giulio Napolitano, figlio dell'ex capo dello Stato, ordinario di Diritto pubblico all'ateneo Roma Tre, dove a lungo rettore è stato Guido Fabiani, che poi è lo zio, avendo sposato la sorella di Clio Napolitano. La brillante carriera si è incrociata con quella di Bernardo Mattarella, figlio del successore di Napolitano al Quirinale. Anche Mattarella jr vanta un curriculum lungo due metri, e attualmente lo troviamo come capo del legislativo della ministra Madia. La sfortuna - si fa per dire - di avere un padre al Quirinale ha colpito anche Claudio Ciampi (figlio di Carlo Azeglio, presidente emerito) che ricopre la poltrona di amministratore delegato a Credifarma, società finanziaria dei farmacisti italiani. Mentre il figlio di Cossiga, Giuseppe, dopo una carriera da dirigente è diventato deputato, ma ricandidato con Fdi non ce l'ha fatta. E non proseguiamo nel capitolo «figli di» in politica per mancanza di spazio. Anche per i tecnici vale il sospetto. Il figlio di Mario Monti alla Parmalat gudiata dall'amico Enrico Bondi, la figlia della Cancellieri megadirigente da Unicredit a Telecom passando da Fondiaria Sai (quella dei Ligresti)... Avere parenti potenti non serve, se si è bravi, però aiuta. Sempre che non li intercettino.

Caso Lupi, Giampiero Mughini su Dago critica Giuliano Ferrara: "Tutti siamo stati raccomandati, anche tu", scrive “Libero Quotidiano”. Chi è senza raccomandazione alzi il ditino da moralista. Giampiero Mughini interviene a piedi uniti nel dibattito sul ministro Maurizio Lupi e la sospetta raccomandazione che avrebbe fatto al figlio ingegnere per farlo lavorare. A far saltare la mosca al naso di Mughini è un pezzo di Giuliano Ferrara sul Foglio che in un passaggio scrive: "Non mi hanno ristrutturato case a buon prezzo, assunzioni di parenti no e poi no, non li conosco. Le cricche mi sono lontane". Apri cielo: Mughini in una lettera a Dagospia prima ricostruisce il suo ingresso nel mondo del lavoro, ricordando la lettera di raccomandazione scrittagli da Gian Carlo Pajetta per lavorare a Paese Sera. Poi passa proprio all'Elefantino, sulla cui vita ha anche scritto un libro in passato: "Era stato Alberto Ronchey, negli anni Cinquanta moscoviti collega di papà Maurizio Ferrara, a intercedere presso il Corriere della Sera perché Giuliano potesse iniziarvi una sua collaborazione". Con il ministro di Ncd, Mughini dice di non avere legami, quindi nessuna difesa di ufficio. Se poi venisse confermata la telefonata con la quale Lupi avrebbe chiesto un lavoro per il figlio: "Io - scrive Mughini - altissimamente me ne strafotto. E tutti quelli che si stanno alzando con il ditino puntato - continua - hanno a che vedere con la faziosità politica".

«Caro Dago, trovo che questa faccenda (divenuta rovente) della “raccomandazione” di cui s’è avvalso l’ingegnere Luca Lupi in quanto figlio del ministro Maurizio Lupi, mi sembra una faccenda che ha molto a che vedere con il cannibalismo della lotta politico-partitica in Italia e pochissimo a che vedere con il rigore dei costumi, con l’idea che ciascuno nel suo lavoro deve camminare con la forza delle proprie gambe eccetera eccetera. A dirla in parole povere, non c’è nessuno di noi che a un certo punto del suo cammino professionale non abbia usufruito di una raccomandazione. Si dovessero pubblicare in volume le intercettazioni telefoniche in cui qualcuno raccomandava a qualcun altro un apprendista giornalista o un apprendista dentista o un apprendista funzionario dello Stato o un’apprendista escort, ne risulterebbero dei volumoni che al confronto l’Encyclopédie di Voltaire e Diderot farebbe la figura di un tascabile. Io ho cominciato il mio iter professionale perché un giornalista comunista mio caro amico, Aniello Coppola, mi aveva fatto fare da Gian Carlo Pajetta una raccomandazione scritta e firmata perché potessi salire le scale che portavano all’ufficio dell’allora direttore del “Paese Sera”, Claudio Cingoli. Poi quanto allo scrivere su quel giornale io mi feci valere, ma senza la raccomandazione di Pajetta-Coppola sarei stato placcato all’entrata del giornale. Un eccellente articolo sulla faccenda Incalza-Lupi e compagnia indagata l’ha scritto stamane sul “Foglio” Giuliano Ferrara, uno il cui compito di andare controcorrente è facilitato dall’eccezionale e prevedibilità di tutto quello che appare sulla carta stampata. Eppure un piccolo peccato veniale, Giuliano lo commette. Scrive che lui con le raccomandazioni e i rapporti parentali non ha mai avuto nulla a che fare. Per fortuna del giornalismo italiano le cose non sono andate così. Era stato Alberto Ronchey, negli anni Cinquanta moscoviti collega di papà Maurizio Ferrara, a intercedere presso il “Corriere della Sera” perché Giuliano potesse iniziarvi una sua collaborazione. Che fortuna per noi tutti quella raccomandazione, che ha permesso a Giuliano di manifestare il suo strabocchevole talento di scrittore più ancora che di giornalista. (Sulle vicende di casa Ferrara ho scritto un libro ahimé bellissimo che quasi non ebbe lettori: aveva contro l’odio verso i Ferrara, l’odio nei confronti del sottoscritto, l’odio verso l’editore Leonardo Mondadori che aveva fatto “vincere” Berlusconi quanto al diventare proprietario della Mondadori.) E dunque. Se sì o no il ministro Lupi ha fatto un paio di telefonate a dire che aveva un figlio capace di fare il lavoro che ha poi fatto, io altissimamente me ne strafotto. E tutti quelli che si stanno alzando con il ditino puntato e gridano sdegnati e invocano dimissioni, partitanti di Sel o del Movimento 5Stelle, c’entrano niente con la Morale e il Rigore dei Costumi. Solo hanno a che vedere con la faziosità politica. Ps. In tutto e per tutto solo una volta ho avuto il ministro Lupi seduto accanto a me su un divano televisivo.»

"La credibilità dello Stato oggi è ampiamente compromessa e il primo atto, lo dico non per ragioni giudiziarie, ma per ragioni politiche, dovrebbe essere una bonifica radicale del ministero delle Infrastrutture, e anche le dovute dimissioni del ministro competente". Lo ha detto il leader di Sel e presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, parlando il 17 marzo 2015 oggi a Bari con i giornalisti in merito alla maxi operazione dei Cc del Ros sulla gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere. Certo che non vi è vergogna nei nostri politici. Si parla delle dimissioni di Lupi che non è indagato. Mentre chi le chiede, e gli esponenti del suo partito, nel processo a Taranto "Ambiente Svenduto", per loro la Procura ha chiesto al giudice per l'udienza preliminare Wilma Gilli il rinvio a giudizio. Chiesto dalla Procura il rinvio a giudizio per il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, per il sindaco di Taranto, Ezio Stefàno, per gli attuali assessori regionali all'Ambiente, Lorenzo Nicastro, e alla Sanità, Donato Pentassuglia, quest'ultimo all'epoca dei fatti presidente della commissione regionale Ambiente, nonché per l'allora assessore regionale Nicola Fratoianni, oggi deputato di Sel.

VITTORIO FELTRI: “SE SANTORO È GIORNALISTA LA COLPA È MIA CHE L’HO PROMOSSO ALL’ESAME.” «Anche volendo, non potrei parlare male di lui. Se lo facessi, equivarrebbe a spararmi nei marroni. Si dà infatti il caso che Santoro sia diventato giornalista professionista con il mio contributo, giacché facevo parte della commissione all'esame di Stato che lo promosse e gli consentì l'iscrizione all'Ordine nazionale dei giornalisti. Era il 1982. Me lo ricordo perché erano in corso i Mondiali di calcio in Spagna, quelli vinti dall'Italia con Sandro Pertini in tribuna d'onore. L'unico motivo per cui accettai di far parte della commissione esaminatrice - composta da due magistrati designati dal presidente della Corte d'appello di Roma e da cinque giornalisti professionisti, iscritti nel relativo elenco da non meno di 10 anni - si chiamava Alberto Cavallari. Pur di allontanarmi dal direttore che mi mobbizzava, diedi la mia disponibilità all'Ordine e ottenni dal Corriere il permesso retribuito per trasferirmi a Roma a selezionare gli aspiranti scribacchini. Da allora, mai più ripetuta l'incresciosa esperienza. Non si rivelò un lavoro di tutto riposo. Era da poco stato liberalizzato l'accesso alla professione e venivano ammessi agli esami d'idoneità professionale anche cineoperatori, fotoreporter, conduttori di radio e televisioni private. Una bolgia. Saranno stati almeno 400 candidati. Un bel po' li segammo alla prova scritta di aprile. Ne restarono in campo 250 agli orali di maggio e giugno. Fra questi, Santoro. E non solo: ho sulla coscienza altri tipi sinistri di quella sessione, come Giuseppe D'Avanzo, Curzio Maltese, Federico Rampini, Loris Campetti, Daniele Protti, Maurizio Mannoni e Cinzia Sasso, la cronista della Repubblica che, dopo aver tirato la volata a Giuliano Pisapia, se l'è sposato due mesi prima che diventasse sindaco di Milano. Roba che temo ancora, a distanza di anni, una class action da parte dei lettori per i guasti che la combriccola ha provocato. Attilio Bolzoni, mafiologo presso la medesima Repubblica, per fortuna no. Quello non mi può essere addebitato. Infatti non superò l'interrogazione. Lo bocciammo e dovette ripresentarsi all'esame l'anno successivo. Il che non gli ha impedito, trascorso un quarto di secolo, di vincere il premio È giornalismo, alias premio Stalin. Come si vede, il merito prima o poi viene sempre riconosciuto. Basta avere solo un po' di pazienza e mettersi in coda sulla corsia giusta. Da quell'infornata uscì anche qualche firma ortodossa, per esempio Mauro Crippa, oggi gran sacerdote dell'informazione Mediaset, e Mauro Tedeschini, fior di professionista che ha già collezionato cinque direzioni: il Quotidiano Nazionale, Italia Oggi, Quattroruote, La Nazione e Il Centro. La vita del commissario esaminatore aveva qualche risvolto piacevole. Feci comunella con Giuseppe Pistilli, vicedirettore del Corriere dello Sport, il quale sedeva con me nel sinedrio. La sera andavamo a cena insieme. Il ponentino e il Frascati ci aiutavano a dimenticare le miserie cui avevamo assistito durante la giornata nel valutare i candidati. Ancora non avevo maturato la convinzione che l'Ordine dei giornalisti fosse un ente inutile, anzi peggio: dannoso. Pistilli contribuì a instillarmi qualche sospetto, illustrandomi come funzionava la commissione d'esame. Esempio: un aspirante scriba ti era stato raccomandato o ti stava a cuore? Bene, si trattava di farsi dare da lui le prime righe dell'articolo che aveva steso durante la prova scritta. Nessuno comincia un pezzo nella stessa maniera del compagno di banco, chiaro no? Perciò, non appena s'iniziava la lettura ad alta voce e in forma anonima degli elaborati, all'udire l'attacco familiare il commissario dava un calcetto sotto il tavolo a chi gli stava accanto. Costui a sua volta sferrava un calcetto al commissario più vicino, e avanti così. Con sei calcetti, il candidato era promosso. Dopodiché ricevevi a tua volta altri colpi negli stinchi e dovevi restituire il favore ricevuto. In questo modo passavano l'esame (e lo passano tuttora) asini sesquipedali. A quell'epoca Santoro non era proprio un giovincello: 31 anni. Pesava 20 chili meno di adesso. Aveva i capelli scuri (non tinti) e un bel volto da meridionale intelligente. Gli occhi erano da matto furbissimo. Non rammento nulla della sua prova scritta. L'orale, viceversa, ce l'ho stampato nella memoria. Non era ancora un personaggio televisivo, ma si capiva che tratta vasi di predestinato: lingua sciolta, grande capacità d'improvvisare, prontezza di riflessi. Non ebbe alcuna difficoltà a superare la formalità richiesta dalla legge per esercitare un mestiere che, per quanto sia stato burocratizzato in modo indecente, s'impara solo facendolo con passione. E lui di passione ne ha sempre avuta, fin troppa, al punto che in breve tempo me lo ritrovai in video. Conduceva Samarcanda con assoluta padronanza del mezzo. Non ne fui sorpreso. I dati d'ascolto del programma erano da capogiro: 7 milioni di telespettatori. Che per Rai 3 erano uno sproposito. Da lì in poi Santoro galoppò sicuro da un successo all'altro (Il rosso e il nero, Tempo reale) fino a sconfinare in territorio nemico nell'autunno del 1996, quando lasciò la Rai per diventare conduttore di Moby Dick sull'Italia 1 del Berlusca. Non male per uno che proveniva dal nucleo maoista dell'Unione comunisti italiani e da Servire il popolo. Aveva inventato una formula nuova che piaceva specialmente alla gente di sinistra. Per la prima volta il pubblico partecipava alle discussioni,non era relegato ai margini con l'esclusivo compito di applaudire a comando. Un format sostanzialmente rimasto immutato nel tempo, che consente a Santoro di furoreggiare, amato e odiato, comunque atteso nelle sue performance. Ogni volta fa centro: con Sciuscià, con Il raggio verde, con Annozero, con Servizio pubblico. Ogni volta costringe anche chi lo detesta ad accendere il televisore, magari solo per sacramentargli contro. La polemica, la provocazione, la faziosità sono gli ingredienti che hanno sempre reso le sue trasmissioni imperdibili. È un arruffa popolo, un Masaniello, una birba, un efferato scassa palle costantemente al centro dell'attenzione. Silvio Berlusconi, oltre ad assumerlo, gli ha anche offerto il destro, da premier, di potersi atteggiare a martire dell'informazione sulle note di Bella ciao. Altro che «editto bulgaro». È stata l'apoteosi dello scugnizzo riccioluto, che con una cantata da partigiano stonato s'è guadagnato, nell'ordine: l'elezione a europarlamentare dell'Ulivo; il successivo ritorno in Rai per sentenza di un giudice del lavoro; un risarcimento dei danni stratosferico (1,4 milioni di euro); il reintegro nel ruolo di conduttore dei programmi di prima serata; la riconsegna in diretta del Santo Graal - il microfono - nientemeno che dalle mani di Adriano Celentano, durante una celebre puntata di Rockpolitik chiusa da Santoro al quadruplice grido di «viva la fratellanza,viva l'eguaglianza, viva la cultura, viva la libertà». Olà! In quell'occasione, con tono accorato, assicurò alle figlie che lo stavano guardando d'aver sempre «agito con onestà e correttezza». Peccato che, mentre lo diceva,continuasse a strofinarsi il naso con la mano. Rammento che si toccava la proboscide ogni dieci secondi. Ahi ahi. Evidente indizio di menzogna, avrebbe concluso Desmond Morris, studioso del comportamento umano e animale. Quando si raccontano bugie, aumenta la produzione di catecolamine, le mucose nasali s'ingrossano e subentra l'impellente e inconsapevole necessità di grattarsi le frogie per calmare il fastidioso prurito. Comunque per me Santoro, al netto del suo settarismo intollerabile, potrebbe anche infilarsi le dita nel naso e resterebbe comunque bravo. Mille volte meglio lui di quel cicisbeo di Giovanni Floris. Quello proprio non lo reggo, lui e il suo sorrisino da ebete.

Il tribunale del popolo guidato da Di Pietro, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Maurizio Lupi non è un indagato. È un condannato dal Tribunale del Popolo composto di giornalisti invidiosi, magistrati esibizionisti e una folla di tricoteuses opportunamente istigata dai Paladini della Virtù che passeggiano per i talkshow spargendo il proprio verbo, la propria “moralità”. Il 17 marzo 2015 mattina si è svegliato presto Antonio Di Pietro, si è collegato subito con Radio24, poi è corso in Rai per farsi intervistare ad Agorà sgusciando poi via velocemente per planare su La7. Una fatica per chi ha tante lezioni di moralità da elargire al ministro Maurizio Lupi. Che non è indagato, ma condannato perché “forse” si è lasciato regalare un vestito da un imprenditore suo amico di famiglia, il quale avrebbe anche donato un orologio costoso a suo figlio in occasione di una laurea particolarmente brillante al Politecnico di Milano. Tra le imputazioni di stampo moralistico c’è anche un posto di lavoro temporaneo al neo-ingegnere in un cantiere. Giusto quindi che intervenga subito il Pm più famoso d’Italia. Un plauso a tutti i conduttori che hanno pensato di invitare proprio Di Pietro a commentare i comportamenti di Lupi. È uno che se ne intende. Intanto è stato Ministro ai lavori pubblici, proprio nel palazzo dove oggi lavora Lupi, e ha avuto occasione di conoscere Ercole Incalza e lo ha cacciato subito perché il dirigente era “uno della prima repubblica”, addirittura un socialista. Roba da peccato originale. Che soddisfazione, vederlo oggi in manette! Poi magari però Di Pietro non spiega bene perché lasciò frettolosamente quel posto al Ministero in seguito ad avvisi di garanzia ( sarà poi prosciolto ), alcuni dei quali saranno ripresi nella famosa “sentenza Maddalo”, da cui emergeranno anche i motivi che lo avevano indotto a gettare frettolosamente la toga nel dicembre del 1994. L’elenco dei comportamenti di quello che fu l’eroe della moralità e che nessun imitatore è riuscito ancora a raggiungere per popolarità, fa impallidire qualunque imprudenza il ministro Lupi possa aver commesso. Anche perché stiamo parlando di un magistrato il quale – così dice la sentenza dei giudici di Brescia – fu costretto a lasciare la carriera prima che intervenisse a cacciarlo il Consiglio superiore della magistratura proprio per quei fatti. L’elenco, riportato puntigliosamente anche nel libro dedicato all’ex Pm dal giornalista Filippo Facci, andrebbe distribuito in tutti gli uffici pubblici per spiegare ai funzionari che cosa non si deve fare se non si vuole incorrere in sanzioni, non tanto da quel Tribunale del Popolo così attivo con Maurizio Lupi, ma almeno da quel minimo di regole etiche che sembrano oggi stare tanto a cuore a Di Pietro. Può un pubblico funzionario farsi prestare cifre ingenti senza interessi e poi restituirle ( ma solo dopo che la “generosità” degli amici viene resa pubblica ) in contanti avvolti in pagine di giornale oppure in una scatola di scarpe? Può farsi dare un’auto di grossa cilindrata e rivenderla per cifra molto maggiore prima ancora di averla pagata, e poi averne un’altra in regalo per sé e la moglie? Può avere in uso gratuito appartamenti a Milano e Roma oppure ricevere, dai soliti amici, i soldi per acquistarne uno al proprio paese? Può ricevere decine di consulenze legali per la propria moglie avvocato e anche per il suo difensore di fiducia? E due posti di lavoro per il figlio? E agende, ombrelli, uno stock di calzettoni al ginocchio e abiti in quantità da un famoso negozio milanese? Nessuno che rivesta incarichi pubblici potrebbe fare ciò. A maggior ragione se si tratta di un magistrato e se gli amici sono un pochino, appena un pochettino, da lui inquisiti. Pure non ci fu reato, e Di Pietro, dopo aver lasciato la magistratura, divenne addirittura ministro dei lavori pubblici nel governo Prodi del 1996. Questi sono i precedenti di chi può oggi “dar buoni consigli non potendo più dare il cattivo esempio”. Di questo tipo di stoffa sono fatti i membri del Tribunale del popolo. Hanno il diritto di chiedere le dimissioni di un ministro per un vestito?

Da quale pulpito vien la predica?

L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.

Corrado Carnevale: "Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato...", scrive “Libero Quotidiano”. "Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale". Corrado Carnevale presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione per questa frase è tornato in tribunale per difendersi dall'accusa di diffamazione mossa da Antonio Di Pietro.  Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. "L’urgenza di un’inibitoria – ha spiegato l’avvocato Aloisio – è dovuta al fatto che è già stato notificato l’atto di precetto. Lunedì scorso eravamo in attesa dell’ufficiale giudiziario. Il mio assistito non solo ritiene che giustizia non sia stata fatta, ma ritiene che 30 mila euro (se si considerano pure le spese legali e gli interessi) non siano una bazzecola per nessuno, anche per un magistrato la cui pensione mensile corrisponde alla metà di quella somma". Fin qui i fatti. Ma come racconta il Tempo, durante il dibattimento in tribunale, Antonio Carnevale ha confermato le sue dichiarazioni rilasciate al giornale online "Petrus" nel 2008: "Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune". E ad esplicitare in fase processuale la posizione di Carnevale c'ha pensato il suo legale, l'avvocato Aloisio di cui il Tempo riporta le dichiarazioni in Aula: "In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria". Il difensore di Di Pietro invece ha sostenuto il contrario: "Dagli atti documentali del processo di primo grado – ha spiegato il civilista – è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa". Adesso i giudici dovranno decidere se accogliere la richiesta di sospensiva della sentenza.

Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi su “Il Giornale”. "Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale". A svelare questo dettaglio sulla carriera dell'ex toga di Mani Pulite è il Tempo che riporta quanto detto dall’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma. Come scrive il quotidiano romano, "la vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online "Petrus", Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune". Corrado Carnevale è tornato in aula per difendersi dall'accusa di diffamazione mossa da Antonio Di Pietro. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. Durante il dibattimento in tribunale, il legale di Carnevale ha ribadito le dichiarazioni del suo assistito: "In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria". Opposta la versione del legale di Di Pietro: "Dagli atti documentali del processo di primo grado è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa".

Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”. «Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale». Un aspetto non trascurabile del percorso che ha portato un vicecommissario del Molise a diventare uno dei magistrati di punta del pool di Mani Pulite, viene alla luce da una causa civile per diffamazione. È stato l’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, a spiegare ieri al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma come andò l’esame per diventare uditore di Di Pietro. La vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online «Petrus», Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. «Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune». Per quelle dichiarazioni, poi riprese da altre testate giornalistiche, Di Pietro ha querelato per diffamazione a mezzo stampa Carnevale. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. «L’urgenza di un’inibitoria – ha spiegato l’avvocato Aloisio – è dovuta al fatto che è già stato notificato l’atto di precetto. Lunedì scorso eravamo in attesa dell’ufficiale giudiziario. Il mio assistito non solo ritiene che giustizia non sia stata fatta, ma ritiene che 30 mila euro (se si considerano pure le spese legali e gli interessi) non siano una bazzecola per nessuno, anche per un magistrato la cui pensione mensile corrisponde alla metà di quella somma». Prima di celebrare l’udienza, ieri, il presidente del collegio d’Appello Francesco Ferdinandi ha chiesto alle parti «data la levatura delle loro personalità» se volessero raggiungere un accordo bonario e rinunciare al contenzioso, ma il legale di Di Pietro si è opposto. A quel punto l’avvocato Aloisio è entrato nel merito della questione: «In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria». A difendere l’ex pm di Mani Pulite, in udienza, c’era un avvocato dello studio legale Scicchiatano, di cui lo stesso Di Pietro fa parte da quando ha lasciato la carriera politica per quella forense. «Dagli atti documentali del processo di primo grado – ha spiegato il civilista – è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa». Ora la parola passa ai giudici di secondo grado che dovranno decidere se accogliere la richiesta di sospensiva della sentenza.

Eguaglianza «aritmetica» o «proporzionale», secondo la distinzione di Aristotele? Nel punto d'arrivo o di partenza? Verso l'alto o verso il basso, come vorrebbero le teorie della decrescita? Se due mansioni identiche ricevono retribuzioni differenti, dovremmo elevare la peggiore o abbassare la piú alta? Ed è giusto che una contravvenzione per sosta vietata pesi allo stesso modo per il ricco e per il povero? Sono giuste le gabbie salariali, il reddito di cittadinanza, le pari opportunità? E davvero può coltivarsi l'eguaglianza fra rappresentante e rappresentato, l'idea che «uno vale uno», come sostiene il Movimento 5 Stelle? In che modo usare gli strumenti della democrazia diretta, del sorteggio e della rotazione delle cariche per rimuovere i privilegi dei politici? Tra snodi teorici ed esempi concreti Michele Ainis ci consegna una fotografia delle disparità di fatto, illuminando la galassia di questioni legate al principio di eguaglianza. Puntando l'indice sull'antica ostilità della destra, sulla nuova indifferenza della sinistra verso quel principio. E prospettando infine una «piccola eguaglianza» fra categorie e blocchi sociali, a vantaggio dei gruppi piú deboli. Una proposta che può avere effetti dirompenti.

Michele Ainis racconta le ingiustizie italiane nel nuovo "La piccola eguaglianza". In un libro il costituzionalista denuncia le piccole e grandi storture che inquinano la vita pubblica e professionale del Paese. E le colpe della sinistra, scrive Tommaso Cerno su “L’Espresso”. C'è una mappa italiana che la sinistra fa finta di non vedere. Racconta centinaia di piccole ingiustizie, una miriade di micro diseguaglianze, di stravaganti contraddizioni, iniquità, storture di un Paese dove essere uguali a parole è l’obiettivo di tutti, nei fatti resta un traguardo lontano. Michele Ainis ne traccia una radiografia tanto dettagliata quanto inquietante nel suo libro-breve “La piccola eguaglianza” (Einaudi, 136 pagine, 11 euro), un viaggio da costituzionalista ma prima ancora da cittadino dentro la contraddizione che fonda il sistema-Italia: nella teoria, siamo tutti uguali davanti alla legge, nella pratica la Repubblica nulla fa per rimuovere - come da mandato dei padri costituenti - gli ostacoli che impediscano di godere a pieno di tale principio. Con una denuncia chiara e nitida delle responsabilità della politica e, in particolare, della sinistra. Se Norberto Bobbio, spiega il costituzionalista, «scolpì la distinzione fra destra e sinistra in base al loro atteggiamento verso l’idea dell’eguaglianza», tanto da farne la stella polare dei progressisti, nei fatti tutti questi paladini dei più deboli, dei diseredati, dei potentati economici non si vedono. Anzi, aggiunge Ainis, «in Italia resistono i privilegi di stampo feudale», denunciati sempre e soltanto dai movimenti liberali e radicali. Poco, anzi pochissimo, dai riformisti di governo. La copertina del libro di Michele Ainis L’elenco del professore è serrato: bancari che lasciano il posto ai figli (siamo al 20 per cento dei casi in Italia), famigliari di ferrovieri che ancora nel 2015 viaggiano gratis sui treni, assicuratori che ci propinano le polizze più care d’Europa, e ancora tassisti che si proteggono con il numero chiuso. E avanti con farmacisti e notai, definiti da Ainis “creature anfibie”, nel senso terrestre della funzione pubblica e in quello acquatico dei guadagni privati. Spesso grazie a strafalcioni semantici, come nel caso dei medici che per prendersi lo stipendio dell’Asl e quello del privato a caccia di un luminare che risolva l’enigma di una malattia si affidano, portafoglio alla mano, all’intramoenia extramuraria. Uno scioglilingua che sembra scritto apposta per fregare i cittadini. Eppure, denuncia Ainis, gli unici a reclamare non sono quelli della sinistra parlamentare. Un saggio, dunque, ma anche un manuale delle fregature italiche che la politica finge di non vedere. Una guida ragionata del delirio di una democrazia che si professa a parole e non si applica nei fatti. Ainis spazia dal lavoro, dove di fronte a tassi di disoccupazione da record, non c’è alcuna trasparenza dell’offerta, nessuno “bandisce” i posti, consentendo una vera concorrenza. Per non parlare delle donne, abbandonate a se stesse, senza aiuti reali per educare i figli, dalla scarsità dei nidi alla casa, e rese dunque non eguali nella concorrenza con gli uomini. D’altra parte, avverte il professore, la sinistra «è anche quella che accetta i benefit di cui gode il Vaticano o in generale lo statuto di favore attribuito alla confessione cattolica» in un’Italia che, Costituzione alla mano, non ha certo una religione di Stato. Fino al caso dei famosi prof di religione, che finiscono per mettere in tasca più quattrini dei colleghi di ginnastica. Tanto per dimostrare anche nel portafoglio, come lo spirito e il corpo non valgano uguale in Cielo, ma nemmeno sulla Terra. E tanto per ricordare, come Ainis fa, che la legge sulla libertà religiosa fu proposta «dal più democristiano fra i politici democristiani (Andreotti durante il suo sesto governo, nel 1990), e poi mai approvata dagli esecutivi di sinistra che si sono alternati nel quarto di secolo successivo». Vale a dire Prodi, per due volte, D’Alema, Amato, Letta e Renzi. Per diventare un paese dove essere poveri o nullatenenti sembra l’unico modo per non essere attaccati o sospettati di chissà quale furto allo Stato o ai concittadini. In un’escalation pauperista indegna di una democrazia. «Dunque fermiamoci, finché siamo ancora in tempo», avverte Ainis. «Perché da un malinteso ideale di giustizia deriva la massima ingiustizia». E perché da un’ideologia del genere sgorga un veleno che può uccidere la democrazia stessa nel nome del quale si è generato.

Non tutte le eguaglianze sono eguali (e alcune fanno male), scrive Sabino Cassese su “Il Corriere della Sera”. Nei primi giorni di gennaio, l’incontro tra scienziati sociali e economisti americani tenutosi a Boston, nel quale l’economista francese Thomas Piketty ha esposto le sue idee sulle crescenti diseguaglianze di reddito e di ricchezza nelle società capitalistiche, ha suscitato accesi dibattiti, trasformando una compassata riunione di circa 12 mila studiosi in un campo di battaglia, diviso tra coloro che ritengono accettabile il livello di diseguaglianza delle nostre società e quelli che, all’opposto, pensano che occorra porvi rimedio, semmai con una tassa mondiale sulla ricchezza. Questo è solo un indizio dell’importanza del tema dell’eguaglianza, al quale opportunamente Michele Ainis dedica un breve libro (“La piccola eguaglianza”, Einaudi) che è, nello stesso tempo, di riflessione e di divulgazione. Ainis parte da una ricchissima illustrazione di casi di incongruenze amministrative e normative, di irrazionalità, di piccole iniquità, di storture, per poi passare in rassegna piccole e grandi diseguaglianze ed esporre e sviluppare, in forma divulgativa, idee maturate nei suoi lavori scientifici. Spiega che alla eguaglianza in senso formale (tutti sono eguali di fronte alla legge) si è venuta ad accostare l’eguaglianza in senso sostanziale (per cui la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’eguaglianza). Rileva che le due declinazioni dell’eguaglianza sono in conflitto. Infatti, la prima si esprime attraverso misure negative, la seconda con azioni positive. La prima tende a conservare lo status quo , la seconda a ribaltarlo. La prima comporta eguaglianza degli stati di partenza, la seconda eguaglianza dei punti di arrivo. La prima ha come destinatario il singolo, la seconda riguarda gruppi o categorie. Infine, la prima spinge verso discipline uniformi, la seconda verso discipline differenziate. Per far consistere le due declinazioni dell’eguaglianza, ambedue necessarie — continua Ainis — occorre convincersi che la prima deve funzionare come regola, la seconda come eccezione temporanea, destinata a durare finché le discriminazioni a danno di particolare categorie siano finite. Le azioni positive «possono opporsi alle piccole ingiustizie, quelle che penalizzano gruppi o classi di soggetti all’interno di una comunità statale. La piccola eguaglianza, l’eguaglianza “molecolare” è tutta in questi termini. E i suoi destinatari sono i gruppi deboli, le minoranze svantaggiate». L’altra lezione che Ainis trae dalla sua ampia rassegna di casi è quella che l’egualitarismo è pericoloso. L’eguaglianza radicale è l’antitesi dell’eguaglianza, perché appiattisce i meriti e perciò salva i demeriti. Così come l’appiattimento dei destini individuali, ispirato all’ideologia del pauperismo, discende da un malinteso ideale di giustizia, da cui deriva la massima ingiustizia. In un’Italia affamata di giustizia, temi come questi dovrebbero divenire motivi di discussione quotidiana. Stanno maturando altre esigenze di eguaglianza, mentre istituti chiamati ad assicurare l’eguaglianza producono vistose diseguaglianze. Consideriamo solo quattro ostacoli all’eguaglianza. Il primo è quello che deriva dall’accesso privilegiato al lavoro e colpisce specialmente i giovani. Alle difficoltà del mercato del lavoro, derivanti dalla limitatezza dell’offerta di posti di lavoro, si aggiunge la scarsa trasparenza dell’offerta. Né i datori di lavoro privati né quelli pubblici «bandiscono» i posti, consentendo conoscenza e concorrenza in modo eguale a tutti. Al lavoro si accede, quindi, attraverso procedure privilegiate, la famiglia, le conoscenze personali, i legami di «clan» politici, i canali «mafiosi». Un secondo ostacolo è quello che non consente alle donne l’accesso al lavoro. Carenza di provvidenze per la famiglia, scarsità di asili nido, mancanza di supporti ai nuclei familiari escludono le donne dal lavoro (con il paradosso che la loro presenza in ogni grado di scuola è prevalente, mentre diminuisce sensibilmente negli altri luoghi di lavoro, con poche eccezioni, quali l’insegnamento e la magistratura). Un terzo grave problema di giustizia sociale riguarda gli immigrati. Sia i giudici sia il Parlamento stanno estendendo a loro favore, ma in maniera contraddittoria e parziale, i diritti politici, i diritti di libertà e i diritti a prestazioni da parte dello Stato (accesso alla scuola, al sistema previdenziale, al sistema assistenziale, alla sanità) spettanti ai cittadini. Ma dopo quanto tempo gli immigrati cominciano a godere di questi diritti, avvantaggiandosi della solidarietà della collettività nella quale sono entrati? Perché alcuni di questi diritti vengono riconosciuti e altri non lo sono? Quali costi il riconoscimento comporta e quali condizioni, quindi, bisogna porre a esso? Infine, lo Stato del benessere opera principalmente a favore dei pensionati, meno per gli inoccupati e i disoccupati. Lo squilibrio delle risorse conferite, per vincere le diseguaglianze, ai diversi rami del welfare produce, paradossalmente, altre diseguaglianze.

Questo breve saggio sul principio di eguaglianza e su ciò che lo mette in crisi si articola in sei capitoli, scrive Fulvio Cortese.

Il primo chiama subito in causa la disperante concretezza del tema e si risolve in una carrellata di esempi, tratti dalla cronaca, su quale sia, nel nostro paese, la varia e diffusa fenomenologia della discriminazione.

Il secondo capitolo spiega preliminarmente quale sia l’approccio migliore per garantire l’eguaglianza, suggerendo che il principio possa garantirsi in modo credibile solo in una prospettiva relativa – definita dall’Autore come “molecolare” – e quindi resistendo alla tentazione di “alzare gli occhi al cielo” e di voler realizzare un’impossibile eguaglianza assoluta.

Proprio in questa direzione, il terzo capitolo chiarisce in modo sintetico, ma efficace, come la dottrina costituzionalistica e la Corte costituzionale abbiano elaborato e consolidato precise tecniche di analisi per verificare il puntuale rispetto del principio da parte del legislatore.

Il quarto capitolo si domanda se esitano anche dei criteri positivi per guardare all’eguaglianza, da un lato evidenziando che il principio non esige sempre una parità di trattamento verso l’alto o verso il basso (dipende dalla rilevanza costituzionale del “diritto” cui di volta in volta si ambisce), dall’altro ricordando che alla base di una corretta metabolizzazione dell’eguaglianza sta la consapevolezza che essa non serve per assicurare a tutti un identico punto d’arrivo, bensì per consentire a ciascuno di esprimere le proprie capacità.

Il quinto capitolo, allora, è la mise en place delle acquisizioni maturate nel corso della trattazione, volgendo così lo sguardo, in modo talvolta originale, a fattori differenzianti ancora e sempre particolarmente spinosi (il sesso, l’età, l’etnia, la provenienza territoriale, la religione; ma anche la pericolosa e strutturale frattura che si insinua invariabilmente tra governanti e governati).

Il sesto capitolo, infine, non ha un valore veramente conclusivo. Preso atto che la sinistra ha ormai abbandonato il suo ruolo di essere paladina dei più deboli, il libro si chiude con la sconsolata ricognizione del dibattito pubblico dei nostri giorni e della costante e strisciante tentazione di molti a risolvere la percezione della propria diseguaglianza nella speranza che i destini individuali si appiattiscano e nell’affermazione dell’infelicità altrui. Nella parte in cui si limita a rievocare – in modo peraltro riuscito – il succo della giurisprudenza costituzionale  sul principio di eguaglianza, la tesi “molecolare” illustrata da Ainis non presenta profili di particolare novità, se non per un pubblico totalmente digiuno del contributo che il diritto sa dare alla razionalizzazione delle discriminazioni. Spunti intelligenti, però, ci sono, e si trovano soprattutto dopo p. 84, nella parte in cui (capitolo quinto) l’Autore affronta le “categorie dell’eguaglianza” e si pronuncia su come sciogliere i fattori differenzianti sopra ricordati. Sulla diseguaglianza sessuale, si ribadisce l’importanza delle affirmative actions, ma si ricorda che lo strumento va usato con cura e a tempo, e si guarda con scetticismo all’introduzione delle quote di genere nelle competizioni elettorali. Si esprime, poi, cautela anche nei confronti della tendenza giovanilistica che pretende di rimuovere le diseguaglianze anagrafiche con una netta espulsione dei più vecchi; si critica la perdurante situazione di minorità cui sono condannati gli stranieri, rimarcando come l’impossibilità di esercitare il diritto di voto, specie a livello locale, comporti un’aperta violazione del principio cardine “no taxation without representation”; si sottolinea la sopravvenuta insostenibilità delle differenze di regime tra nuove e vecchie minoranze (tanto che lo Stato appare “forte con i deboli, debole con i forti”); si argomenta l’opportunità di considerare apertis verbis le differenze socio-economiche Nord-Sud, ripescando l’esperienza della gabbie salariali; si insiste sul carattere indispensabile di una legge sulla libertà religiosa (per non dover più ammettere, con Orwell, che “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”); si guarda, infine, alle lezioni degli antichi per ristrutturare i vizi della democrazia dei moderni (ipotizzando, ad esempio, non solo il ricorso a forme di recall, ma anche l’introduzione del sorteggio per talune cariche pubbliche, e anche per affidare ad una rappresentanza qualificata di cittadini alcune funzioni su cui i parlamentari versano in conflitti di interesse: “la verifica dei poteri, le cause di ineleggibilità e d’incompatibilità, il giudizio sulle loro immunità, la legge elettorale, la misura dell’indennità percepita da deputati e senatori, il finanziamento dei partiti”). Michele Ainis – che oltre ad essere un apprezzato costituzionalista e un noto opinionista, è anche un romanziere – si conferma uno scettico costruttivo, che non cede mai al fascino di visioni radicali e ottimalistiche, e il cui sforzo appare quello di fornire, come se fossero pillole, un po’ di istruzioni per l’uso a chi siede nella cabina di pilotaggio delle riforme.

Eguaglianza molecolare, scrive l'8 febbraio 2015 Il Sole 24 Ore, ripreso da Stefano Azzara sul suo Blog "Materialismo Storico". In un episodio della serie Dr. House, il medico televisivo politicamente scorretto si trova di fronte un paziente di colore, il quale si aspetta la prescrizione di un farmaco largamente usato dalla popolazione bianca, che però sarebbe inefficace a causa delle caratteristiche genetiche dell’uomo (data cioè la sua appartenenza etnica). Quando House gli prescrive un diverso farmaco, il paziente lo insulta, accusandolo di razzismo. Il nostro ritiene tempo perso cercare di spiegargli la questione, e se ne libera accontentandolo, cioè discriminandolo rispetto a un bianco per quanto riguarda l’appropriatezza del trattamento. Le decisioni che si prendono in ambito medico continuano a essere utili, come lo erano per Socrate, Platone e Aristotele, per ragionare sulla logica delle regole da usare per trattare gli altri e governare una società con giustizia, nonché sugli aspetti della psicologia umana che interferiscono con l’efficace uso di tali regole. La medicina e i medici non sono più quelli dell’antichità o di prima dell’avvento della medicina sperimentale, nel senso che fanno riferimento al metodo scientifico per controllare l’adeguatezza dei trattamenti. Un metodo che ha stabilito il principio che i pazienti vadano trattati in modo eguale, salvo che non vi siano ragioni valide, cioè dimostrabili e controllabili, per fare diversamente. Il biologo molecolare e premio Nobel Francois Jacob ha ricordato che l’eguaglianza, come categoria morale e politica, è stata inventata «precisamente perché gli esseri umani non sono identici». Lo studio dei contorni concreti della diversità biologica in rapporto all’idea astratta e controintuitiva dell’eguaglianza politica e morale, usando i risultati che scaturiscono dalla ricerca naturalistica e che dimostrano le difficoltà psicologiche individuali di elaborare un’idea razionale di giustizia, può essere un’ottima opportunità di avanzamento anche per le scienze umane. Che comunque arrivano a conclusioni coerenti e valide anche confrontando i risultati che derivano dall’uso di idee diverse di eguaglianza. Infatti, anche per il costituzionalista Michele Ainis, «la storia del principio di eguaglianza è segnata dalla differenza, non dalla parità di trattamento. [...]è segnata dalla progressiva consapevolezza della necessità di differenziare le situazioni, i casi, per rendere effettiva l’eguaglianza». Il libro di Ainis passa in rassegna le diseguaglianze o i soprusi causati da leggi ideologiche o etiche, che prevalgono in Italia rispetto ad altri Paesi. E argomenta che non è prendendo di mira le macro-diseguaglianze (es. sconfiggere la povertà nel mondo) che si riesce a migliorare il funzionamento delle società umane, ma concentrandosi sulle dimensioni micro, dove si può più agire per ripristinare una concreta giustizia sociale e politica. Se si osservano le diseguaglianze con il microscopio, invece che con il cannocchiale, e si va alla ricerca di un’«eguaglianza molecolare», cioè non tra individui, ma tra gruppi o categorie, ci si può aspettare almeno una gestione «minima, ma non minimale» dei problemi e delle sfide. Ainis ricorda un fatto, dietro al quale esiste una montagna di prove, cioè che l’eguaglianza ha a che fare con la giustizia, e che siamo disposti ad accettare un danno piuttosto che un’ingiustizia. Si tratta di una predisposizione evolutiva che funziona come un universale umano, e implica che si devono negoziare politicamente i valori, sapendo che questi tendono a variare nelle società complesse, e che la loro diversità è una risorsa da valorizzare. Ciò può essere fatto usando tre criteri: a) evitando di pensare che eguaglianza equivalga a identità; b) le decisioni che differenziano i diversi casi devono avere una base di ragionevolezza; c) usare proporzionalità o misura, per stabilire un vincolo oggettivo grazie al quale le decisioni legali continuino a dimostrarsi migliori nel discriminare e pesare fatti e contesti, rispetto alla politica. Il libro di Ainis è una salutare lezione di politica e diritto in chiave liberale, cioè suggerisce una strategia che coincide con i principi di fondo del liberalismo, per governare efficacemente società umane complesse e fortemente dissonanti rispetto alle predisposizioni evolutive che condizionano il comportamento umano. È un fatto che nell’età moderna i sistemi liberali si sono dimostrati, col tempo, le strategie migliori, anzi meno peggio di tutte le altre, per evitare che le diversità naturali diano luogo a diseguaglianze e quindi ingiustizie e sofferenze. Ma perché le idee liberali sono migliori? A parte la banale considerazione che non incarnano una credenza cioè non riflettono un’ideologia, ma un metodo, alla domanda risponde l’ultimo libro di Michael Shermer, editor di Skeptic e uno dei più lucidi sostenitori dell’esigenza di superare l’antinaturalismo che ancora caratterizza in larga parte l’epistemologia delle scienze umane. Shermer riassume lo stato delle conoscenze e dei dati che dimostrano che nel corso degli ultimi due secoli si è avuto un massiccio progresso morale, e che tale risultato è dovuto al prevalere della scienza e della razionalità negli affari umani. Soprattutto per quanto riguarda l’economia e il governo della società. L’efficacia del metodo scientifico e i presupposti sociali per farlo funzionare hanno ispirato anche la logica del costituzionalismo liberale. Rilanciando alcune idee di James Flynn e di Steven Pinker e passando in rassegna una serie impressionante di prove, intercalate da storie e aneddoti, Shermer ritiene che la diffusione della scienza, e in modo particolare del metodo scientifico, abbia determinato uno sviluppo delle capacità di astrazione e quindi un livello di razionalità che ha consentito alle persone di capire l’infondatezza e l’ingiustizia delle discriminazioni di genere, religione, sesso o appartenenza tassonomica. L’immagine dell’arco morale è presa da un celebre discorso di Martin Luther King, per il quale tale arco «è lungo, ma flette verso la giustizia». Shermer ritiene che le forze che hanno piegato l’arco morale sono la scienza e la razionalità.

Siamo tutti bravi a sciacquarci la bocca sull'uguaglianza. Ecco il fenomeno dei populisti.

Il Populismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il populismo (dall’inglese populism, traduzione del russo народничество narodničestvo) è un atteggiamento culturale e politico che esalta il popolo, sulla base di principi e programmi ispirati al socialismo, anche se il suo significato viene spesso confuso con quello di demagogia. Il populismo può essere sia democratico e costituzionale, sia autoritario. Nella sua variante conservatrice è spesso detto populismo di destra. Prende il nome dall'omonimo movimento sviluppatosi in Russia tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento che proponeva un miglioramento delle condizioni di vita delle classi contadine e dei servi della gleba, attraverso la realizzazione di un socialismo basato sulla comunità rurale russa, in antitesi alla società industriale occidentale. Un partito populista (Populist o People’s party) venne fondato nel 1891 anche negli Stati Uniti da gruppi di operai e agricoltori che si battevano per la libera coniazione dell’argento, la nazionalizzazione dei mezzi di comunicazione, la limitazione nell’emissione di azioni, l’introduzione di tasse di successione adeguate e l’elezione di presidente, vicepresidente e senatori con un voto popolare diretto; sciolto dopo le elezioni presidenziali del 1908. Il termine è stato riferito alla prassi politica di Juan Domingo Perón (vedi la voce peronismo e la sua recente variante di sinistra, il kirchnerismo), al bolivarismo e al chavismo, in quanto spesso fanno riferimento alle consultazioni popolari e ai plebisciti, perché il popolo decida direttamente nei limiti della Costituzione. Il movimento precursore di questa idea di democrazia può essere indicato e riconosciuto nel bonapartismo (Napoleone I e Napoleone III, in accezione cesaristica) e nella rivoluzione francese, specialmente nelle fazioni che si rifacevano alle idee politiche del filosofo Jean-Jacques Rousseau, come i giacobini. In Italia è stato spesso usato con accezione negativa, nei confronti del fascismo o del berlusconismo, e di vari movimenti leaderistici, spesso affini alla destra, ma anche al centro-sinistra (come l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro); spesso questi gruppi hanno rifiutato questa etichetta. L'accezione del termine in senso positivo, come "vicinanza al popolo e ai suoi valori", è stata invece rivendicata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio per il proprio movimento politico. La parola populismo può avere numerosi campi di applicazione ed è stata usata anche per indicare movimenti artistici e letterari, ma il suo ambito principale rimane quello della politica. In ambito letterario si intende per populismo la tendenza a idealizzare il mondo popolare come detentore di valori positivi. Il largo uso che i politici e i media fanno del termine "populismo" ha contribuito a diffonderne un’accezione fondamentalmente priva di significato: è rilevabile infatti la tendenza a definire "populisti" attori politici dal linguaggio poco ortodosso e aggressivo i quali demonizzano le élite ed esaltano "il popolo"; così come è evidente che la parola viene usata tra avversari per denigrarsi a vicenda – in questo caso si può dire che "populismo" viene talvolta considerato dai politici quasi come un sinonimo di "demagogia". La definizione di "populismo" data dal vocabolario Treccani è "...atteggiamento ideologico che, sulla base di princìpi e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi. Con significato più recente, e con riferimento al mondo latino-americano, in particolare all’Argentina del tempo di J. D. Perón (v. peronismo), forma di prassi politica, tipica di paesi in via di rapido sviluppo dall’economia agricola a quella industriale, caratterizzata da un rapporto diretto tra un capo carismatico e le masse popolari, con il consenso dei ceti borghesi e capitalistici che possono così più agevolmente controllare e far progredire i processi di industrializzazione.".

La definizione di "populismo" data dal dizionario Garzanti è:

1. atteggiamento o movimento politico, sociale o culturale che tende all’elevamento delle classi più povere, senza riferimento a una specifica forma di socialismo e a una precisa impostazione dottrinale;

2. (spreg.) atteggiamento politico demagogico che ha come unico scopo quello di accattivarsi il favore della gente;

3. (st.) movimento rivoluzionario russo della seconda metà del XIX secolo, anteriore al diffondersi del marxismo, che teorizzava il dovere degli intellettuali di mettersi al servizio del popolo.

Per alcuni tale nozione sembra essere più volta a spiegare fenomeni politici passati che non a descrivere il significato attuale del termine. Populista, oggi, è piuttosto chi accetta come unica legittimazione per l'esercizio del potere politico quella derivante dal consenso popolare. Tale legittimazione è considerata unica e di per sé sufficiente a legittimare un superamento dei limiti di diritto posti, dalla Costituzione e dalle leggi, all'esercizio del potere politico stesso. Il termine non ha alcun legame con una particolare ideologia politica (destra o sinistra) e non implica un raggiro del popolo (come al contrario implica la demagogia), ma anzi presuppone un consenso effettivo del popolo stesso. Per altri la parola in ambito politico conserva il senso dispregiativo sinonimo di demagogia. Il termine nasce come traduzione di una parola russa: il movimento populista è stato infatti un movimento politico e intellettuale della Russia della seconda metà del XIX secolo, caratterizzato da idee socialisteggianti e comunitarismo rurale che gli aderenti ritenevano legate alla tradizione delle campagne russe. Allo stesso modo il termine può essere considerato legato al People's Party, un partito statunitense fondato nel 1892 al fine di portare avanti le istanze dei contadini del Midwest e del Sud, le quali si ponevano in conflitto con le pretese delle grandi concentrazioni politiche industriali e finanziarie, e anch’esso caratterizzato da una visione romantica del popolo e delle sue esigenze.

Gli studiosi di scienze politiche hanno proposto diverse definizioni del termine ‘populismo’. «A ognuno la sua definizione di populismo, a seconda del suo approccio e interessi di ricerca», ha scritto Peter Wiles in Populism: Its Meanings and National Characteristics (1969), il primo testo comparativo sul populismo internazionale curato da Ernest Gellner e Ghita Ionescu. Tuttora giornalisti e studiosi di scienze politiche usano spesso il termine in maniera contraddittoria e confusa, alcuni per fare riferimento a costanti appelli alla gente che ritengono tipici di un politico o un movimento, altri per riferirsi a una retorica che essi considerano demagogica, altri infine per definire nuovi partiti che non sanno come classificare. Negli ultimi anni diversi studiosi hanno proposto nuove definizioni del termine allo scopo di precisarne il significato. Ad esempio, nel loro volume Twenty-First Century Populism: The Spectre of Western European Democracy, Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell hanno definito il populismo come «una ideologia secondo la quale al ‘popolo’ (concepito come virtuoso e omogeneo) si contrappongono delle élite e una serie di nemici i quali attentano ai diritti, i valori, i beni, l’identità e la possibilità di esprimersi del popolo sovrano». Regimi come quello fascista nella persona di Mussolini, quello nazista di Hitler e in generale la maggior parte delle dittature, sono un perfetto esempio del rapporto diretto fra il leader e le masse che si definisce populismo. Ma al di là di questo e di alcune caratteristiche retoriche, la definizione di populismo è rimasta estremamente vaga, facendone per lungo tempo una comoda categoria residuale, buona per catalogare una grande varietà di regimi difficili da classificare in maniera più precisa ma nei quali era possibile ritrovare qualche elemento comune. Questi elementi erano la retorica nazionalista ed anti-imperialista, l’appello costante alle masse e un notevole potere personale e carismatico del leader. Questa concezione nebulosa del populismo è stata utile durante la seconda metà del Novecento per inserire in una categoria comune vari regimi del Terzo Mondo, come quello di Juan Domingo Perón in Argentina, Gamal Abd el-Nasser in Egitto e Jawaharlal Nehru in India, che non potevano essere definiti democrazie liberali né socialismi reali. Un’altra accezione di populismo (ma neanche questa tenta di dare al termine una definizione precisa) è quella che lo rende un “contenitore” per movimenti politici di svariato tipo (di destra come di sinistra, reazionari e progressisti, e via dicendo) che abbiano però in comune alcuni elementi per quanto riguarda la retorica utilizzata. Per esempio, essi attaccano le oligarchie politiche ed economiche ed esaltano le virtù naturali del popolo (anch’esso mai definito con precisione, e forse indefinibile), quali la saggezza, l’operosità e la pazienza. Il populismo guadagna perciò consensi nei momenti di crisi della fiducia nella "classe politica". Il politologo Marco Tarchi, in "L'Italia populista", ricostruisce le vicende del populismo in Italia, dove i momenti di minima fiducia nella politica (e nei politici) si sono avuti con la Seconda guerra mondiale e con la denuncia della corruzione del sistema politico a seguito delle inchieste di Mani Pulite. Tarchi si sofferma soprattutto sui due movimenti più schiettamente populisti: l'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini (l'"uomo qualunque" contro l'"uomo politico") e la Lega Nord (il "popolo del nord" contro "Roma ladrona"). Nella politica italiana contemporanea per Guy Hermet Forza Italia è invece un esempio di «neo-populismo mediatico», ovvero una forma di demagogia che fa dei mass media il suo veicolo di diffusione.

Tutti populisti, scrive Leopoldo Fabiani su “L’Espresso”. Chi è più populista, Beppe Grillo o Matteo Salvini? E se scoprissimo che a battere in breccia tutti e due fosse invece Matteo Renzi? Volendo, ognuno potrebbe divertirsi a compilare la propria classifica, seguendo le indicazioni fornite da Marco Tarchi nel libro Italia populista (il Mulino, 380 pagine, 20 euro), seconda edizione sostanziosamente aggiornata rispetto alla prima del 2003. Partiamo dalla definizione: più che un'ideologia o uno stile politico, dice Tarchi, il populismo è una mentalità.«Che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l'integrità all'ipocrisia, all'inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche sociali e culturali e ne rivendica il primato, come forma di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione». Alla luce di questa definizione e seguendo il percorso del libro tra le varie formazioni italiane ed europee che populiste possono essere classificate, si potrebbe dire che oggi tutta la politica è populista. A destra come a sinistra. E in fondo, si può aggiungere, quando Angela Merkel sostiene che non si capisce perché l'operaio tedesco dovrebbe pagare per l'incapacità e le ruberie dei governanti greci, ecco che anche l'austera cancelliere propone un discorso populista, sia pure in un'inedita forma “transnazionale”. Se la mentalità populista è ormai così pervasiva da aver egemonizzato tutta la politica, si potrebbe essere tentati di concludere che è inutile oggi demonizzare il populismo, che i politici sono in qualche modo obbligati a parlare questo linguaggio. E che poi quello che conta è quello che fanno. Ma proprio qui c'è un problema: si sono visti molti leader ottenere consensi, anche ampi, esaltando questa mentalità. Qualcuno, Berlusconi per esempio, così è anche riuscito ad andare al potere. Ma nessuno poi è stato capace di governare. Almeno finora.

Siamo tutti populisti. Se è comunicazione personale diretta, allora va ben oltre la Lega, Grillo e Berlusconi. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, scrive Ilvo Diamanti su “La Repubblica”. C'è un fantasma che si aggira in Europa e in Italia. Inquietante e opprimente. Il populismo. Una minaccia diffusa, che echeggia in questa confusa campagna elettorale, in vista delle Europee. Eppure "mi" è difficile spiegare di che si debba avere "paura". Il populismo, infatti, associa forze politiche diverse e, talora, opposte fra loro, ma "unite" contro l'Unione Europea e contro l'Euro. Il termine, ad esempio, viene applicato al Front National, in Francia, e alla Lega, in Italia. Insieme ad altri partiti, di altri Paesi, fuori dall'Euro. Come l'Ukip, in Inghilterra. Anche se il Fn e l'Ukip si oppongono alla Ue in nome della sovranità, rispettivamente, della Francia e dell'Inghilterra. La Lega, invece, in nome dell'indipendenza dei popoli padani e contro la sovranità dell'Italia. Fino a poco più di vent'anni fa, al contrario, era a favore dell'Europa - delle Regioni. Ma la Lega è abituata a cambiare idea, in base alle convenienze. Come ha fatto nei confronti dei veneti(sti). Nel 1997, al tempo dell'assalto al campanile di San Marco, i Serenissimi, secondo Bossi, erano "manovrati dai servizi segreti italiani". Oggi, invece, sono perseguitati dall'imperialismo romano. Ma la lista dei populisti va ben oltre. Coinvolge gli antieuropeisti del Nord Europa e quelli dell'Est. Per tutti e fra tutti, il Fidesz di Viktor Orbán che ha trionfato di recente in Ungheria (dove Jobbik, movimento di estrema destra, ha superato il 20%). Oltre ad Alba Dorata, in Grecia. In Italia, però, il populismo è un'etichetta applicata senza molti problemi. Riguarda, anzitutto, il M5s e Beppe Grillo. Per il loro euroscetticismo ma, soprattutto, per l'esplicita opposizione alla democrazia rappresentativa. In nome del "popolo sovrano" che decide da solo. Senza rappresentanti. Grazie al referendum che ormai si può svolgere in modo permanente nella piazza telematica. La Rete. Naturalmente, il Popolo, per potersi riconoscere come tale, ha bisogno di riferimenti comuni. Così si rivolge a un Capo. Che comunichi con il Popolo direttamente. Senza mediazioni e senza mediatori. Attraverso i Media. La Rete, ma anche la televisione. Dove il Capo parla con me. Direttamente. In modo "personale". Non a caso, il Grande Populista del nostro tempo è stato Silvio Berlusconi. Il Berlusconismo, in fondo, è proprio questo: partito e Tv riassunti nella persona del Capo. La Rete ha moltiplicato il dialogo personale. Perché tutti possono parlare con tutti. Con il proprio nome, cognome, account e alias. Associato a un'immagine, una fotina, un marchio, un profilo. Naturalmente, c'è bisogno di un blogger, che orienti il dibattito e che, alla fine, tiri le somme. Ma che, soprattutto, dia un volto comune a tanti volti (oppure un "voto" comune a tanti "voti"). Che fornisca una voce comune a un brusio di messaggi fitto e incrociato. Senza Grillo, il M5s non sarebbe un MoVimento. Ma un'entità puntiforme priva di "identità". Grillo, d'altronde, sa usare la Tv, oltre che la Rete (guidato da Gianroberto Casaleggio). La maneggia da padrone. C'è sempre senza andarci mai. È la Tv che lo insegue, nelle piazze e, ora e ancora, nei teatri. Riprende e rilancia i suoi video, prodotti e postati nel suo blog. Ma se il populismo è comunicazione personale diretta senza mediazione, allora va ben oltre la Lega, Berlusconi e Grillo. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, politicamente. Perché deve saper usare la Tv e i nuovi media. Diventare protagonista di quella che Georges Balandier ha definito "La messa in scena della politica". Come ha fatto Matteo Renzi. Capace, meglio di ogni altro, di parlare direttamente al "popolo". Di lanciare sfide simboliche e pratiche. In Italia, d'altronde, ogni riforma promessa è rimasta tale. Imbrigliata da mille difficoltà, mille ostacoli. Renzi, per questo, va veloce. E parla direttamente al popolo. A ciascuno di noi. Guarda dritto nella macchina da presa. E ci chiama per nome. È per questo che Grillo lo ha preso di mira, come il suo principale, vero "nemico" (politico). Perché il popolo ha bisogno di un capo che gli indichi i suoi nemici. Gli "altri" da cui difendersi. L'Europa, la globalizzazione, le banche, i mercati. Gli "stranieri". Gli immigrati, i marocchini, i romeni, i veneti, i romani, gli italiani. E, ancora, le élite, la classe politica, i partiti, i giornalisti, i giornali, i manager, le banche, i banchieri. Così il catalogo dei populismi si allarga, insieme all'elenco dei populisti. Berlusconi, Grillo, Marine Le Pen (per non parlar del padre), Renzi. Ma anche Vendola, con il suo parlar per immagini e il suo partito personalizzato. Lo stesso Monti, bruciato dal tentativo di diventare pop, con il cagnolino in braccio (che fine avrà fatto Empy?). Uscendo dal "campo" politico, Papa Francesco è, sicuramente, il più bravo a parlare con il suo "popolo". Il più Pop di tutti di tutti. D'altronde, alle spalle, ha esempi luminosi, come Giovanni Paolo II e, ancor più, Giovanni XXIII. E poi è argentino, come Perón. Scivola sull'onda di una lunga tradizione. Non è un caso, peraltro, che la fiducia nei suoi confronti sia molto più alta di quella nella Chiesa. Perché Francesco, sa toccare il cuore dei fedeli (e degli infedeli). E supera ogni confine. Ogni mediazione. Va oltre la Chiesa. Parla al suo popolo, senza distinzioni (visto che la fiducia nei suoi riguardi viene espressa da 9 persone su 10). Per questo, diventa difficile dire chi sia populista. O meglio, chi non lo sia. Perché tutti coloro che ambiscano a imporsi sulla scena pubblica debbono usare uno stile "populista". E lo ammettono senza problemi, mentre ieri suonava come un insulto. Echeggiando Jean Leca: "Quel che ci piace è popolare. Se non ci piace è populista". Oggi invece molti protagonisti politici rivendicano la loro identità populista. Grillo e Casaleggio, per primi, si dicono: "Orgogliosi di essere insieme a decine di migliaia di populisti. (...) Perché il potere deve tornare al popolo". Mentre Marine Le Pen si dichiara "nazional-populista", in nome del "ritorno alle frontiere e alla sovranità nazionale". Meglio, allora, rinunciare a considerare il "populismo" una definizione perlopiù negativa e alternativa alla democrazia. Per citare, fra gli altri, Alfio Mastropaolo, ne fa, invece, parte. Come il concetto di "popolo". Il quale, quando ricorre in modo tanto esplicito e frequente, nel linguaggio pubblico, denuncia, semmai, che qualcosa non funziona nella nostra democrazia "rappresentativa". Perché il "popolo" non trova canali di rappresentanza efficaci. I rappresentanti e i leader non dispongono di legittimazione e consenso adeguati. Perché il governo e le istituzioni non sono "efficienti" e non suscitano "passione". Così non resta che il populismo. Sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Meglio non limitarsi a scacciarlo con fastidio. Per guarire dal populismo occorre curare la nostra democrazia.

Il grido di allarme ignorato: al Tribunale di Taranto condanna certa, perché è impedito difendersi e criticare. La rivelazione di Antonio Giangrande. Dalla relazione fatta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014 dal presidente vicario della Corte d’Appello di Lecce, Mario Fiorella, il numero di processi proprio a carico di magistrati, anche tarantini, sono ben 113. Il dato ufficiale si riferisce ai procedimenti aperti nel 2013 ed il Distretto di Corte d'Appello comprende i Tribunali di Taranto, Brindisi e Lecce. Come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, sono stati infatti quelli i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. I dati sono fuorvianti, in quanto, a ben vedere si scoprirà, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati!

Per esempio, il 5 marzo 2015 si tiene a Potenza l’ennesima udienza contro Antonio Giangrande, presieduta dal giudice monocratico Lucio Setola, già sostituto procuratore di quel Foro. Processo per diffamazione e calunnia su denuncia del giudice di Taranto, Rita Romano, persona offesa costituita parte civile.

La colpa di Antonio Giangrande è di aver esercitato il sacrosanto diritto di difesa, per non vedersi esser condannato ingiustamente, e per gli effetti aver presentato 3 richieste di ricusazione contro la Rita Romano, perché questa non si era ancora astenuta nei tre processi in cui giudicava il Giangrande, nonostante nel procedere in altri processi collegati già si era espressa in sentenza addebitando la responsabilità all’imputato, sebbene questi non fosse sotto giudizio, e contro il quale già aveva manifestato il suo parere in sentenze di altri processi definendolo in più occasioni, di fatto, soggetto testimonialmente inattendibile. La ricusazione oltre che fondata era altresì motivata con una denuncia allegata presentata contro la stessa Rita Romano ed a Potenza risultata archiviata, nonostante la fondatezza delle accuse e delle prove. Inoltre gli avvocati difensori De Donno e Gigli per la ricusazione presentata hanno rinunciato alla difesa. Fatto sta che i processi ricusati, con la decisione di altri giudici, però, hanno prodotto il proscioglimento per l’imputato. Sulla attendibilità di Antonio Giangrande, poi, parlano le sue opere ed i riscontri documentali nelle cause de quo.

Altro esempio è che il 30 aprile 2015 si tiene presso il Tribunale di Potenza l’ennesima udienza contro Antonio Giangrande, presieduta dal giudice monocratico Natalia Catena. Processo per diffamazione su denuncia presentata da Alessio Coccioli, quando era sostituto procuratore a Taranto prima di passare a Lecce, perché la Gazzetta del Sud Africa, e non Antonio Giangrande, pubblicava un articolo in cui si definiva il Tribunale di Taranto il Foro dell’ingiustizia, elencando tutti i casi di errori giudiziari, e per aver pubblicato l’atto originale della richiesta di archiviazione, poi accolta dal Gup, e le relative motivazioni attinenti una denuncia per un concorso truccato per il quale il vincitore del concorso a comandante dei vigili urbani di Manduria era colui il quale aveva indetto e regolato lo stesso concorso.

Come si vede le denunce a carico dei magistrati di Taranto sono 113 quelle presentate in un solo anno a Potenza e di seguito archiviate, e non sono di Antonio Giangrande, però Antonio Giangrande è uno dei tanti imputati su denuncia dei magistrati di Taranto a sottostare a giudizio, e sicuramente a condanna, per aver esercitato il suo diritto di critica e o il suo diritto/dovere di difesa. Diritti garantiti dalla Costituzione ma disconosciuti sia a Taranto, sia a Potenza.

Una delle frasi più amare del grande scrittore Franz Kafka è: “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è servo della Legge e come tale sfugge al giudizio umano”. Viene da pensare a questa frase quando a venire giudicato è chi dovrebbe amministrare una giustizia chiara ed imparziale, scrive Roberto De Salvatore su “Lecce Cronaca”. Dicendo questo mi riferisco alla vicenda che ha visto Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia, chiamato a rispondere davanti al tribunale di Taranto di diffamazione e calunnia. Il motivo che aveva dato origine alla vicenda era un caso di corruzione per un concorso truccato per un posto di comandante dei vigili urbani a Manduria, a detta del Giangrande ampiamente documentata. La vicenda processuale ha prodotto una serie di procedimenti nei confronti di ben 113 magistrati tarantini, ma non solo. Sono questi come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. I dati sono fuorvianti, in quanto, a ben vedere si scoprirà, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati!

Ciascuno dovrebbe aver diritto ad un equo processo, a prescindere dalla categoria cui appartiene, nella convinzione (forse ingenua) che quanto si legge scritto sui muri dei tribunali ‘la legge è uguale per tutti’ non sia solo uno slogan. Non sappiamo giudicare dove sia il torto e dove la ragione, né siamo abilitati a farlo se non esprimendo un parere da cittadini, nella speranza che ancora sia permesso esprimere una opinione liberamente, ancorché però non sfoci nella calunnia. Viene in mente la recente legge sulla responsabilità dei magistrati e la levata di scudi della categoria contro questa legge rea a loro dire di mettere il bavaglio alla magistratura. A mio avviso invece è una legge civile a salvaguardia della certezza del diritto.

Certo speriamo che i potenti non siano gli unici beneficiari di tale legge, ma che serva di monito a compiere il proprio dovere senza preconcetti, o peggio ancora ispirati da concezioni politiche che con la democrazia non hanno nulla a che fare. I magistrati devono essere assimilabili a qualunque categoria del pubblico impiego per le quali chi sbaglia è giusto che paghi. Non hanno nulla da temere coloro che fanno da sempre il loro dovere, ma i tempi dei Viscinsky di staliniana memoria devono terminare, i normali cittadini sono stanchi di considerare la magistratura qualcosa di assolutamente divino e di intoccabile. E basta con le toghe rosse, nere o grigie, la toga di un magistrato non deve avere un colore, ma rappresentare un baluardo di imparzialità verso tutti.

Decine di saggi di inchiesta suddivisi per tema o per territorio dove la cronaca diventa storia e dove luoghi e protagonisti sono trattati allo stesso modo e sullo stesso piano.

Vi siete mai chiesti perché non conoscete Antonio Giangrande? Perché egli, pur avendo scritto di Mafia, Massoneria e Lobbies, non abbia la notorietà generalista di Roberto Saviano, lo stesso che a Scampia gli hanno dedicato un motto: “Scampia-moci da Saviano”? Vi siete mai spiegati il motivo sul perché, avendo Antonio Giangrande scritto decine di saggi di inchiesta e ben due libri sul delitto di Sarah Scazzi ed essendo egli stesso avetranese, mai sia stato invitato nei talk show televisivi a render presente la posizione anti giustizialista, a differenza della Roberta Bruzzone che presenzia in qualità di esperta in conflitto di interessi essendo ella autrice di un libro su Sarah Scazzi ed allo stesso tempo presunta parte offesa in un procedimento connesso?

Il motivo è chiaro. Egli non è allineato, conforme ed omologato e scrive fuori dal coro sistematico ed ideologico. Di fatto è stato estromesso dai salotti buoni e di conseguenza ignorato dal pubblico generalista.

La sua storia è paradigmatica dell'imbecillità italiana, dove il tuo valore si misura non per ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni e dove dipende tutto dai momenti della convenienza. Devi per forza dare il senso di appartenenza a sinistra, difendere lo status quo ed osannare i magistrati. Non puoi dire il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa. I cittadini devono essere imbottiti non di informazioni ma di suggestioni.

Come dire: sui social network girano le foto di otto cadaveri appesi a testa in giù ad una struttura metallica di Hawija, nella provincia di Kirkuk, allora si parla di barbarie dell’Isis, come è giusto che sia. Quando i comunisti appesero Mussolini e la Petacci in Piazzale Loreto o infoibarono gente innocente nel Carso, si parlò di atti di eroismo dei partigiani.

Se qualcuno racconta la verità e presto tacciato di mitomania o pazzia. Quando non dici più quello che piace al sistema, composto da amici e compari, ti relegano tra i reietti della penna o della tastiera, se non addirittura dietro le sbarre di una prigione: Così va questa Italia!

Questa recensione non è un tentativo di promuovere uno spot gratuito per interessi economici.

I libri di Antonio Giangrande li trovi su Amazon.it o su Lulu.com o su CreateSpace.com o su Google Libri. Ma si possono leggere parzialmente free su Google Libri ove vi sono circa 60.000 mila accessi al dì, come si possono leggere gratuitamente anche su www.controtuttelemafie.it , il sito web della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, sodalizio nazionale antimafia antagonista a Libera di Don Ciotti e della CGIL.

Si provi a leggere solo l’articolato dei capitoli per rendersi conto che in quei libri si troveranno le malefatte della mafia, ma anche gli abusi dell’antimafia. In quei libri si parla dell’Italia e degli italiani e di tutti coloro che a torto si mettono dalla parte della ragione e si lavano la bocca con la parola “Legalità”, pur vivendo nell’illegalità. Si troverà per argomento o per territorio quanto si fa fatica a scrivere. Si provi a leggere quanto nella propria città succede ma non si dice.

Fino a che la maggior parte di giornalisti, scrittori, editori, saranno succubi dell’ignavia, della politica e dell’economia, ci sarà sempre bisogno di leggere i saggi di Antonio Giangrande, giusto per conoscere una versione diversa dei fatti, così come raccontati da quelle solite esposizioni omologate che si vedono in tv e si leggono sui libri, o sui giornali, o sui siti web o blog dei soliti noti.

Ritorsioni: sì, ma come si fa a tacere queste mascalzonate?

Equitalia, milioni di cartelle a rischio: 767 dirigenti nominati senza concorso, scrive Blitz quotidiano. Nei prossimi giorni la Corte Costituzionale deciderà sulla sorte di migliaia, anzi milioni, di cartelle esattoriali emesse da Equitalia. I giudici delle leggi sono infatti chiamati a decidere sulla costituzionalità di un decreto, sfoderato d’urgenza a marzo 2012 per sanare lo scandalo dei 767 funzionari dell’Agenzia delle Entrate (più della metà) promossi a dirigenti senza concorso. Cosa significa? Che migliaia di cartelle furono firmate da “falsi dirigenti” e di conseguenza potrebbero venire considerate nulle o addirittura inesistenti. A ricostruire bene la vicenda è l’avvocato Angelo Greco di Cosenza, in un articolo apparso sul portale La Legge per Tutti. Detto in estrema sintesi, per supplire alla carenza di organico dirigenziale, l’Agenzia delle Entrate, qualche anno fa, aveva deciso di “promuovere” alla qualifica di dirigente ben 767 funzionari, senza prima averli sottoposti a un concorso pubblico, per come invece prescrive la nostra Costituzione (“agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”). Di tanto si erano accorti sia il Tar Lazio che la Commissione Tributaria di Messina che avevano bloccato le suddette nomine a dirigenti. Risultato: migliaia di atti firmati dai “falsi dirigenti” (o meglio, “non correttamente nominati”), e le conseguenti cartelle esattoriali di Equitalia, erano da considerarsi completamente nulli o, addirittura, inesistenti, avendo trovato il loro presupposto in un soggetto privo di qualsiasi potere. Un vero e proprio terremoto. Per arginare la falla, il Governo è ricorso alla consueta arma che, in casi come questi, viene sfoderata d’urgenza: la sanatoria. Così, un decreto legge del 2012 ha concesso, retroattivamente, all’Agenzia delle Entrate il potere di attribuire, a proprio piacimento ed in barba alla stessa Costituzione, incarichi dirigenziali ai propri funzionari (con contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso). Insomma, in attesa del maxi-concorso tutte le nomine dovevano ritenersi valide. [...] E così, la questione è finita al Consiglio di Stato che, sospettando la legge di sanatoria di incostituzionalità (appunto per violazione dell’obbligo del concorso pubblico) ha rinviato la patata bollente [6] alla Corte Costituzionale. Il rischio catastrofe è dunque imminente. Va da sé che se la Consulta dovesse ritenere infondata la questione di costituzionalità, il problema non sussiste e i contribuenti destinatari delle cartelle in bilico, dovranno rassegnarsi a pagare i loro debiti. Ma se viceversa il decreto verrà giudicato incostituzionale, le prospettive possono essere molteplici. L’avvocato Greco fa alcune proiezioni:

Secondo il consolidato orientamento sposato dalla Cassazione e dai tribunali di tutta Italia, gli atti fiscali sono nulli (alcuni tribunali, addirittura, parlano di “inesistenza”) se firmati da chi non aveva il potere per farlo. E dunque, chi non ha ancora pagato potrà fare ricorso al giudice per ottenere l’annullamento della richiesta di pagamento. Lo potrà fare anche chi ha chiesto o ha già avviato una rateazione. In passato abbiamo pubblicato anche la formula da inserire nel ricorso per chiedere la nullità della cartella.

E se sono scaduti i termini per impugnare?

In verità, stando all’orientamento (maggioritario) che ritiene gli atti privi di firma “inesistenti”, questo non dovrebbe essere un problema, in quanto si tratterebbe di una nullità non sanabile neanche con il decorso dei termini. Ovviamente, però, ogni tribunale ha la sua interpretazione.

Come faccio a sapere se il mio atto è firmato da un falso dirigente?

Per evitare un ricorso “alla cieca” contro la cartella esattoriale, bisogna innanzitutto verificare che la stessa abbia come presupposto un pagamento chiesto dall’Agenzia delle Entrate e non da altre amministrazioni. Poi bisognerebbe avere la certezza che l’atto a monte sia stato notificato da uno dei falsi dirigenti. Tuttavia l’elenco dei dirigenti privi di potere non è mai stato diffuso ufficialmente. Il contribuente potrebbe tentare di superare l’ostacolo depositando una istanza di accesso agli atti amministrativi e chiedendo di verificare la documentazione inerente alla carriera del dirigente firmatario.

La Corte Costituzionale abbatte Equitalia. I dirigenti? Tutti falsi, scrive Angelo Greco su “Legge per Tutti”. Terremoto all’Agenzia delle Entrate: è incostituzionale la legge che aveva sanato le nomine dei falsi dirigenti; ora non c’è scampo per le cartelle esattoriali. Un vero fulmine a ciel sereno. La tanto attesa sentenza della Corte Costituzionale è uscita: le nomine “fasulle” dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate, portati al ruolo di dirigenti senza un pubblico concorso, sono tutte nulle. E, perciò, sono nulli anche gli atti da questi firmati e notificati ai contribuenti. Non solo: nulle diventano, conseguentemente, pure le cartelle esattoriali emesse da Equitalia sulla scorta di tali accertamenti. Che il cielo stesse annuvolandosi all’orizzonte era già chiaro da diverso tempo. E ne avevamo parlato già noi quando abbiamo scritto, a più riprese, dello scandalo dei falsi dirigenti dell’Agenzia delle Entrate. Leggi, tra i tanti: “La Corte Costituzionale fa vacillare Equitalia e milioni di cartelle esattoriali”. Il succo della sentenza è chiaro: è incostituzionale il la legge del 2012 che, dopo la bocciatura del TAR Lazio della nomina dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate a dirigenti, pur senza la qualifica, aveva introdotto una sorta di sanatoria. Insomma, in attesa che fossero indette le normali gare, gli incarichi “a tempo” da dirigente, conferiti a funzionari dell’Agenzia delle Entrate senza i concorsi regolari dovevano ritenersi validi. Il che è palesemente illegittimo per contrasto con la Costituzione e con la norma che impone che, a tutti i pubblici uffici, si giunge solo tramite concorso. Come avevamo anticipato anche noi in “Dirigenti falsi all’Agenzia delle Entrate” in sostanza è stato eluso il principio secondo cui nel pubblico impiego anche le funzioni di dirigente si acquistano con il concorso pubblico pure nell’ipotesi in cui gli incarichi vadano al personale interno. La durata degli incarichi, almeno sulla carta, era legata al tempo necessario a indire i concorsi, ma è stata seguita da proroghe, anche queste “bocciate” dalla Corte Costituzionale. La norma del DL semplificazione, scrivono oggi i giudici costituzionali, “ha contribuito all’indefinito protrarsi nel tempo di un’assegnazione temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica”. Ora la pronuncia della Corte costituzionale mette la parola “fine” alla vicenda ma apre interrogativi sulla sorte degli accertamenti sottoscritti negli anni dai funzionari-dirigenti. Insomma, poiché sono state bocciate ben 767 nomine su circa 1000 dirigenti di ruolo, ciò significa che più del 50% delle cartelle che, in tutti questi anni, Equitalia ha notificato agli italiani, sono nulle! O meglio, del tutto inesistenti perché firmate da soggetti che non avevano il potere per farlo e per ricoprire tale ruolo.

I dirigenti dell’agenzia delle Entrate erano falsi: Equitalia trema, continua Greco. Milioni di cartelle esattoriali notificate in questi anni sono a rischio nullità: la Corte Costituzionale si è pronunciata sul più forte scandalo che abbia mai coinvolto il fisco italiano. Questa mattina, l’attesa di milioni di italiani, letteralmente “assediati” da controlli e accertamenti fiscali in tutti questi anni, è finita. La Corte Costituzionale si è appena espressa sulla questione che, da un paio di anni, pendeva sulla bocca dei contribuenti: quella cioè dello scandalo dei “falsidirigenti presso l’Agenzia delle Entrate, ossia di funzionari che erano stati “elevati” al ruolo di dirigenti – per mancanza di organico – pur senza aver partecipato a un normale concorso. La questione, che era stata sollevata inizialmente dal Tar Lazio, aveva poi subito uno “stop” a causa di una legge sanatoria del 2012. Ma su quest’ultima era forte la puzza di incostituzionalità. Tant’è che il Consiglio di Stato aveva rinviato gli atti alla Corte Costituzionale perché si pronunciasse in merito e decidesse, una volta per tutte, se è vero o meno che, in Italia, anche i funzionari del pubblico impiego (così come tutti gli altri dipendenti della pubblica amministrazione) debbano sottostare all’obbligo del concorso per accedere ai posti. Per la Consulta non ci sono stati dubbi: chiunque acceda al pubblico impiego lo può fare solo tramite un concorso pubblico e mai, quindi, con una legge di “sanatoria” o con una nomina interna. E ciò vale anche se si parla del tanto temuto fisco. Insomma, questo significa che tutti gli atti che sono stati firmati dai dirigenti (o meglio, funzionari svolgenti funzioni da dirigenti) potrebbero essere dichiarati “inesistenti” (per mancanza di poteri) dalla giurisprudenza. E, con essi, a cadere sarebbero anche le relative cartelle di Equitalia che sono state notificate sulla base di tali accertamenti. Attenzione: la questione riguarda solo le cartelle determinate da atti firmati dall’Agenzia delle Entrate e non, quindi, per imposte locali, contravvenzioni o richieste di pagamento dell’Inps. Ora si apre uno scenario apocalittico per le casse dello Stato. A cui i giudici saranno chiamati, a breve, a dare risposta. Noi, intanto, vi riportiamo la sentenza per esteso della Corte Costituzionale.

SENTENZA N. 37 ANNO 2015. REPUBBLICA ITALIANA. LA CORTE COSTITUZIONALE:

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 24, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44;

2) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 14, del decreto-legge 30 dicembre 2013, n. 150 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 27 febbraio 2014, n. 15;

3) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art 1, comma 8, del decreto-legge 31 dicembre 2014, n. 192 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2015.

F.to: Alessandro CRISCUOLO, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 marzo 2015. Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella Paola MELATTI

"Università, altro che merito. E' tutto truccato. Vi racconto come funziona nei nostri atenei". Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati. Un ex dottorato spiega nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra raccomandazioni e correnti di potere. E qualcuno non vuole che il libro in cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato, scrive Maurizio Di Fazio su “L’Espresso”. Non è un Paese per giovani docenti universitari. E' quanto ha scoperto sulla sua pelle da Matteo Fini, classe 1978, appena riemerso da quasi dieci anni di esperienza accademica come dottore di ricerca in statistica nel Dipartimento di scienze economiche dell’Università degli studi di Milano. “Tante illusioni svanite via via nel nulla”. Alla Statale si occupava di metodi quantitativi per l’economia e la finanza. “In pratica facevo tutto: lezioni, ricerca, davo gli esami, mettevo i voti – ci dice Fini – Ero un piccolo professore fatto e finito, senza titolo. E questa è una roba normalissima”. La sua è la storia di un giovane italiano che non ce la può fare nonostante tutto. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano” aggiunge. E ne esce, e pensa di raccontarlo. Di dissacrarlo. Ne fa la sostanza del suo libro: la vita accademica vista dall’interno, nei suoi gangli ordinari. Episodi quotidiani che non danno scandalo abbastanza se presi singolarmente. Comincia a scriverlo, e ne posta qualche estratto su Facebook. Un giorno riceve una diffida legale, girata anche all'editore con cui aveva già fatto un libro ("Non è un paese per bamboccioni"), che gli intima di non pubblicare e di eliminare tutti i post “allusivi” dal social: tra questi, una citazione di Lino Banfi/Oronzo Canà. “I post non li ho affatto tolti, e tra l’altro erano generici e astratti – racconta Matteo Fini –. Questa è censura preventiva”. Il libro è pronto, anzi c’è tutta una piccola community sul web che ne attende l’uscita; ma non si sa più quando, né con chi vedrà la luce. Abbiamo incontrato l’autore per saperne di più di questo suo pamphlet arrabbiato, rimandato a settembre per “condotta”. L’inizio del percorso da ricercatore universitario è comune a tutti. “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato e la strada si fa cieca”. Al “meccanismo” ci si abitua subito. Prendere o lasciare. I più, prendono, compreso Matteo Fini. “Ho capito subito che c’erano delle regole bislacche, ma le ho accettate: sai benissimo che lì dentro funziona così, è un sistema che non puoi cambiare, immutabile, e sai anche che la tua carriera è totalmente indipendente da quello che dici o che fai: conta solamente che qualcuno voglia spingerti avanti”. Anche Matteo ha il suo protettore. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Va avanti così per anni. Ma le cose non sono eterne. “All’improvviso la sua attenzione si è completamente spostata altrove. Dal chiamarmi quattro volte al giorno, l’ultimo anno è scomparso. Fino al gran finale: il dipartimento bandisce il concorso per il posto a cui lavoravo da otto stagioni,“che avrei dovuto vincere io”. Lui nemmeno me lo comunica. Io ne vengo a conoscenza e partecipo lo stesso, pur sapendo che, senza appoggi, non avrei mai vinto. In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. In questo volume intra–universitario che non c’è, ma c’è, Fini spiega gli ingranaggi universitari più comuni. Talmente elementari che nessuno aveva mai pensato di raccontarli. Sfogliamolo virtualmente.

Concorsi, primo esempio. Il blu e il nero. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo. A me una volta è capitato che a metà prova si siano accorti che alcuni stavano scrivendo in blu e altri in nero. A quel punto ci hanno consegnato delle penne uguali per tutti, e siamo ripartiti daccapo. A fine prova mi sono accorto che c'erano degli stranieri che avevano scritto nella loro lingua natìa... Ma con la penna uguale alla nostra, eh!”.

Concorsi, secondo esempio. Gli ultimi saranno i primi. “M’iscrissi al bando e mi presentai al test d’ammissione che era composto esclusivamente da un colloquio orale in cui si ripercorreva la carriera dei candidati. Era un concorso per titoli. I candidati erano tre: io, una ragazza del sud di trentun’anni neolaureata e una ragazza del nord che stava discutendo la tesi. I posti erano sei, le borse di studio in palio due. Indovinate in graduatoria in che posizione mi piazzai? Esatto, terzo. E ultimo. In un concorso esclusivamente per titoli, cioè non vi erano delle prove d’esame che avrebbero potuto mostrare la preparazione di un candidato piuttosto che l’altro, contava solo il curriculum vitae; in un concorso per titoli tra due neolaureate, o quasi, e io che una laurea, come loro, ce l’avevo e che possedevo anche un titolo di dottore di ricerca, pubblicazioni scientifiche, manuali didattici e un’esperienza di oltre cinque anni in accademia tra lezioni, lauree, seminari e convegni, ecco in gara con loro due mi classifico terzo, dietro di loro…”.

Concorsi, terzo esempio. La salita è in discesa. “Qualche anno fa sono andato a fare un concorso per un contratto di un anno fuori sede. Fuori sede lo dico perché ogni ricercatore, o simile, è come affiliato al dipartimento di provenienza, ogni volta che prova a partecipare a un concorso in un altro ateneo è come se andasse in guerra. Con lo scudo e la fionda contro i fucili e i cacciabombardieri. Il posto era per un assegno di ricerca in Economia e gestione delle imprese. Ci presentiamo in tre. Il vincitore, il fantoccio e io. C’è sempre un fantoccio. Quello che deve fare presenza, ma perdere. Per non dare l’idea che il concorso sia ad personam. Purtroppo per loro però, inavvertitamente, mi ero iscritto pure io. E risultavo tremendamente più titolato degli altri due, vincitore compreso. Questo capitava non perché io fossi particolarmente genio, ma perché, essendo ormai da anni attorcigliato nel meccanismo universitario senza sbocchi in attesa del posto mio, mi ritrovavo a partecipare a concorsi per retrocedere. Scendi di categoria, e sembri un fenomeno. Così succede che devono trovare un modo per fermarmi. E non potendo dire che non ho i titoli o che il mio curriculum mal si relazioni col loro progetto di ricerca. sapete cosa s’inventano? Provano con la psicologia. Anzi la psicologia inversa, il metagame. “Tu sei un ricercatore affermato, ormai hai anni di esperienza, il nostro progetto dal punto di vista quantitativo non presenta una sfida entusiasmante, saranno sì e no due calcoletti, per cui non credo che questo sia il posto adatto a te... E così ho perso un’altra volta”.

Concorsi, per concludere. Così fan tutti.“E così risulta penalizzato anche chi vince perché è più bravo e perché se lo merita. Chi vincerebbe un concorso anche in una molto ipotetica gara alla pari. Senza padrini. Pensate a quanto possa essere frustrante, anche per loro, sapere che nonostante gli anni di studi, i sacrifici, nonostante siano pronti, in realtà si sono ritrovati vincitori perché qualcuno ha deciso così. Per delle logiche che continuano a esulare dalla loro preparazione e ricerca. Tutti penseranno che tu, come tutti, il posto non te lo sei guadagnato. Puoi urlarlo forte quanto vuoi, ma nessuno ti crederà. Tutti ti vedranno come l'abusivo, il solito infame”.

Assegnazione dei fondi. Specchietti per le allodole. “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto alimentato dal blasone dei docenti unitisi (professori che magari fino al giorno prima neanche si salutavano). Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie (pubblicazioni, acquisto di pc all’ultima moda ecc.). Che fine fanno i ragazzi coinvolti? Bene che vada si spartiscono le briciole”.

Libri universitari. Self–publishing.“Molti docenti scrivono libri che poi adottano a lezione, naturalmente, e molto spesso gli editori glieli fanno pagare fino all’ultimo centesimo, della serie “Ti pubblico, ma tu devi comprarne 5 mila copie”. Ma mica li acquistano con portafogli personali, i suddetti saggi; no, ordinari e associati amano invece attingere liberamente dai fondi di dipartimento, che pure magari erano destinati a qualche ricerca seria e pluripremiata”.

Cultore della materia. Il purgatorio dei tuttologi. “Più in basso ancora di assegnisti e dottorandi, c'è la figura del “Cultore della materia”: per permetterti di affiancare un Prof. in università se non hai titoli tuoi, questo ti fa "cultore", e tu così guadagni il diritto di aiutarlo in aula con gli esami o addirittura di fare lezione. La cosa divertente è che la decisione del docente è insindacabile. E così se un domani il tuo supervisor decide che tu debba essere un cultore in Fisica applicata o Letteratura greca medievale, e lo fa soltanto perché gli servi… il giorno dopo tu sarai legittimato ad andare in Aula a parlarne. Anche se non ne sai un fico secco”.

Didattica. Il fanalino di coda. “Viene vista come un fastidio. Un intralcio. È che da noi diventi docente solo dopo aver fatto il ricercatore. Ma il ricercatore dovrebbe fare ricerca, e il docente insegnare. Ci vorrebbe una separazione delle carriere. Un ottimo ricercatore può essere un pessimo docente, e viceversa”.

Seminari e riviste. Tutto fa brodo. “Spesso i dipartimenti organizzano seminari (sempre coi soldi dei fondi) il cui unico scopo è quello di presentare i propri lavori, perché così quel lavoro finirà dritto ne "gli atti del convegno", che è una pubblicazione, e che quindi va a curriculum, fa massa, valore, prestigio, carriera, altri soldi. C’è una lunga teoria di riviste che esistono solo per pubblicare gli atti di questi convegni: periodici clandestini, che pubblicano indiscriminatamente. Ci sono poi dipartimenti che le riviste se le creano da sé. È un circuito drogato, che lievita, ma su impasti veramente fragili. Basti vedere i curriculum dei docenti italiani: le pubblicazioni sulle riviste internazionali, quando ci sono, sono messe in bella mostra, mentre quelle sulle riviste nazionali vengono liquidate sotto la dicitura “altre pubblicazioni”... Come se ce se ne vergognasse”.

I baroni regnano sull'università. Raccomandazioni, scambi di favori, meriti negati, titoli ignorati. Il concorsone per scegliere i professori è sommerso di ricorsi. Il consiglio di stato ha accolto le proteste di un bocciato e potrebbe annullare l’intera tornata di nomine. Ecco come naufragano gli atenei italiani, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Ah porci!”, esclamò Perpetua. “Ah baroni!”, esclamò don Abbondio». I lanzichenecchi che distrussero la Lombardia nel 1630 Alessandro Manzoni li chiama proprio così, «baroni». Dal latino “baro - baronis”, termine che, dice la Treccani, indicava “il briccone, il farabutto, il furfante”. I mammasantissima delle nostre facoltà non hanno portato la peste come i soldati tedeschi che assediarono Mantova, ma di certo il loro dominio incontrastato ha contribuito a devastare l’università italiana. Dove, al netto delle eccellenze e dei tanti onesti, è sempre più diffuso il morbo del familismo, della raccomandazione e del corporativismo, a scapito del merito, delle capacità dei più bravi, della fatica dei volenterosi. Per i baroni la strada maestra per mantenere il potere e gestire il reclutamento è, ovviamente, quella di controllare i concorsi. Come dimostra l’inchiesta “Do ut des” della procura di Bari, che sta indagando per associazione a delinquere decine di professori di diritto costituzionale: «Carissimo, consegno un’umile richiesta al pizzino telematico. Ti chiederei il voto per me a Roma... sono poi interessato a due concorsi di fascia due, d’intesa con Giorgio che ha altri interessi. Scusa per la sintesi brutale, ma meglio essere franchi. A buon rendere. Grazie», si legge in una mail che il bocconiano Giuseppe Franco Ferrari ha mandato qualche anno fa a un collega, missiva ora al vaglio della Guardia di Finanza. La riforma Gelmini varata nel 2010 doveva mettere fine agli scandali e modernizzare finalmente gli italici atenei, da tempo in coda a ogni classifica delle eccellenze europee. Ahinoi, non sembra essere andata come si sperava. La nuova abilitazione scientifica nazionale (che ha da poco chiuso la tornata del 2012: i promossi a professori di prima e seconda fascia sono quasi 24 mila, i bocciati circa 35 mila) è stata un flop colossale. Nonostante un costo stimato superiore ai 120 milioni di euro, il concorso ha generato proteste a catena, incredibili favoritismi, migliaia di ricorsi al Tar e - come risulta a “l’Espresso” - anche i primi esposti mandati alle procure. La lista di presunti abusi basta leggere le accuse che arrivano da ricercatori esclusi, docenti e persino premi Nobel - è impressionante: se in qualche caso sono stati promossi candidati che vantano solo dieci citazioni (in articoli e pubblicazioni varie) a discapito di altri che ne hanno oltre seicento, tre commissari di Storia medioevale avrebbero truccato i propri curriculum attribuendosi monografie mai scritte pur di far parte della “giuria”. A Storia economica, invece, sono stati esclusi specialisti apprezzati in tutto il mondo, ma privi evidentemente dei giusti agganci: un gruppo di dodici studiosi stranieri, tra cui un Nobel, hanno così spedito al ministro Stefania Giannini una lettera indignata in cui si dicono «inquietati» dall’esito delle selezioni. I casi sono decine: da archeologia a biochimica, da architettura a chirurgia, passando per storia economica e latino, quasi in ogni settore sono stati denunciati giudizi incoerenti e comportamenti al limite dell’etica. Che spesso nascondono, sussurrano i ricercatori frustrati, la volontà dei baroni di cooptare, al di là delle reali capacità dei singoli, i predestinati e gli “insider”, cioè i candidati già strutturati nelle facoltà. Andiamo con ordine, partendo dal concorso di Diritto privato. L’abilitazione è finita sulle pagine di cronaca perché il commissario straniero (il membro Ocse è una delle novità più rilevanti della riforma) parlava solo spagnolo. Come abbia fatto Josè Miguel Embid a leggere e valutare i complessi tomi di diritto prodotti dai candidati è un mistero. “La conoscenza della lingua italiana”, ha spiegato in una nota il ministero dell’Istruzione, “non è prevista dalla legge”. I giudici del Consiglio di Stato si sono però fatti beffe delle giustificazione, hanno accolto un ricorso sul merito e sospeso tutto. Le stranezze non si contano. Se il commissario Maria Rosaria Rossi, ordinaria a Perugia, prima di essere sorteggiata componente della commissione aveva annunciato di voler sabotare la riforma Gelmini («a chi lavora nell’università spetta ora il compito di operare interstizialmente tra le pieghe della legge e oltre la legge stessa e sperimentare pratiche quotidiane di sabotaggio dell’ideologia che la sostiene», ha ragionato carbonara sul “Manifesto”), il ricercatore napoletano Andrea Lepore è stato promosso anche se il giudizio scritto, inizialmente, sembrava ipotizzare ben altro epilogo: «La qualità della produzione è limitata sotto il profilo dell’originalità e dell’innovatività, nonché per il rigore metodologico... Si rinvengono, tra l’altro, ampie frasi riprodotte alla lettera da lavori di altri autori precedentemente pubblicati». Andrea Lepore, in pratica, è accusato di essere un copione. Da promuovere, però, «all’unanimità». Francesco Gazzoni, professore della Sapienza e maestro indiscusso della materia (è suo il manuale di Diritto privato più venduto d’Italia), all’abilitazione nazionale ha dedicato un saggio, intitolato “Cooptazioni: ieri e oggi”: «Il potere accademico è una vera e propria piovra mafiosa», si leggeva sulla rivista online “Judicium” prima che l’articolo fosse repentinamente rimosso. «Cooptare, in sé, non è un male, lo diventa quando la scelta avviene, come sempre avviene, in base a criteri che prescindono dal merito... I professori di università sono novelli Caligola, con in più il fatto di promuovere, all’occorrenza, anche asini patentati in difetto di cavalli». Il luminare fa nomi e cognomi, e se la prende con l’intera commissione di Diritto privato «inidonea a giudicare, essendo priva di autoritas sul piano scientifico». I più bravi, in sintesi, sarebbero stati bocciati perché «non avevano un’adeguata protezione accademica e perché non tutti i commissari erano in grado di leggere e capire i loro titoli». Forse il professore esagera, ma di certo qualche candidato di Diritto privato è stato più fortunato di altri. Come l’avvocato Claudia Irti, che ha scoperto che il presidente della commissione, Salvatore Patti, era stato suo tutor alla tesi di dottorato. Un conflitto di interesse non da poco per il docente, tanto più che è la Irti in persona a rispondere al telefono della sede milanese dello studio Patti: «Sì, sono stata promossa, ma ci tengo a dirle che io non lavoro per il professore. Perché rispondo al telefono del suo studio? È una situazione particolare, a Milano presidio la sede, ma faccio solo da rappresentanza. Il professore si sarebbe dovuto astenere dal giudicarmi? Significa che tutte le persone che collaborano con i membri della commissione non avrebbero dovuto presentare domanda al concorso. Le assicuro che sono tante». È il sistema, dunque, a permettere che possa accadere di tutto: se Patti, oltre alla Irti, ha potuto valutare i titoli di tre magistrati di Cassazione che potenzialmente possono essere giudici delle sue cause (tutti abilitati), il collega Francesco Prosperi dell’Università di Macerata ha promosso a ordinario il giovane Tommaso Febbrajo, un tempo suo allievo, e figlio dell’ex rettore dell’ateneo dove lo stesso Prosperi insegna. Non è un caso che il concorso di diritto privato conti già un centinaio di ricorsi al Tar. Un professore associato dell’università di Tor Vergata, Giovanni Bruno, ha già avuto soddisfazione dal Consiglio di Stato. I magistrati hanno accolto alcune censure decisive, tanto che qualcuno ipotizza che l’intero svolgimento dell’abilitazione nazionale sia a rischio: il regolamento ministeriale pubblicato nel 2011 sarebbe illegittimo, perché avrebbe dato alle commissioni un eccesso di discrezionalità nella valutazione dei candidati. Bruno ha pure mandato un esposto alla procura di Roma, accusando Prosperi di non aver partecipato a una delle riunioni in cui si definivano i giudizi: a leggere un programma accademico dell’Università di Macerata, risulta che il 29 novembre 2013 il sociologo abbia partecipato (almeno fino alle 13) a un convegno nelle Marche. Anche un altro candidato trombato, l’avvocato Giuseppe Palazzolo, ha mandato una denuncia ai pm (stavolta a Napoli) in cui chiede il sequestro della piattaforma elettronica usata dai membri della commissione. Già, alcuni candidati avrebbero voluto controllare se i loro giudici hanno davvero letto i loro titoli (mandati in formato elettronico) o abbiano promosso e bocciato alla cieca, senza nemmeno effettuare il download. Il ministero ha rigettato, però, tutte le richieste d’accesso ai tabulati. Nel 1898, in una cronaca del “Corriere della Sera”, si raccontava che il ministro della Pubblica istruzione del governo Pelloux, Guido Baccelli, “impaurito e seccato dagli scandali occorsi nelle commissioni chiamate a giudicare pe’ i concorrenti alle cattedre vacanti d’università, abbia in animo di abbandonare il sistema adottato quest’anno per l’elezione delle commissioni”. Cos’era successo? “Qualche concorrente” spiegava il cronista “non aveva trovato miglior mezzo per riuscire, di domandare la mano di sposa alla figliola di un commissario: il matrimonio si combinava per il dopo concorso; il fidanzato, manco a dirlo, riusciva primo, e festeggiava in un giorno medesimo la cattedra e la moglie”. Dopo centosedici anni e una quindicina di riforme, dopo gli scandali dell’ultimo ventennio (citiamo quelli che travolsero il concorso nazionale del 1993, le inchieste che hanno svelato le appartenenze militari alle cosiddette “scuole” e le tristi vicende dei concorsi locali, dove spesso e volentieri il candidato indigeno vince a mani basse), il legislatore sembra aver toppato anche stavolta. La legge 240, quella della riforma Gelmini, ha sì previsto dei parametri oggettivi che gli aspiranti avrebbero dovuto superare per passare l’esame (le cosiddette “mediane”), ma molti professori hanno deciso come sempre: di testa loro. In effetti gli studiosi della “Voce.info” hanno scoperto che per i concorrenti con un profilo scientifico più debole “la conoscenza di un membro della commissione ha migliorato significativamente le chance di successo”. A parità di curriculum, per esempio, in Politica economica “gli insider hanno avuto il 14 per cento di probabilità in più” di passare rispetto a coloro che non frequentano gli atenei, una percentuale che sale al 23 per cento in Scienza delle finanze. Polemiche a go-go anche nella macroarea di Archeologia, dove un gruppo di accademici (tra cui Salvatore Settis, Fausto Zevi ed Ermanno Arslan) hanno scritto una lettera in cui prima attaccano «lo strumento mostruoso delle mediane, ridicolo artifizio blibliometrico che rinuncia alla qualità e fa discendere i giudizi delle quantità», poi se la prendono con i colleghi della commissione, che avrebbero aiutato le scuole più forti «privilegiando alcuni candidati, non sempre di evidente alta qualità, e danneggiato altri, con scelte valutative a dir poco opinabili». «I talenti sono stati bocciati, i “peggiori” sono stati sistematicamente promossi, anche a Latino» ha attaccato l’ordinario perugino Loriano Zurli. Un meccanismo che non solo è amorale ma anche anti-economico, dal momento che il rilancio dell’università e della ricerca sono fondamentali - secondo tutti gli esperti - per la crescita della ricchezza nazionale. Se il professore di Biochimica Andrea Bellelli definisce «una farsa» il concorso del suo settore e ricorda che «uno dei cinque commissari sorteggiati pare non avesse le mediane», un gruppo di prof e ricercatori dell’associazione Roars (presieduta da Francesco Sylos Labini) ha sottolineato alcune scellerate scelte dell’Anvur che ha considerato “scientifiche” ben 12.865 riviste tra cui spiccano “Alta Padovana” del Comune di Vigonza, “Delitti di carta” specializzata nella giallistica, “L’annuario del liceo di Rovereto”, il mensile della parrocchia di San Domenico, “Cineforum” e “Stalle da latte”. Ma è capitato di peggio. A Progettazione architettonica i commissari hanno fatto letteralmente a pezzi alcuni candidati pubblicando online giudizi (leggibili da tutti) in bilico tra ironia e insulto. Il professor Giuseppe Ciorra, ordinario all’università di Camerino, bocciando una ricercatrice a Torino scrive, letteralmente, che «la candidata non è scema, ha dimestichezza con la scena internazionale e rivela curiosità in tutte le direzioni... Incoraggiabile ma non recuperabile, temo». Il collega Benedetto Todaro ha definito una collega associata di Napoli, Emma Buondonno, una «candidata sconcertante, che si impegna volenterosamente in lavori completamente privi del necessario acume critico». Ciorra (che arriva a liquidare un esaminando con un definitivo «sparisca, per favore»), sembra assai più gentile quando si tratta di valutare candidati che conosce di persona. Quando è costretto a bocciare la sua ex dottoranda Rita Giovanna Elmo spiega che lo fa «con dolore umano», mentre non si fa specie nel promuovere (il suo sarà l’unico “sì”) Anna Rita Emili, ricercatore in forza alla sua stessa università poi bocciata da tutti gli altri colleghi. La Emili si può consolare, è in ottima compagnia: la commissione ha fatto fuori i migliori progettisti italiani. Anche stavolta qualcuno si è lagnato con la Giannini: l’Associazione italiana di Architettura e critica «manifesta un totale dissenso contro qualsiasi atteggiamento sessista e maschilista della commissione d’esame volto a schernire le ricercatrici. Suggeriamo ai membri della commissione di mostrare anche più rispetto, in futuro, per la grammatica italiana». Il barone che sbaglia le congiunzioni, in effetti, è davvero troppo.

Ma quant'è bella la vita dei docenti universitari. In un pamphlet in libreria in questi giorni, Stefano Pivato traccia un ritratto tagliente e autocritico della tribù degli ordinari, associati e ricercatori, immutabile e soprattutto insondabile, scrive Maurizio Di Fazio su  “L’Espresso”. È alto il tasso di mortalità studentesca negli atenei italiani. La colpa viene di norma attribuita agli studenti stessi; e delle responsabilità didattiche dei docenti universitari nessuno dice niente. “Al limite della docenza” di Stefano Pivato, “piccola antropologia del professore universitario” (Donzelli Editore), ricalibra questo assunto. Ed è un ritratto-pamphlet divertente, tagliente e autocritico della tribù degli “ordinari, associati e ricercatori”, immutabile e soprattutto insondabile. L’autore, certi aspetti, atteggiamenti, tic identitari e collettivi, li conosce bene, dall’interno: insegna lui stesso, da quarant’anni, Storia contemporanea all’università. Ha ricoperto anche il ruolo di rettore. Entrò in ruolo subito dopo la “liberazione del ’68”. Misteriosa creatura stanziale, a differenza di quanto accade in America o nel resto d’Europa: addio clerici vagantes, “il docente, nella generalità dei casi, si laurea, cresce e progredisce in carriera nella stessa università”. Ma i nostri radar letterari non l’hanno mai intercettato: De Amicis narrava di un maestro elementare e Don Milani di insegnanti delle scuole medie. Idem al cinema: tranne “Morte di un matematico napoletano” di Mario Martone, non viene in mente altro. La stessa cronaca si ricorda dell’“homo academicus” nostrano solo quando c’è da rovistare dentro casi di parentopoli, concorsi truccati e “sex for 30” sul libretto. Eppure la prima Università occidentale è tricolore, quella di Bologna risale, infatti, al 1088; e subito dopo la Chiesa, l’Accademia è la più antica tra le istituzioni, “nel tempo ha perfezionato i propri meccanismi, chiusi e non contaminati col mondo esterno, fino a renderli perfetti. Anche nelle loro storture” scrive Pivato. Fuori dal tempo, statico ma adattivo, il barone o baronetto nazionale è il più anziano del Vecchio continente: anche adesso che la sua età pensionabile è stata anticipata a 70 anni, tra i lamenti dei 75enni e le invidie dei non ancora quarantenni che restano una frangia simbolica, il 12 per cento del totale. In “Al limite della docenza”, Stefano Pivato apre passando in rassegna i fondamentali “tipi da cattedra”. Come il prof. “Come sto io?”. “Solitamente, quando due persone si incontrano, si chiedono vicendevolmente Come stai? Una certa tipologia di docente, se ti incontra, senza chiederti nulla, ti dice “Come sto io?”. Segue elencazione dei saggi che ha scritto, dei convegni a cui ha partecipato, delle lodi che ha ricevuto. “L’Accademia è fatta così. Ancor prima che di riconoscimenti scientifici, si nutre di solleticamenti a uno smisurato ego”. L’egolatria, e la vanità, sarebbero le due pietre angolari della mentalità del docente. Insieme a un’eterna conflittualità tra simili: “Litigo, dunque sono”. “Litigare è una forma assoluta per certificare la propria presenza; e magari, giustificare la propria assenza”. Così i professori più attaccabrighe sono spesso i più assenteisti. E in pochi ambienti come quello accademico l’insinuazione maliziosa, la diceria, la diffamazione giocano un ruolo tanto importante. Proliferano, come cellule impazzite che si penserebbero radicate in ben altri strati della società, le lettere anonime; vedersi dare dello iettatore può pregiudicare una carriera già avviata. I docenti universitari si sentono tutti autori di bestseller, anche se “hanno pubblicato presso un anonimo stampatore” e si ingegnano in mille modi per costringere i propri studenti a comprarne qualche copia. Uno dei loro mantra più comuni, al ritorno da una lezione, è questo: “Era piena zeppa di studenti” . In verità, a volte, non c’era quasi nessuno. Il “tribalismo universitario” si è formato e consolidato nel corso dei secoli. Ecco allora il “Chiarissimo” (professore ordinario), il “Magnifico” (rettore), l’“Amplissimo” (preside di facoltà). Anche l’apparato iconografico non scherza, e non muta. La liturgia del potere non conosce strappi. Potere talvolta lungo una vita: ci sono stati rettori che hanno governato per decenni. Non appena possibile, gli Insegnanti Massimi sfoggiano toghe, ermellini e altri paramenti. E se c’è un qualcosa che li manda in visibilio, è la parola (sempre più in disuso) “concorso”. “Perché il concorso gratifica il vincitore ma, in misura non minore, anche chi lo fa vincere”. Il docente-tipo necessita di uno spazio sempre più agevole: anche se ha pochi studenti, vuole un’aula più grande e uno studio personale sconfinato. È singolare la sua concezione del tempo. Il semestre universitario dura circa tre mesi e mezzo, e l’ora quarantacinque minuti. E “talvolta, secondo un’antica consuetudine, se ha impegni di varia natura e deve chiudere in fretta”, reintroduce d’imperio la lectio brevis. Sui generis anche la sua settimana lavorativa, che copre la prima o la seconda parte, in corrispondenza delle ore di lezione:  “per chi svolge la lezione durante la prima parte, la settimana inizia il lunedì pomeriggio e termina il mercoledì mattina; per quanti svolgono lezione nella seconda parte, la settimana inizia il mercoledì pomeriggio e termina il venerdì mattina”. Bella la vita del professore universitario nella penisola, impiegato pubblico a se stante, “non esistono cartellini da timbrare e gli impegni di lavoro sono interpretati in maniera alquanto lasca”. Il suo obbligo è di 350 ore annue, cifra che comprende le lezioni, le attività collegiali e le commissioni d’esame e di laurea. Il carico di lezioni può oscillare invece tra le 60 e le 120 ore, soglia molto più bassa di quella di un qualsiasi suo omologo europeo: 192 ore in Francia, 240 in Gran Bretagna, da 248 a 279 in Germania, da 252 a 360 in Spagna. E le stravaganze non cessano qui: “alcuni docenti mettono in calendario la prima lezione settimanale alle 18 e la seconda alle 8 del mattino successivo, esaurendo così, in breve tempo, la loro permanenza settimanale in Facoltà”. Tanto i codici etici introdotti dalle singole università sono, più che altro, petizioni di principi: le sanzioni restano sulla carta, e i docenti peggiori e improduttivi al loro posto. Anche se questo significa un cospicuo danno d’immagine e un minore trasferimento di risorse all’ateneo interessato. Stefano Pivato racconta poi che ai professori universitari come lui non viene richiesto di essere abili nell’insegnamento. Come se conoscere equivalesse automaticamente a saper insegnare. L’esame di abilitazione nazionale se ne disinteressa; i metodi sono cristallizzati ad almeno un secolo fa. In tempi in cui tutto scorre vorticosamente, sarebbero consigliabili nuove strade, ma invece si ricorre ancora alla lezione ex cathedra, “che è rimasta la stessa, di fronte a un pubblico di studenti aumentato a dismisura dal punto di vista quantitativo e qualitativo”. Mille anni dopo la fondazione dell’Università bolognese, a quindici anni di distanza dalla “riforma-spezzatino Berlinguer”, e a un tiro di binocolo dalla babelica “riforma Gelmini”, per l’opinione pubblica esterna “il docente è misurato dalla validità dei suoi studi, dall’attenzione che ricevono i suoi libri e dal prestigio delle case editrici che li fanno uscire”. Per la tribù universitaria, invece un docente vale esclusivamente per la funzione che occupa all’interno dell’Accademia. Anche se ha pubblicato un solo libro in decenni di “ricerca e insegnamento”. Anche se è di destra. O di sinistra. “Per la sua strenua difesa del territorio, dell’identità e dello jus loci è assimilabile al tipo antropologico leghista”. O lepenista. Uscire dal guado e aprirsi al mondo, anche fisicamente. Più doveri e meno diritti acquisiti. Perché “prima di qualsiasi riforma, bisogna riformare se stessi”. E perché spetta a loro il compito di formare le classi dirigenti del futuro. È questa la proposta, docente, di Stefano Pivato. 

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.  

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

Magistratura, avvocatura, notariato. La truffa dei concorsi. Considerazioni a margine dell’esame da avvocato 2010, scritte da Paolo Franceschetti. Avvocato. Direttore scientifico della rivista "Schede di giurisprudenza". Codirettore della rivista "La pratica forense" edita da Maggioli; Coordinatore della collana "L'esame da avvocato" edita da Maggioli. Curatore del corso di preparazione all'esame da avvocato, Viterbo. Docente nei corsi Altalex per l'esame da avvocato. In passato docente a contratto presso l'università di Teramo e presso la scuola di applicazione forensi di perugia. Autore dei testi: Corso di diritto amministrativo (La tribuna, 2002); Corso di diritto penale (ed. Altalex, 2007); Le obbligazioni (Maggioli, 2007); Il contratto (MAGGIOLI, 2007); Responsabilità civile (Maggioli, 2008); I singoli contratti (Simone, 1998). Autore di articoli, note a sentenza, saggi. Cura un blog che si occupa prevalentemente di mafia e massoneria (paolofranceschetti.blogspot.com) e un altro dedicato allo studio del diritto www.lostudiodeldiritto.blogspot.com)

1. Il problema dei concorsi nel mondo del diritto. 2. Considerazioni. 3. Le ragioni dell’attuale sistema di illegalità.

1. Il problema dei concorsi nel mondo del diritto. Esce oggi il risultato della Corte di appello di Roma relativo all’esame da avvocato. I risultati sono sempre i soliti: meno del 20 per cento di promossi. Normalmente, tra le persone, sono passati i più mediocri, mentre i migliori non riescono a passare (questo osservando il risultato tra circa una settantina di miei allievi, ove riscontro questo curioso trend nel rapporto preparazione/superamento esame). Qualche tempo fa l’ineffabile Fatto Quotidiano (il giornale che non perde occasione per incensare il peggio del peggio del sistema che abbiamo – lodi all’Unione Europea, lodi ai magistrati più delinquenti, e ultimamente anche lodi alla massoneria con inviti ad iscriversi rivolti alla magistratura nel suo complesso – ; il giornale che riduce tutti i problemi italiani a due soli: la mafia e Berlusconi) ha pubblicato un articolo lodando la politica del Ministero della Giustizia in fatto di concorsi. Infatti di recente sono stati annullati due concorsi per l’accesso alla magistratura del Consiglio di Stato e del Tribunale amministrativo regionale (cosiddetto TAR) per irregolarità; è stato annullato un concorso notarile per palesi irregolarità. E’ il segno, secondo il quotidiano, che si tenta di fare pulizia in questo campo. In realtà è il segno che si sta facendo pulizia, sì, ma in senso completamente diverso. Spieghiamoci meglio. Fino a qualche tempo fa il concorso in magistratura e quello notarile erano considerati “puliti”. Circolava voce tra i candidati che queste prove fossero infatti tra le più pulite nel mondo dell’amministrazione pubblica. All’esame da avvocato, al contrario, le porcherie dell’amministrazione sono state effettuate sempre a cielo aperto. Il famoso caso di Catanzaro del 2001 fu la prova provata, lampante, eclatante, delle irregolarità di massa effettuate all’esame: la magistratura infatti – a seguito di una denuncia di tre candidati, che segnalarono il fatto che la commissione aveva dettato le soluzioni delle tre prove a tutti – aprì un’inchiesta che coinvolse tutte le migliaia di candidati presenti all’esame, oltre ai membri della commissione, ma il risultato fu che venne tutto messo nel dimenticatoio e archiviato. Le irregolarità sono continuate; e il sud continua a sfornare percentuali altissime di vincitori, a fronte della bassa percentuale dei candidati del nord, ove regolarmente vengono trombati i migliori e fatti passare i peggiori. Al concorso in magistratura, invece, le cose erano sempre andate diversamente. In realtà in questi anni anche il mito della pulizia di questo concorso è stato sfatato in modo palese. E’ dal 2003 infatti che le irregolarità al concorso in magistratura sono sempre più eclatanti. In quell’anno scoppiò il famoso caso Clotilde Renna, ovverosia il caso di un magistrato di Cassazione sorpreso a truccare un elaborato; successivamente la commissione avallò il comportamento del magistrato sostanzialmente ammettendo le irregolarità, ma non venne preso alcun provvedimento. Negli anni successivi c’è stato poi lo sfascio totale del concorso, con i candidati che portavano in aula testi non ammessi, le persone sorprese a copiare che non venivano espulse, ecc...Anche il concorso notarile sta seguendo, a quanto pare, il trend degli altri concorsi, mostrando apertamente le irregolarità commesse. Il motivo per cui è stato sospeso il concorso di recente, infatti, non è un motivo banale e secondario, ma un motivo gravissimo, che dimostra platealmente una precisa volontà di non seguire le procedure da parte della maggioranza dei commissari (precisamente furono assegnate – contrariamente a quanto dice la legge – delle tracce che erano già state assegnate pubblicamente in una scuola notarile romana).

2. Considerazioni. Che anche i concorsi per magistratura e notariato fossero truccati, in realtà, è sempre stato noto a chi lavora nell’ambiente. Ricordo perfettamente, ad esempio, che anni fa un magistrato della Corte Costituzionale, scambiandomi per un massone a causa dell’incarico importante che rivestivo (incarico da cui mi buttarono fuori dopo pochi giorni), mi propose di fare il concorso al TAR anche se non ne avevo i titoli, che tanto “ci avrebbero pensato loro”. Così come ricordo che un mio conoscente con cui facevo ogni settimana il viaggio Napoli-Roma, figlio di una importantissima famiglia romana, vinse il concorso notarile pur avendo sbagliato la soluzione e pur non riuscendo a cogliere la differenza tra usufruttuario di un bene e amministratore di un bene (secondo lui erano la stessa cosa perché l’usufruttuario ha anche l’amministrazione del bene), e superò anche l’esame da avvocato pur non avendo con sé i codici durante le tre prove, tranne quello di procedura penale (perché secondo lui il diritto civile e penale li conosceva, quindi il codice non gli serviva, e il codice di procedura penale invece lo aveva portato a tutte e tre le prove perché – cito testualmente – “può sempre servire”). La differenza dei concorsi in magistratura e notarile rispetto all’esame da avvocato era che le irregolarità erano molto più raffinate e nascoste rispetto a quelle dell’esame da avvocato (che sono sempre state commesse a cielo aperto) ed erano evincibili dai dati e si riusciva a captarle solo se si aveva una conoscenza approfondita del sistema. La gran differenza rispetto agli anni scorsi è unicamente che, da dieci anni a questa parte, il sistema ha deciso di rendere note a tutti le irregolarità. Oggi tutti le hanno potute constatare e raccontare. Resta da chiedersi il perché. Il sistema ha sempre nascosto le notizie che non voleva fossero conosciute, dando all’esterno l’immagine che sceglieva di avere. E’ ovvio allora che le irregolarità di questi ultimi concorsi, e l’accentuazione di quelle effettuate all’esame da avvocato, sono volute. Sono infatti troppo evidenti, e troppo stupide, per poter essere casuali. Far entrare dei candidati che portavano con sé testi non ammessi, sì che tutti attorno potessero constatare il fatto, e per giunta espellere in alcuni casi le persone che protestavano proteggendo colui che stava commettendo il reato, nonché ammettere pubblicamente le irregolarità, come fece in TV la commissione del concorso in magistratura nel 2003, assegnare a 5000 candidati delle tracce palesemente illegittime, significa perseguire una precisa volontà di esternare a tutti i candidati la situazione. Significa dire a tutte le migliaia di candidati: vedete? Noi commettiamo irregolarità! Questi concorsi sono truccati. Sappiatelo. E significa esternare tutto ciò in modo sfacciato, sicuri dell’impunità. Allora, lungi dal vedere in ciò un segno positivo del sistema, occorre vedere un segno di altro tipo. Occorre cioè domandarsi: perché il sistema ha deciso di uscire allo scoperto, rendendo palesi certe irregolarità? Il motivo a mio parere è sociale e psicologico.

3. Le ragioni dell’attuale sistema di illegalità. Il motivo è da ricercare nel trend dell’attuale situazione politica. Tutti abbiamo notato che in questi anni c’è un decadimento della politica. Si sono abbassati i contenuti della lotta, e i personaggi che dominano la scena sono privi di spessore e cultura. La politica insomma è diventata un caos. L’istruzione, dalle scuole elementari all’università, peggiora la qualità dei servizi sfornando gente sempre più ignorante. Nell’ambito della giustizia si è fatta la stessa cosa. Perché il sistema attuale possa funzionare, dobbiamo avere leggi pessime e farraginose, magistrati ignoranti e demotivati, e avvocati dello stesso livello. Non a caso lo sfascio a cielo aperto del sistema giustizia comincia dal 2001, anno in cui viene nominato come Ministro della Giustizia un ingegnere. La nomina di un ingegnere come Ministro della Giustizia non è casuale. Apparentemente può sembrare un’anomalia come tante nel nostro panorama politico. Un’anomalia grave, ma in fondo simile a quella di tanti altri ministeri, ove si avvicendano alla sanità persone che di medicina non capiscono nulla, all’istruzione persone incolte, ecc. Ma in realtà la scelta non è affatto casuale. Ogni ministro, e ogni ruolo che ricopre, infatti, serve anche a dare un segnale politico e a trasmettere messaggi simbolici che possono essere colti solo da chi è “iniziato” a tale linguaggio. Era quello il segnale politico che doveva essere distrutto il sistema in modo sistematico. Nel 2001 abbiamo lo scandalo di Catanzaro. Nel 2003 lo scandalo Renna. In una discesa allo sfascio che ormai non conosce più ostacoli. Le ragioni? Demotivare i migliori. Far andare avanti prevalentemente i raccomandati, gli stupidi, quelli che il sistema non lo capiscono veramente. Gli altri, quelli che capiscono, scelgono di lavorare altrove. Abbandonano. Si demotivano. Perché non possono continuare a lavorare in un sistema dove vengono premiati i peggiori e in cui le irregolarità sono all’ordine del giorno, sotto gli occhi di tutti, e vengono commesse sia nelle piccole cose che nelle grandi. Il 2001, insomma, è l’anno cruciale per il sistema giudiziario. La nomina di Castelli all’esecutivo è l’ordine – dato in termini simbolici – di dare il via alla danza dell’irregolarità conclamata. Le ragioni delle scelte ministeriali in tema di esame da avvocato e concorsi, insomma, è la stessa che sta alla base di tutte le altre scelte politiche. Sfasciare. Demotivare. Ordo ab chao, il motto massonico.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

CONCORSI TRUCCATI. PATOLOGICO? NO, FISIOLOGICO!

Giunge al suo epilogo la vicenda dei  concorsi truccati al Comune di Catania. Il Tribunale ha condannato alla pena di anni due (la Pubblica Accusa aveva chiesto 1 anno e mezzo) l’ing. Troia ed i componenti della Commissione di concorso Cavallaro e Gubernale. Assolto Reale che al tempo era dirigente dell’area del personale. Riconosciuto il risarcimento per le parti civili costituite, scrive Dario De Luca su “Sud Press”.

Il giudice monocratico, Giuseppe Cavallaro, ha sciolto ogni riserva condannando tre imputati - Salvatore Troia ( Presidente della commissione esaminatrice), Antonio Cavallaro (membro della commissione esaminatrice), Francesco Gubernale (membro della commissione esaminatrice). Assoluzione, invece, per Carmelo Reale, ex direttore del personale al Comune di Catania, in quanto non componente della commissione del concorso e Salvatore Nicosia che per errore materiale era stato detto essere condannato. Accettate, inoltre, le richieste di risarcimento per i quattro dipendenti del Comune di Catania e partecipanti al concorso (Di Mauro, Catania, Portale e Pagano), che si erano costituiti parti civili. A sostenere l'accusa il Pubblico Ministero Marisa Scavo, che durante la sua requisitoria ha usato parole durissime sia nei confronti dell'Ingegnere Troia “E' stato il deus ex machina” che della vicenda in generale. “Si è agito nell'arbitrio più assoluto, con correzioni fatte in maniera vergognosa, potremmo definirlo un concorso scolastico dove si apprende come commettere un reato”. La storia del concorso: Era il dicembre del 2004 quando al Comune di Catania iniziava il concorso interno per 89 posti di istruttore direttivo cat. D1. Selezione questa che ebbe poca fortuna. SUD mostrò in anteprima le presunte irregolarità del concorso stesso: voti modificati in un secondo momento, alterazioni nei compiti, giudizi affiancati da diciture di dubbia natura ( 9 e zitto). Poco dopo si ebbe l’iniziale approdo nelle aule giudiziarie del Tribunale Amministrativo Regionale, era il 2005 quando diversi dipendenti dell’amministrazione Comunale chiedevano la sospensione dell’efficacia degli esiti del concorso, poiché ritenevano evidenti le troppe incongruenze. Nonostante il Tribunale Amministrativo Regionale abbia però rigettato il ricorso, la presa visione di quei documenti, portò il presidente/relatore della 4^ sezione Biagio Campanella (la prima che visionò la documentazione, poichè la sentenza venne rigettata in realtà dalla 2^ sezione) a trasmettere gli atti, presumendo quindi dei possibili illeciti penali, alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Catania. Da qui l'avvio delle indagini e il successivo procedimento penale.

E così Triggiano avrà a brevissimo il nuovo Comandante dei Vigili Urbani, scrive Roberto Fiore su “Triggiano Democratica”. Non c’è ancora l’ufficialità mancando il decreto del dirigente con gli esiti definitivi. Non che la concorrenza fosse molta: dimenticate interi padiglioni occupati dai candidati, alla prova finale orale del nostro concorso si sono presentate solo tre persone, le uniche risultate idonee. Il bando infatti prevedeva criteri molto restrittivi, talmente restrittivi che molti hanno temuto fosse tagliato  e confezionato su misura per qualcuno. Della vicenda e di una denuncia anonima pervenuta alla Procura della Repubblica ve ne parlammo sin da un anno fa. Per carità saranno tutte cattiverie e maldicenze, tutto si sarà svolto in piena regola… ma verremmo meno a un dovere di cronaca se non vi segnalassimo la vox populi e il fatto che il presunto vincitore è un triggianese parente del Sindaco. C’è chi, come il direttore di Antenna Sud Onofrio D’Alesio, non le manda certo a dire e in un dettagliato editoriale andato in onda la mattina del concorso elenca con precisione quelle che ritiene anomale singolarità. Il giornalista parla di un concorso a proposito del quale «la cittadinanza intera stranamente conosce già il nome del vincitore» e di una amministrazione dove «prevale la logica sicula del non vedo non sento e non parlo»; sottolinea il «talento diabolico» nelle modalità e nelle forme del bando e conclude evidenziando che a questo Concorso non avrebbe potuto partecipare «neppure il Comandante dei Vigili di Bari che ha sotto di se centinaia di uomini» a causa dei titoli richiesti «modificati frettolosamente della commissione che regolamenta la disciplina di accesso agli impieghi fanno accapponare la pelle». Noi sul piano giuridico ovviamente non abbiamo competenze e non ci addentriamo nel fare considerazioni e approfondimenti che nel caso spetterebbero solo agli organi preposti. Certamente abbiamo la competenze e sicuramente la voglia di dire la nostra sul piano puramente  politico. Ad esempio invocando la famosa moglie di Cesare. Tacito nei suoi Annali, elogiò Cesare,  il quale ripudiò la moglie sulla base di prove poco consistenti. La moglie di Cesare – affermò - non solo non deve essere colpevole, ma non deve essere neanche oggetto di sospetti  e di considerazioni provenienti dalle sue condotte. Alla stregua della moglie di Cesare, anche chi occupa importanti ruoli pubblici non deve essere oggetto di pettegolezzi e dicerie di nessun tipo. Vecchie storie senza molto senso ormai, che faranno sorridere i miei ventiquattro lettori (uno in meno di quelli del Manzoni). Specie in un Paese come il nostro dove ormai – Berlusconi insegna – nemmeno le sentenze definitive in Cassazione sono un buon motivo per dimostrarsi inidonei alla gestione della cosa pubblica.

Medicina, Concorso truccato a Padova. Indagati prof e studentessa, scrive Nicola Munaro su “Il Corriere veneto” La bolla era esplosa nel 2011 a Firenze, quando la Procura del capoluogo toscano aveva messo agli arresti domiciliari il professor Mario Dini, primario del reparto di chirurgia plastica e ricostruttiva dell’ospedale Careggi di Firenze e direttore della Scuola di Specializzazione di Chirurgia Plastica Ricostruttiva Estetica dell’Università di Firenze. Tra i mille rivoli di un’inchiesta aperta per peculato, corruzione, concussione, falsità ideologica in atti pubblici e abuso d’ufficio, c’era anche una costola su presunti concorsi truccati per entrare nelle scuole di specializzazione di Medicina dell’Università di Firenze. La bolla però non si era sgonfiata, anzi. Intercettazione (ambientale e telefonica) dopo intercettazione, la Guardia di Finanza di Firenze era arrivata a mettere le mani anche su possibili concorsi «truccati» in altre città, tra cui proprio Padova. È così che uno stralcio della Procura fiorentina è arrivato a Padova, sul tavolo del sostituto procuratore Sergio Dini che ha deciso di approfondire la cosa e di aprire a sua volta un fascicolo che piano piano si è riempito fino a vedere iscritti con l’accusa di concorso in abuso d’ufficio un medico e docente universitario 53enne che era nella commissione del concorso per l’ammissione alla scuola di specializzazione di Chirurgia Maxillo- Facciale dell’Azienda ospedaliera di Padova, e una studentessa triestina di 30 anni. A finire nel mirino della magistratura della città del Santo è il concorso per l’ammissione alla scuola di specializzazione Maxillo-Facciale per l’anno accademico 2011/2012: dodici i posti messi a bando e finanziati dall’Università di Padova. Concorso che la studentessa triestina, ora iscritta in un altro ateneo in Friuli Venezia-Giulia, aveva vinto, ma col trucco (è la tesi dell’accusa). Le indagini del sostituto procuratore Dini infatti avevano dimostrato che la candidata conosceva le domande del test d’ammissione ben prima di sedersi al tavolino, assieme agli altri medici candidati. A passargli le domande sarebbe stato proprio il 53enne camice bianco, chirurgo maxillo-facciale, nonché ovviamente membro della commissione esaminatrice. Ad attirare l’attenzione della magistratura in realtà non è solo questo «favore», bensì una particolare clausola (prevista a norma di legge, a scanso di equivoci) secondo cui l’università poteva benissimo allargare il numero dei posti disponibili, ma solo nel caso che questi ultimi fossero stati finanziati da un ente privato o da un imprenditore. Non soldi pubblici quindi, ma puro mecenatismo di un facoltoso uomo d’affari o di un ente interessato alla ricerca. E anche per il concorso d’ammissione alla scuola di specializzazione Maxillo-Facciale dell’Università padovana le cose erano andate così: a permettere al Bo di aggiungere un posto ai dodici messi a bando e di conseguenza portare a tredici il numero degli iscritti, era stato il finanziamento erogato da un imprenditore friulano, leader nel campo della produzione di materiale biomedicale: tutto, come detto, secondo le regole. A concorso fatto e graduatoria pubblicata la studentessa triestina si era classificata tredicesima, ammessa quindi grazie al mecenatismo dell’imprenditore friulano che aveva permesso all’Università di allargare il numero degli aventi diritto ad accedere al primo anno dello scuola. Qualcosa però non torna agli inquirenti. Come mai questo è un risvolto che riguarda le indagini? Perché, guarda caso, l’industriale è il padre della studentessa. Lui (che non risulta indagato) costruisce materiale biomedico. Lei, indagata per abuso d’ufficio, vince il posto reso disponibile dal finanziamento del padre. E lo fa con le domande passate da un membro della commissione: un medico. A dare la loro versione ci penseranno gli stessi indagati la prossima settimana, quando - accompagnati dai propri avvocati - dovranno comparire di fronte al sostituto procuratore Sergio Dini che nei giorni scorsi ha notificato ai due l’invito a presentarsi per essere interrogati e fare luce sulla vicenda.

Cardiologia, concorso scandalo a Roma. "Ecco i vincitori", già noti un mese prima. Uno dei selezionati all'università La Sapienza accompagnava in auto il professore. L'e-mail inviata a Repubblica il 13 giugno: conteneva già i sei nominati di chi poi avrebbe ottenuto il posto e chi invece sarebbe stato escluso "nonostante i curriculum con voti alti". Il 1° agosto le graduatorie, già previste, scrive Corrado Zunico su “La Repubblica”. L'ultimo concorso universitario predeterminato, con una scelta preventiva dei candidati che possono proseguire nella carriera di studio e accedere al mondo del lavoro, si è consumato in piena estate alla Cardiologia della Sapienza di Roma, abituata a questo genere di contestazioni. È l'ateneo del rettore Frati, della famiglia Frati. E la prova pubblica è quella per l'accesso alla scuola di specializzazione della Cardiologia del Policlinico Umberto I, l'ospedale collegato all'università più grande d'Europa. Alle 11,44 dello scorso 13 giugno 2013 a Repubblica è arrivata una mail in cui si segnalavano sei nomi dei vincitori del "concorso che consentirà l'ingresso di sei nuovi cardiologi all'ottavo padiglione del Policlinico". Concorso pilotato, assicurava la mail: "Un mese prima sappiamo già chi entrerà". Entreranno, sosteneva la segnalazione, quattro donne e due uomini tra i 26 e i 33 anni, indicati nel testo con cognome e nome. Abbiamo messo da parte quella posta elettronica, firmata da "un medico deluso", l'abbiamo fatta registrare e abbiamo atteso. Il concorso "Malattie dell'apparato cardiovascolare" (codice 14.252, 15 posti disponibili) si articolava in due date e due prove, a partire dal 7 luglio. Ai sei vincitori romani segnalati si sarebbero aggiunti, sosteneva la fonte, sei candidati scelti per la seconda cattedra della Sapienza (Cardiologia 2) e tre per la cattedra di Latina, sede distaccata. Di questi successivi nove vincitori, nella mail, non si faceva nome: l'attenzione di chi segnalava era concentrata su Cardiologia 1, diretta dal professor Francesco Fedele. La mail indicava anche i sei aspiranti medici (anche qui quattro donne e due uomini) che sarebbero rimasti fuori nonostante i curricula con punteggi alti: "La prova scritta sarà valutata con voti bassi, per compensare", rivelava la mail. Il primo agosto sono usciti i risultati del "14.252". I fogli che li illustravano sono stati appesi al piano terra dell'ottavo padiglione del Policlinico e a fianco dell'auletta Valdoni, dove si allarga la stanza di Giacomo Frati (il figlio del rettore diventato ordinario di Cardiochirurgia a 35 anni). Le previsioni segnalate dal "medico deluso" erano tutte centrate: vincitori ed esclusi. Gli ultimi due posti utili della graduatoria erano occupati da due candidati che grazie a un'eccellente seconda prova - l'unica su cui la commissione diretta dal professor Fedele aveva potuto esprimersi - erano riusciti a colmare il gap del loro scarso curriculum. Entrando nel dettaglio, si scopre che il sesto piazzato (posizione utile) era uno studente di 27 anni di grande abnegazione: per tre anni aveva accompagnato in auto il professor Fedele a Fiumicino, ai convegni, a far spese. L'aspirante cardiologo era diventato il suo autista e al terzo tentativo ce l'aveva fatta. Di fronte a queste evidenze abbiamo incontrato l'autore della segnalazione. Abbiamo verificato la sua conoscenza del tema e l'attendibilità. Ci ha portato documenti, spiegato nuovi dettagli e indicato pediatrie e cardiologie di altri atenei che usano gli stessi sistemi, quindi ci ha offerto il contatto di due testimoni. Abbiamo allora raggiunto la Cardiologia e chiesto spiegazioni del concorso al suo dominus, il professor Francesco Fedele. "Il medico deluso" ci ha raccontato: "Me l'hanno detto in modo esplicito: 'È inutile che vieni alla Sapienza, abbiamo già i nostri. C'è una lista d'attesa, devi aspettare il terzo concorso'. Perché non ho denunciato tutto al preside di facoltà, all'Ordine dei medici? Mi avrebbero risposto: 'Resta in fila, resta muto, è sempre stato così'".

"Concorsi truccati? E' fisiologico: A parità di cavallo scelgo quello che conosco". Il professore titolare della Prima cattedra di Cardiologia dell'Università di Roma La Sapienza, coinvolto nella vicenda: "Non sono un barone, devo condividere i voti con altri. E credo di essere onesto", scrive Corrado Zunino su “La Repubblica”. Il professor Francesco Fedele, 61 anni, dal 1997 è titolare della Prima cattedra di Cardiologia dell'Università di Roma La Sapienza. Dal 2000 è direttore della Prima scuola di Cardiologia. Ora è seduto, dietro la scrivania del suo ufficio. Ha appena pubblicato un libro sulla morte cardiaca improvvisa pubblicizzato da Francesco Totti.

Professore, i vincitori del concorso gestito dalla sua scuola di Cardiologia si conoscevano un mese prima delle prove?

«Ho ricevuto anch'io questa email... Non so che dire... Credo di essere una persona abbastanza onesta».

Professore, gli studenti che lei ha seguito nella sua scuola hanno un vantaggio su chi viene a fare le prove da fuori?

«Il vantaggio è rappresentato dal fatto che nel tempo conosci le persone. È fisiologico, monto il cavallo che conosco di più».

Che significa? Le prove dovrebbero essere anonime.

«Certo, certo, è tutto segreto».

E la metafora del cavallo?

«Voglio dire che non si può rendere tutto asettico, affidarci solo ai computer: tot il curriculum, tot una prova a quiz che passano tutti con 60 punti. Nella prova scritta la nostra valutazione ha un peso, credo sia giusto».

Quindi è possibile che abbassiate il voto di chi ha un curriculum prestigioso ma non è cresciuto alla vostra scuola.

«La commissione fa discussioni approfondite, dure. Cinque membri. Litighiamo. Senta, io qui non sono l'unico che decide, c'è anche il collega pari grado di Cardiologia due... Io non sono un barone, io non conto un cazzo... Il mio maestro, lui sì che faceva il bello e cattivo tempo, entrava solo chi decideva lui».

In molte facoltà di Medicina la prassi è questa: i primi in graduatoria stanno fermi un giro ed entrano sicuri l'anno dopo.

«Andate a vedere le facoltà di Bari, Padova, Milano, gli altri ospedali romani, il Sant'Andrea, Tor Vergata. Lì sì che ci sono i baroni, non alla Sapienza».

Professore, uno dei vincitori del concorso era il suo autista.

«Uno studente che mi accompagnava ai convegni, abitiamo vicino... Questo è un colpo basso. Gli chiedevo un passaggio, ma nel periodo dell'esame ho preso le distanze. Ognuno con la sua auto... Quel ragazzo se l'è sudata, per due anni ha fallito la prova, poi ha frequentato, è cresciuto. Ha meritato tutto, mi creda».

Bologna, concorso direttore Musei. Vittoria ad hoc e regole opache. Nel "completo anonimato" il Comune indice un concorso per il direttore dell'Istituzione Bologna Musei. Partecipano al bando luminari del settore con curricula arrivati da tutta Italia. “Ma non contano niente”, ci ha rivelato un funzionario. Il vincitore sarebbe già deciso anche se ha un profilo e un'esperienza neanche paragonabile ai precedenti. “Ma tanto a chi importa, in Emilia è così...” ci ha confidato un altro responsabile, scrive Antonio Amorosi su “Affari Italiani”. Una giornata presso gli uffici del settore cultura del Comune e i sussurri diventano boati. “Come sempre è già tutto deciso a tavolino”, ripete a bassa voce un funzionario. Un altro osserva: “Non ci sarà nessuno scandalo neanche 'stavolta”, rammentando la nostra predizione del concorso vinto dai famosi 16 dirigenti del Comune di Bologna nel 2011. Tutti i dipendenti del settore cultura sanno chi vincerà il bando appena indetto per la carica di direttore dell'Istituzione Bologna Musei, un grande istituto che raccoglie diversi musei cittadini tra cui il noto Museo Morandi: l'ex direttore Gianfranco Maraniello, per i maligni "uomo" di Danilo Eccher (uomo di Veltroni) l'ex direttore del Museo Macro di Roma. Quello di Maraniello è un curriculum privo di gemme, unica perla la passata direzione della Gam (Museo d'arte Moderna) ricevuta per nomina politica dal Comune di Bologna. Maraniello non ha né la verve di un Philippe Daverio né le pubblicazioni di un Vittorio Sgarbi. “Ma l'esperienza e il curriculum qui non contano. L'esito è politico”, ci confida un altro dipendente. La comunicazione pubblica del bando è stata tra le più veloci della storia. E a poco sono servite le richieste di approfondimento della consigliera comunale Mirka Cocconcelli. 15 giorni on-line sulla pagina dei concorsi del Comune di Bologna (non ne dà comunicazione neanche l'Istituto Musei per il quale è indetto) e poi scompare. Mancano il numero e l'elenco degli ammessi, quello degli esclusi e le relative motivazioni per l'esclusione, ma al Comune si sa: “le regole sono un optional”. A Palazzo D'Accursio, sede del Comune, però qualcosa trema. A sorpresa arrivano ben 25 candidature che l'Ente non rende note. Ma noi ne siamo entrati in possesso. Tra queste spiccano quelle di veri e proprio luminari come Eleni Vassilika, direttore del Museo Egizio di Torino che con direzioni museali nel mondo e pubblicazioni di rango farebbe tremare i polsi a chiunque o il direttore generale della Fondazione Musei Senesi, il professor Luigi Di Corato con un curriculum di tutto rispetto, ma se vi piace anche Massimo Mangiarotti, direttore Mondo HR Permasteelisa, l'azienda che che ha costruito l'Opera House di Sidney e il Guggenheim Museum a Bilba, anche se la scelta è ampia. Maraniello è in carica interrottamente dal 2005, da 8 anni, dopo varie proroghe. A poco serve nel suo caso la circolare emessa dal segretario generale del ministero per i Beni culturali, Antonia Pasqua Recchia, che applica direttive internazionali Onu per la quale “i direttori dei musei devono essere a termine” e durare “solo per 3 anni” perché rischiano la corruzione. “Ma qui siamo oltre le Colonne d'Ercole, da noi la corruzione non esiste”, ci ripete il solito funzionario ridendo. Eppure qualche problemino, non grave come la corruzione, al Museo di arte moderna di Bologna (Mambo) diretto da Maraniello, è pure emerso. Con i suoi affollati aperitivi è’ uno dei posti più trendy della movida bolognese con il bar dato in concessione dal 2007 alla Doppio Zero srl di Torino. Risultano esserci state almeno più di 4 vertenze di lavoratori del locale, nel periodo compreso fra 2007 e il 2010. I lavoratori hanno accusato l’azienda di irregolarità nella contrattualizzazione, di mancato versamento dei contributi e delle indennità dovuti. Secondo la testimonianza di un denunciante anche presso l'Ispettorato del lavoro. I rapporti di lavoro si sono già chiusi con una conciliazione in cui l’azienda, pur non riconoscendo alcuna colpa, ha accettato di corrispondere ai lavoratori, camerieri, baristi e dj, diverse migliaia di euro. Una storia questa che di certo non è un fiore all'occhiello per uno dei Musei tra i più prestigiosi d'Europa. Il presidente del Consiglio di amministrazione dell'Istituzione Bologna Musei, Lorenzo Sassoli de Bianchi, ha dichiarato ai giornali che "spera" che possa rivincere Maraniello. Infatti fino ad ora il nome del presidente del museo di arte moderna Mambo veniva nominato dal sindaco, sentita l'indicazione del Cda di Mambo. Ma costituita l'istituzione Bologna Musei, a tutti gli effetti una struttura del Comune, l'Ente è obbligato ad erogare un bando pubblico per individuarne il direttore. Ma sembra che la vecchia regola valga ancora, visto che anche il Corriere di Bologna riporta l'endorsement di Sassoli de Bianchi, segnalando cioè come decisiva la procedura di nomina tradizionale: il direttore viene indicato dal Cda e nominato dal sindaco. Versione non smentita. “Tutta la città sostenga l'arte” ha dichiarato Sassoli de Bianchi, vista la carenza di risorse pubbliche. Si ma quale arte?

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato.

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-fokloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere:

«Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore.  

Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. 

Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. 

I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. 

Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. 

E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  

Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. 

Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. 

Ero io. 

Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. 

Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. 

Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. 

Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. 

Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. 

Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. 

Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. 

Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. 

Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, 

“io non ho commesso alcun reato, 

io non sono colpevole di alcunché, 

io sono innocente, 

io sono assolutamente innocente”. 

Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. 

E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. 

Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. 

Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. 

Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. 

Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  

Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. 

Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. 

So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. 

Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. 

È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. 

È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. 

Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. 

Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  

Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  

Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. 

Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. 

Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. 

Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  

È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  

Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  

Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  

Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. 

Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. 

Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. 

Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. 

Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. 

Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia.  

E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede. Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta. Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!! Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.  

L’ESAME PER GUIDE TURISTICHE E L’INAFFIDABILITA’ DELLE COMMISSIONI DI ESAME.

Esami per guide turistiche, i quiz "impossibili". La statua della Venere di Milo diventa un dipinto, il museo di Bilbao cambia nome in Bilboa. E Goldoni invecchia di due secoli.  Sono solo alcune delle sviste nel concorso organizzato dalla Regione Campania. E nasce un gruppo su Facebook, scrive Giuliano Calomino su “La Repubblica”. Uno dei quiz chiede dove è esposto il "dipinto" della Venere di Milo . Dove è esposto il dipinto (e non la statua) de "La Venere di Milo"? Chi non conosce il museo di Bilboa (alias Bilbao)? Non sono domande di un quiz televisivo scritto male, ma i quesiti di un esame della Regione Campania e il premio finale è l'abilitazione per guide turistiche. Tredicimila richieste per un concorsone che dopo l'attesa di quasi un anno, avrà luogo al Palapartenope, in  via Barbagallo a Fuorigrotta, il 5 e 6 novembre 2013. Ben quattromila i quiz pubblicati per prepararsi alla prova scritta, dei quali solo 50 ne saranno estratti il giorno dei test. Ma basta scorrere velocemente le domande, reperibili facilmente on line sul sito del Formez, per accorgersi che qualcosa non va. Nel quesito 1753 infatti si chiede "Chi fu sconfitto nella penisola Sorrentina, presso i Monti Lattari, nel 55?", ovviamente nessuno, perché la data manca di un semplice ma significativo 2 finale. Oppure nella 1733: "Cosa comportò per Benevento la caduta dell'Impero Romando d'Oriente?", non solo è "Romano", ma anche d'"Occidente" poiché Benevento mai vide calcare il suo suolo dai Bizantini. Nella 1441 ancora si interroga su "Quale zona dell'Europa le città ebbero uno sviluppo più rapido e più importante?", difficile a dirsi senza un indicazione temporale. Oppure nella 2272 si chiede "Qual è l'antica unità di misura equivalente a circa 111 metri con cui si misurava la lunghezza delle vie della transumanza?", dimenticando che in realtà i cosiddetti tratturi erano larghi e non lunghi 111 metri, e confondendo in questo modo dimensioni e candidati. Gli aspiranti infatti così disorientati lamentano la mole di inesattezze e creano su Facebook un gruppo, intitolato "Domande errate da segnalare al Formez", alla caccia dell'ultima risposta corretta e dell'ultima domanda sbagliata. Sebbene infatti nell'incipit del documento contenente tutti i quesiti prudentemente "Si precisa che l'eventuale presenza di errori che rientrerebbero comunque nella percentuale fisiologica presente storicamente nelle banche dati concorsuali, non inficia la validità, la bontà nonché la legittimità della procedura selettiva", alcune "sviste" sembrano davvero eclatanti e non sono pochi casi isolati. Errare humanum est, perseverare autem diabolicum, dicevano i Latini. Così nella domanda numero 1968 il re Ruggero II di Sicilia diventa il fondatore di Agropoli e non di Afragola; la colonizzazione della Campania fu caratterizzata "dagli" Greci sulla costa; Ferdinando II viene scambiato per Federico II; Tanucci abolisce la chinea nel 1788, quando era già morto; Goldoni diventa un drammaturgo del '500 e non del '700; il pittore Giorgione si trasforma Gorgione in più di una domanda. Anche la storia della Campania non ne esce incolume. Nella 1152 chiedono: "Quando Poseidonia cambio il suo nome?" A. Nel passaggio dalla dominazione greca a quella Romana; B. Nel passaggio dalla dominazione latina a quella etrusca; C. Nel passaggio dalla dominazione greca a quella romana. "Poseidonia cambiò il suo nome in Paestum in epoca romana: quale risposta tra A e C sarà considerata valida dal computer?", chiede una candidata. Oppure se nella 3168 si interroga "Alle spalle della Chiesa di Santa Maria di Piedigrotta si trova, secondo la tradizione, il sepolcro di.." A. Leopardi, B. Virgilio, C. Dante; nella 3339 si incalza "Le Tombe di Virgilio e Leopardi si trovano a" A. Torre del Greco, B. Napoli, C. Pozzuoli. Ci sono poi quesiti di cultura generale che non creano confusione, ma perplessità, come quando si chiede circa le carriere artistiche di Marco Mengoni ed Emma di "Amici", oppure nella 695 si esige sapere se "Jacopo Ortis è: A. il protagonista dei Sonetti di U. Foscolo; B. l'autore de Le ultime lettere di Jacopo Fortis, C. il protagonista de Le ultime lettere di Jacopo Fortis"; oppure nella 451 se "La terra conta: A. 360 paralleli; B. nessun parallelo; C. 90 paralleli", dove ogni risposta sarebbe comunque errata dal momento che i paralleli sono 180, i meridiani 360. Alla domanda 2298 "Quanti Parchi Regionali ci sono in Campania? A. 5, B. 3, C. 2", un utente commenta scoraggiata: "Ho trovato un link in cui si parla di 8 Parchi Ragionali, Wikipedia dice che ne sono 9, mentre questo il sito ne menziona 5, la risposta è A dunque?!!?! Sono confusa. Sono sicura che si sono confusi tra "parchi" e "riserve naturali" (che sono 5). Mistero". Un altro invece chiosa sulla 3038 che chiede in quale anno la Costiera Cilentana sia stata inserita nella lista del patrimonio mondiale dell'Unesco. "Il sito ufficiale dell'Unesco riporta la data del 1998, ma loro hanno tenuto conto di un'altra fonte più attendibile: Wikipedia!". Un altro ancora aggiunge: "Questo non è nulla, nella domanda 1147 hanno scritto "Qual è con l'apostrofo. Orrore".

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

 

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

Se potesse aiutarmi….

Illustre parlamentare, inanemente non è la prima volta che mi rivolgo a lei od ai suoi colleghi. Ma a chi dovrei rivolgermi per avere un interessamento? Una richiesta di ispezione o di inchiesta. Una interrogazione al Ministro. Io non dispero che in questo Parlamento, finchè dura, possa trovare qualcuno con il cuore d’oro. Le farebbe onore se, con analitica cognizione di causa che io le prospetto, potesse affrontare una questione che attanaglia me dal 1998, ma anche centinaia di migliaia di giovani meritevoli impediti all’accesso ad una professione o ad un impiego pubblico. La differenza tra il dire e il mare è il fare. Vediamo quanto lei vale e quanto lei sia propenso a battersi per i diritti calpestati. Giusto per non avere io vergogna di essere un italiano.

"Non so come possa aiutarla. Parla di accesso ad una professione od ad un impiego pubblico, mi sembrano due cose diverse. Leggerò il suo saggio, quando avrò un po di tempo. Saluti. Luigi Gaetti, senatore."

No. Sono la stessa cosa. Lei dovrebbe saperlo meglio di me. In generale:

Stessa legge regolatrice. D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487. "Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi."

Stesso sistema per l’esame di abilitazione come per i concorsi di pubblico impiego, salvo piccole differenze particolari.

Stesse commissioni di esame. (rappresentanti professionali, magistrati, professori universitari), come per dire una mano lava l’altra e i controlli vanno a farsi benedire.

Ergo. Basta cambiare le regole e non dare ampia discrezionalità alle commissioni di favorire o di danneggiare i candidati.

Nel particolare: basta far controllare a chi di competenza se i miei compiti sono stati corretti e in che modo. Ci si accorgerà che i miei elaborati, come quelli di altri centinaia di migliaia di candidati, non sono stati corretti.

Le inchieste dei magistrati non nascono se fondate, ma solo se comode.

Per il resto, se non si è convinti che in Italia i concorsi pubblici e gli esami di abilitazione sono truccati e non basta una montagna di prove a dissuadere tale convinzione, così come migliaia di scandali, anche riferiti alla sua professione, vuol dire che è inutile anche parlarne ed è scontata la frase di risposta "non so come posso aiutarla". Se poi tale affermazione viene da un penta stellato che della rivoluzione culturale ne fa bandiera. Allora stiamo proprio freschi. Nessun cambiamento avverrà mai in Italia.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

VUOI CANTARE? IL CONCORSO E' TRUCCATO.

Brogli a Sanremo, parte la denuncia. Michelangelo Giordano, cantautore 36enne calabrese approdato a Milano in cerca di gloria, si è ritrovato con una lettera di esclusione in mano, scrive Martino Villosio su “Il Tempo”. L'appuntamento è per il 13 aprile 2015, tribunale civile di Imperia. È lì che andrà in scena la prima "puntata" di un dopo Festival al vetriolo. Una querelle diversa da quelle costruite ogni anno per insapidire le tradizionali settimane sanremesi, perché stavolta di mezzo c'è una causa per danni, e le accuse - la cui eventuale fondatezza toccherà ai giudici riscontrare - di un giovane cantautore calabrese. Si chiama Michelangelo Giordano, ha 36 anni e nel suo curriculum rivendica alcuni guizzi pregevoli, come la vittoria del premio "Una canzone per Amnesty 2013", oltre ad un mentore del calibro di Mogol che lo avrebbe notato durante un seminario di musica organizzato dalla scuola di musica fondata dallo stesso paroliere (il CET) incoraggiandolo a trasferirsi dalla Calabria a Milano. Il concorso Giordano, lo scorso settembre 2014, decide di iscriversi alla manifestazione "Area Sanremo 2014", promossa con bando pubblico e gestita dalla società "Sanremo Promotion" controllata dal comune ligure. Il concorso, che ha aperto le porte della partecipazione al Festival della canzone italiana 2015 ai suoi due vincitori, prevedeva nella sua prima fase la selezione di 40 finalisti da parte di un'apposita commissione di valutazione, composta dalla storica voce dei Pooh Roby Facchinetti (presidente), dalla cantante Giusy Ferreri e dal produttore e rapper Dargen D'Amico. A novembre, Giordano si è esibito davanti a quella giuria eseguendo il brano "Chi bussa alla porta", tema impegnato (il panico e la sofferenza di chi è vulnerabile ai suoi attacchi), parole e musica scritte da lui. Al termine, come riportano i suoi avvocati Marzia Eoli e Luca Fucini nell'atto di citazione presentato ad Imperia contro la Sanremo Promotion, i giudizi della commissione sarebbero stati "entusiasti", sia per "l'originalità del brano prescelto" che per la musica e il testo. Un giudizio positivo che troverà riscontro, evidenziano ancora gli avvocati, nella scheda di valutazione di Giordano al quale Roby Facchinetti attribuirà addirittura quattro dieci su quattro. La doccia fredda Cinque giorni dopo, però, l'artista riceve da Sanremo Promotion la comunicazione del mancato superamento della fase eliminatoria. Chiede di poter visionare la propria scheda di valutazione, e davanti ai giudizi "più che lusinghieri" (scrivono i suoi due avvocati) che la inchiostrano rimane ancora più sconcertato. Decide così di fare un accesso agli atti, per confrontare la sua scheda con quelle dei 40 finalisti, per conoscere i criteri di valutazione adottati e per visionare i verbali della commissione contenenti questi ultimi. Punteggi più alti Dalle schede, recita ancora l'atto di citazione, emerge che "alcuni candidati ammessi alla successiva fase finale riportano giudizi espressi, sia con punteggi numerici e sia con il giudizio complessivo, di gran lunga inferiori a quelli riportati da Giordano". Nella scheda di valutazione, in effetti, il cantautore ha un 9,17 (media finale dei punteggi ottenuti per le singole componenti dell'audizione e cioè voce, presenza scenica, performance e brano) e un 9 (giudizio complessivo espresso dai commissari). Altri quattro concorrenti selezionati al suo posto tra i 40 finalisti, portati come esempio nella citazione, hanno tutti voti inferiori al 9, oscillanti tra l'8,80 e l'8,50. "Perché", si chiede l'artista, "sono stato scartato dopo essere stato valutato così positivamente?". Il verbale Nel verbale stilato dalla commissione e che data a prima dell'inizio delle selezioni, in realtà, si dice che "al termine di ogni audizione la commissione compilerà una scheda dell'esibizione. La commissione stabilisce che le valutazioni contenute nelle suddette schede non determineranno la classifica finale dei candidati e quindi non saranno in alcun modo vincolanti in ordine alla scelta dei finalisti". Quelle valutazioni formulate dai giurati andrebbero considerate alla stregua di consigli utili ai giovani concorrenti per individuare i propri punti forti e quelli da perfezionare. Per gli avvocati di Giordano, invece, le cose non starebbero così. Le schede di cui si parla nel verbale sono definite "dell'esibizione" e non "di valutazione", dicono. Nel bando di concorso che disciplina "Area Sanremo 2014", riportano inoltre nella citazione, all'articolo 6 si legge che "la commissione di valutazione adotterà le proprie decisioni in seduta segreta secondo i criteri che saranno resi noti ai candidati prima dell'inizio delle selezioni mediante pubblicazione sul sito internet www.area-sanremo.it". Il bando e i criteri delineati nel sito, sostengono gli avvocati di Giordano, sarebbero pertanto l'unica "legge di gara" individuabile e le schede di valutazione "l'unico elemento di giudizio in cui la commissione ha espresso un punteggio numerico per ogni parametro ispirato ai criteri fissati sul sito internet". "Siamo di fronte a una selezione con bando pubblico", afferma Giordano al telefono da Sesto San Giovanni, "un parametro di valutazione trasparente doveva esistere e i punteggi delle schede di valutazione sono l'unico che si possa individuare in questo concorso". Gli avvocati del cantautore chiedono alla Sanremo Promotion 250.000 euro, puntando su un risarcimento per "perdita di chance" dal momento che il loro assistito, escluso dalla selezione finale malgrado l'alto punteggio ottenuto, non ha potuto esibirsi davanti ai rappresentanti delle principali case discografiche multinazionali e ai manager musicali ammessi all'ascolto dei 40 finalisti. Chiedono anche il ristoro dei 3.860 euro che l'artista, al pari degli altri 3876 concorrenti, ha dovuto spendere per poter partecipare alla selezione. Inclusi, riportano ancora gli avvocati, i soldi versati per la partecipazione ad un corso di formazione per gli iscritti, obbligatoria per poter accedere alle selezioni vere e proprie, con vitto, alloggio e viaggio a carico dei cantanti. Il comune di Sanremo, da noi contattato, non ha inteso per il momento commentare la vicenda. Abbiamo fatto pervenire una richiesta di replica anche a Sanremo Promotion, posta in liquidazione a febbraio dopo il voto a maggioranza del consiglio comunale cittadino, senza però venire ricontattati.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

Le Prove. La Prova scritta.

La prova scritta è in genere un tema o una griglia di test a risposta sintetica o una prova pratica. Solitamente è svolta in 1 o più giornate differenti su materie differenti, e può essere indifferentemente un giorno un tema ed il successivo una prova pratica, o una prova a risposta sintetica ed un tema ecc. ecc. Come nella prova preselettiva al candidato vengono consegnate due buste, una con il materiale d’esame e l’altra con il cartoncino su cui indicare il proprio nome, cognome e data di nascita. Lo scritto va fatto – brutta e bella – utilizzando esclusivamente i fogli messi a disposizione, che poi il candidato inserirà nella busta grande insieme alla busta piccola (chiusa) contenente il cartoncino con le generalità. Il bando dà indicazioni sui testi che è possibile portare con sé – normalmente il dizionario di italiano ed i codici senza commenti se la prova è di tipo giuridico. Attenzione, all’ingresso i testi possono venire aperti per un controllo e, se non rispondono per qualche ragione a quanto previsto, non vengono fatti entrare. Eliminate perciò fogli di appunti, temi, schemi ecc…Evitate per quanto possibile di portare fotocopie, che possono subire la stessa sorte. Se sono proprio necessarie, portatele ben rilegate. Tenete conto che le operazioni di controllo all’ingresso possono durare a lungo, specialmente nei concorsi con grande affluenza. E’ quindi molto frequente che dall’orario di convocazione – in genere le 9 del mattino – all’ora in cui ha effettivamente inizio la prova, possono passare 2,3,4 ore. Se aggiungete a queste le ore di durata effettiva della prova, capite quanto può essere importante avere con sé qualcosa da mangiare e da bere. Solitamente non è possibile alzarsi per le prime due ore.

Domande a risposta sintetica. Si tratta di un numero limitato di domande (di solito non più di sei) che hanno, oltre alla classica opzione della risposta multipla, anche alcune righe per la risposta sintetica. E’ un tipo di prova molto comune soprattutto sulle materie giuridiche ed è un tipo di scritto abbastanza ostico. Scrivere di diritto non è facile, essere sintetici ancora meno. Il testo scritto deve essere breve (tra le dieci e le venti righe), coinciso e il più possibile chiaro. Non deve semplicemente ripetere con altri termini la risposta già scelta tra le riposte fornite dal test, ma deve aggiungere qualcosa: la motivazione della risposta già data, il contesto, casi specifici ed eccezioni, ecc. Nell’allenarsi alla prova a risposte sintetiche, è sconsigliabile tentare di imparare quelle contenute nei testi di preparazione: quasi sempre niente ritorna alla memoria al momento opportuno, mentre è utilissimo allenarsi a scrivere testi brevi, utilizzando qualunque tipo di domanda a risposta multipla.

Prova pratica. E’ una prova pratica quella ispirata alla verifica delle reali capacità operative del candidato nel ruolo specifico che gli verrà affidato. Essendo diversa da mansione a mansione è quindi qui impossibile estrapolare degli esempi (la sua applicazione va dalla multa al caso clinico). Di solito quando un concorso prevede una prova di questo tipo, le editrici specializzate inseriscono uno schema all’interno dei testi di preparazione. Il suggerimento anche qui è di utilizzare il buon senso: la prova serve a verificare quanto il candidato riesca effettivamente ad utilizzare nella pratica le nozioni che ha acquisito, quindi va benissimo imparare schemi (moduli, procedure ecc), ma questi vanno utilizzati tenendo in debito conto del quesito proposto (che come sempre va letto molto attentamente) ed anche della nozioni teoriche sottese (implicate).

Tema. Il tema è una composizione scritta abbastanza lunga ed articolata – circa 3/5 facciate di foglio protocollo - ampiamente utilizzata nelle prove di concorso. Nei concorsi per diplomati, è più spesso di cultura generale, storia, italiano; si tratta quindi di uno scritto del tipo di quelli che si fanno alle scuole superiori. In questo caso quello che conta è che l’elaborato sia in italiano corretto e che sia chiaro e non contenga informazioni errate. Se invece il tema è di argomento giuridico la faccenda cambia. Il tema di diritto mette in difficoltà un po’ tutti, chi è laureato in materie giuridiche infatti è raramente abituato a scrivere, chi ha fatto altri percorsi di studio teme di non saper utilizzare adeguatamente il linguaggio giuridico. In tutti i casi, non c’è da perdersi d’animo: ci si riabitua a scrivere semplicemente allenandosi. Certo, specialmente chi non ha un background giuridico fa bene a seguire dei corsi, per affinare la terminologia in modo da non incorrere in errori concettuali gravi. Se chiarezza e completezza sono le carte vincenti, non vanno dimenticate la calligrafia – che deve essere il più possibile leggibile, e la lunghezza totale, che non deve essere eccessiva.

Diario di un commissario del concorso per magistrato: i trucchi per copiare, dal bagno alla nursery, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24ore”. Nelle ore immediatamente successive alla prova scritta per un posto da magistrato, uno dei 29 commissari, ha voluto riassumere in quattro paginette di appunti la sua esperienza al padiglione fieristico di Rho-Pero e aggiungere alcuni suggerimenti per rendere meno macchinosa, più corretta e trasparente la selezione dei togati. Ecco alcuni passi degli appunti del commissario, una probabile traccia per l'audizione davanti alla IX commissione del Csm. Durante i tre giorni delle prove scritte, a seguito di violazioni delle regole concorsuali, la commissione ha deciso diverse espulsioni, pare 70, anche se non conosco il numero esatto. Io stesso ho espulso un buon numero di candidati in poche ore. La maggior parte delle irregolarità consisteva nella detenzione di testi non consentiti. Ho sentito dire da più parti che con ogni evidenza il controllo dei codici non ha funzionato. Ma è proprio così? Per non drammatizzare inutilmente, basterebbe un semplice conteggio: ogni concorrente si presenta alla prova scritta con almeno 5 "pezzi" tra codici, raccolte di leggi, stampe da Internet ecc. Moltiplicando questa cifra (ottimistica) per 5.600 partecipanti, risulta che noi commissari abbiamo controllato non meno di 28mila testi. Se solo 2 su 1.000 sono sfuggiti al controllo – frazione senz'altro fisiologica se non virtuosa – possiamo concludere che una sessantina di casi sono apparentemente tanti, ma sono invece relativamente pochi. Esistono molte edizioni dei codici, quasi tutte volutamente ai limiti dell'ammissibilità e spesso con tanto di scritta in copertina che rassicura l'acquirente sul fatto che potrà usarlo durante la prova scritta. Ed è così: l'irregolarità non è per niente scontata e dipende dall'interpretazione della norma che esclude i testi con "note, commenti, annotazioni anche a mano". E allora perché tante edizioni border line? Alcuni di questi tomi sfruttano l'indice analitico che arriva così a occupare centinaia di pagine ed è talmente strutturato da poter fungere da tracce di elaborati; altri volumi recano abbondanza di richiami che non possono essere vietati perché riportati da tutte le edizioni, "Gazzetta Ufficiale" compresa. I candidati sono suddivisi per lettera in tante file e consegnano i testi ad altrettanti desk con un commissario che decide i casi dubbi. È ovvio che per evitare disparità di giudizi che finiscano in difformità sui criteri di sequestro, la soglia di ammissibilità è tenuta bassa. Anche perché, spesso si tratta di codici costosi, non pacificamente inammissibili, magari curati da colleghi magistrati, spesso recanti scritte rassicuranti e persino timbri di concorsi precedenti. Soprattutto, sequestrare i codici a Rho-Pero in prossimità della prova, significa di fatto lasciare il candidato senza testi da consultare perché, data la distanza dalla città, non è possibile andare in una libreria a Milano e tornare in tempo per l'esame. Oltre alle edizioni border line, è sempre più frequente che i candidati si presentino con pacchi di stampe dal computer: formati ammissibili, ma di difficile controllo. Ci sono poi i testi annotati a mano, non vietati automaticamente ma da valutare nel loro contenuto. Ci sono candidati disposti, per evitare il sequestro, a strappare o sigillare le parti vietate e rendere così utilizzabile un codice (sulla cui copertina resterà comunque scritto "commentato", cioè di fatto vietato). E va considerato che la legge di fatto incoraggia i tentativi di introdurre materiale illegale perché in sede di controllo pre-esame consente solo l'esclusione del testo e non anche del candidato: insomma, abbiamo dovuto vedere in aula candidati che il giorno prima avevano cercato di introdurre un vocabolario di italiano farcito con temi di diritto. È stato escluso il tomo, ma non il suo detentore. A parte i difficoltosi controlli dei giorni precedenti, anche il giorno della prova il materiale irregolare entra facilmente: la polizia penitenziaria esegue una perquisizione "leggera" all'ingresso, ma le piccole fotocopie nascoste sotto gli abiti ovviamente passano. I servizi igienici sono usati sia per scambiarsi parole veloci durante le code per entrare, sia per passare il materiale da una inaccessibile fodera a una comoda tasca. Da qui il divieto di andare al bagno prima di una certa ora, cui vengono opposte continue affermazioni di gravi problemi fisici, difficili da contestare in assenza di un commissario-medico. Ecco il motivo delle numerose deroghe al divieto, pur accompagnate da precauzioni aggiuntive come le perquisizioni prima e dopo, a meno che il candidato non accetti di lasciare la porta del bagno aperta, vigilato da un agente dello stesso sesso. Altro luogo "tentatore" è la nursery cui hanno diritto le candidate con infante da allattare. Ovviamente il bimbo è accudito da un parente, magari adatto a consultazioni o che si presta a "importare" materiale proibito.

Questo succede durante le prove scritte. Nessuno sa quello che succede dopo. La verità si scopre attraverso i ricorsi al Tar.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

Medicina, storia del concorso delle polemiche. "Test copiati, quiz rimossi e compiti modificati". L'esame per l'accesso alle scuole di specializzazione dello scorso novembre 2014 doveva eliminare il problema dei baronati. Ma dopo le polemiche sulle domande sbagliate, l'Espresso ha visionato il ricorso presentato dai candidati al Tar. E dentro viene denunciato davvero di tutto, scrive Martino Villosio su “L’Espresso”. Doveva essere il concorso del merito, della trasparenza, dei parametri standard di valutazione, immune finalmente da localismi e al riparo dalle grinfie dei baroni. Tutti i candidati, dal Friuli alla Sicilia, davanti a un pc, niente carta e penna, un salvataggio a fine prova, un meccanismo di correzione costruito per essere impermeabile a qualunque ipotetico sospetto di violazione dell'anonimato. A distanza di tre mesi, invece, la lista completa di verbali, atti e documenti relativi al primo concorso pubblico per l'accesso alle specializzazioni di medicina gestito a livello nazionale con graduatoria unica svela il tracollo di premesse e promesse. Un tradimento che ha già portato tanti giovani medici ad abbandonare l'Italia, ancor prima di attendere le decisioni della giustizia amministrativa sommersa dai ricorsi. Punteggi sbagliati, pc in rete. Sedi non idonee, controlli non omogenei delle singole commissioni, router nascosti nei cappotti e pc collegati in rete durante le prove in alcuni atenei, foto che mostrano chiaramente come in certe aule i candidati fossero seduti a distanza ravvicinata tanto da costringere il Miur a sferzare le commissioni con una circolare dopo il primo giorno di test. E ancora singole aule in cui tutti i candidati hanno totalizzato punteggi stellari e perfettamente combacianti, centinaia di black out e guasti ai computer che hanno consentito ai più fortunati di veder raddoppiato il tempo a disposizione per rispondere alle domande, "bachi" nel sistema informatico, punteggi affissi in graduatoria diversi da quelli visualizzati dai candidati al termine delle prove e ricorretti in fretta e furia solo grazie all'attenzione e alle proteste degli interessati. Computer così vicini da permettere di copiare. A suggello di tutto le mani non meglio identificate di chi, denunciano gli avvocati dei ricorrenti, ha potuto incredibilmente entrare nelle prove di tutti i candidati modificandole dall'interno in violazione dello stesso principio che il nuovo concorso era nato per salvaguardare: proprio quello dell'anonimato. Tutto questo viene oggi ad aggiungersi a quanto di clamoroso emerse a inizio novembre, a concorso appena finito: il pasticcio dell'inversione dei quesiti di due differenti aree del test (quella medica e quella dei servizi clinici) da parte del consorzio Cineca incaricato di preparare le prove, il ministero dell'Università e della Ricerca che prima annuncia la scelta di annullare quelle oggetto dell'errore poi, dopo due giorni, fa marcia indietro e sentito il parere dell'Avvocatura sceglie di abbonare quattro domande (in seguito diventate sei) a tutti i candidati, dando loro il massimo punteggio a prescindere dalla maggiore o minore correttezza delle risposte fornite.
Uno scandalo già rimosso. Un caso dai contorni surreali, l'ultimo pugno nello stomaco di una generazione di aspiranti camici con la valigia in mano, archiviato dai media e dal dibattito politico con molta più fretta di quanto ci si sarebbe potuti aspettare nell'Italia che insegue la svolta all'insegna della gioventù e della meritocrazia. L'Espresso ha potuto visionare in anteprima questa galleria di irregolarità e superficialità, alla vigilia dell'udienza del 12 febbraio davanti al Tar del Lazio chiamato a prendere in esame parte dei ricorsi presentati per l'annullamento delle graduatorie. Una lista contenuta nella lunga memoria depositata lo scorso 26 gennaio dall'avvocato Michele Bonetti, il legale che tra l'estate e l'autunno dello scorso anno ha già ottenuto l'ammissione con riserva ai corsi di laurea delle facoltà di medicina di tutta Italia di 5.000 studenti respinti ai test d'ingresso e che, insieme al collega Santi Delia, ha curato anche i ricorsi degli aspiranti specializzandi. Insomma un elenco fornito da una parte con precisi e concreti interessi nella partita, ma puntellato da un corposo dossier di carte ufficiali finito all'attenzione della magistratura in sede penale. Aule inidonee, punteggi stellari. Il primo cardine su cui doveva poggiare il nuovo concorso, ovvero l'omogeneità della selezione a livello nazionale, ha retto a stento davanti alle carenze organizzative di alcune aule. L'articolo 2 comma 4 del bando disponeva che almeno 20 giorni prima della prova di esame il Miur dovesse comunicare sedi e orario di svolgimento. Le aule però sarebbero state reperite solo qualche giorno prima dei test, non solo nelle università ma anche in centri di formazione professionale e istituti privati. Come emerge da alcuni verbali e dalle foto pervenute al sito de "l'Espresso", in alcune di esse i candidati erano talmente vicini da consentire a tutti di poter leggere tranquillamente dallo schermo del collega. Un monitor che, a differenza dei classici fogli A4 contenenti 4 o 5 domande, proiettava a visione intera un solo quesito alla volta con la relativa risposta del candidato. Più piccole erano le aule, riporta l'avvocato Bonetti nella sua memoria, più palese è stato il numero di concorrenti con punteggi identici. Come a Catania, dove nell'aula 10 - durante l'ultimo giorno di prova - su 12 partecipanti concorrenti per Anestesia, in 10 hanno avuto l'identico alto punteggio di 17,4 su 20. O a Bari, dove il 31 ottobre durante la prova dell'area dei servizi di fatto non di competenza dei candidati (perché si scoprirà che le domande erano state invertite con quelle di area medica) in un'aula 12 candidati su 14 ottengono lo stesso score: di nuovo 17,4 su 20. A Milano i candidati chiedono che sia messo a verbale che i pc sono troppo vicini e corrono voci di "copiature frequenti e uso di cellulari presso altre sedi". A Trieste è addirittura la stessa commissione ad alzare bandiera bianca: "Risulta materialmente impossibile", recita il verbale del 30 ottobre per l'aula F, "collocare tutti i candidati in modo alternato, si decide di far prendere posto ai candidati seduti necessariamente vicini nelle posizioni di massima visibilità". Black out, web libero e bug informatici. Sono centinaia i casi a verbale di black out energetici in diverse sedi di concorso. In alcune i candidati, dopo aver letto le domande e addirittura aver terminato la prova, hanno potuto ripeterla visto che i pc si spegnevano o non rispondevano ai comandi. Aule intere hanno subito la sospensione dell'energia dopo che erano state lette le domande della prova. Durante le operazioni di ripristino, a Chieti, i candidati hanno addirittura potuto riprendere i propri cellulari collegati in rete. In altre sedi, come risulta a verbale, i pc erano invece collegati via cavo alla rete LAN o avevano accesso alla rete wi-fi consentendo la navigazione sul web attraverso router portatili lasciati dai candidati nei cappotti. Uno di questi casi è documentato a Napoli, presso l'università Suor Orsola Benincasa. Alla Seconda Università di Napoli, il 31 ottobre, dopo 16 episodi di malfunzionamento dei pc la prova viene interrotta e fatta ripetere ai candidati. A Ferrara addirittura salta un'intera fila di computer, obbligando ormai a fine prova a far rifare il test a tutti i candidati della fila. Tragicomici, poi, alcuni degli episodi segnalati sempre a verbale: come a Padova, dove durante la prova un candidato - ricontrollando i test - si rende conto a un certo punto che in alcuni casi le risposte da lui date risultano modificate. Colpa di un bug informatico che fa sì che il concorrente, anche semplicemente muovendo il mouse sulla parte bianca dello schermo, intervenga sull'opzione appena spuntata senza rendersene conto. Un'anomalia denunciata anche a La Sapienza. Centinaia anche le segnalazioni di aspiranti specializzandi che hanno trovato un punteggio affisso diverso da quello visualizzato dopo la prova e regolarmente salvato. Come a Genova, dove lo score di una candidata era stato prima salvato come 34,1 e poi - il giorno dopo - riverificato essere 33,8. Se l'interessata non avesse chiesto di eseguire un controllo, essendo convinta del suo risultato iniziale, l'accaduto non avrebbe mai potuto essere ricostruito. Pipì nel cestino. Anche nella severità con cui le commissioni hanno fatto rispettare i regolamenti emergono forti discrepanze. Nonostante il bando del 4 agosto 2014 specifichi chiaramente che "il Ministero definisce ogni elenco d'aula avendo cura di distribuire i candidati secondo l'ordine anagrafico", in alcune sedi è stato concesso agli aspiranti specializzandi di scegliere liberamente il posto. In un verbale dell'ateneo di Udine viene riferito candidamente che "ciascun candidato si colloca a sua scelta in una delle postazioni disponibili". A Palermo la commissione controbatte addirittura a un candidato che, bando alla mano, chiedeva il rispetto dell'ordine alfabetico. D'altro canto persino il video esplicativo sulla procedura di accesso alle aule del Miur, disponibile sul sito , indicava la possibilità di scegliere liberamente dove sedersi in piena contraddizione con il bando. Il video è stato poi successivamente modificato a concorso concluso. Il rigore in ordine sparso delle varie commissioni ha riguardato anche la possibilità di andare in bagno: a Pisa e Pavia è stato consentito, a Firenze invece un candidato è stato costretto a urinare nel cestino della carta. Le domande abbonate: nuovi interrogativi. Non è la prima volta che il consorzio interuniversitario Cineca, incaricato di somministrare i test nei concorsi, combina errori che impattano su vite e carriere. Basti pensare al "famoso" concorso del 2012 per l'accesso ai TFA, i tirocini formativi per l'abilitazione all'insegnamento, nel quale 25 domande su 60 furono annullate. Questa volta l'anomalia è avvenuta nella fase di preparazione delle buste: le domande che avrebbero dovuto essere sottoposte ai candidati per le scuole di area medica il 28 ottobre sono state invece somministrate il 31 ottobre nella prova per l'area dei servizi clinici, e viceversa. Il primo novembre il Miur annuncia con un comunicato stampa sul sito che le prove in questione sono da ripetere. Due giorni dopo, al termine di una riunione tra il ministro Stefania Giannini e la Commissione nazionale incaricata di validare le domande dei quiz, sempre tramite nota stampa arriva il contrordine: siccome l'inversione ha riguardato solo le 30 domande comuni a ciascuna delle due aree, e non i 10 quesiti specifici per ciascuna tipologia di scuola (cardiologia, necrologia, endocrinologia etc.), l'esito dei test si può salvare "neutralizzando" le sole due domande per ciascuna area che sono state giudicate non pertinenti dalla Commissione di esperti. In pratica a tutti i candidati, a prescindere dalla maggiore o minore correttezza della risposta fornita, viene assegnato per quelle domande il massimo punteggio. Da quel momento, e dopo le dimissioni rassegnate dal presidente del Cineca Emilio Ferrari, si chiude il sipario mediatico sulla vicenda. Adesso però, dai verbali delle singole commissioni sparse per l'Italia, da quello della riunione del 3 novembre tra Miur e Commissione nazionale e da una perizia di parte del dottor Gianluca Marella (docente a Tor Vergata e consulente tecnico della procura di Roma) emergono elementi nuovi. Emerge chiaramente, ad esempio, come in diversi casi gli stessi candidati abbiano riscontrato e segnalato ai commissari l'inversione dei quiz già nel corso delle prove, che tuttavia non sono state interrotte. Nel verbale della riunione di Roma del 3 novembre, inoltre, si legge che "delle 30 domande contenute nella prova di area medica del 29 ottobre, 27 sono riconducibili ai 5 settori scientifici disciplinari comuni tra l'area medica e quella dei servizi, 1 quesito è riferibile al settore scientifico disciplinare della farmacologia". Tradotto: le domande non pertinenti all'area medica, e quindi da abbonare, in base a quanto dichiarato dalla stessa Commissione nazionale non sono due ma tre. Perché allora il quesito di farmacologia non è stato abbonato? Non solo. Nel verbale del 3 novembre la Commissione conclude che la scelta di invalidare le quattro domande di area non influisce sulla validità complessiva dei test, perché le domande più importanti - quelle relative alle scuole di specialità cui sono attribuiti il doppio dei punti - non hanno determinato problematiche. Eppure, dopo la stesura dell'atto, sulla base di un altro verbale, che conclude una riunione del 4 novembre cui prendono parte solo il presidente della medesima Commissione nazionale e un rappresentante della società Selexi, si provvederà ad abbonare altre due domande: stavolta relative proprio ad altrettante scuole di specializzazione (una di Cardiologia e un'altra di Endocrinolgia). Un totale di 6 quesiti abbonati attraverso dei semplici verbali, senza l'intervento di un apposito provvedimento ministeriale indispensabile - sostengono gli estensori dei ricorsi - per modificare un bando di concorso approvato con decreto. Prove modificate dall'interno. Alla scelta di abbonare le sei domande, accusano i legali dei ricorrenti, è seguita una procedura inedita. Invece di limitarsi ad aggiungere il punteggio delle domande in questione alla graduatoria finale, Cineca e Miur sono entrati nei singoli compiti inserendo a livello informatico i codici fiscali e hanno modificato dall'interno le risposte dei candidati, che non hanno in questo modo neanche più la certezza di quali risposte abbiano fornito, visto che le prove erano soltanto digitali. La decisione di intervenire sulle prove già svolte è avvenuta dopo che i punteggi dei singoli candidati erano già pubblici e le graduatorie già in mano al Cineca: cioè dopo che ad ogni compito era stato dato un nome. E così, tra accessi non verbalizzati nei compiti e interventi postumi sulle domande, lo scopo principale del nuovo concorso a graduatoria nazionale, quello di garantire la segretezza e la trasparenza della selezione e l'anonimato dei candidati, potrebbe essere stato compromesso. Mancano i soldi. Davanti a questo nutrito elenco di contestazioni, l'Avvocatura dello Stato ha messo le mani avanti. "Nella denegata ipotesi in cui i ricorsi relativi al contenzioso venissero accolti", recita un documento redatto dal Miur e da poco depositato davanti al Tar del Lazio, "una ammissione in sovrannumero comporterebbe ripercussioni economiche considerevoli, in quanto imporrebbe allo Stato il reperimento delle risorse finanziarie necessarie all'erogazione di ulteriori contratti di formazione specialistica". "Anche l'ammissione di un solo medico in più", prosegue minaccioso il documento, "comporterebbe l'onere di reperire risorse aggiuntive da stanziare tramite appositi provvedimenti legislativi (circa 125.000 euro in più per ogni specializzando)". Una mossa legittima, anche se i giovani ricorrenti meriterebbero forse un giudizio - decisivo per il loro futuro - capace di entrare nel merito delle irregolarità denunciate senza fermarsi davanti allo spauracchio della spesa pubblica. Dal Paese che li spinge in massa verso l'estero dopo anni di sacrifici sui libri, meriterebbero maggiore considerazione e trasparenza.

Concorsi pubblici, tutti i casi sospetti. Il pasticciaccio delle scuole di specializzazione in medicina, per il quale i giovani medici manifestano a Roma, è l’ultimo episodio di un lungo elenco di irregolarità, favoritismi e trucchi. Dalla Farnesina alla Polizia penitenziaria nessuno è escluso. A partire dalle selezioni per insegnanti e ricercatori, scrive Michele Sasso su  “L’Espresso”. Una manifestazione di specializzandi di medicina a Roma. Le prove, l’errore e il dietrofront. Dopo giorni di polemiche, il ministero dell’Istruzione cerca di mettere una pezza al pasticciaccio  del concorsone per l’accesso alla scuole di specializzazione in medicina. Un test fondamentale per accedere alle oltre cinquemila borse di studio diventato tristemente famoso per l'annullamento che ha colpito più di 11mila candidati. Dopo avere rilevato una “grave anomalia” il ministro Stefania Giannini ci ripensa e annuncia: «Le prove per l’accesso del 29 e 31 ottobre non dovranno essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i test». Una pezza dopo l’annuncio di una valanga di ricorsi. Le dimissioni di Emilio Ferrari, il responsabile del Consorzio universitario che ha preparato il test di ingresso, non sono servite a stoppare la manifestazione davanti al Miur. In piazza i giovani medici che la settimana scorsa hanno partecipato alle selezioni. Non è la prima volta che un concorso pubblico finisce con una figuraccia e una protesta di piazza. Tra caos, ricorsi, graduatorie ritoccate e interventi della Magistratura non c’è settore della pubblica amministrazione immune all’aiutino. Il prestigioso posto di ambasciatore junior del ministero degli Esteri si è trasformato, secondo le critiche, in una corsia preferenziale per chi ha parentele famose. In ballo 35 posti per il gradino più basso della carriera alla Farnesina: la questione è finita con otto interrogazioni parlamentari e ombre pesanti sul ministero degli Esteri. Perfino alle prove per diventare poliziotti si scoprono bluff. Lo scorso maggio alla scuola di formazione della Polizia penitenziaria di Roma si aprono le porte ai concorrenti al concorso pubblico per 208 posti di agente. Test e prove attitudinali per andare a lavorare nelle carceri italiane. Durante gli scritti la commissione esaminatrice scopre tre aspiranti con in tasca le risposte esatte ai quiz di selezione. L’elenco delle valutazioni sballate, superficialità e grossolani errori per scegliere gli insegnanti della scuola italiana è lungo. Nel 2010 nel concorso per dirigente scolastico il Ministero mette online i temi delle prove e arrivano una valanga di segnalazioni. Tanti, troppi errori e un quiz su sei viene ritirato. Nonostante gli accorgimenti all‘apertura delle buste nei cento quiz c’erano ancora degli strafalcioni. Per i tirocini formativi attivi (Tfa) obbligatori per diventare insegnanti si replica con ancora quiz errati e si ottiene ammissione dei ricorrenti alle prove scritte. Per l’ultimo concorso a cattedra la Giannini è stata costretta a un decreto correttivo. «Ogni volta è la stessa storia», commenta Marcello Pacifico del sindacato Anief:«Non sono le dimissioni di un presidente ma la gestione delle prove selettive che non trova mai un responsabile. Non è possibile che proprio le domande e le risposte per accertare il merito contengano degli errori». Tra le maglie delle selezioni anche casi clamorosi di familismo amorale e concorsi truccati su misura. A Palermo la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio dell'ex preside della facoltà di Medicina Giacomo De Leo e di Salvatore Novo, professore ordinario e direttore della scuola di specializzazione in Cardiologia dell'università locale insieme ad Alberto Balbarini, docente di malattie cardiovascolari a Pisa. Complici e menti (con l’accusa di truffa, soppressione di atto pubblico e falsità ideologica) di un presunto concorso truccato per un posto da ricercatore universitario nel loro dipartimento bandito nel lontano 2004. Il concorso, secondo gli inquirenti, venne truccato per consentire alla figlia di Novo, Giuseppina, l'aggiudicazione del posto. L'inchiesta parte da Bari, e indaga su una serie di concorsi truccati in diverse facoltà della Penisola. Secondo gli investigatori, ci sarebbe stato un vero e proprio accordo tra Novo e De Leo per far vincere il concorso alla figlia del cardiologo. A garantire il posto assegnato a tavolino doveva essere Mario Mariani, altro docente universitario di Pisa, nominato membro della commissione esaminatrice. All'ultimo momento, però, Mariani scopre di essere indagato dai pm baresi e fa un passo indietro. È allora che, secondo i magistrati, i due docenti distruggono il verbale con cui Mariani era stato designato commissario d'esame e lo sostituiscono con uno identico in cui mettono il nome di Balbarini. Quest'ultimo, vicino a Mariani, sarebbe stato al corrente di tutto. Dopo dieci anni la ricercatrice ha fatto carriera e oggi può vantare il titolo di docente alla scuola di specializzazione in cardiochirurgia. L’ateneo? Quello di Palermo, naturalmente.

CONCORSI TRUCCATI E NOMINE AD HOC PER TROMBATI E RICICLATI. ECCO PERCHE’ I POLITICI FAN FINTA DI NIENTE.

Enti, fondazioni e authority. Il collocamento dei non rieletti pd. Uno su due ha avuto un posto tra società pubbliche e impieghi «politici», scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Di esperienza sul campo ne aveva da vendere. Era lui che dagli schermi di Video Calabria conduceva Calabria Verde, trasmissione d’inchiesta sull’agricoltura calabrese. A Francesco Laratta detto Franco mancava solo un adeguato riconoscimento istituzionale. Mai dire mai: a settembre del 2014 ha avuto un posto nel consiglio di amministrazione dell’Ismea, l’istituto pubblico per i servizi nel mercato agricolo. Trombato alle politiche del 2013, il coordinatore regionale di Areadem, componente del Pd che fa riferimento a Dario Franceschini, è stato uno degli ultimi ex onorevoli del partito di maggioranza a trovare una ricollocazione. Sia pure come semplice consigliere di un ente statale non di primo livello. Non si può lamentare. A causa di un ricambio generazionale senza precedenti il giorno dopo le elezioni ben 165 onorevoli democratici della scorsa legislatura si sono trovati senza seggio. Considerando le componenti esterne, vedi i radicali che facevano parte del gruppo Pd, o quanti rimasti fuori dal Parlamento per scelta personale che certo non aspirano alla poltroncina di una società pubblica, si riducono a 135. Ma sono comunque un esercito. E chi si aspettava cambiamenti con la nuova stagione politica deve ricredersi. Perché la realtà dei fatti è ben diversa dalle dichiarazioni di principio. Tanto più che nel 2013 è intervenuto un fatto nuovo e non trascurabile: l’impossibilità per gli ex onorevoli di riscuotere il vitalizio prima dei sessant’anni. Così pure in questi due anni si è assistito a una strisciante e metodica opera di risistemazione dei parlamentari bocciati o esclusi dalle liste. E se il termine «riciclati» può apparire in qualche caso esagerato, vero è che una buona metà ha avuto un incarico pubblico o ha intercettato un ruolo legato in qualche modo alla politica. In sei sono stati ricandidati o rieletti in altri partiti, salvo poi (qualcuno) rientrare nel Pd. Altrettanti hanno avuto incarichi nelle amministrazioni locali, e non parliamo soltanto dei sindaci di Roma (Ignazio Marino) o di Catania (Enzo Bianco): ma anche di Giovanni Lolli, assessore alla Ricostruzione della Regione Abruzzo, e di Alberto Fluvi, capo segreteria dell’assessore al Bilancio della Toscana Vittorio Bugli. Sono per ora tredici, invece, i destinatari di incarichi di partito. E anche qui c’è incarico e incarico, perché una cosa è fare come l’ex senatore Fabrizio Morri il segretario provinciale a Torino o come l’ex deputato Stefano Graziano il presidente del partito in Campania, e un altro conto essere direttore generale del gruppo pd alla Camera, qual è Oriano Giovanelli. In cinque si sono trasferiti al governo con ruoli che vanno da viceministro dell’Economia (Enrico Morando), a consigliere del ministro della Giustizia Andrea Orlando (Guido Calvisi), a capo della segreteria tecnica del sottosegretario alla presidenza con delega ai servizi segreti Marco Minniti. Quest’ultimo è il caso di Achille Passoni, ex senatore di provenienza Cgil, marito della neoeletta senatrice Valeria Fedeli, già sindacalista Cgil e ora vicepresidente di Palazzo Madama. Ancora. A diciotto ex parlamentari del Pd sono stati attribuiti incarichi in fondazioni, authority, enti e organismi pubblici di vario tipo. Sia pure con enormi differenze fra ruoli simbolici e posti di grande potere. Mario Cavallaro è diventato presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Antonello Soro, presidente dell’Autorità garante della privacy. L’ex senatrice e insegnante Marilena Adamo, presidente della Fondazione scuole civiche del Comune di Milano. L’ex segretario della Cisl e già viceministro Sergio D’Antoni, presidente del Coni Sicilia. L’ex deputata Rosa De Pasquale, direttore dell’ufficio scolastico della Toscana: nomina alla quale la Corte dei conti, come ricordato dal Fatto Quotidiano , ha rifiutato la registrazione. L’ex senatore Carlo Chiurazzi, trombato alle Politiche 2013, presidente del Consorzio di sviluppo industriale di Matera. Mariapia Garavaglia, consigliere della Fondazione Arena di Verona. L’ex onorevole Federico Testa, commissario dell’Enea. L’ex ministro Luigi Nicolais, presidente del Consiglio nazionale ricerche: nomina che al pari di quella di Soro ha preceduto di poco le elezioni. Idem per Giovanna Melandri, passata direttamente da Montecitorio alla presidenza del Maxxi. Giovanni Forcieri, che ha preso il suo posto, era presidente dell’Autorità portuale di La Spezia. E su quella poltrona è stato ricollocato senza alcuna difficoltà dopo la breve parentesi parlamentare. Mentre troviamo Luciana Pedoto, laureata in Economia e specializzata in «epidemiologia dei servizi sanitari», ex segretaria di Giuseppe Fioroni ed ex onorevole non rieletta, all’Istituto nazionale di astrofisica. È responsabile di trasparenza e anticorruzione. Competenze a parte, su cui pure ci sarebbe molto da dire, il punto è il metodo con cui vengono fatte certe scelte. Le società e le aziende pubbliche, per esempio. Pure lì, dove secondo i piani del governo dovevamo assistere a tagli impietosi, si è assistiti all’inesorabile migrazione degli ex. Di Pier Fausto Recchia alla guida di Difesa servizi abbiamo parlato in varie occasioni. Come dell’assunzione a Invitalia di Costantino Boffa dopo selezione ministeriale ad hoc. Poco, invece, si è detto delle nomine della Regione Lazio alle presidenze delle Ipab: all’Istituto Sacra Famiglia è stato collocato Jean Léonard Touadi; a Santa Maria in Aquiro, Massimo Pompili. Oppure della designazione di Sandro Brandolini alla vicepresidenza di Cesena Fiera. O dello sbarco di Maria Leddi al posto di amministratore unico di Ftc holding, serbatoio di partecipazioni del Comune di Torino. E dei tre incarichi all’ex deputato Ivano Strizzolo: presidente dei revisori della Unirelab srl, società del ministero dell’Agricoltura (di cui figura procuratore Silvia Saltamartini, sorella l’ex portavoce alfaniana Barbara Saltamartini al tempo stretta collaboratrice dell’ex responsabile di quel dicastero Gianni Alemanno) nonché sindaco di Istituto Luce e Postecom. La presidenza di un’altra società delle Poste, la compagnia aerea postale Mistral Air, è toccata a Massimo Zunino. Il quale, uscito dalla Camera, ha costituito anche una società di consulenza, la Klarity innovaction consulting, insieme a due suoi colleghi di partito rimasti anche loro senza seggio. Ovvero, Michele Ventura e Andrea Lulli. Modo alternativo, sembrerebbe, con cui può fruttare la ricca esperienza parlamentare. Un po’ come è capitato a coloro che hanno assunto per strade diverse incarichi «privati» ma non proprio estranei alla storia politica di ciascuno. L’ex ministro Giulio Santagata, prodiano senza se e senza ma, è consigliere delegato di Nomisma, la società di consulenza fondata da Romano Prodi. Due mesi fa l’ex prefetto e senatore Luigi De Sena è stato cooptato nel consiglio del Colari, la società di smaltimento dei rifiuti che fa capo a Manlio Cerroni, come garante degli accordi con la municipalizzata romana Ama. Per non parlare degli incarichi di curatore fallimentare (Cinzia Capano) o di liquidatore di cooperative sociali (Ezio Zani, subentrato a Soro e poi trombato alle elezioni). E senza contare chi, rieletto, al seggio ha preferito il «privato»: la senatrice Rita Ghedini, ora presidente di Legacoop Bologna.

Tutti gli incarichi dei riciclati nelle società che Cottarelli voleva chiudere. Il commissario alla revisione della spesa voleva ridurre da 8 mila a 1.000 le società partecipate. Si illudeva: sono un paracadute per gli esodati della politica, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Dare l’esempio. Magari poteva servire, pensava il commissario alla spending review Carlo Cottarelli. Alle prese con la grana delle società partecipate dal pubblico, ne aveva scoperte 2.671 con più consiglieri che personale. Una l’aveva il Tesoro. Rete autostrade mediterranee, creata dieci anni fa dal governo di Silvio Berlusconi: un dipendente fisso e dieci fra consiglieri e sindaci. Cottarelli ne proponeva la liquidazione, illudendosi. Ecco allora che invece di tirare giù la saracinesca, a fine settembre il governo ha nominato i nuovi vertici. Non più cinque, perché c’è pur sempre la spending review, ma soltanto tre. Non tre qualsiasi. Presidente è Antonio Cancian, detto Toni. Reperto della vecchia Dc per cui venne eletto alla Camera nel 2002, poi deputato europeo del Pdl, quindi passato armi e bagagli nelle schiere di Angelino Alfano, aveva tentato a maggio la riconferma a Strasburgo. Senza successo. Prontamente le larghe intese (versione renziana) gli hanno offerto un minuscolo risarcimento . Cancian guiderà la società con un solo dipendente in organico insieme al vicepresidente (!) Christian Emmola, presidente (renziano) dell’assemblea del Pd trapanese, e alla consigliera Valeria Vaccaro, dirigente del Tesoro e incidentalmente moglie dell’ex braccio destro di Giulio Tremonti, Marco Pinto, attuale consigliere Rai. Per dare l’esempio, appunto. E di storie finite così ce ne sono ancora. Ricordate Arcus, società che distribuisce soldi dei Beni culturali e che il governo Monti voleva seppellire? Resuscitata dal Parlamento prima delle esequie, non si sarebbe salvata una seconda volta se avessero dato retta a Cottarelli. Non l’hanno fatto, e l’amministratore unico Ludovico Ortona, 72 anni, ex ambasciatore e già capo ufficio stampa di Francesco Cossiga al Quirinale è sempre lì: riconfermato. E la Sogesid, società distributrice nel 2013 di 380 consulenze, che sempre il governo Monti voleva sopprimere? Altro che soppressione. Al suo vertice è arrivato il casiniano Marco Staderini, già consigliere delle Ferrovie e della Rai. E Studiare Sviluppo, società di consulenza del Tesoro per cui il commissario ipotizzava analogo destino? Sopravvive alla grande con un consiglio di amministrazione rinnovato. Ma qui almeno la scelta è caduta su tre dirigenti ministeriali. Magra consolazione, in un andazzo generale che sottolinea il contrasto profondo fra i propositi (verbali) di rinnovamento e le azioni concrete. Qualche caso? L’ex direttore generale della Rai nominato da Berlusconi, Mauro Masi, è stato confermato amministratore delegato della Consap, ultimo baluardo pubblico nelle assicurazioni: in aggiunta l’hanno fatto presidente. Con lui è entrato in consiglio il segretario della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy, per di più amministratore della Banca del Mezzogiorno di Poste italiane. Gruppo di cui nella scorsa primavera l’ex portavoce di Pier Ferdinando Casini nonché ex deputato Udc Roberto Rao è diventato consigliere. Tre mesi dopo alla presidenza della compagnia aerea delle stesse Poste, la Mistral Air, è sbarcato l’ex onorevole Pd Massimo Zunino. Intanto al vertice di Poste Assicura arrivava Danilo Broggi, oggetto di apprezzamenti politici trasversali: è amministratore delegato dell’Atac, la claudicante azienda di trasporto del Comune di Roma. Fra i consiglieri di Poste Vita è comparsa invece Bianca Maria Martinelli, dirigente delle Poste medesime e candidata senza fortuna alle politiche 2013 per Scelta civica. E se l’ex deputato Pd Pier Fausto Recchia ha conquistato la poltrona di amministratore delegato di Difesa servizi, quella di capo dell’Istituto sviluppo agroalimentare è toccata a Enrico Corali, nominato a suo tempo consigliere dell’Expo 2015 dal dalemiano Filippo Penati. Mentre all’ex commissario della Consob di nomina berlusconiana Paolo Di Benedetto, incidentalmente marito dell’ex ministro della Giustizia Paola Severino, è stato assegnato un posto nel cda del Poligrafico. Per non parlare delle periferie, dove questo schema viene applicato senza soluzione di continuità. Capita così di scorgere fra i nomi dei nuovi consiglieri di Finlombarda quello dell’esponente di Forza Italia Marco Flavio Cirillo: trombato alle politiche del 2013, nominato sottosegretario all’Ambiente nel governo Letta e lasciato a casa da quello di Renzi. Ma anche di veder salire alla presidenza della Fincalabra, finanziaria di una Regione senza governatore e gestita da una reggente in attesa delle elezioni, Luca Mannarino: coordinatore regionale dei Club Forza Silvio. Il seguito, temiamo, alla prossima puntata sui riciclati.

Partecipate, il salvagente per i riciclati della politica, scriveGiornalettismo”. Altro che spending review. Sergio Rizzo ha denunciato sul Corriere della Sera tutte le vecchie conoscenze dei partiti "piazzate" nelle aziende controllate dallo Stato. Le stesse che Cottarelli puntava a tagliare per risparmiare. Altro che spending review. Nell’universo delle società partecipate il commissario per la revisione della spesa Carlo Cottarelli aveva individuato ben 2671 società, con il paradosso di avere più consiglieri che personale, da liquidare. Eppure, come ha denunciato Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, queste aziende da tagliare sono diventate il salvagente per gli «esodati della politica». E sono spesso moltiplicati anche gli incarichi. Rete autrostrade Mediterranee è una delle partecipate che lo Stato doveva mandare in liquidazione, secondo le indicazioni di Cottarelli. Controllata dal Tesoro, era stata creata da Silvio Berlusconi nel 2004: «Un dipendente fisso e dieci tra consiglieri e sindaci», sottolinea il Corsera. Invece che essere “archiviata”, sono pure stati rinnovati i vertici: non saranno più cinque, ma i tre rimasti in sella sono ex politici “di peso”. A presiederla sarà l’ex democristiano Antonio Cancian, già europarlamentare berlusconiano e poi passato tra le fila del Nuovo centrodestra, con il quale ha tentato invano la conferma alle ultime Europee. Bocciato dagli elettori, è stato promosso dalla pacificazione delle “larghe intese”. È lui a guidare la società, accanto a Christian Emmola, presidente renziano dell’assemblea del Pd trapanese, e a Valeria Vaccaro, tecnico del Tesoro e moglie di Marco Pinto, ex fidato collaboratore di Giulio Tremonti e ora consigliere Rai. Non è l’unico esempio denunciato da Sergio Rizzo. C’è anche Arcus, «società per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo» - come si legge nel sito -, con capitale sociale interamente sottoscritto dal Ministero dell’Economia. Già il governo dei tecnici guidato da Mario Monti aveva tentato di chiuderla, invano. E nemmeno la scure di Cottarelli è riuscita a liquidarla. Anzi, l’amministratore unico Ludovico Ortona, 72enne già ambasciatore e già capo ufficio stampa di Francesco Cossiga al Quirinale, è rimasto al suo posto. I casi denunciati da Rizzo sono innumerevoli: «E la Sogesid, società distributrice nel 2013 di 380 consulenze che sempre il governo Monti voleva sopprimere? Altro che soppressione. Al suo vertice è arrivato il casiniano Marco Staderini, già consigliere delle Ferrovie e della Rai. E Studiare Sviluppo, società di consulenza del Tesoro per cui il commissario ipotizzava analogo destino? Sopravvive alla grande con un consiglio di amministrazione rinnovato. Ma qui almeno la scelta è caduta su tre dirigenti ministeriali. Magra consolazione, in un andazzo generale che sottolinea il contrasto profondo fra i propositi (verbali) di rinnovamento e le azioni concrete», denuncia il Corriere della Sera. Al loro posto, al di là degli annunci sui tagli, sono così rimasti riciclati e vecchie conoscenze della politica. Come l’ex dg Rai, Mauro Masi, vecchio conoscenza delle nomine berlusconiane, è stato confermato amministratore delegato della Consap, nel settore delle assicurazioni. E “promosso” pure presidente: «Con lui è entrato in consiglio il segretario della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy, per di più amministratore della Banca del Mezzogiorno di Poste italiane. Gruppo di cui nella scorsa primavera l’ex portavoce di Pier Ferdinando Casini nonché ex deputato Udc Roberto Rao è diventato consigliere. Tre mesi dopo alla presidenza della compagnia aerea delle stesse Poste, la Mistral Air, è sbarcato l’ex onorevole Pd Massimo Zunino». Per la serie, in clima di “larghe (o strette) intese”, c’è spazio – e incarichi ben retribuiti – per tutti nelle società pubbliche. Danilo Broggi, apprezzato in modo bipartisan, è arrivato al vertice di Poste Assicura: tra gli incarichi, è anche amministratore delegato dell’Atac, l’azienda di trasporto di Roma Capitale. Nell’organigramma di Poste Vita ha trovato invece posto Bianca Maria Martinelli, che aveva tentato fortune alle elezioni del 2013, ma non era riuscita a farsi eleggere in Parlamento con Scelta civica. Nessun problema, tra partecipate e aziende pubbliche, c’è sempre posto. Non soltanto per lei: «Se l’ex deputato Pd Pier Fausto Recchia ha conquistato la poltrona di amministratore delegato di Difesa servizi, quella di capo dell’Istituto sviluppo agroalimentare è toccata a Enrico Corali, nominato a suo tempo consigliere dell’Expo 2015 dal dalemiano Filippo Penati. Mentre all’ex commissario della Consob di nomina berlusconiana Paolo Di Benedetto, incidentalmente marito dell’ex ministro della Giustizia Paola Severino, è stato assegnato un posto nel cda del Poligrafico», continua Rizzo. E anche nelle società meno note non mancano i riciclati. Così tra i nuovi consiglieri di Finlombarda ha trovato posto il forzista Marco Flavio Cirillo, ex sottosegretario nel governo Letta all’Ambiente dopo aver fallito l’elezione alle politiche del 2013. E alla presidenza della Fincalabra, la società finanziaria regionale? C’è Luca Mannarino, coordinatore regionale dei Club Forza Silvio. Una lista senza fine quella denunciata da Rizzo. Una “poltrona” (e uno stipendio con i soldi dei cittadini) non si nega a nessuno, nonostante i proclami sui sacrifici e sulla spending review.

Dalle Poste a Eni e Enel: quei 350 manager da nominare. Per la prima volta da 12 anni tocca a un governo di centrosinistra. Renzi punta a un rinnovamento profondo, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. La lista delle 350 nomine con cui Renzi dovrà ben presto fare i conti comincia imprevedibilmente dalla A di Arcus. Si chiama così una società dei Beni culturali costituita dieci anni fa per distribuire ogni anno milioni, con un consiglio lottizzato, senza passare per le procedure ordinarie. Tanto da aver suscitato serie perplessità sulla sua stessa esistenza, culminate nella sacrosanta soppressione decisa dal governo Monti. Ma prima che Arcus potesse esalare l’ultimo respiro, eccola resuscitare grazie a un provvidenziale emendamento al decreto «Del Fare» firmato nell’estate 2013, in piena stagione di larghe intese, dalla berlusconiana Elena Centemero, di professione insegnante. Ed essendo tornata operativa, anche questa società rientra ora nel più grande giro di nomine pubbliche da molti anni a questa parte. L’ambasciatore Ludovico Ortona, che in vista dello scioglimento di Arcus era stato nominato da Monti amministratore unico, è il primo dei manager pubblici in scadenza che dovrebbe essere rinnovato o sostituito. Sono, appunto, 350. La fetta più grossa è costituita dai 74 consiglieri di amministrazione del gruppo Enel, a cominciare dai nove della holding, con in testa l’amministratore delegato Fulvio Conti. Seguono le società partecipate dalla Cassa depositi e prestiti: 51 poltrone, comprese quelle delle imprese del Fondo italiano d’investimento. E poi il gruppo Anas (43), la Finmeccanica (35), l’Eni (29), le Poste (29) e le controllate delle Ferrovie (24) e di Invitalia (15). Partite in qualche caso delicatissime, considerando che è la prima volta negli ultimi dodici anni che un governo a guida di centrosinistra ha la responsabilità di designare i vertici delle più grandi aziende di Stato. Dunque un banco di prova determinante per il governo di Matteo Renzi, che ha fatto trapelare l’intenzione di procedere a un rinnovamento profondo. Il grimaldello, per quello che se ne sa, potrebbe essere l’applicazione di un criterio generale secondo il quale la durata massima delle cariche dovrebbe essere limitata a due mandati triennali. Un automatismo che garantirebbe il ricambio, ma che difficilmente si potrebbe applicare alle società quotate, dove la sostituzione di un manager «anziano» ma capace potrebbe non essere apprezzata dal mercato. Senza considerare che nella precedente tornata di nomine, lo scorso anno, hanno ottenuto la conferma anche capi azienda che avevano già oltrepassato quel limite, come gli amministratori delegati delle Ferrovie, Mauro Moretti, e di Invitalia, Domenico Arcuri. Il tema che si profila è perciò come combinare la necessità di cambiare l’aria, in qualche caso assai stantia, con l’esigenza di preservare il merito. E vedremo pure se, e in che modo, i partiti continueranno ad avere voce in capitolo. I fedelissimi del Cavaliere, per esempio, si dicono certi che tanto Conti quanto soprattutto il suo collega dell’Eni Paolo Scaroni, entrambi nominati e confermati due volte da governi targati Silvio Berlusconi, non usciranno di scena. C’è chi sibila di garanzie arrivate dal fronte renziano. Solo fantasie? Vedremo. Di sicuro scorrendo la lunga lista dei nomi in scadenza si può valutare la dimensione della partita che Renzi ha di fronte. Nel consiglio dell’Eni c’è per esempio Mario Resca, uno dei manager più apprezzati da Berlusconi, che l’ha voluto nel consiglio della Mondadori e alla direzione generale dei Beni culturali. Fra le varie società in attesa di rinnovo c’è poi la Consap, presieduta dall’ex Ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio e amministrata dall’ex direttore generale della Rai Mauro Masi. Alla Finmeccanica scadono tutti, anche il presidente nominato lo scorso anno dal governo Letta, che risponde al nome di Gianni De Gennaro, ex capo della polizia ed ex sottosegretario di Monti. Scade anche il consiglio di Italia Lavoro, dove troviamo Maria Lucia Galdieri: assessore al Lavoro e alla Pace, in carica (!), alla Provincia di Napoli governata dal centrodestra. E poi una piccola società dell’Eni, la Servizi fondo bombole metano, che ha riservato una poltroncina, udite udite, per Pasqualino De Vita, 84 anni suonati, ex capo dell’Agip e poi per tre lustri monarca dei petrolieri. Quindi Fs sistemi urbani, presieduta dal presidente delle Ferrovie Lamberto Cardia confermato nell’incarico giusto un anno fa, ex numero uno della Consob, ottant’anni il prossimo maggio. E Centostazioni, al cui vertice siede l’ex braccio destro di Biagio Agnes, Paolo Torresani. E la società Ricerca sul sistema energetico, con l’ex tesoriere di Forza Italia alla Camera, Alberto Di Luca. E la Banca del Mezzogiorno, con il segretario generale della Fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy. E la compagnia aerea delle Poste Mistral Air, con l’ex senatore Andrea Corrado, leghista al pari del presidente di Posteshop, Mario Cavallin. E Difesa Servizi, società creata dall’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, nella quale trovano posto il suo ex consigliere Giovanni Bozzetti e il segretario generale della Fondazione Alleanza nazionale, Antonio Giordano. Per non parlare dell’Istituto sviluppo agroalimentare, società del ministero dell’Agricoltura amministrata da Annalisa Vessella, consigliere regionale in carica (!) della Campania e consorte dell’ex onorevole Responsabile Michele Pisacane.... Un lavoro immane, capace di mettere a dura prova i coraggiosi propositi del governo renziano. Che poi così solidi, alla prima verifica, non si sono certo rivelati. La dimostrazione? Per mandare subito un segnale era stata ventilata addirittura una direttiva ai ministri chiedendo loro di non scegliere stretti collaboratori provenienti dal Consiglio di Stato. Ebbene, è di ieri la notizia che il ministro più importante, il responsabile dell’Economia Pier Carlo Padoan, avrebbe scelto come capo di gabinetto il consigliere di Stato Roberto Garofoli, segretario generale di palazzo Chigi con l’ex sottosegretario Filippo Patroni Griffi, a sua volta consigliere di Stato.

Fatta la legge trovato l’inganno. Così il centrosinistra ha aggirato la norme Monti per gli incarichi a Baiutti, Colussi e Maio. Attacco del M5S sulle nomine, scrive Anna Buttazzoni su “Il Messaggero Veneto”. Erano porte chiuse. Sbarrate da una legge del fu governo Monti per evitare il riciclo dei politici “trombati”. Erano. Perché quelle porte sono state riaperte, da “normette” regionali ideate ad hoc e approvate per superare la legge nazionale. Sono diventati portoni spalancati sull’ufficio di presidenza della giunta per Agostino Maio, il quasi ex vicesindaco di Udine, esponente di punta del Pd; sulla segreteria della presidenza del Consiglio per Giorgio Baiutti, ex consigliere regionale del Pd, non ricandidato alle elezioni Fvg di aprile; sull’Azienda speciale Villa Manin per Piero Colussi, ex consigliere regionale della civica Cittadini-Libertà civica, non ricandidato, che naviga a suo agio nel mare della Cultura, tanto da essere stato vicino vicino alla nomina ad assessore nell’attuale giunta. La mossa di Monti è stata ideata per facilitare il ricambio. Prevede che chi nei due anni precedenti sia stato componente della giunta o del Consiglio regionale, o della giunta e del Consiglio di Comuni sopra i 15 mila abitanti, non possa ottenere un incarico da amministratore di vertice della Regione, da dirigente nell’amministrazione regionale, da amministratore di un ente pubblico regionale o di un ente di diritto privato controllato dalla Regione. Per ottenere il posto Baiutti, che è già dipendente del Fvg, e Colussi dovrebbero attendere giugno 2015, perché fino a maggio sono stati consiglieri regionali, Baiutti partecipe all’Assemblea da 15 anni, Colussi fermo a dieci. Maio, invece, si dovrà dimettere da vicesindaco di Udine e dal giorno delle dimissioni per ottenere un ruolo di vertice dovrebbe cominciare il conto alla rovescia per 730 giorni, 24 mesi. Avrebbero forse sopportato di stare fermi un giro, ma così il giro è troppo lungo. Fatta le legge nazionale a trovare la scappatoia sono bastati cinque mesi. Baiutti è diventato il capo di Gabinetto del presidente del Consiglio Franco Iacop, stessi panni che dal 1º dicembre indosserà Maio per la presidente Debora Serracchiani. Colussi, invece, attende dalla giunta la nomina a Sovrintendente dell’Azienda speciale Villa Manin e l’iter è già stato avviato. Nei primi due casi la “normetta” è stata approvata dal Consiglio, all’unanimità. E supera il vincolo del decreto Monti sull’incarico di vertice in Regione, perché sancisce che il capo di Gabinetto della presidenza del Consiglio e della Regione “operano a supporto dei rispettivi presidenti quali responsabili dell’Ufficio di Gabinetto, struttura di diretta collaborazione con i presidenti medesimi”. Et voilà. Altro che incarico di vertice. È uno dei più alti e ambiti ma la nomina spetta ai presidenti e nessuno può intervenire. Per Colussi, invece, c’è un’intera legge modificata dal centrosinistra, quella per Villa Manin. La norma elimina il commissario e introduce un Sovrintendente e un Cda composto da tre persone. Si passa, insomma, da una a quattro nomine, tutte proposte dall’assessore alla Cultura, Gianni Torrenti, e confermate dalla giunta. Colussi è destinato a ricoprire l’incarico di Sovrintendente, salvato quindi dalle “sliding doors” del Monti. La durata dell’incarico va da uno a tre anni – ma si possono aprire le scommesse sui 36 mesi –, mentre il suo compenso sarà determinato dall’esecutivo e non supererà quello della presidente, 150 mila euro lordi l’anno. Il Cda invece resterà in carica per tre anni e chi lo comporrà avrà diritto solo al rimborso delle spese. E proprio sulle nomine il M5S sferra un nuovo attacco. Nel mirino c’è Claudio Siciliotti tra i “papabili” per la presidenza di Friulia. Ma è in corso il processo per il crac del pastificio Amato e Siciliotti è tra gli indagati. «E questo sarebbe il cambiamento? Non sono bastati alla presidente gli indagati prima candidati e poi eletti in Consiglio regionale? Adesso – punge la capogruppo pentastellata Elena Bianchi – vuole estendere anche alle Partecipate questo malcostume? Certo, un’indagine non è un giudizio di colpevolezza, ma è sicuramente fonte di distrazione non da poco per chi è chiamato a rivestire un incarico di grande responsabilità. Assistiamo increduli alla processione di nomi dei dirigenti, dei manager, degli amministratori e persino dei sindaci che sono sempre gli stessi: un gioco di scacchi dove lo scopo non è vincere ma solamente muovere gli stessi pezzi all’infinito, su una scacchiera fatta di interessi e di “giochi da reggere”, conclude Bianchi.

La Calabria di Mario Oliverio piena di riciclati. Il primo governatore ex comunista, ha nominato uomini della destra. E vuole gestire in prima persona il business sanità, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Mario Oliverio Bisogna ricostruire il brand della Calabria», dice a “l’Espresso” il governatore Mario Oliverio, eletto il 23 novembre, primo ex comunista nella storia della regione. Lo dice come se davvero fosse esistito un brand Calabria prima dei disastri amministrativi, industriali e criminali che la regione ha dovuto subire negli ultimi decenni. L’approccio di Oliverio presuppone una dose di ottimismo che non è precisamente una materia che abbonda fra il Pollino e l’Aspromonte. Oliverio stesso, finora, ha fatto ben poco per tenere viva la fiducia degli elettori in un risorgimento che non vuole arrivare e in cui pochi credono. "In Calabria da domani si cambierà musica", così il nuovo presidente della Calabria del centrosinistra, Mario Oliverio. Ci sono voluti oltre due mesi per nominare una squadra di governo che non è nemmeno definitiva. I quattro nominati lunedì 26 gennaio, due esterni e due eletti in consiglio, non sono esattamente il Dream team. L’ex ministro degli Affari regionali Maria Carmela Lanzetta, responsabile della cultura e delle pari opportunità, è stata strappata al governo Renzi con una manovra di calciomercato a parametro zero degna del Milan di questi tempi. Due giorni dopo si è dimessa perché non gradiva la compagnia degli altri tre. Enzo Ciconte, Carlo Guccione e Nino De Gaetano sono indagati nella Rimborsopoli calabrese con tutti gli altri consiglieri della legislatura precedente. Ma soprattutto De Gaetano ha rischiato l’arresto per i suoi rapporti con il clan Tegano di Archi. Lanzetta, minacciata dalla ‘ndrangheta, ha detto: o me o lui. Il match a eliminazione diretta si gioca in un quadro sconfortante. La Calabria è la regione più povera e con più disoccupati d’Italia (23,5 per cento nei primi nove mesi del 2014) è vincolata a un piano di rientro sanitario che fa impallidire l’austerity greca, usa male i fondi mandati dall’Europa e ha un pil di 29 miliardi di euro che è quasi la metà dei ricavi stimati di ‘ndrangheta srl (53 miliardi di euro all’anno). La partecipazione al voto è ai minimi storici. Alle regionali di novembre è andato alle urne il 44,07 per cento degli elettori. È vero che in Emilia-Romagna non si è raggiunto il 38 per cento. Ma la nuova giunta si è insediata a Bologna un mese dopo. In Calabria la riforma dello statuto ha bisogno di altri sessanta giorni per arrivare in porto e consentire a Oliverio di raggiungere l’obiettivo dichiarato in partenza: un modello presidenziale puro e sette assessori presi tutti da fuori. A questa squadra, che accentra il lavoro fatto da dodici assessori nella giunta precedente, potrà aggiungersi un membro del consiglio con delega del presidente su questioni particolari ma senza potere di firma. A volerlo tradurre in termini di politica alta, si tratta di separare il potere esecutivo (la giunta), dal potere legislativo (il consiglio). In fondo, anche il capo del governo nazionale non è parlamentare e fa uso di figure fiduciarie mai passate per le urne, come Marco Carrai, o al debutto con la legislatura in corso (Luca Lotti, Yoram Gutgeld, Maria Elena Boschi). Ma la politica non è sempre alta. Il silano Oliverio, 62 anni, consigliere regionale a 27 anni nel 1980 e assessore all’agricoltura nel 1986, si è comportato come qualunque politico vecchio o nuovo e, una volta al potere, ha patteggiato col nemico, come ha fatto Syriza ad Atene. Con il Nuovo centrodestra (Ncd) Oliverio ha sfruttato il doppio binario. Prima lo ha escluso dall’alleanza elettorale in quanto partito dell’ex governatore Giuseppe Scopelliti. Vinte le elezioni, il Ncd è rientrato dalla finestra con una vicepresidenza del Consiglio affidata all’ex assessore scopellitiano Giuseppe “Pino” Gentile, sopravvissuto con disinvoltura a una richiesta di espulsione rivolta al segretario-ministro Angelino Alfano dallo stesso Scopelliti, che imputa a Gentile la sua mancata elezione alle Europee dello scorso maggio. Il neopresidente del Consiglio regionale Antonio Scalzo del Pd, spedito a Roma insieme a Oliverio per votare il nuovo presidente della Repubblica, ha ingaggiato come portavoce Giampaolo Latella, il responsabile dell’ufficio di presidenza calabrese di Forza Italia, assunto pochi mesi fa dalla coordinatrice locale Jole Santelli. Anche le modifiche allo statuto si sono fatte con l’appoggio in aula del Ncd. Si è gridato all’inciucio ma, in fin dei conti, le larghe intese sono altrettanto larghe in parlamento. Il paradosso è che il governatore calabrese fa uso del renzismo senza essere renziano anzi si è imposto alle primarie sia contro il favorito del premier, Gianluca Callipo, sia contro la nomenklatura democrat, guidata dall’ex craxiano Ernesto Magorno. Per Oliverio la qualificazione delle primarie, vinte con il 48 per cento, è stata più dura della gara vera e propria, vinta a mani basse con il 61,4 per cento. L’ex sindaco Pci di San Giovanni in Fiore non ha fatto la fine di Sergio Cofferati in Liguria per il semplice motivo che il Pd calabrese non esiste. In aggiunta, il centrodestra è in piena faida interna e non avrebbe saputo quale avversario identificare a sinistra per appoggiarlo alle primarie Pd, come è accaduto in Liguria e come stava per accadere con il neosindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà, un altro che flirta moderatamente con re Matteo primo. Lo stesso Scopelliti il 23 novembre ha sostenuto in modo tiepido la corsa a governatore del suo ex amico ed ex legale di fiducia, il senatore Ncd Nico D’Ascola, mentre strizzava l’occhio alla candidata forzista Wanda Ferro, arrivata seconda a distanza abissale dal vincitore. Dopo avere battuto Ncd e forzisti, i sostenitori di Oliverio si aspettavano un inizio di partita più aggressivo. In fondo, il governatore in carica avrebbe la possibilità di dire di no a tutti per tre motivi. Primo: ha resistito a Renzi e al Pd che lo bollavano come il vecchio che avanza. Secondo: ha stravinto le elezioni quasi da solo. Terzo: ha annunciato che non si ricandiderà. Questa possibilità è solo teorica. A Roma non possono rischiare che la Calabria, l’antica Magna Grecia, diventi la piccola Grecia d’Italia: una regione periferica povera, sprecona, carica di debiti, che per di più pretende autonomia politica dai suoi finanziatori, lo Stato e l’Europa. Oltre ai problemi di bilancio e di pil, la regione è un palcoscenico del malcostume politico. Lo scorso aprile la Calabria ha dovuto affrontare le dimissioni del precedente governatore, Giuseppe Scopelliti, per una condanna in primo grado a sei anni. Dopo Scopelliti c’è stato un governo supplente tirato in lungo per sette mesi perché gli eletti sapevano che, a fine legislatura, le poltrone disponibili in consiglio sarebbero scese da cinquanta a trenta. Qualcuno ha persino ipotizzato di eludere il taglio imposto dalla legge Delrio alle regioni con popolazione fra 1 e 2 milioni di abitanti mediante un censimento che ritoccasse la cifra ufficiale (1.958.238). Con centinaia di migliaia di emigrati fuori regione non sarebbe stato difficile. Ma non è aria. Il disgusto per gli imbrogli è già ai massimi così come la pressione della magistratura. A parte Rimborsopoli che è un film proiettato in tutte le aule giudiziarie nazionali, i giudici hanno messo sotto inchiesta in blocco la giunta Scopelliti (2010-2014, centrodestra) per i finanziamenti all’edilizia sociale e tutta la giunta di Agazio Loiero (2005-2010, centrosinistra) per i finanziamenti alle imprese, escluso Loiero che al momento di votare il provvedimento sotto accusa era assente. All’handicap dato in partenza dagli indicatori economici generali, vanno aggiunte alcune emergenze gravi che Oliverio ha affrontato, come sottolinea lui stesso, da solo e prima di nominare gli assessori. In testa all’elenco c’è il problema dei rifiuti seguito da vertenze occupazionali come quella dell’Infocontact di Lamezia Terme, un grande call-center che rischia di perdere la commessa con Wind e che potrebbe licenziare 1800 dipendenti in un colpo solo. L’altra patata bollente preliminare all’insediamento della giunta è stata l’istituzione del cosiddetto ruolo unico dei dipendenti regionali. L’eredità dei moti per Reggio capoluogo del 1970-1971, ha spaccato la Calabria in due strutture. Nella città più grande, Reggio, ha sede il consiglio. Nel capoluogo amministrativo, Catanzaro, ha sede la giunta. Ci sono impiegati del consiglio e impiegati della giunta. «Questa spartizione», dice Oliverio, «impedisce di razionalizzare le risorse come previsto dalla spending review. Spostare un dipendente dalla giunta al consiglio o viceversa equivale a chiedere un distacco dalla regione Lombardia. Poi si è voluto strumentalizzare la mia posizione in modo campanilistico ma ribadisco che la giunta a Catanzaro e il consiglio a Reggio non sono in discussione». C’è poi la partita delle tante società in-house della Regione, nominifici clientelari che Oliverio definisce «cancerogeni» e sui quali ha promesso un’indagine interna. Un esempio per tutti è la fondazione Calabria etica, creata nel 2002 ma potenziata nell’era Scopelliti con un budget di 25 milioni di euro all’anno, 300 collaboratori a progetto scelti a discrezione della dirigenza e uno stipendio di 4,1 mila euro netti al presidente. Assi nella manica ce ne sono pochi. Il turismo è allo sbando con un inquinamento marino ai massimi, un aeroporto chiuso (Crotone), uno che potrebbe chiudere (Reggio) e solo Lamezia come alternativa. L’atout individuato da Oliverio è il porto di Gioia Tauro. Peccato che sia in una zona controllata in modo ferreo dalla ‘ndrangheta e che Renzi, proprio per questo, sia molto titubante a investirci. «Gioia Tauro deve diventare una scelta strategica del Paese», ribadisce Oliverio. «E questo presuppone un impegno forte contro il crimine. Sto facendo una ricerca per individuare una figura che dia un segnale netto di questo impegno della giunta contro la ‘ndrangheta». L’altro elemento di trattativa col potere centrale che ha condizionato la formazione della giunta è la nomina del nuovo commissario alla sanità. La questione, qui, è di sostanza, prima che di forma. Le spese sanitarie sono circa i due terzi del bilancio complessivo della regione. La Calabria vive molto più di impegnative e ricette mediche che di industria, agricoltura e edilizia. La dichiarazione di dissesto ha imposto la nomina di un commissario. Nella precedente legislatura era Scopelliti, controllore di se stesso. Dopo le sue dimissioni nell’aprile dell’anno scorso la gestione è stata affidata al subcommissario Luciano Pezzi, ex generale della Guardia di finanza. Il conflitto di interessi potenziale è stato risolto a livello nazionale da un provvedimento dello scorso 10 dicembre che dissocia la figura del governatore da quella del commissario straordinario. In un primo tempo, Oliverio ha provato a forzare il passo sostenendo che la norma non può essere retroattiva e che lui era stato eletto prima del 10 dicembre. Ha anche annunciato per due volte – l’ultima il 7 gennaio – di essersi accordato con Roma ma la nomina non si è ancora concretizzata. Come andrà a finire dipende forse da ulteriori trattative con la dirigenza Pd. Per adesso è stato inserito un emendamento nel “mille proroghe”, è stato modificato il testo e, se la variazione passerà, la sanità tornerà in mano al governatore. «Non è sete di potere. Ma la gestione del piano di rientro è stata ragionieristica», dice Oliverio con toni che evocano quelli di Alexis Tsipras. «Bisogna riordinare e riqualificare. Non è possibile pensare solo al pagamento degli interessi quando ci sono strutture come l’ospedale Annunziata di Cosenza che hanno sospeso i ricoveri ordinari. Ho parlato con Renzi nei giorni scorsi e da lui ho ricevuto incoraggiamento e sostegno. Del resto, l’ha detto lui che la Calabria è la madre di tutte le battaglie». In effetti, Renzi lo ha detto. Ha detto anche di stare sereno a Enrico Letta, più o meno un anno fa di questi tempi.

ESAMI E CONCORSI PUBBLICI: LA VIOLAZIONE DI OGNI REGOLA MORALE E GIURIDICA.

Medicina, i 5 mila studenti riammessi dal Tar mandano in tilt le università. Aule sovraffollate e lezioni partite in ritardo. La protesta dei vincitori del test 2014: «Tanti sacrifici e poi siamo costretti a subire tutti questi disagi», scrive Michele Schinella su “Il Corriere della Sera”. La carica dei 5 mila aspiranti medici bocciati al test del 9 aprile 2014 e ripescati dal Tribunale amministrativo regionale ha mandato in tilt gli atenei italiani, scatenando le proteste dei vincitori del concorso che non hanno ancora visto partire i corsi o hanno dovuto aspettare settimane e si sono ritrovati a condividere spazi e strutture con colleghi in numero doppio e talvolta triplo rispetto a quanto era stato programmato. Ma l’ondata dei candidati che anche con punteggio pari allo zero si sono avvantaggiati del clamoroso autogol del Miur è destinata a gonfiarsi ancora. Dalla giornata di venerdì scorso, infatti, il Consiglio di Stato, condividendo le valutazioni dell’organo di giustizia amministrativa di primo grado che aveva annullato il concorso per violazione dell’anonimato, ha adottato una serie di pronunce che spalancano la porta di servizio verso il camice bianco a circa 1500/2000 studenti: tutti quelli che, ormai non più in tempo a rivolgersi al Tar, hanno presentato ricorso straordinario al Capo dello Stato. Nelle prossime settimane, dunque gli atenei dovranno fare spazio ad altre centinaia di matricole e a organizzare corsi di insegnamento appositi per consentire agli ultimi arrivati di mettersi al passo con gli altri. I deputati Donata Lenzi, capogruppo Pd in commissione Affari sociali, e Filippo Crimì, componente della medesima commissione, in una nota del 15 ottobre avevano invitato il ministero a dare battaglia giudiziaria. I due parlamentari argomentavano: «Le ammissioni in sovrannumero hanno effetti devastanti nella partenza dell’anno accademico e sulla reale possibilità di offrire una formazione d’eccellenza a chi andrà poi a curare i cittadini italiani». Dello stesso tenore le preoccupazioni dei senatori Enrico Buemi e Fausto Guilherme Longo espresse in un’interrogazione parlamentare: «Negli atenei si sono determinati forti disagi sia per gli studenti sia per i numerosi atenei coinvolti. Il percorso formativo è messo a rischio». Solo per fare degli esempi, all’Università di Bari gli allievi sono passati da 237 a oltre 600 e i corsi, che si era pensato in un primo momento di affidare alla teledidattica, non sono ancora partiti. Un gruppo di studenti «Vincitori test di medicina 2014», ha espresso tutto il disappunto con una lettera inviata ai vertici dell’ateneo e del ministero. «Ci siamo preparati con sacrifici, abbiamo pagato le tasse per partecipare alle prove, poi altre tasse di iscrizione. Non è accettabile dobbiamo subire le colpe di altri»: è questo ragionamento dei vincitori un po’ in tutte le sedi universitarie. I corsi non sono iniziati neppure alla Seconda università di Napoli. Alla Federico II, invece, ci si è attrezzati con i maxischermi, poiché ci saranno 800 studenti di medicina rispetto ai 400 programmati con il numero chiuso. Molti atenei, dopo un primo momento di confusione, hanno deciso di tenere corsi separati rinviandone l’inizio per i vincitori dei ricorsi: è accaduto così all’Università di Palermo, dove un gruppo di studenti fa lezione il pomeriggio ma nella facoltà di Ingegneria, e a quello di Salerno. Santi Delia, il legale che per conto dell’Udu (l’Unione degli universitari) ha assistito migliaia di ricorrenti, la pensa in maniera diversa. «Sia pure con qualche ritardo i corsi sono partiti regolarmente in quasi tutte le sedi nonostante i 5mila in più, segno che le strutture e i docenti ci sono e che quando in tutti questi anni si è detto che il numero chiuso non può essere eliminato si racconta una cosa non vera», sottolinea il legale dell’associazione da sempre contraria al numero chiuso. Se però si traducesse in legge l’annuncio del ministro Stefania Giannini di eliminare il test di accesso e di sostituirlo con una prova selettiva dopo il primo anno, si tratterebbe di fare spazio non a 5mila persone in aggiunta ai 10mila posti banditi ma a oltre 60mila matricole. I rettori di tutti gli atenei all’uscita del ministro del maggio scorso sono insorti: «Non abbiamo aule. L’impatto sarebbe devastante». Il muro contro muro ha prodotto lo stallo. Il 15 ottobre scorso al ministero si è tenuto un tavolo tecnico con Conferenza dei rettori e rappresentati degli studenti per tentare di trovare una soluzione condivisa. L’esito è top secret, ma da quanto è trapelato il ministro non ha nessuna intenzione di desistere dal suo progetto contro il quale nel frattempo si sono mobilitati anche parlamentari della maggioranza. Una petizione promossa dal deputato Pd Crimì ha raccolto oltre 1500 adesioni: «Il test è una conquista». L’assist che ha dato a migliaia di candidati bocciati la possibilità di riacciuffare senza alcun merito un sogno stroncato dall’esito delle prove è stato fornito direttamente dal ministero. Nonostante le modalità di riconoscimento dei candidati dettati per il test dell’anno prima fossero state ritenute lesive dell’anonimato dal Consiglio di Stato, i dirigenti del Miur non sono riusciti a evitare che anche quello del 9 aprile 2014 incappasse nello stesso vizio lasciando sui fogli delle risposte e sulla scheda anagrafica dei candidati accanto al codice a barre quello alfanumerico, inutile e già censurato in precedenza dai magistrati amministrativi.

Aspiranti prof, il Tar del Lazio smonta l’abilitazione pezzo a pezzo. Previste alla fine del 2015 le sentenze, ma la nuova tornata di Asn sarà a marzo-aprile 2015, scrive Leonard Berberi su “Il Corriere della Sera”. Più di tremila ricorsi depositati al Tar contro i risultati della prima tornata delle abilitazioni scientifiche nazionali, la tappa resa obbligatoria dalla riforma per diventare prof all’Università. Il ministero che avverte sulle conseguenze economiche disastrose in caso di troppi giudizi sfavorevoli. Il Consiglio di Stato che dà ragione al dicastero, chiede al Tar di discutere le questioni nel merito e non di esprimersi con ordinanze, ma sottolinea che le sentenze amministrative poi vanno eseguite. Le quali sentenze arriveranno – per la maggior parte – non prima dell’autunno 2015 (tra un anno). Intanto, in primavera scatta la nuova sessione. Chissà come – e se – si uscirà da questo groviglio accademico-giudiziario scatenato dalla prima tornata delle Abilitazioni scientifiche nazionali, la tappa obbligatoria per gli aspiranti docenti universitari di prima fascia (ordinari) e di seconda (associati). Perché al Tar del Lazio continuano ad arrivare i ricorsi dei candidati non abilitati (con un tasso di accoglimento del 20-25%), e di quanti denunciano di essere stati valutati da commissari che avevano un contenzioso aperto con loro. A settembre ne sono stati depositati decine che rilevavano la mancanza di titoli dei membri delle commissioni. In alcuni casi il Tar si è già espresso – con un’ordinanza – considerando fondate «alcune delle censure proposte con particolare riferimento all’asserita illegittima formazione della Commissione nazionale per l’assenza dei requisiti di qualificazione» e alle «carenze nella motivazione del giudizio negativo espresso». Ma, nel farlo, ha già fissato la data per discutere nel merito della questione: tra ottobre e dicembre 2015. Il Miur, va detto, ha deciso di metterci una pezza con la sessione della prossima primavera: chi non è stato giudicato idoneo nelle tornate precedenti (2012 e 2013) potrà ripresentarsi dal 1° marzo 2015 e riprovare l’esame di abilitazione. Il titolo sarà valido per sei anni, non più quattro. Ma se questo è il piano accademico, su quello legale lo stesso ministero – dopo le ordinanze sfavorevoli del Tar dell’estate scorsa – ha deciso di coinvolgere il Consiglio di Stato: rispettarle tutte vorrebbe dire rifare la commissione giudicante di quel settore concorsuale, spendere ulteriori soldi. Un sacrificio (economico) che il dicastero non si può permettere, soprattutto ora che dal governo viene chiesto di tagliare e risparmiare su istruzione e ricerca un miliardo di euro. La spiegazione ha convinto il Consiglio di Stato che, per chiarire la questione – forse una volta per tutte – ha spiegato che il Miur può eseguire le decisioni del Tar soltanto se i ricorsi sono stati giudicati nel merito e quindi solo se c’è una sentenza. Ma le sentenze, come spiegato, non arriveranno prima di un anno. Nel frattempo altri aspiranti prof saranno abilitati nella tornata del 2015, gli atenei hanno attivato – o lo faranno a breve – le procedure di chiamata. Tra i casi più «corposi» spicca quello di oltre 120 candidati non abilitati che hanno presentato quattro ricorsi collettivi e molti altri individuali contro la prima tornata dell’Abilitazione scientifica nazionale nei settori «Sociologia generale, giuridica e politica», «Sociologia dei processi culturali e comunicativi», «Sociologia dei processi economici, del lavoro e dell’ambiente». Scrivono nella loro lettera gli aspiranti professori che, dopo aver letto e analizzato i verbali delle commissioni, «siamo in grado di documentare un’incredibile serie di errori, inadempienze, cadute di stile e vere e proprie scorrettezze», comprese anche le «contraddizioni relative alla natura di una stessa rivista giudicata “nazionale” o “internazionale” a seconda dei candidati», «incoerenze tra giudizi individuali e giudizi collegiali», «tempi di lettura strettissimi in relazione alla mole delle pubblicazioni da valutare». Denunciano ancora i sociologi di aver segnalato casi di commissari «che scrivono monografie insieme con i candidati, monografie pubblicate dopo la scadenza del bando, ma considerate valide ai fini del superamento della prima mediana del candidato, che è risultato poi abilitato».

COME SI DIVENTA MAGISTRATI: CHIEDETELO AD ANTONIO DI PIETRO.

“Ho letto i requisiti per poter diventare magistrato:li ritengo ingiusti. In special modo quello relativo alle condanne penali riportate dai parenti. Io ho dei parenti che sono stati in carcere ma non capisco come possa la mia vita essere collegata alla loro. Ognuno fa della propria vita ciò che vuole. La mia scelta di vita è totalmente differente dalla loro. Perchè punire me per fatti commessi da altri? Si potrebbe pensare: siccome sono parenti, una volta diventato magistrato potrei aiutarli. Allora la cosa diventa paradossale: per chi ha parenti incensurati ma dei migliori amici mafiosi...come la mettiamo? Secondo me è una violazione palese dell'art. 3 della Cost.. In questo modo il sogno della mia vita, svanisce prima d'iniziare...ergo...le colpe dei padri (in senso lato) ricadono sui figli. Spero vivamente che qualcosa cambi in questo senso.” Maria.

Vediamo un po'!. E' proprio vero che i magistrati sono di cristallina moralità, di immacolato lignaggio e di indiscutibile frequentazione amicale?

Magistrati, il concorso delle polemiche. Le nuove regole per l'accesso in magistratura prevedono un percorso agevolato per i praticanti dell'avvocatura di Stato. Eccezione che ha fatto infuriare chi arriva dagli studi privati o dalle altre amministrazioni pubbliche, scrive A. M. su “L’Espresso”. Rivolta contro le nuove regole per il concorso in magistratura. Le norme stringenti e meritocratiche decise dal governo, dopo che lo scorso anno per 365 posti erano state presentate 20 mila domande, prevedono un’eccezione: i praticanti dell’Avvocatura dello Stato. Il bando per 340 posti nel 2015 stabilisce infatti che possa essere ammesso direttamente, senza passare per la costosa Scuola di specializzazione, insieme a chi ha fatto uno stage formativo in un ufficio giudiziario, pure chi abbia svolto il tirocinio presso l’Avvocatura statale (a patto che abbia meno di trent’anni, un voto di laurea superiore a 105/110 o una media di 27/30 in alcuni esami). Esclusi in toto, invece, i praticanti degli studi privati e delle altre amministrazioni pubbliche (come le avvocature della Banca d’Italia e quelle dell’Inps). Le nuove disposizioni hanno scatenato una bufera tra le migliaia di precari degli studi privati che, attraverso il portale LeggiOggi.it, stanno preparando ricorso collettivo contro «l’inaccettabile discriminazione».

Il magistrato nipote del boss mafioso, scrive “Art. tre”. Il matrimonio tra due rampolli di Cosa Nostra, la nipote di Messina Denaro e il figlio di un boss mafioso, celebrate  nella Cappella Palatina a Palazzo dei Normanni, hanno suscitato indubbio scalpore. I due ragazzi, peraltro incensurati, sono gli eredi di famiglie importanti, quei Guttadauro e Sansone che hanno scritto la storia recente di Cosa Nostra. Comunque nulla di illecito, gli sposi hanno sancito la loro unione in un luogo concesso dalle istituzioni a chiunque ne faccia richiesta. Mentre è emersa un’altra vicenda relativa al boss di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, un suo nipote diretto, cugino della neo sposina,  è entrato in magistratura. Certamente si tratta di un magistrato perbene e corretto, lontano dalle cosche. Ha scelto di svolgere la funzione di giudice lontano dalla Sicilia e certamente espleta la sua funzione in maniera ineccepibile. Ma un’anomalia, e non da poco, esiste: è parente stretto di un appartenente a Cosa Nostra e quando il neo laureato in giurisprudenza presentò la domanda per accedere al concorso in magistratura, gli organismi investigativi avrebbero dovuto segnalare la cosa al ministero della Giustizia. Infatti l’articolo 124 dell’ordinamento giudiziario recita “Il Csm non ammette al concorso i candidati che, per le informazioni raccolte, non risultano di condotta incensurabile ed i cui parenti, in linea retta entro il primo grado ed in linea collaterale entro il secondo grado, hanno riportato condanne”. Per il caso Cuffaro, Giuseppe Guttadauro, zio del magistrato,  è stato condannato a 13 anni e quattro mesi di carcere. La prassi per entrare in magistratura è rigida, la parentela di questo giudice, sarebbero stata ostacolo anche solo per ottenere un appalto pubblico, invece nessuno ha eccepito alcunché sulla sua nomina.

Sulla condotta censurabile si è espresso il Consiglio di Stato.

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, sentenza 04 luglio 2012, n. 3929 (Pres. Trotta, Est. Forlenza)

Riforma T.A.R. Lazio-Roma, Sez. II, 26 marzo 2012, n. 2869. Con la sentenza il Consiglio di Stato riprende i principi formulati dalla giurisprudenza in relazione alla valutazione e motivazione circa la sussistenza del requisito delle qualità morali per l’arruolamento nelle Forze di Polizia. Valuta, quindi, la rilevanza di un unico episodio di consumo personale di droga non considerata “pesante” ai fini dell’esclusione da un concorso per l’accesso ad una delle Forze Armate o delle Forze di Polizia.

Sulla valutazione e motivazione circa la sussistenza del requisito delle qualità morali per l’arruolamento nelle Forze di Polizia. Il requisito della moralità e condotta incensurabili, richiesto per l’arruolamento nelle forze di polizia dall’art. 26 l. n. 53/1989, mediante il richiamo alla normativa dell’ordinamento giudiziario per l’ammissione alla magistratura, è necessario, pur dopo l’abrogazione delle disposizioni che richiedevano il requisito della buona condotta per l’ammissione ai pubblici impieghi, e che, nell’esaminare la sussistenza o meno del predetto requisito, l’amministrazione deve procedere ad una adeguata valutazione della concreta situazione di fatto, e motivare, eventualmente, la ritenuta insussistenza del requisito delle qualità morali in relazione alle circostanze concrete del caso ed alle ragioni per le quali l’aspirante non darebbe alcun affidamento per il futuro, tenuto conto dei compiti che è chiamato a svolgere. La valutazione della presenza (o meno) del requisito della “condotta incensurabile” appartiene ad una sfera di giudizio ampiamente discrezionale dell’amministrazione (sia essa giudiziaria o delle Forze Armate), dovendosi tuttavia tale giudizio fondare su elementi di fatto concreti (e non su voci o semplici sospetti), espressamente indicati in motivazione; fatti afferenti direttamente alla persona dell’aspirante, e non già al suo nucleo familiare, di provenienza o costituito, a meno che non si dimostri come cause relative a soggetti diversi possano riverberarsi anche sulla persona stessa del candidato, per effetto di rapporti di convivenza, frequentazione, cointeressenza, tali da non consentire un giudizio (nell’attualità e prognostico) favorevole. L’esercizio della discrezionalità da parte dell’amministrazione (ed il conseguente sindacato giurisdizionale del giudice, nei limiti in cui questo è consentito) deve tenere senz’altro conto della particolarità e delicatezza delle funzioni che il candidato (ove risultante vincitore del concorso) dovrà svolgere, essendo confacente ad un corretto uso del potere discrezionale procedere a valutazioni del genere ora considerato, storicizzando l’esercizio del detto potere e quindi contestualizzando il requisito richiesto (“condotta incensurabile”), con la natura delle funzioni.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale #### del 2012,

proposto da: Ministero dell’Economia e delle Finanze, Comando Generale della Guardia di Finanza-Centro Reclutamento Guardia di Finanza, Ministero della Difesa - Roma, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura gen. dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro Tizio, rappresentato e difeso dall’avv. Angelo Fiore Tartaglia, con domicilio eletto presso Angelo Fiore Tartaglia in Roma, viale omissis;

per la riforma della sentenza breve del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE II n. 02869/2012, resa tra le parti, concernente mancata ammissione al concorso per titoli ed esami di n.1250 allievi finanzieri della guardia di finanza per l’anno 2011

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Tizio;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 19 giugno 2012 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Angelo Fiore Tartaglia e Alessia Urbani Neri (Avv. dello Stato);

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con l’appello in esame il Ministero dell’Economia e delle Finanze e le altre amministrazioni indicate in epigrafe, impugnano la sentenza 26 marzo 2012 n. 2869, con la quale il TAR per il Lazio, sez. II, ha annullato il provvedimento, emesso nei confronti del sig. Tizio (ricorrente in I grado), di non idoneità all’arruolamento nel Corpo della Guardia di Finanza, per mancanza del requisito del possesso delle qualità morali e di condotta. Ciò in quanto, come riportato in sentenza (pag. 2), Tizio "aveva subito una perquisizione in data 16 dicembre 2006, all’esito della quale veniva rinvenuto nell’autovettura del cugino un quantitativo (minimo) di sostanza stupefacente di tipo hashish all’interno di un pacchetto di sigarette ritrovato sotto il sedile occupato dal cugino". La sentenza appellata afferma:

- i fatti ascritti al ricorrente "rimontano addirittura a 5 anni prima della partecipazione al concorso, quando lo stesso ricorrente non aveva ancora raggiunto la maggiore età";

- tale circostanza, unitamente alla "modica quantità di sostanza stupefacente rinvenuta nel corso della perquisizione dell’auto in questione, . . . costituiscono elementi idonei a considerare di lieve entità la vicenda oggetto di contestazione e obiettivamente inidonea a fornire elementi di disvalore della personalità del ricorrente con riguardo a ciò che doverosamente si pretende da un aspirante finanziere";

- infatti "un singolo ed isolato episodio di assunzione di sostanza stupefacente, avvenuto in giovane età e risalente nel tempo, non può essere ragionevolmente assunto come indice rivelatore delle qualità morali che si richiedono agli aspiranti all’arruolamento nei corpi armati e di Polizia dello Stato", ciò anche se "l’uso isolato di sostanze stupefacenti antecedente all’arruolamento costituisce fatto oggettivamente riprovevole".

Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di appello:

error in iudicando; corretto esercizio della discrezionalità e piena motivazione da parte dell’amministrazione, a fronte della specificità dei compiti attribuiti alla Guardia di Finanza e di un fatto "oggettivamente riprovevole", uso saltuario di stupefacenti da parte del candidato; contraddittorietà della sentenza; eccesso di potere giurisdizionale per sindacato su una scelta che rientra nel merito dell’azione amministrativa;

ciò in quanto "la preposta autorità amministrativa gode di ampi margini di discrezionalità nella valutazione della sussistenza del requisito della incensurabilità della condotta . . . per cui anche singoli fatti, oggettivamente gravi, possono legittimamente indurre a ritenere scarsamente affidabile l’arruolando per il futuro"; in tal senso "un orientamento particolarmente restrittivo si giustifica alla luce degli elevati standard che legittimamente vengono richiesti ai giovani aspiranti finanzieri". In definitiva "la contiguità con gli stupefacenti e con il correlato circuito criminale di spaccio, sono più che sufficienti per dimostrare l’assenza dell’incensurabilità della condotta".

Si è costituito in giudizio il sig. Tizio, che ha concluso per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza, esponendo una pluralità di ragioni (pagg. 6 – 22 della memoria 25 maggio 2012).

All’odierna udienza in Camera di Consiglio, il Collegio, rilevata la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 60 Cpa, ha trattenuto la causa in decisione per il merito.

DIRITTO

L’appello è fondato e deve essere accolto, con conseguente riforma della sentenza appellata. Questo Consiglio di Stato ha già avuto modo, di recente, di pronunciarsi su questioni non dissimili da quella oggetto del presente giudizio, anche rivedendo un proprio precedente orientamento (v. Cons. Stato, sez. IV, 29 settembre 2011 n. 5411, citata anche dal ricorso in appello), e giungendo a conclusioni dalle quali non vi è ragione di discostarsi nella presente sede. Come afferma la decisione citata, l’art. 35, co. 6, d. lgs. n. 165/2001, prevede che "ai fini delle assunzioni di personale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e le amministrazioni che esercitano competenze istituzionali in materia di difesa e sicurezza dello Stato, di polizia, di giustizia ordinaria, amministrativa, contabile e di difesa in giudizio dello Stato, si applica il disposto di cui all’articolo 26 della legge 1 febbraio 1989, n. 53, e successive modificazioni e ed integrazioni". L’art. 26 della citata legge n. 53/1989, prevede, a sua volta, che "per l’accesso ai ruoli del personale della polizia di Stato e delle altre forze di polizia indicate dall’articolo 16 della legge 1° aprile 1981, n. 121, è richiesto il possesso delle qualità morali e di condotta stabilite per l’ammissione ai concorsi della magistratura ordinaria". Quanto a questi ultimi concorsi, l’art. 124, u.c., R.D. n. 12/1941 (poi abrogato dall’art. 54 d.lgs. n. 160/2006), prevedeva, in particolare, che "il Consiglio superiore della magistratura non ammette al concorso i candidati che, per le informazioni raccolte non risultano di condotta incensurabile ed i cui parenti, in linea retta entro il primo grado ed in linea collaterale entro il secondo, hanno riportato condanne per taluno dei delitti di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale.. . .". (quest’ultima parte, riferita alle condanne dei parenti quale causa di esclusione, già dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale, con sentenza 28 luglio 2000, n. 391). Infine, il vigente art. 2, co. 2, lett. b-bis, prevede che, ai fini dell’ammissione al concorso in magistratura (e quindi, per quel che interessa nella presente sede, al concorso per la Guardia di finanza), occorre "essere di condotta incensurabile". La giurisprudenza ha avuto modo, fin da anni risalenti, di affermare che il requisito della moralità e condotta incensurabili, richiesto per l’arruolamento nelle forze di polizia dall’art. 26 l. n. 53/1989, mediante il richiamo alla normativa dell’ordinamento giudiziario per l’ammissione alla magistratura, è necessario, pur dopo l’abrogazione delle disposizioni che richiedevano il requisito della buona condotta per l’ammissione ai pubblici impieghi, e che, nell’esaminare la sussistenza o meno del predetto requisito, l’amministrazione deve procedere ad una adeguata valutazione della concreta situazione di fatto, e motivare, eventualmente, la ritenuta insussistenza del requisito delle qualità morali in relazione alle circostanze concrete del caso ed alle ragioni per le quali l’aspirante non darebbe alcun affidamento per il futuro, tenuto conto dei compiti che è chiamato a svolgere (Cons. Stato, sez. IV, 24 ottobre 1994 n. 836 e 23 maggio 2001 n. 2851). Orbene, il dato di fatto sul quale si fonda il negativo giudizio dell’amministrazione è costituito da un unico episodio, quale il rinvenimento di un quantitativo minimo di hashish all’interno dell’auto di proprietà del cugino dell’attuale appellato, nel corso di una perquisizione intervenuta in anni antecedenti e quando l’appellato era minorenne. Tale episodio fonda il giudizio negativo attuale sul possesso delle qualità morali richieste e il giudizio prognostico negativo nell’ottica dei compiti istituzionali demandati alla Guardia di Finanza, laddove la sentenza appellata (e, nella presente sede, in senso conforme l’appellato) ha espressamente ritenuto che "un singolo ed isolato episodio di assunzione di sostanza stupefacente, avvenuto in giovane età e risalente nel tempo, non può essere ragionevolmente assunto come indice rivelatore delle qualità morali che si richiedono agli aspiranti all’arruolamento nei corpi armati e di Polizia dello Stato". Questo Consiglio di Stato ritiene innanzi tutto opportuno sottolineare come la valutazione della presenza (o meno) del requisito della "condotta incensurabile" appartiene ad una sfera di giudizio ampiamente discrezionale dell’amministrazione (sia essa giudiziaria o delle Forze Armate), dovendosi tuttavia tale giudizio fondare su elementi di fatto concreti (e non su voci o semplici sospetti: v. Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2010 n. 4585), espressamente indicati in motivazione; fatti afferenti direttamente alla persona dell’aspirante, e non già al suo nucleo familiare, di provenienza o costituito, a meno che non si dimostri come cause relative a soggetti diversi possano riverberarsi anche sulla persona stessa del candidato, per effetto di rapporti di convivenza, frequentazione, cointeressenza, tali da non consentire un giudizio (nell’attualità e prognostico) favorevole. L’esercizio della discrezionalità da parte dell’amministrazione (ed il conseguente sindacato giurisdizionale del giudice, nei limiti in cui questo è consentito) deve tenere senz’altro conto della particolarità e delicatezza delle funzioni che il candidato (ove risultante vincitore del concorso) dovrà svolgere, essendo confacente ad un corretto uso del potere discrezionale procedere a valutazioni del genere ora considerato, storicizzando l’esercizio del detto potere e quindi contestualizzando il requisito richiesto ("condotta incensurabile"), con la natura delle funzioni. D’altra parte, la non riconducibilità del rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica amministrazione (latamente intesa) ad un modello unico (di modo che possono aversi valutazioni differenti di un medesimo episodio in ragione di impieghi diversi), è già desumibile dalla stessa Costituzione, laddove, all’art. 98, comma terzo, prevede che, per determinaste categorie di pubblici dipendenti (peraltro coincidenti con le categorie considerate nella presente sede) possano essere disposte limitazioni finanche all’esercizio dei diritti politici (nella specie, iscrizioni ai partiti), purchè con legge ed in evidente considerazione della specificità e delicatezza delle loro funzioni. Per le medesime ragioni, l’art. 3 d. lgs. n. 165/2001 enuclea una specifica categoria di "personale in regime di diritto pubblico", sottratto alla c.d. contrattualizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazione, nella quale rientrano, fra gli altri, gli appartenenti alle magistrature ed il personale militare e delle Forze di Polizia di Stato". A fronte della discrezionalità riconosciuta all’amministrazione in sede di valutazione del requisito della "condotta incensurabile" (pur nei limiti indicati), il sindacato del giudice amministrativo, lungi dal concretizzarsi in una valutazione che si sostituisce a quella legittimamente spettante all’amministrazione - così risolvendosi in un non consentito sindacato sul merito dell’azione amministrativa - deve tendere a verificare innanzi tutto, per il tramite delle figure sintomatiche di eccesso di potere evidenziate con i motivi di ricorso, l’esistenza e sufficienza della motivazione sulla quale si fonda il provvedimento adottato, nonché la non contraddittorietà e ragionevolezza della valutazione effettuata e la logicità della misura concretamente assunta, per effetto della valutazione svolta. Orbene, questo Consiglio di Stato ritiene che il provvedimento di esclusione di un candidato da un concorso per l’accesso ad una delle Forze Armate o delle Forze di Polizia, determinata dal consumo personale di droga, sia pure consistente in un unico episodio accertato e per droghe non considerate "pesanti", risulta, per un verso, congruamente motivato con riferimento all’episodio stesso ed al suo evidente "attrito" con i compiti che un appartenente alle Forze Armate o di Polizia è chiamato a svolgere; per altro verso, tale provvedimento non risulta affetto da eccesso di potere per illogicità e/o irragionevolezza, tenuto conto della natura dell’episodio in relazione alla delicatezza e specificità delle funzioni che si aspira a svolgere per il tramite del superamento del concorso, delicatezza e specificità certamente superiori rispetto ad altre pur importanti funzioni pubbliche. Questo Consiglio di Stato non ignora che, con altre decisioni (tra le altre, sez. IV, 31 dicembre 2007 n. 6848), si è affermato che "un unico, singolo episodio di detenzione di sostanze stupefacenti non può essere considerato di per sé ostativo al possesso della condotta incensurabile di soggetti candidati all’arruolamento nelle Forze armate e comunque nei corpi armati dello Stato.". Si è anche aggiunto che una vicenda, che "ha rappresentato effettivamente un fatto isolato nella vita dell’appellato, lontano nel tempo e posto in essere in età non ancora matura . . ." per quanto "vicenda sicuramente non edificante, deve essere correlata con tutto il contesto della vita dello stesso, per cui, non essendosi ripetute più altre vicende disdicevoli nella vita di relazione del medesimo, (ed in qualche modo interessanti la sua nuova posizione di militare) non può che rilevarsi la mera occasionalità dell’episodio, che non può assurgere ad elemento talmente negativo e decisivo da inibirgli la possibilità dell’arruolamento nella Guardia di finanza.". Tuttavia, il Collegio, per le considerazioni già espresse, non ritiene di poter aderire a tale diverso orientamento, atteso che la valutazione di gravità dell’episodio, anche isolato, di consumo di sostanze stupefacenti, effettuata dall’amministrazione non appare affetta da illogicità, in considerazione dell’episodio in sé (peraltro definito "sicuramente non edificante" anche dalla diversa giurisprudenza citata, e "oggettivamente riprovevole" dalla sentenza appellata) e viepiù se rapportato alle delicate funzioni che si intendono svolgere. Per tutte le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata, poiché sussiste - così come dedotto dall’appellante Ministero - il "corretto esercizio della discrezionalità e piena motivazione da parte dell’amministrazione, a fronte della specificità dei compiti attribuiti alla Guardia di Finanza e di un fatto "oggettivamente riprovevole". Né possono trovare accoglimento, per le medesime ragioni, le opposte considerazioni dell’appellato (pagg. 6 – 21 memoria 25 maggio 2012), considerazioni che – per quanto esposte con una scansione per "motivi" – non costituiscono appello incidentale (che per le ragioni esposte sarebbe comunque infondato), così come si evince dalle richieste formulate a pag. 6 della memoria e dalle conclusioni rassegnate a pag. 22 del medesimo atto. Stante la natura delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull’appello proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze ed altri, come in epigrafe (n. ####/2012 r.g.), lo accoglie e, per l’effetto, in riforma la sentenza appellata, rigetta il ricorso instaurativo del giudizio di I grado.

Compensa tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 giugno 2012 con l’intervento dei magistrati:

Gaetano Trotta, Presidente

Sergio De Felice, Consigliere

Raffaele Greco, Consigliere

Diego Sabatino, Consigliere

Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore


DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 04/07/2012

Dato che i magistrati non vengon da Marte.....

Il fratello del pm antimafia al ricevimento del boss. A essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, è Vincenzo Mollace, scrive “Il Tempo”. Nozze, clan e parenti stretti dei pm antimafia. Ad essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, detto «il terribile», è Vincenzo Mollace, fratello «scomodo» del magistrato antimafia Francesco Mollace, di recente trasferito dalla procura di Reggio Calabria a Roma. Lo scenario è un ristorante di Gerace, nella locride. Il dvd che ritrae il fratello del pm mentre s’intrattiene, fra un pasto e l’altro, coi più potenti boss calabresi, è contenuto in un’informativa dei carabinieri di Locri, nelle cui mani è finito praticamente per caso. Siamo nel gennaio 2010 e il reparto speciale «Cacciatori» dell’Arma è sulle tracce di un pericoloso latitante: Stefano Mammoliti. Irrompono nella casa di un secondo latitante di San Luca convinti di scovare la loro preda, ma non trovano nessuno. Si imbattono, però, nel dvd e nel visionarlo restano basiti: a tavola coi mammasantissima c’è infatti Vincenzo Mollace, docente universitario, fratello del pm antimafia e all’epoca dei fatti direttore generale dell’Arpacal, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente in Calabria. Nell’informativa gli uomini dell’Arma scrivono: «Si nota di spalle con cappotto e cappello di colore scuro Mollace Vincenzo nella zona antistante il buffet, vicino a un soggetto anziano con la coppola, successivamente di fianco vicino a due soggetti di spalle e a Nirta Antonio, alias “terribile”, padre dello sposo, mentre parlano». Intorno a loro, che bevono vino, chiacchierano e mangiano, anche Rocco Morabito, «successore» del boss Giuseppe Morabito «u tiradrittu», e Bruno Gioffrè, che nella «cupola calabrese» occupa il secondo posto più importante. Fra i commensali, come riportato nell’informativa, anche due politici locali: Tommaso Mittiga, sindaco di Bovalino di area Pd, e Domenico Savica, suo «oppositore» in consiglio comunale. Il filmato rinvenuto dai carabinieri fa da riscontro a molti elementi contenuti nelle carte dell’operazione «Inganno» che un mese fa ha portato agli arresti dell’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, e della «paladina antimafia» Rosy Canale, coordinatrice del «Movimento delle donne di San Luca». Ed è nel corso di questa operazione che gli investigatori hanno intercettato l’ex sindaco Giorgi mentre affermava che gli incontri tra Vincenzo Mollace e i boss si sarebbero intensificati a ridosso delle ultime elezioni regionali. Gli inquirenti si soffermano anche sui rapporti tra Savica e Vincenzo Mollace e dello stesso Savica con Antonio Stefano Caridi, oggi senatore del Nuovo Centrodestra.

Portici, in lista la nipote del boss imbarazzo del giudice candidato sindaco. Nascita e tramonto in poche ore della corsa elettorale della giovane imparentata a Luigi Vollaro, detto o' Califfo. E il magistrato: forse una leggerezza, scrive Concita Sannino su “La Repubblica”. Psicodramma preelettorale a Portici. Una farsa, grave, a più voci. Basta bussare a una porta del centro storico per scoprire che la nipote ventenne del boss di camorra Luigi Vollaro, ergastolano noto come 'o Califfo, ovvero Jessica Provisiero, è inserita in lista con l'Udc, all'insaputa  -  ovvio  -  di tutti.  "Sì, ce la voglio fare, io sono pulita, magari comincia una bella carriera", dice Jessica.  Un'ora più tardi: il terremoto. Si fa viva la mamma della candidata: "Perché non parlate con me?". Due ore dopo: il candidato sindaco della stessa compagine, Nicola Marrone, per inciso giudice a Torre Annunziata, confessa di aver appreso "la grave circostanza" solo ieri, appena dopo la visita di "Repubblica" alla signorina gravata  -  senza colpa  -  dal legame di sangue con il nonno ras (detenuto da 30 anni). E alla fine, dopo febbrili contatti, è lo stesso Marrone a pretendere "il ritiro immediato" di Jessica. Ma questo si vedrà dopo. Benvenuti nella città dove esplodono i veleni nel centrosinistra. "La colpa è tutta dell'ex sindaco e attuale senatore Pd, Cuomo", tuonano adesso dall'Udc. La cittadina che fino a ieri piangeva i morti e i feriti del balcone crollato, domenica scorsa, alla processione del patrono San Ciro, relega ormai il cordoglio ai parenti e alle parrocchie, archivia i funerali e si rituffa nel clima preelettorale. Compresi sgambetti, imboscate e gravi sorprese. Quella della candidatura di Jessica Provisiero  -  classe 1991, ragazza incensurata, senza alcun peso se non la parentela col nonno che fu il sanguinario Califfo di camorra  -  è una storia in linea con lo scollamento tra etica e politica, perfino tra evidenza e logica. Lei, la ragazza, ha una faccia pulita e racconta: "Non mi chiedete se mi piace destra o sinistra, non saprei, ma ci provo". Invece lo psicodramma di Portici, di cui è stata testimone ieri "Repubblica", racconta nell'ordine: una precipitosa fuga a minimizzare prima di capire che cosa fosse successo e chi avesse operato, anche illudendo una ragazza; un'alta concentrazione di veleni nel campo lasciato libero dal sindaco uscente Pd; e una grave defaillance di (mezzo) centrosinistra, visto che a sostenere Marrone ci sono anche Sel e Verdi. Nessuno si era accorto di chi c'era in lista?
Uno psicodramma lungo un pomeriggio. In tre tempi.

Ore 15, Jessica spera. "Con la politica va via il marchio". I vicoli che si allungano nell'antico mercato di Portici, alle spalle del santuario di San Ciro, evocano immagini che hanno attraversato le faide dei tremendi anni Settanta. Guerre di scafi blu, di ricchezze, di omicidi. A Portici imperava un boss che si faceva chiamare 'o Califfo, aveva troppi figli e molti vizi. Luigi Vollaro è rinchiuso da tre decenni. Da anni al regime 41 bis, carcere duro per i mafiosi, al Nord. In questi vicoli, ora più silenziosi e sereni, vive Jessica, diplomata in Ragioneria, con le sorelle, la madre che lavora in una ditta di pulizie e il padre che si occupa di sfilate di ragazzi e bambini. Lei è candidata Udc, la lista sostiene il giudice Nicola Marrone. Jessica apre il portone. "Qui siamo onesti lavoratori  -  comincia  -  mio nonno è mio nonno ma noi siamo noi". La ragazza si lascia fotografare, ribadisce di volersi impegnare al Comune: "Magari comincio una carriera, ci voglio provare". Ma da quando la appassiona la politica: quale leader, quale schieramento? Jessica indugia. Poi recupera due bigliettini elettorali: "Non saprei. Me lo hanno proposto e ho detto sì. Leggete qui, questo signore mi ha spinta per coinvolgere i giovani". È il candidato Felice Calise dell'Udc, ha fatto stampare i cartoncini che ora le inondano casa con la doppia preferenza: "Vota con Marrone sindaco: Calise e Provisiero". Jessica sorride. "Lo so, qualcuno farà polemiche, che devo fare? Magari mi libero del marchio. Ora scusate, sto raggiungendo mamma sul lavoro. Non ho esperienza, ma vorrei fare qualcosa per il paese". Accanto a lei c'è la sorella maggiore, Loredana: "Guardi che i miei genitori sono onesti lavoratori e siamo felici per mia sorella, ce la farà. Perché non ci possiamo togliere di dosso questa schiavitù? Nostro nonno ce lo dice quando lo andiamo a trovare: "Fate altre scelte nella vita". Ecco tutto". Saluto cordiale. Sono fiduciose.

Ore 16.30, lo stop di una madre. "Lo ha deciso chi di dovere". Una voce gentile ma preoccupata, al telefono. È Teresa Vollaro, la madre di Jessica. "Scusi, che servizio volete fare? Invece di chiamare Jessica dovevate chiamare me". Ma la candidata è adulta e sa che cosa vuole. Replica della signora Teresa: "Ma quando mai. Cancellate tutto. Sono tanto delusa dalla giustizia divina e umana...". Si riferisce all'ergastolo per suo padre? "Che c'entra? Perché lo nomina? Non lo nomini". La nipote del boss in lista apre polemiche. "Ma Jessica si ritira, basta!". Jessica sembrava molto contenta di farlo. "No. Abbiamo parlato con chi di dovere. Meglio di no. Arrivederci".

Ore 19. L'anatema di Marrone. "Jessica si ritira, basta". Il candidato sindaco Marrone è in bilico tra amarezza e imbarazzo. E ira. "Certamente quello che è accaduto è grave, e provvederemo a fare ritirare la ragazza, che non ha alcuna colpa. Ma lei e la sua famiglia sono già d'accordo a non entrare in Comune, si ritira". Resta il dubbio: si è trattato di un'imboscata, di una clamorosa "leggerezza" o di un'operazione fallita per un'intervista? "Sono un pragmatico e voglio ritenere che ci sia stata una leggerezza, nel mettere in lista una giovane che peraltro porta un cognome diverso da quello del nonno, ben noto. Ma io non ne sapevo nulla". Non si chiede chi abbia condotto questa operazione nell'Udc? "Invece penso a chi possa aver usato strumentalmente questa leggerezza di altri... Penso ci sia lo zampino dell'ex sindaco e senatore Pd Cuomo: guarda le parentele degli altri, spiffera. Proprio lui che si dispiacque quando qualcuno parlò di parentele per lui". Veleni. Mentre Marrone si divide tra il ruolo di aspirante sindaco e quello di giudice. Si scopre, infatti, che Marrone è in piena campagna elettorale a una manciata di chilometri dal suo collegio giudicante, ma non è in aspettativa. Così come la legge (poco etica) gli consente. Era accaduto ad altri magistrati, accadrà ancora. "Mi adeguo alla legge", spiega cortese l'aspirante sindaco. Mentre Jessica scompare sullo sfondo.

Azienda va all’asta e imprenditore tenta il suicidio, scrive A.P. su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Vaff... allo Stato». Sono le ultime durissime e sofferte parole dell’imprenditore Cosimo Maggiore, che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma è stato abbandonato dallo Stato. Uno schiaffo in un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket. Ma una volta raccolte le testimonianze persone come Maggiore vengono abbandonate al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Al termine di una mattinata convulsa l’imprenditore si è barricato in azienda tentando di farla finita. L’ultimo disperato grido d’allarme dopo che alla fine di una vicenda che va avanti da quasi 7 anni, la sua attività è stata venduta all’asta. Maggiore non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti, ma ha finito anche col perdere la sua azienda che è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. E ieri mattina quando ha visto che i lucchetti all’ingresso della sua attività erano stati sostituiti ha pensato di compiere un insano gesto vedendo che tutte le battaglie sostenute negli ultimi anni erano perse. Amaro il suo sfogo: «È finita oltre che la mia vita si sono presi anche la mia azienda. Fanno bene a non denunciare. Non denunciate il racket. Ecco cosa succede, sbattuto fuori da casa mia! La mia banca la Popolare pugliese non ha accettato l’art. 20 della legge 44/99, la legge che tutela chi è colpito dal racket. Grazie Stato». Con la voce rotta dall’amarezza spiega perchè non ha portato a termine il suo gesto: «Mi sono barricato nel capannone perchè avevo deciso di farla finita. C’era già tutto pronto anche le bombole di propano. Poi... ho guardato le foto dei miei figli... e... non ce l’ho fatta». Poi conclude: «Vaff... allo Stato!».

L’azienda del testimone di giustizia finisce all’asta. “Pronto a barricarmi dentro”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche pentiti) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Il testimone di giustizia abbandonato dallo Stato. “Maledetto il giorno che ho denunciato, maledico questo Stato e le persone che mi hanno convinto a denunciare e che mi hanno lasciato solo”. È l’imprenditore Cosimo Maggiore che parla, un testimone di giustizia di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi. La stessa località che ospita la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. Cosimo è stanco, è abbattuto. Ha denunciato i suoi estorsori, uomini della Sacra Corona Unita, finiti in galera e condannati grazie al suo senso civico. Alla sua onestà di cittadino perbene. Vittima di estorsione e di minacce da parte dei mafiosi del posto. La mafia pugliese, sanguinaria e violenta, che sembra quasi dimenticata. Lo stesso ‘trattamento’ riservato alla ‘ndrangheta, sino a qualche tempo fa. Ha perduto la sua azienda e la speranza. “Oggi non lavoro più, cazzeggio tutto il giorno su facebook, la mia valvola di sfogo. Il mio capannone è stato messo all’asta. Mi hanno fatto terra bruciata intorno. Sono solo, con la mia famiglia. Sai chi ha acquistato all’asta il mio capannone? Un prestanome delle persone che ho denunciato. Ma nessuno entrerà nella mia struttura, a costo di farmi saltare in aria”. Cosimo ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Napolitano, al ministro Alfano, al Prefetto, al Generale dei Carabinieri. “Non ho ricevuto risposta da nessuno. L’unica cosa che hanno fatto è stato il ritiro delle armi, legalmente detenute. Le ho regalate ai miei amici dell’Arma”. Cosimo Maggiore ha una scorta, due carabinieri (“tutto ciò che mi resta, due angeli custodi”) che lo seguono ovunque. “Ho ricevuto premi come imprenditore coraggio, tutti mi dicono sei coraggioso, hai le palle, servono persone come te. Sono uno scemo, mi sento solo e abbandonato”. Ma quando inizia la sua storia di testimone di giustizia? “Otto anni fa, nel 2006, quando vennero da me dei soggetti per una proposta”. Una ‘assicurazione’, un’estorsione di 500euro al mese, da destinare alle famiglie dei carcerati. “Non accettai la proposta”. Cosimo pensa a lavorare, ha diversi cantieri aperti, costruzioni da ultimare. Si occupa di infissi. Va avanti per la sua strada, a testa alta. Ma i delinquenti non mollano la presa. Si rifanno vivi dopo qualche mese. “Vengo convocato in un appartamento, dove trovo una bella sorpresa. Non c’erano lavori da effettuare, ma una nuova proposta da accettare. Pretendevano anche gli interessi arretrati, circa 2mila euro al mese”. Nella stanza erano “presenti Occhineri Antonio e Musardo Mario”, entrambi detenuti. Cosimo continua a subire pressioni, strani sguardi, avvertimenti. Racconta la sua drammatica storia a un ispettore della squadra mobile e denuncia nel 2007. “Ho avuto paura, questa è brutta gente. Hanno collegamenti con le forze dell’ordine e non solo”. Sino ad oggi ha collezionato 32 denunce, “è stato tutto inutile”. Le pressioni continuano senza soste. “Un mio compare, vicino a questa organizzazione criminale, mi avvicina diverse volte. Pretendono che ritiri la querela, mi incontrano”. È presente anche Bruno Andrea, capo indiscusso della zona, oggi in carcere con una trentina d’anni da scontare. Fratello di Ciro, capo storico della Scu, già condannato all’ergastolo. “Mi fanno parlare con un avvocato, che a tavolino, mi spiega cosa devo fare”. Il ‘compare’ continua la sua azione, “non potevo immaginare che anche lui potesse appartenere all’organizzazione. Gli dissi che non doveva farsi più vedere, ricordo una sua frase, non potrò mai più dimenticarla: ‘fai attenzione, non sai chi hai sfidato. Sono gli stessi criminali che, tempo fa, hanno ammazzato e seppellito sotto un terreno due giovani”. Cosimo Maggiore è una brava persona, non la ritira la denuncia. Si posiziona dalla parte dello Stato (che in molte circostanze non si dimostra tale e con la ‘S’ maiuscola), vuole e cerca giustizia. La sua dettagliata testimonianza manda in galera sette soggetti. Diventa quasi un eroe. Nel 2007 a San Pancrazio il Presidente della Provincia convoca un consiglio monotematico, coinvolgendo tutti i sindaci (di Brindisi e provincia), i politici, la Camera di Commercio e le autorità locali. Tutti insieme per celebrare “l’imprenditore coraggioso, tutti volevano aiutarmi. Ad oggi non ho mai visto nessuno. Dopo la denuncia è cominciato il mio calvario”. Nel 2008 i riconoscimenti pubblici: il premio 112 dell’Arma dei Carabinieri e il premio imprenditore coraggio. Iniziano i problemi anche con la sua attività. “Mano a mano comincio a perdere i lavori”. ‘Non possiamo saltare anche noi in aria’ – le parole ripetute all’infinito – potevi pensarci prima. Te la sei cercata. Perde tutti i lavori. “Ed iniziano altri problemi, le ingiunzioni. Mi avevano avvisato, me lo avevano detto chiaramente: ‘te la faremo pagare. Rimarrai da solo come un cane’. Si è avverato tutto”. Il testimone di giustizia non si dà pace. “Il mio capannone è stato messo all’asta, nessuno ha applicato l’articolo 20 della legge 44 del 1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura). La banca non ha mai accettato questa legge, nessuna sospensione. Solo una presa per il culo”. Si legge nell’interrogazione dell’aprile 2014, a firma del senatore Iurlaro: “Chi denuncia il racket dovrebbe essere tutelato ai sensi di quanto stabilito dalla legge del 1999. Chi è vittima dell’estorsione e denuncia il racket, si rivolge alle associazioni anti racket proprio perché ne presume l’adeguata esperienza assistenziale, invece, nel territorio brindisino, il signor Maggiore ha ricevuto solo danni per inadeguata assistenza. È stato persino danneggiato pesantemente, per il mancato interessamento volto alla sospensione dei termini di 300 giorni ex art.20, come era suo diritto e come, da prassi, ottiene la vittima di estorsione e/o usura che abbia denunciato ed abbia presentato domanda di accesso al Fondo”. Cosimo ha 47 anni, una moglie e due figli. Ma come vive la famiglia Maggiore questa assurda situazione? “Preferisco non parlarne. Con me hanno vinto loro, i mafiosi. Siamo rimasti soli, tremendamente soli. Vado sempre in giro con una lettera intestata alla mia famiglia. Mi resta soltanto una strada: il suicidio”.

Un ex imprenditore chiede aiuto: “La SCU ha mantenuto la sua promessa: Io non vivo più”, scrive Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”   “Se non paghi finirai di lavorare”; “Se denunci avrai finito di vivere”; “Se ti fai parte civile, muori”. Firmato La Scu (Sacra corona unita). Questo e molto altro lo ha vissuto – e continua a vivere – sulla sua pelle Cosimo Maggiore, oggi 47enne, ex imprenditore di San Pancrazio Salentino, piccolo paese in provincia di Brindisi. ‘Ex’ perché oggi Maggiore si ritrova senza un lavoro e senza la sua azienda. Perché? Perché un bel giorno mentre nel Salento stava per sbocciare la Primavera al cancello della sua azienda di infissi si è presentato il pizzo. Una macchia nera che avvolge e distrugge tutto: il lavoro, la libertà, la serenità, la vita. L’imprenditore, che si è piegato pochissime volte ai ricatti della criminalità organizzata, è stato costretto al pagamento attraverso intimidazioni e minacce, ma poi aggrappandosi alle sue forti spalle ha deciso di recarsi dalle forze dell’ordine e denunciare. Dal 2006 ad oggi per Cosimo Maggiore e la sua famiglia, sono stati anni di lotte, minacce, denunce, arresti, paure. L’imprenditore da otto anni vive sotto protezione. Al suo fianco ci sono sempre due carabinieri – definiti da lui gli angeli custodi – che non lo perdono di vista. Una vita che oramai non si può più definire vita. Un’azienda ereditata dal padre che dopo venti anni di duro lavoro si è sgretolata, ma non a causa della crisi o della mancanza di lavoro, ma a causa del giro del racket. Cosimo Maggiore non si è inginocchiato ai piedi della Scu e ha denunciato, non una sola volta, ma più volte fino a far arrestare anche il boss della frangia torrese della Sacra corona unita, Andrea Bruno insieme ai suoi compari. Oggi però dopo anni di inferno, Cosimo Maggiore – considerato dallo Stato un Testimone di giustizia e vittima del racket – sostiene che a sbattergli le porte in faccia sia stato proprio lo Stato e le associazioni Antiracket e sostiene, ancora, che a vincere sia stata la Scu. Il suo capannone, infatti, lo Stato lo ha venduto all’asta. Una parte, quindi, della sua ex azienda è stata acquistata da terze persone. L’imprenditore di San Pancrazio Salentino lo scorso settembre ha presentato un’ennesima denuncia presso l’Arma dei carabinieri. In quella querela Maggiore dichiara a chiare lettere che il suo capannone sarebbe stato acquistato da un prestanome. Già in passato Maggiore aveva rilasciato qualche dichiarazione, ma oggi per la prima volta ha accettato di parlare in una video-intervista.

Già, chi sono le "Istituzioni" che ti aiuteranno?

Usura ed estorsioni, in manette il figlio del prefetto Sessa, scrive “Il Mattino”. Daniele Sessa, 31 anni, figlio del prefetto di Avellino, Carlo, è stato arrestato ieri dai militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, su disposizione del giudice per le indagini preliminari. Sessa è finito in carcere all’alba insieme a Cosimo De Pasquale. I due, entrambi tarantini, sono dietro le sbarre con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura e all'estorsione. Nel corso delle indagini della Guardia di Finanza, eseguite anche con l'ausilio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, è emerso che Sessa e De Pasquale, gestivano nel capoluogo ionico un giro di usura nei confronti di numerosi commercianti, con il supporto anche di altre tre persone, delle quali due legate da vincoli di parentela. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, mentre Daniele Sessa si occupava principalmente di procurare i capitali e di gestire la parte contabile, Cosimo De Pasquale, sfruttando la sua fama di uomo violento, si assicurava con continue minacce e intimidazioni fisiche e psicologiche, il rispetto delle scadenze da parte delle vittime finite nel giro di usura.
Gli altri tre componenti dell’associazione a delinquere, denunciati a piede libero, fungevano, a loro volta, da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell'associazione malavitosa. Ai due arrestati, su disposizione del pubblico ministero della Procura tarantina, sono stati sequestrati i conti correnti bancari, a titolo preventivo d'urgenza. L'operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata «Ultima chanche». Le indagini delle Fiamme Gialle di Taranto sono andate avanti per circa un anno. I finanzieri sono entrati in azione dopo la denuncia di alcuni commercianti finiti nella rete degli strozzini. Secondo quanto accertato dagl inquirenti, Sessa e De Pasquale imponevano agli esercenti del rione Italia, che avevano chiesto piccole somme di denaro in prestito, tassi usurai che si aggiravano tra il 150-180 per cento.

Assistente sociale e usuraio. Nel blitz coinvolto Daniele Sessa, figlio di un Prefetto. Disponeva di macchine costose e con l’hobby delle competizioni motociclistiche, scrive “Taranto Buonasera”. Uno dei due  presunti usurai, arrestati ieri dalla Guardia di Finanza,  lavorava anche come assistente sociale. Daniele Sessa, 31 anni, incensurato e figlio di Prefetto, ufficialmente aiutava i bisognosi e, così come emerge dalle indagini delle Fiamme Gialle “ricavava redditi nell’ordine soltanto di poche centinaia di euro mensili, tanto da non presentare neppure le relative dichiarazione fiscali”. Di Daniele Sessa, che è attualmente in carcere con le pesanti accuse di associazione a delinquere e usura, gli investigatori del nucleo di polizia tributaria nel corso delle indagini hanno tracciato un preciso identikit. “Tra il 2011 e il 2013 era ancora a carico dei genitori, e tuttavia ciò non gli ha impedito di disporre di macchine costose, due Audi A6 e di coltivare l’hobby delle competizioni motociclistiche, anch’esso notoriamente  piuttosto impegnativo dal lato finanziario”. Arrestato  nella operazione “Ultima chance” anche il 46enne Cosimo De Pasquale che secondo l’accusa avrebbe a curato con continue minacce il “rispetto” delle scadenze da parte delle vittime. Altri  tre, tra cui zio e nipote, tutti commercianti, sono indagati a piede libero.  E’ emerso che fungevano da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell’organizzazione. I due arrestati sono attualmente detenuti nella casa circondariale di largo Magli, a disposizione del giudice delle indagini preliminari che li interrogherà  lunedì prossimo. Nei confronti di De Pasquale e Sessa, su ordine del pm Lucia Isceri è stato operato anche il sequestro preventivo d’urgenza dei conti correnti bancari. Nel corso delle indagini, durate oltre un anno e  condotte anche con intercettazioni telefoniche, è emerso che De Pasquale e il suo amico Sessa avrebbero gestito nel capoluogo jonico il giro di usura. Tra le vittime una decina di titolari di esercizi commerciali e di laboratori artigianali.  Avrebbero pagato tassi usurari che arrivavano fino al 180% annui, titolari di ristoranti, di negozi di abbigliamento e imprenditori. Secondo l’accusa le vittime sarebbero state minacciate anche in casa o nei luoghi di lavoro. In alcune circostanze Sessa avrebbe proceduto anche personalmente a richiedere i pagamenti degli interessi usurari.  Avrebbe comunque ricoperto il ruolo di mandante delle azioni estorsive che avrebbe, invece, messo in atto, il suo amico Cosimo De Pasquale.

La Guardia di Finanza di Taranto ha arrestato ieri due tarantini con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione. Si tratta del 46enne Cosimo De Pasquale e del 31enne Daniele Sessa, scrive “La Voce di Manduria”. Quest’ultimo è figlio di Carlo Sessa, attuale prefetto di Avellino, già prefetto della neo costituita Prefettura della Provincia Bat e commissario prefettizio del comune di Manduria dove possiede ancora un’antica  villa nelle campagne tra Manduria e Sava. Secondo l’accusa, i due arrestati, con la complicità di altri tre indagati a piede libero, avrebbero gestito un giro di attività usuraia nei confronti di numerosi commercianti ai quali praticavano interessi sino al 180% annui. L’inchiesta delle fiamme gialle assume particolare spessore proprio grazie alla presenza, tra gli indiziati di reato, del figlio del prefetto Sessa. Il giudice delle indagini preliminari, Martino Rosati, nella sua ordinanza, descrive il giovane come «vocato alla violenza». Seppure ancora a carico dei genitori – scrive il gip -, dichiarava redditi per poche centinaia di euro mensili, disponeva di autovetture costose e coltivava l’hobby altrettanto costoso delle competizioni motociclistiche.

Da un fatto ad un al'atro.

Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.

1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito www.libero-news.it. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.

2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.

La testimone X.Y su Ferrigno....Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...

Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....

"Pizzo come i malavitosi", 7 arresti per le tangenti su appalti della Marina militare. Secondo l'accusa, da più di 10 anni, gli imprenditori erano tenuti a pagare il 10 per cento del valore delle commesse per aggiudicarsi i lavori. In manette cinque ufficiali, un sottufficiale e un dipendente civile, scrive Vittorio Ricapito su “La Repubblica”. Scandalo in Marina Militare. Per la procura di Taranto ufficiali e responsabili degli uffici imponevano il pizzo  alle aziende fornitrici e dell'appalto. Un sistema di tangenti a percentuale fissa, il dieci per cento sull'importo di ogni appalto o fornitura, sotto minaccia di rallentare o ostacolare i pagamenti.  "Come la malavita organizzata", il pizzo veniva imposto "in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia", scrive il gip Pompeo Carriere nell'ordinanza di custodia cautelare, causando danni notevoli sia alle singole imprese che all'intera economia locale. Con l'aggravante che il giro di tangenti era imposto da dipendenti dello Stato, per la maggior parte militari, "che hanno giurato fedeltà alla Repubblica e all'osservanza delle regole, innanzitutto deontologiche, dell'ordinamento di appartenenza". Secondo gli investigatori, il "sistema del 10 per cento" andava avanti da almeno dieci anni, una prassi illecita che tacitamente si trasferiva da un comandante all'altro, come un passaggio di consegne. All'alba di questa mattina sono scattate le manette. I carabinieri del comando provinciale di Taranto guidati dal colonnello Giovanni Tamborrino hanno portato in carcere l'attuale e due ex vice direttori del commissariato militare marittimo di Taranto (Maricommi), un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina militare, tutti accusati di concussione. Gli arresti sono stati eseguiti a Roma, Napoli e Taranto. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Secondo gli investigatori le tangenti venivano riscosse dall'ufficiale alla guida del quinto reparto e poi divise in percentuali a seconda degli accordi con chi aveva seguito l'iter amministrativo della pratica. C'era da oliare diversi ingranaggi: chi dal comando di vertice assicurava la copertura finanziaria sui relativi capitoli di bilancio, chi autorizzava l'atto di spesa, chi sottoscriveva l'atto dispositivo, chi materialmente contabilizzava assegni e provviste ed infine chi si interfacciava direttamente con la vittima del sistema. Il tutto naturalmente suddiviso in percentuali formulate in base all'importanza che rivestiva nel procedimento ogni singolo attore. L'inchiesta del sostituto procuratore Maurizio Carbone è decollata il 13 marzo del 2014 quando i carabinieri arrestarono in flagranza di reato il capitano di fregata Roberto La Gioia, 45 anni, comandante del 5° reparto di Maricommi, fermato nel suo ufficio subito dopo aver intascato una tangente di 2mila euro da un imprenditore. Questo aveva già denunciato tutto ai carabinieri sostenendo di aver subìto per anni il "sistema del 10 per cento" e versato tangenti per circa 150 mila euro per mantenere l'appalto dello smaltimento delle acque di sentina delle navi militari. Fra casa ed ufficio del militare, gli investigatori trovarono circa 44mila euro ma soprattutto alcune pen drive su cui era annotata la contabilità occulta e la lista delle imprese che pagavano tangenti. Il 5° reparto di Maricommi, guidato da La Gioia fino al suo arresto, è quello che si occupa dell'approvvigionamento, stoccaggio e rifornimento di combustibili e lubrificanti delle unità navali della Marina Militare e dei mezzi aeromobili, assicurando rifornimenti h24 e 365 giorni all'anno. Nei successivi nove mesi gli investigatori si sono concentrati sulle dichiarazioni dell'ufficiale arrestato, hanno ascoltato i titolari delle imprese che lavorano con la Marina militare, messo sotto controllo telefoni e sequestrato documenti, computer e buoni carburanti, portando alla luce un giro di pizzo di notevoli dimensioni. La Marina militare, si legge in una nota, "ribadendo il proprio pieno sostegno all'azione della magistratura, ha incrementato al proprio interno le attività ispettive e di controllo finalizzate a prevenire e contrastare il fenomeno della corruzione, a salvaguardia del personale che presta quotidianamente servizio con spirito di sacrificio e senso dello stato, compiendo il proprio dovere anche a rischio della vita".

Marina Militare e appalti, 7 arresti per concussione, scrive “la Gazzetta del Mezzogiorno”. Un “vero e proprio pizzo imposto in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, e che ha causato nel complesso danni notevoli sia alle singole imprese che all’intera economia locale, sostanzialmente alla stregua dell’agire della malavita organizzata”. Lo scrive il gip di Taranto Pompeo Carriere nell’ordinanza di custodia cautelare, richiesta dal pm Maurizio Carbone, notificata a 7 indagati, tra militari e civili, nell’ambito di una inchiesta sugli appalti gestiti dalla Marina militare. La tangente imposta era pari al 10% dei profitti. I carabinieri del comando provinciale di Taranto hanno arrestato il vice direttore di Maricommi, due ex vice direttori, un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina Militare per concussione. In concorso tra loro – secondo l'accusa – abusando delle loro qualità e dei loro poteri, con la minaccia di ostacolare la regolare emissione dei mandati di pagamento per la esecuzione dei lavori di manutenzione e forniture di servizi e materiale loro affidati per conto della Marina militare, gli indagati hanno costretto “vari imprenditori a versare materialmente al capo del V Reparto di Maricommi, in tempi diversi, più somme di denaro non dovute per importi variabili e altre utilità, per un valore complessivamente comunque equivalente al 10% circa dei profitti derivanti dai servizi svolti”. Somme che il capo reparto, precisa una nota dei carabinieri, “provvedeva a distribuire successivamente in diverse parti percentuali secondo gli accordi tra loro intervenuti”.

Gip: imponevano «pizzo» come malavitosi, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E' in corso, nelle provincie di Taranto, Roma e Napoli, l’esecuzione, da parte dei Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto, di sette ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip su richiesta della locale Procura della Repubblica. Le misure restrittive e contestuali perquisizioni vedono fra i destinatari appartenenti della Marina Militare fra i quali Ufficiali, Sottufficiali e personale civile, ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di concussione nell’ambito di appalti in favore dell’ente. L'inchiesta, avviata dopo la denuncia presentata da un imprenditore che sosteneva di aver pagato tangenti in relazione ad un appalto, sfociò il 12 marzo 2014 nell’arresto del capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, comandante del quinto reparto di Maricommi, che si occupava di contratti e appalti. L'ufficiale fu bloccato dopo aver ricevuto una busta con 2mila euro dall’imprenditore, che rappresentava – secondo l'accusa – una tranche di una tangente imposta per emettere i mandati di pagamento nei confronti della sua azienda. Il sospetto degli investigatori è che il militare abbia chiesto una tangente del 10 per cento. I carabinieri successivamente perquisirono l’appartamento e l’ufficio di La Gioia trovando altro denaro ritenuto frutto della concussione. Furono sequestrate anche due pen drive dell’arrestato, in cui furono scoperti file con un elenco di imprese. Accanto a ognuna di esse era riportato il valore dell’appalto aggiudicato e il pagamento di tangenti. Sono cinque ufficiali in servizio a Napoli, Roma e Taranto, un sottufficiale e un impiegato, entrambi in servizio a Taranto, le sette persone portate in carcere dai carabinieri nell’ambito dell’indagine sulle tangenti imposte sugli appalti della Marina Militare. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Sono tutti indagati in concorso con il capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, ex responsabile di Maricommi, arrestato il 12 marzo del 2104 ed attualmente e sottoposto all’obbligo di firma. L’ufficiale fu indagato per concussione nei confronti di una serie di imprenditori locali, assegnatari di servizi per conto della Pubblica Amministrazione nell’ambito degli appalti gestiti dalla direzione di Commissariato per la Marina Militare di Taranto. Al graduato fu sequestrata una somma di denaro contante, suddivisa in singole mazzette, per un ammontare complessivo pari a 44mila euro. Il gip scrive nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita oggi che il sistema ideato dagli indagati faceva sì che gli imprenditori concussi fossero vittime di una “vera e propria prassi illecita che si trasferisce da un comandante all’altro, in un ideale passaggio di consegne, più o meno tacito”.

Ma non è la prima volta.

Un provvedimento di interdizione dagli incarichi è stato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli nei confronti di quattro ufficiali della Marina Militare, coinvolti in un’inchiesta su appalti assegnati dalla Marina Militare per lavori nell’Arsenale di Taranto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La richiesta è stata accolta dal gip del tribunale di Taranto Michele Ancona: trattandosi tuttavia di personale militare è necessario prima procedere agli interrogatori di garanzia, già fissati per il 28 e il 31 marzo 2008. Per i quattro ufficiali era stato chiesto l’arresto, ma il gip ha respinto la richiesta di misura cautelare. In tutto sono nove gli indagati. I quattro destinatari del provvedimento interdittivo sono l’ammiraglio Giulio Cobolli, attuale comandante dell’Arsenale militare, l’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino, ex direttore dell’Arsenale di Taranto, trasferito a Roma; Pietro Covino, in servizio a La Spezia, e Nicola Giustino, contrammiraglio in servizio a Taranto. Si ipotizzano anche i reati di truffa e turbativa d’asta perché alle gare di appalto avrebbero partecipato ditte che non avevano requisiti. L'inchiesta sfociò, il 9 novembre 2005, nel sequestro preventivo e probatorio di un’area di circa 18.000 metri quadrati all’interno dell’Arsenale della Marina Militare, nella quale lavorano numerose ditte appaltatrici, e delle attrezzature utilizzate per la manutenzione delle navi. Successivamente fu notificato il provvedimento di sequestro preventivo ai titolari delle ditte, alcune delle quali avrebbero la sede legale in un bar o in campagna. All’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino fu affidata la custodia giudiziale dell’area interessata dal sequestro. Le indagini dei carabinieri del Nil e dei funzionari dell’Ispettorato del lavoro facevano riferimento a presunte violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro. Durante le ispezioni, sarebbe emersa la mancanza dei requisiti utili per poter partecipare alle gare di appalto espletate dalla Marina militare. Per altre aziende, invece, furono avviati accertamenti sulle modalità con le quali era stato ottenuto il certificato Nato necessario per compiere interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle navi militari.

E poi....

Denuncia un concorso ma l'Ateneo la accusa: «Collezionava incarichi», scrive Luca Barile su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un assegno di ricerca, pagato dall’Ateneo dal 2007 al 2011, entra a gamba tesa in un processo non ancora incominciato, ma che sta già facendo discutere. Dalla procura di Taranto, è notizia dell’altro ieri, il pubblico ministero Remo Epifani ottiene il rinvio a giudizio per una decina di professori universitari, accusati a vario titolo di aver favorito, nella fase di valutazione dei titoli, il candidato risultato vincitore di un concorso per ricercatore, bandito nel dicembre del 2009. Ma dalla direzione generale dell’Ateneo, nel frattempo, era partita una lettera, datata 12 dicembre 2014 scorso, indirizzata all’avvocatura dello Stato. Nella missiva si chiede un parere su come comportarsi nei confronti di Monica Bruno, titolare dell’assegno di ricerca. Da una verifica interna parrebbe che la signora, moglie del magistrato tarantino Ciro Fiore, possa aver percepito quella borsa senza averne avuto diritto. E quindi l’Università è pronta a pretenderne la restituzione. Quello che non è chiaro, ed ecco perché il parere richiesto all’avvocatura, è se si possa anche annullare il contratto che, a suo tempo, l’assegnista Bruno firmò con l’Ateneo. Questione non da poco (senza contratto, niente titolo) considerando che la signora è l’autrice dell’esposto dal quale è partita l’indagine sul concorso da ricercatore, un posto nel settore del diritto commerciale nella sede distaccata, a Taranto, dell’ateneo barese. Perché il titolo di assegnista ha il suo valore in una procedura di valutazione comparata. Tanto più che proprio sui titoli, Bruno sta giocando la sua partita contro Giuseppe Sanseverino, vincitore del concorso. La tesi, accolta da una sentenza del 2013 del Consiglio di Stato, è che i commissari valutarono positivamente alcuni titoli presentati da Sanseverino, in particolare delle esperienze scientifiche all’estero, senza accertarne la veridicità. Il Consiglio di Stato ordinò all’Università di ripetere la comparazione dei titoli, per i due concorrenti in causa ed il rettore, Antonio Uricchio, annullò il precedente decreto di nomina di Sanseverino, con cui questi era stato dichiarato vincitore. Inoltre, ha messo in moto la procedura per formare una nuova commissione. Della vecchia, sono indagati alcuni docenti baresi e non, compreso il professor Gianvito Giannelli, noto per aver svolto l’incarico di curatore fallimentare del Bari Calcio. È indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, anche se non faceva parte della commissione. Sanseverino, però, ha denunciato all’Ateneo che la sua concorrente avrebbe ottenuto incarichi, come amministratore giudiziario, curatore e revisore dei conti durante il periodo dell’assegno di ricerca. La cosa è incompatibile con l’esclusivo impegno richiesto ad un assegnista. E' stata fissata per il 13 febbraio 2015 prossimo l’udienza preliminare, dinanzi al gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli, a carico di 11 persone per un presunto concorso truccato per un posto di ricercatore in diritto commerciale alla sede tarantina della Facoltà di Economia dell’università di Bari.

Concorso Università a Bari: 11 indagati tra cui 4 professori, scrive Massimiliano Scagliarini “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una dottoranda con il registratore sempre acceso in tasca e un concorso da ricercatore in Diritto commerciale annullato dal Consiglio di Stato. Un calderone di vita universitaria che ha scatenato una guerra tra Procure, coinvolgendo 11 persone (tra cui 4 docenti) che oggi si ritrovano indagati con l’accusa di aver truccato non solo le selezioni, ma persino l’assegnazione degli incarichi gratuiti di supplenza. Il punto è che la dottoranda Monica Bruno, che dal 2009 ha inviato diverse denunce sulla questione, è moglie di un magistrato di Taranto, Ciro Fiore, all’epoca dei fatti gip nel Tribunale jonico ed oggi trasferito al Minorile. A febbraio il procuratore aggiunto di Bari, Lino Giorgio Bruno, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione delle accuse per una parte dei fatti, ma a inizio giugno il pm di Taranto, Remo Epifani, ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini ad 11 persone: oltre ai commissari del concorso annullato, nell’elenco ci sono il vincitore, Giuseppe Sanseverino, 46 anni, di Massafra, ed i docenti baresi Gianvito Giannelli, 54 anni, e Ugo Patroni Griffi, 48 anni. Ce n’è abbastanza per parlare di liti in famiglia. Anche perché Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, della Bruno è stato non solo tutor ma anche testimone di nozze. E Giannelli, ultimamente molto noto alle cronache per l’incarico di curatore fallimentare del Bari calcio, è a sua volta sposato con un sostituto procuratore. Ma quando la commissione che doveva nominare un ricercatore in Diritto commerciale ha prescelto Sanseverino rispetto agli altri tre partecipanti (tra cui c’erano il figlio del professor Giorgio Costantino e la figlia della professoressa Eda Lofoco), la dottoressa Bruno ha preso carta e penna e con l’avvocato Carlo Raffo ha denunciato una serie di presunte irregolarità, arrivando a formulare persino i capi di imputazione: nell’avviso di conclusione delle indagini la procura di Taranto li ha ripresi quasi tutti, e quasi parola per parola. In particolare, la Bruno ha denunciato quello che lei stessa chiama il «metodo del cappello» per l’assegnazione delle supplenze: il professor Patroni Griffi (che per questo è accusato di truffa e falso ideologico) avrebbe presentato domanda salvo poi ritirarla all’ultimo momento, avvantaggiando così - questa è la tesi - il dottor Sanseverino. Un punto su cui la procura di Bari, chiedendo l’archiviazione, aveva però espresso un’opinione contraria: semplicemente perché anche in quei casi Sanseverino poteva comunque vantare i titoli migliori dell’unica altra candidata. Il concorso per ricercatore del 2009, che a breve dovrà essere ripetuto con una nuova commissione e presumibilmente vedrà di nuovo la Bruno ai blocchi di partenza, è stato annullato sulla base di una decisione della giustizia amministrativa sulla valutazione comparativa dei titoli. Per questo la procura di Taranto accusa di abuso d’ufficio sia Sanseverino sia i commissari, tra cui oltre a Giannelli ci sono il bolognese Filippo Paolucci e il campano Ermanno Bocchini. Ma soprattutto, nei guai dopo le denunce (e le registrazioni) della Bruno sono finiti alcuni suoi ex colleghi dottorandi, accusati di favoreggiamento aggravato per aver negato ciò che probabilmente hanno detto a proposito del concorso mentre non sapevano di essere intercettati. Al di là dei docenti di ruolo, il vero beffato di tutta questa storia finora è proprio Sanseverino, che oltre a non aver ottenuto il posto è accusato anche di aver «barato» nel curriculum. Sanseverino ha depositato in procura una lunga memoria, in cui esamina in dettaglio i propri titoli accademici, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, ma passa anche al contrattacco nei confronti della Bruno: ha infatti documentato che la collega, mentre percepiva l’assegno di dottorato da parte dell’Università di Bari, continuava a svolgere l’attività professionale di revisore dei conti. Nel frattempo il dossier di Sanseverino è finito alla Corte dei Conti: questa storia non finirà mai...

Concorso all'Università, 11 indagati illustri. "Truccarono le carte". La selezione per il posto di ricercatore in diritto commerciale internazionale, la procura di Bari archivia, Taranto verso il giudizio. Il Consiglio di Stato annulla la prova, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Un concorso universitario. Undici indagati illustri. Un dibattito tra due procure, quella di Taranto e quella di Bari, che sullo stesso fatto hanno opinioni diverse: a Bari archiviano, nel capoluogo jonico sono pronti ad andare a giudizio. La storia è quella del concorso da ricercatore in diritto commerciale internazionale bandito dall'università di Bari per la sede di Taranto. La selezione viene vinta dal professor Giuseppe Sanseverino. Ma una delle partecipanti, Monica Bruno, non ci sta e presenta il ricorso amministrativo: il Tar le dà torto mentre il Consiglio di Stato ribalta la sentenza e di fatto annulla la prova che infatti si sta rifacendo in queste settimane. Non è chiaro, dicono i giudici amministrativi, in una sentenza in cui parlano tra le altre cose di "eccesso di potere", quali criteri abbia utilizzato la commissione per "sovvertire il diverso peso dei titoli di ricerca esibiti da ciascun candidato", dunque è tutto da rifare.  
Il giudizio amministrativo però rappresenta soltanto una fetta di questa storia. La Bruno ha presentato un corposissimo esposto in procura, preparando persino i capi di imputazione. In un primo momento Taranto ha inviato gli atti a Bari, iscrivendo nel registro degli indagati ventinove persone, cioè tutto il consiglio di dipartimento. Con un provvedimento del 26 febbraio del 2014 firmato dal sostituto Luciana Silvestris e dall'aggiunto Giorgio Lino Bruno, Bari però archivia il reato di falso inizialmente ipotizzato. E rimanda le carte a Taranto per ulteriori valutazioni. Nei giorni scorsi la doccia fredda: il pm di Taranto Remo Epifani ha fatto notificare a undici persone un avviso di garanzia. E' indagata l'intera commissione di esame composta dai professori Gianvito Giannelli, Luigi Paolucci ed Ermanno Bocchino. L'accusa è di falso e abuso di ufficio perché "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, procuravano intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al candidato Sanseverino in concorso con il quale agivano, consentendogli il positivo superamento della procedura di valutazione contributiva. Cagionano così un danno ingiusto alla candidata Bruno". Non solo: dice il pm che ci sono anche dei falsi compiuti per "riconoscere al Sanserverino titoli preferenziali inesistenti" per "formulare giudizi favorevoli su pubblicazioni che non potevano essere valutate", il tutto chiaramente per consentire al professore di vincere la prova a scapito della Santoro. Nell'inchiesta è indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi che però non faceva parte della commissione ma che è accusato dalla Santoro e dalla procura di aver favorito Sanseverino, perché suo allievo. Agli atti sono state depositate alcune intercettazioni fatte dalla stessa Santoro nella quale altri docenti, ora iscritti nel registro degli indagati (gli altri sono i professori Ermanno Bocchini, Luigi Paolucci, Anna Zaccaria, Francesco Sporta Caputi, Laura Tafaro, Giuditta Lagonigro, Rosa Calderazzi e Francesco Costantino) raccontavano alla collega di sapere che Sanseverino avrebbe dovuto vincere il concorso perché "aveva dei titoli fortissimi". Sanseverino a sua volta è passato al contrattacco depositando una memoria contro la Bruno (moglie del magistrato Ciro Fiore scrive nella memoria) nella quale fa notare tra le altre cose che la collega avrebbe ricevuto un assegno di ricerca mentre svolgeva altri ruoli, tra i quali "perizie contabili e societarie, curatele fallimentari e procedimenti penali" presso gli uffici giudiziari tarantini. Eppure al titolare dell'assegno è "inibito lo svolgimento - dice Sanseverino - in modo continuativo di rapporti di lavoro nonché l'esercizio di attività libero professionali". Oltre questo c'è poi la questione amministrativa. Come detto il Consiglio di Stato ha annullato il concorso perché la commissione avrebbe favorito Sanseverino a scapito della Bruno. Confrontando le relative attività di ricerca - si legge infatti nella sentenza emerge, in termini oggettivi, un dato di prevalenza per la dottoressa Bruno". Dopo la decisione dei giudici amministrativi è stata formata una nuova commissione che però ha interrotto i lavori. La Santoro ha mandato loro una diffida, spiegando che avrebbero dovuto rivalutare soltanto i suoi titoli e quelli di Sanseverino e non quelli di tutti gli altri candidati. Una teoria che non ha convinto però il rettore, Antonio Uricchio, che infatti ha chiesto un parere al Consiglio di Stato per capire come comportarsi ed è in attesa di ricevere una risposta. Per il momento il concorso è bloccato. Intanto però l'avviso è diventato un caso in ambito accademico. Anche se tutte le persone coinvolte si dicono serenissime. Se da una parte il legale di Patroni Griffi, Ugo Paliero, si dice sicurissimo di chiarire tutto in tempi stretti anche vista la "posizione marginale" del suo assistito, il difensore del professor Giannelli, Vito Mormando spiega: "I rilievi che gli vengono mossi fanno riferimento a presunte e opinabili irregolarità amministrative, tra l'altro già travolte dalla sentenza del Tar e dal decreto di approvazione degli atti da parte del rettore. Comunque un dato è pacifico: il concorso si è svolto presso l'università di Bari. La competenza non è tarantina".

Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.

Corrado Carnevale: "Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato...", scrive “Libero Quotidiano”. "Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale". Corrado Carnevale presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione per questa frase è tornato in tribunale per difendersi dall'accusa di diffamazione mossa da Antonio Di Pietro.  Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. "L’urgenza di un’inibitoria – ha spiegato l’avvocato Aloisio – è dovuta al fatto che è già stato notificato l’atto di precetto. Lunedì scorso eravamo in attesa dell’ufficiale giudiziario. Il mio assistito non solo ritiene che giustizia non sia stata fatta, ma ritiene che 30 mila euro (se si considerano pure le spese legali e gli interessi) non siano una bazzecola per nessuno, anche per un magistrato la cui pensione mensile corrisponde alla metà di quella somma". Fin qui i fatti. Ma come racconta il Tempo, durante il dibattimento in tribunale, Antonio Carnevale ha confermato le sue dichiarazioni rilasciate al giornale online "Petrus" nel 2008: "Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune". E ad esplicitare in fase processuale la posizione di Carnevale c'ha pensato il suo legale, l'avvocato Aloisio di cui il Tempo riporta le dichiarazioni in Aula: "In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria". Il difensore di Di Pietro invece ha sostenuto il contrario: "Dagli atti documentali del processo di primo grado – ha spiegato il civilista – è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa". Adesso i giudici dovranno decidere se accogliere la richiesta di sospensiva della sentenza.

Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi su “Il Giornale”. "Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale". A svelare questo dettaglio sulla carriera dell'ex toga di Mani Pulite è il Tempo che riporta quanto detto dall’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma. Come scrive il quotidiano romano, "la vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online "Petrus", Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune". Corrado Carnevale è tornato in aula per difendersi dall'accusa di diffamazione mossa da Antonio Di Pietro. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. Durante il dibattimento in tribunale, il legale di Carnevale ha ribadito le dichiarazioni del suo assistito: "In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria". Opposta la versione del legale di Di Pietro: "Dagli atti documentali del processo di primo grado è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa".

Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”. «Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale». Un aspetto non trascurabile del percorso che ha portato un vicecommissario del Molise a diventare uno dei magistrati di punta del pool di Mani Pulite, viene alla luce da una causa civile per diffamazione. È stato l’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, a spiegare ieri al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma come andò l’esame per diventare uditore di Di Pietro. La vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online «Petrus», Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. «Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune». Per quelle dichiarazioni, poi riprese da altre testate giornalistiche, Di Pietro ha querelato per diffamazione a mezzo stampa Carnevale. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. «L’urgenza di un’inibitoria – ha spiegato l’avvocato Aloisio – è dovuta al fatto che è già stato notificato l’atto di precetto. Lunedì scorso eravamo in attesa dell’ufficiale giudiziario. Il mio assistito non solo ritiene che giustizia non sia stata fatta, ma ritiene che 30 mila euro (se si considerano pure le spese legali e gli interessi) non siano una bazzecola per nessuno, anche per un magistrato la cui pensione mensile corrisponde alla metà di quella somma». Prima di celebrare l’udienza, ieri, il presidente del collegio d’Appello Francesco Ferdinandi ha chiesto alle parti «data la levatura delle loro personalità» se volessero raggiungere un accordo bonario e rinunciare al contenzioso, ma il legale di Di Pietro si è opposto. A quel punto l’avvocato Aloisio è entrato nel merito della questione: «In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria». A difendere l’ex pm di Mani Pulite, in udienza, c’era un avvocato dello studio legale Scicchiatano, di cui lo stesso Di Pietro fa parte da quando ha lasciato la carriera politica per quella forense. «Dagli atti documentali del processo di primo grado – ha spiegato il civilista – è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa». Ora la parola passa ai giudici di secondo grado che dovranno decidere se accogliere la richiesta di sospensiva della sentenza.

MAGISTRATI PEGGIO DEI POLITICI. IL CSM DEI RACCOMANDATI ED I MAGISTRATI DIVENUTI TALI COL TRUCCO.

IL CSM DEI RACCOMANDATI. Il CSM è l’organo di autogoverno dei magistrati e si occupa principalmente delle promozioni, dei trasferimenti e delle azioni disciplinari nei confronti dei magistrati. Due terzi dei componenti vengono eletti dai magistrati ordinari e sono scelti tra gli stessi appartenenti alla magistratura. Un terzo viene eletto dal parlamento tra professori di materie giuridiche e avvocati. Del CSM fa parte anche il presidente della Repubblica, con il ruolo di presidente, e il primo presidente della Corte di Cassazione ed il procuratore generale della Corte di Cassazione.

«Per le prossime elezioni Csm mi permetto di chiederti di valutare gli amici Lorenzo Pontecorvo (giudice) e Luca Forteleoni (pm). Ti ringrazio per la squisita attenzione». Firmato: «Cosimo Ferri», il sottosegretario alla Giustizia del governo Renzi. Lo stesso Ferri autore della bozza di riforma della giustizia con la quale ''finalmente finiranno le correnti, le raccomandazioni, e trionferà una volta per tutte la meritocrazia''.

Riforme? State freschi....

Un sms che sta scuotendo la magistratura. E’ un messaggino arrivato su chissà quanti cellulari di giudici e pm che devono votare per il rinnovo del CSM. Perché fa discutere questo messaggio? Per il mittente soprattutto perché a spedirlo è stato il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri che ha annunciato la riforma della giustizia in dodici punti, ma soprattutto esponente della corrente più moderata delle toghe, quella di Magistratura indipendente di cui è diventato leader indiscusso.

Nel governo Renzi esistono gli indagati, gli impresentabili, perché pieni di conflitti d'interessi, e i palombari, scrive Carlo Sibilia, M5S Camera. Chiamo "palombari" quelle figure che restano sempre nello sfondo, sotto traccia, sott'acqua. Non si conoscono tanto, non cercano mai troppo i riflettori. Indovinate perché... Vengono spesso lambiti da inchieste e scandali, ma ne escono sempre freschi, puliti e profumati. E poi ritornano a lavorare sott'acqua. Come i palombari. Un esempio abbastanza conosciuto potrebbe essere Gianni Letta, uno che muove i fili ma che non vedi e non senti. Però sai che è sempre li. Oggi vi presento un altro palombaro. Di razza. Uno che, a sua volta, è figlio di palombaro. Ma andiamo con ordine. Il palombaro padre è Enrico Ferri nato a la Spezia il 17 febbraio 1942. Un (ex) politico e magistrato italiano. È stato ministro della Repubblica, segretario nazionale del Partito Socialista Democratico Italiano, poi esponente di Forza Italia, in seguito dell'UDEUR. Europarlamentare dal 1989 al 2004. Noto per aver posto il limite dei 110 km/h in autostrada. Enrico ha 3 figli. Uno è Filippo Ferri ex capo della squadra mobile di Firenze. Noto alle cronache per i fatti della scuola Diaz del 2001: per le violenze fu condannato in via definitiva a 3 anni e 8 mesi con interdizione dai pubblici uffici. Come premio, Filippo Ferri, è stato nominato il responsabile della sicurezza del Milan. La squadra di calcio di Silvio Berlusconi. Un altro è Jacopo Ferri, il secondogenito di Enrico, sarebbe potuto essere il capolista del centrodestra alle scorse elezioni a Pontremoli, ma già ricopriva il ruolo di Consigliere Regionale in Toscana. Berlusconiano di ferro dal 2000. E' ancora in consiglio regionale ininterrottamente da 14 anni. Dovete sapere che Pontremoli sta ai Ferri come Nusco ai De Mita e Ceppaloni ai Mastella (come direbbe Mario Lancisi). L'altro, il palombaro del giorno, è Cosimo Ferri. Magistrato prodigio. A soli 35 anni, con 553 preferenze, nel 2006 fu eletto al Csm nonostante fosse rimasto coinvolto in Calciopoli. Tre anni fa si è ritrovato in diverse intercettazioni telefoniche imbarazzanti: P3 e Agcom-Annozero. Mai, però, è stato indagato. Da Calciopoli, invece, è uscito dimettendosi da commissario della Figc, così ha evitato di essere giudicato. Nominato Sottosegretario alla Giustizia con Letta nel 2013 in quota Berlusconi. Poi, quando Berlusca passa alla "finta" opposizione, Letta ne chiede le dimissioni. Lui risponde di essere un tecnico e si tiene la poltrona. Poltrona garantita anche nel "nuovo" governo Renzi più berlusconiano che mai. Dopo questa storia di meritocrazia tutta italiana pensate ci sia necessario aggiungere altro? Dove pensate si annidino i problemi di questo paese?

Csm, votate quei due». Polemica sugli sms del sottosegretario Ferri. Messaggino di Ferri alle toghe con indicazioni per il voto. Accuse dalla sua corrente. Lui si difende: non propaganda, consigli privati, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Apparentemente sembra un messaggio di propaganda elettorale come tanti altri, inviato alla vigilia del rinnovo del Consiglio superiore della magistratura, dove oggi e domani giudici e pubblici ministeri sono chiamati a scegliere nel segreto dell’urna i loro rappresentanti nell’organo di autogoverno. È un testo breve e gentile, quasi discreto, inviato via sms a chissà quanti numeri di telefono: «Per le prossime elezioni Csm mi permetto di chiederti di valutare gli amici Lorenzo Pontecorvo (giudice) e Luca Forteleoni (pm). Ti ringrazio per la squisita attenzione». Il problema è la firma, aggiunta subito dopo: «Cosimo Ferri». Cioè il sottosegretario alla Giustizia del governo Renzi, quello che lunedì scorso ha annunciato la Grande Riforma riassunta in dodici punti, che per quanto generici indicano comunque una strada. E al punto quattro recita così: «Csm, più carriera per merito e non grazie all’appartenenza», affermazione di principio corredata da varie e ripetute considerazioni del premier non certo compiacenti verso il correntismo tra le toghe. Ora si dà il caso che il sottosegretario Ferri, giudice e figlio d’arte in vari sensi (suo padre Enrico fu magistrato e componente del Csm, ministro e parlamentare socialdemocratico e poi di FI), rappresenti uno strano caso di commistione tra magistratura e politica. Da sempre esponente della corrente più «moderata» o «di destra» delle toghe, Magistratura indipendente, ne è diventato nel tempo il leader indiscusso. Rimanendo tale anche ora che fa parte dell’esecutivo, dicono i suoi detrattori. E certo il messaggio telefonico di cui ieri è stata data notizia sulle mailing list dell’Associazione nazionale magistrati e delle varie correnti non aiuta a smentire questa voce. Quando entrò al Csm, qualche anno fa, Ferri ne fu il rappresentante più giovane; poi divenne il più votato nelle elezioni al «parlamentino» interno all’Anm, da segretario della corrente. Infine arrivò la chiamata nel governo di Enrico Letta: sottosegretario alla Giustizia in quota Forza Italia, quando il partito di Berlusconi faceva ancora parte della maggioranza. Poi lo scorso anno, dopo la scissione di Alfano e il passaggio di FI all’opposizione, restò nell’esecutivo spiegando di essere un tecnico, riuscendo ad essere confermato anche nella compagine di Renzi. Il quale si sentì rimproverare quella scelta, nel primo Consiglio dei ministri, direttamente dal guardasigilli Orlando, democratico fresco di nomina, anche perché c’era già un viceministro ex berlusconiano designato del Nuovo centro destra di Alfano, Costa; ma il premier replicò che ormai la squadra era fatta e quella rimaneva. In questi mesi ha dunque proseguito nel suo lavoro di sottosegretario, impegnandosi sui testi di riforma (soprattutto nel settore del processo civile) che il governo ha predisposto e si propone di presentare in futuro. Senza però tralasciare una sorta di supervisione nella gestione di Magistratura indipendente, accusa chi - all’interno della corrente - ha creato una vera e propria fronda per contestarne leadership; proprio in nome della netta separazione tra l’amministrazione della politica e quella della giustizia. Tra i contestatori ci sono nomi di peso come l’ex pm di Mani Pulite, oggi giudice di Cassazione, Pier Camillo Davigo, il procuratore generale di Torino Marcello Maddalena, il procuratore aggiunto di Messina Sebastiano Ardita, il componente dell’attuale Csm Pepe. Che hanno tentato di contrapporre i loro candidati a quelli «ferriani» nelle elezioni primarie, e ora sostengono altri candidati rispetto a quelli indicati dal sottosegretario. Giudicando quel messaggio telefonico un’interferenza bella e buona; e chiedendosi quale sia l’opinione in proposito del ministro della Giustizia, del presidente del Consiglio e del capo dello Stato. Lui invece, Cosimo Ferri, non vede niente di strano in quel sms inviato a poche ore dal voto. E si stupisce dello stupore altrui: «Sono beghe interne alla magistratura, e purtroppo vedo una strumentalizzazione che mi dispiace, perché in un momento come questo la magistratura avrebbe bisogno di grande serenità, non del nervosismo che traspare in chi vuol montare una polemica inutile, sterile e priva di fondamento, frutto di gelosie e cattiverie». Quando però gli si fa notare che forse non è del tutto normale che un membro del governo, cioè del potere esecutivo, faccia propaganda elettorale per due candidati all’organo di autogoverno di giudici e pubblici ministeri, cioè il potere giudiziario, Ferri risponde: «Ma la propaganda elettorale è tutta un’altra cosa! Io ho inviato un messaggio privato, sono un cittadino che conserva i propri diritti, e sono tuttora un magistrato che andrà a votare per il Csm e sceglierà i candidati che considera migliori. Poi sono anche uno che conosce tanta gente, quando mi sono candidato all’Anm ho preso più voti di tutti, 1.199, mi sembra normale condividere le mie idee. Da privato magistrato, ripeto, non da rappresentante del governo».

Toghe e politici nel marasma per il CSM, scrivono Marco Sarti ed Alessandro Da Rold su “L’inkiesta”. Stavolta magistratura e politica si trovano sulla stessa barca, in un mare in tempesta. Tra i flutti c’è il rinnovo del Consiglio Superiore della Magistratura, organo di autogoverno delle toghe che arriva a scadenza dopo quattro anni di mandato. È una delle partite più importanti del 2014, temporalmente vicina alla riforma della giustizia che da qualche settimana ha iniziato a prendere forma a Palazzo Chigi. Eppure vige ancora totale incertezza tanto per gli otto membri laici — la cui nomina spetta al Parlamento — che per i sedici eletti dalla magistratura. Dopo la fumata di nera di oggi, a Montecitorio si è deciso di rimandare il prossimo voto a giovedì 10 luglio. Nel frattempo tra le toghe continua lo scontro, iniziato con la faida in procura di Milano tra il procuratore Capo Edmondo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo. È la guerra delle correnti, tra Magistratura Indipendente, Unicost e Magistratura Democratica che cercano di ritagliarsi un posto a palazzo dei Marescialli per i prossimi quattro anni. Ma gli ostacoli lungo la strada sono tanti. E il primo macigno riguarda proprio gli equilibri politici. Alle ultime primarie di fine marzo la corrente di Md, vicina al centrosinistra, è uscita a pezzi. Fusa con i Movimenti nella corrente denominata Area non ha collezionato molti voti, al contrario di Mi e Unicost. È soprattutto la prima, la corrente più vicina al centrodestra, sostenuta dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri (fondatore di Magistratura Indipendente, ndr) a vantare in questo momento più consensi tra le toghe. E così con un Parlamento a maggioranza di centrosinistra, potrebbero essere proprio gli otto membri laici a bilanciare gli equilibri. Le toghe trattano da mesi su questa partita. Una scacchiera su cui qualcuno ha deciso di giocare anche le nomine dei nuovi capi della procure di Torino, Bari e Firenze. E forse non è un caso che proprio Md-Area sia riuscita a spuntarla sotto la Mole Antonelliana con uno storico esponente come Armando Spataro, ricompensa per un Csm che si promette a forte trazione di destra.  Non solo. Toghe e Parlamento dovranno tenere in conto anche la prossima elezione, a quanto pare sempre più imminente, del presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano potrebbe presto lasciare. Eppure secondo la nostra Costituzione è proprio lui a presiedere il Csm. In questi mesi il Capo dello Stato ha dimostrato di essere molto presente nella gestione dell’organo di autogoverno delle toghe (vedi la lettera inviata al vicepresidente Michele Vietti prima della decisione sullo scontro tra Bruti Liberati e Robledo). Intanto si chiude uno dei mandati del Csm più criticati nella storia della Repubblica Italiana, con il vicepresidente Vietti coinvolto di striscio anche in alcune inchieste della magistratura. Come Finmeccanica, dove l’ex ad Giuseppe Orsi avrebbe cercato di contattarlo per depistare le indagini. Nel frattempo alle Camere i partiti faticano a trovare un accordo. Nella giornata di oggi deputati e senatori hanno votato a Montecitorio, senza riuscire ad eleggere gli otto componenti laici del Csm, né i due nuovi giudici della Corte Costituzionale. Il Parlamento in seduta comune ci riproverà giovedì prossimo. Sembra vicina l’intesa per i due giudici della Consulta, anche perché dopo la terza votazione andata a vuoto il quorum richiesto si è abbassato dai 2/3 ai 3/5 dei parlamentari. Circola con insistenza il nome dell’ex presidente della Camera Luciano Violante, di area Pd. Meno scontata l’altra figura. Dopo aver individuato quattro candidature, il Movimento Cinque Stelle ha deciso di puntare sull’avvocato milanese Felice Besostri, già in prima linea nella lotta contro il Porcellum. Su di lui convergeranno anche altri voti, a partire da quelli di Sinistra Ecologia e Libertà. Rischiano però di non essere sufficienti. Ecco allora che il secondo giudice della Corte Costituzionale potrebbe essere espressione di centrodestra. Qualcuno scommette sul senatore berlusconiano Donato Bruno. Ancora in alto mare l’accordo per gli otto membri del Csm. Cinque dovrebbero essere scelti all’interno della maggioranza (uno potrebbe essere espressione del Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano). Gli altri tre dalle opposizioni. Nella commissione Giustizia di Montecitorio si dà per quasi certo il nome della deputata dem Anna Rossomando, avvocato penalista. Molto probabile dovrebbe essere l’elezione dell’ex Guardasigilli Paola Severino, protagonista del governo tecnico di Mario Monti. C’è chi punta sull’esponente Ncd Antonio Leone. Ma è all’interno di Forza Italia che sembra esserci parecchia agitazione. I nomi emersi con insistenza sarebbero almeno tre. Il senatore Ciro Falanga, campano, componente della commissione Giustizia di Palazzo Madama. Il deputato Carlo Sarro, vicepresidente della commissione Giustizia di Montecitorio. E Antonio Marotta, deputato anche lui, già membro del Csm una decina di anni fa. Particolare non irrilevante: in caso di elezione al Csm, le dimissioni dal Parlamento di Marotta aprirebbero le porte di Montecitorio ad Amedeo Laboccetta. Primo dei non eletti nella circoscrizione Campania 1 e vice coordinatore regionale di Forza Italia.

Toghe in guerra e la spartizione politica delle procure, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. Magistrati sull’orlo di una crisi di nervi. Dopo le polemiche per le primarie del Csm, da cui la sinistra di Magistratura Democratica è uscita con le ossa rotte, continuano le giornate intense tra le toghe italiane, alle prese con l’atteso ricambio dei capi delle procure di Bari, Torino, Salerno e Firenze: in alcuni palazzi di giustizia mancano i «numeri uno» ormai da quasi un anno. Le correnti si muovono in modo inconsulto, già prostrate dalla campagna elettorale e soprattutto dallo scontro senza esclusione di colpi dentro la procura di Milano, tra il pm Alfredo Robledo vicino a Magistratura Indipendente e la guida del palazzaccio Edmondo Bruti Liberati, storico leader di Md. Lo scontro andato in scena al Csm martedì 16 aprile 2014 - nell'ambito dell'istruttoria avviata sull'esposto che Robledo ha presentato contro il suo capo accusandolo di violazioni e irregolarità nell'assegnazione dei procedimenti alla procura di Milano - rischia di avere pesanti ripercussioni sulla procura meneghina. E chissà se pure tra i rapporti di forza tra le varie correnti. «Ne resterà soltanto uno» sostengono gli addetti ai lavori. E dovrebbe essere proprio Bruti Liberati che vanta dalla sua anche la sicura permanenza di Ilda Boccassini alla Dda di Milano: Ilda «la rossa» per questioni burocratiche (non ha presentato i documenti) non corre più per il posto di capo nella Procura di Firenze. La vicenda è attraversata oltre che dai vizi procedurali denunciati da Robledo, da un velo di tipo politico, prettamente correntizio. Il pm napoletano che ha indagato sulla vicenda dei derivati è stato molto preciso nella sua deposizione di fronte alle commissioni a palazzo dei Marescialli. Robledo ha tirato infatti fuori un vecchio episodio, uno screzio avuto proprio con Bruti: «Ricordati che sei qui perchà Md ti ha votato», lo avrebbe apostrofato il capo del palazzaccio (il Palazzo di Giustizia, ndr). Minacce, veti, scelte procedurali, di più se ne saprà dopo Pasqua, mentre proprio Magistratura Indipendenti con Antonello Racanelli parla «di un quadro allarmante e preoccupante della gestione della procura di Milano». Veleni, insinuazioni, mentre al Csm si discute appunto delle attese nomine nelle procure italiane. E anche qui è il mercato «delle vacche», parafrasando una toga di palazzo dei Marescialli. In pratica la corrente Area, quella formata da Md e da In Movimento, sta provando a occupare tutte le caselle dello scacchiere. Ma c’è chi, tra Unicost e Mi, ha iniziato a storcere il naso, anche perché i rapporti di forza devono essere preservati e rispettati. Al momento Armando Spataro, storico pm milanese, vicino ad Area da sempre dentro Md, sembra essere in lizza per la procura di Torino, dove dovrebbe sostituire il rimpianto Giancarlo Caselli. C'è chi lo dà ormai per certo. Spataro in realtà doveva essere dislocato a Firenze, ma all’ultimo ha ritirato la domanda, proprio per virare sotto la Mole Antonelliana. Cosa che ha scatenato problematiche nelle trattative. Perché se Torino e Bari finiscono a «sinistra» - quando la seconda era un tempo a destra con Antonio Laudati - così non può succedere per il capoluogo toscano e per Salerno. Nel capoluogo pugliese appariva quasi scontata fino a un mese fa la nomina di Giovanni Melillo, un interno, poi però cooptato al ministero della Giustizia come capo di gabinetto su scelta del Guardasigilli Andrea Orlando: Melillo appartiene alla corrente Area. In lizza per Bari ci sono a questo punto Giuseppe Volpe - attualmente sostituto procuratore generale in Cassazione - e il procuratore aggiunto di Bari, Pasquale Drago. Peccato che il primo sia sostenuto Magistratura democratica e da Area, il secondo da Unicost, fattore che fa pendere il pendolo delle probabilità proprio su quest’ultimo. A Firenze è il tempo delle incognite. Alfredo Morvillo, cognato di Falcone, che fu battuto a Marsala da Magistratura Indipendente nel 2008, quando fu eletto Girolamo Alberto detto il "corvo”, potrebbe avere qualche possibilità. Ma anche qui si fa largo Unicost con Armando D’Alterio, procuratore di Campobasso. Per la procura fiorentina c’è in pista anche Lucia Lotti, toscana e procuratore a Gela, molto stimata, della corrente di Md. Infine a Salerno, per il dopo Franco Roberti, da sempre in una corrente di sinistra, si fa largo invece Corrado Lembo, procuratore capo a Santa Maria Capo, storico esponente di Magistratura Indipendente, quindi di destra. E qui c'è chi fa notare, soprattutto a sinistra, che il figlio di Lembo, Andrea; fa politica proprio nel salernitano. Un modo per ostacolarlo?

Denunce e faide: i magistrati peggio dei politici, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. Da Mani Pulite a Toghe Pulite. A distanza di vent’anni da Tangentopoli, quando notorietà e consensi erano agli apici, la magistratura italiana vive uno dei momenti più difficili della sua storia, spaccata tra le correnti, mal digerita agli occhi dell’opinione pubblica per la lungaggine dei processi e per i costi, in una guerra senza esclusione di colpi tra articoli sui giornali e persino indagini della stessa magistratura. Tra due settimane, il 25, 26 e 27 marzo, ci saranno le primarie per nominare i candidati al rinnovo del Consiglio Superiore della Magistratura. La campagna elettorale è in corso, tra spamming via mail, aperitivi e comizi nei vari tribunali, nello stile perfetto della nostra politica. C’è chi a bassa voce se ne lamenta, cercando di evitare di essere coinvolto. E a quanto pare sono tanti a cestinare missive di ogni tipo, dove si tengono «diari» della campagna elettorale o si citano frasi a effetto per conquistare qualche voto in più. Tre le correnti in campo: Unicost (sorta di Democrazia Cristiana delle toghe), Magistratura Indipendente (più vicina alla destra) e Area (zona centrosinistra). C'è poi il comitato Altra Proposta che in pratica si oppone a tutte le correnti e vorrebbe nuove regole di rappresentanza dell'autogoverno dei magistrati. Nel mentre l’attuale Csm deve nominare il nuovi procuratori capo di Torino, Bari, Salerno e Firenze. Alcune sedi sono vacanti da mesi, ma l’incrocio elettorale è talmente micidiale, tra logiche correntizie e di potere, che è stato tutto spostato a data da destinarsi. Si parla di inizio aprile, ma lo stesso vicepresidente del Csm Michele Vietti non ha ancora dato un data precisa. Ad aggiungere benzina sul fuoco, in questi giorni, si è messo Alfredo Robledo (vicino a Magistratura Indipendente), procuratore capo del pool contro i reati della pubblica amministrazione di Milano, che ha denunciato al Csm il Capo della Procura Edmondo Bruti Liberati perché avrebbe «turbato» e «turba la regolarità e la normale conduzione dell'ufficio»: una bomba atomica, scagliata contro uno degli storici leader di Magistratura Democratica, ora confluita in Area, ma soprattutto contro Francesco Greco capo del pool per reati finanziari e protagonista proprio di Tangentopoli con l'ex pm Antonio Di Pietro. Il fascicolo non è ancora arrivato sulle scrivanie di palazzo dei Marescialli, ma molti consiglieri hanno letto la notizia sul Corriere della Sera. Nei prossimi giorni la denuncia sarà girata con tutta probabilità alla prima commissione, quella addetta appunto a «rapporti, esposti, ricorsi e doglianze concernenti magistrati».  Al tribunale di Milano parlano già di guerra senza esclusioni di colpi. Il clima è irrespirabile, considerando che l’ufficio di Robledo è a pochi metri da quello di Bruti Liberati. Quest’ultimo, intercettato dai cronisti, ha preferito non commentare, idem per Greco, storico pm di Mani Pulite, adesso nel calderone della denuncia, già accusato di non aver indagato su diversi reati fiscali e in particolare su Sea. Del resto, Robledo, in questo documento di 12 pagine, parla di violazione dei «criteri organizzativi» e racconta nel dettaglio diversi punti di rottura con il resto della procura. Come quando nel 2011, in seguito allo scoppio dell’indagine sull’Ospedale San Raffaele che avrebbe poi travolto la giunta lombarda di Roberto Formigoni, fu proprio Bruti Liberati, secondo Robledo, a sottolineare «che si trattava di una situazione molto delicata, essendo in corso trattative sulle quali non avrebbe voluto che le indagini influissero in qualunque modo». È un attacco pesante che avviene nel cuore di quel Palazzaccio che vent’anni fa si forgiava dei galloni per aver debellato la corruzione nella politica italiana, indagando sul Psi di Bettino Craxi e la Dc di Arnaldo Forlani. Ma da allora pare quasi che l’incantesimo della magistratura con i cittadini si sia spezzato. I sondaggi degli ultimi anni, spesso molto sporadici, sono in picchiata. Più del 50% degli italiani sostiene di non credere più nella giustizia. Non solo. I dati europei non sono confortanti. La giustizia civile italiana è la più lenta d’Europa dopo quella maltese e la prima per casi pendenti che attendono ancora una sentenza definitiva. È il risultato che emerge dal Quadro di valutazione Ue della giustizia 2014. «Sono preoccupata per quei Paesi che sono in fondo alla lista”, e dove magari “non ci sono progressi ma regressi”, ha affermato la commissaria alla Giustizia, Viviane Reding. Non solo. Per finanziare il sistema giudiziario in Europa si spendono 57,4 euro pro capite, in Italia la spesa arriva a 73 euro, soltanto in Svizzera e nel Nord Europa si spende di più, per un sistema più snello che pare funzionare. La nostra nazione ha il maggior numero di casi civili pendenti, ben 4 milioni e 986 mila. I tempi sono lunghissimi: in media circa 600 giorni per una sentenza solo di primo grado. Il quadro, in sostanza, non è per nulla confortante. E questo si aggiunge a faide su faide, in particolare proprio a Milano, dove i magistrati continuano a darsele di santa ragione. A ottobre, prima di Bruti Liberati e Greco, è stato il turno della Boccassini. «I giudici di provincia non capiscono nulla di mafia» disse durante un convegno alla Bocconi l’11 ottobre. Apriti cielo. Le toghe di provincia decisero di intervenire con un esposto sempre al Csm chiedendo all'organo di autogoverno delle toghe, di valutare le affermazioni a loro avviso «gratuite», «denigratorie» e «generiche» pronunciate da Ilda la Rossa. Da Milano a Torino fino a Firenze e Napoli è un brulicare di veleni e sospetti. Sotto la Mole Antonelliana ha da poco lasciato il posto Giancarlo Caselli, non senza polemiche. A novembre lasciò Magistratura Democratica dopo averla fondata e dopo anni di militanza. Il motivo fu un contributo dello scrittore Erri De Luca al giornale della corrente togata cosiddetta «rossa». In modo velato si parlava della rivoluzione degli anni ’70 e si dava solidarietà ai No Tav della Val Susa, che sono stati indagati e arrestati proprio dalla procura allora guidata da Caselli (oggi in pensione) lo scorso anno per le violenze al cantiere e, per alcuni, atti di terrorismo. Il magistrato di Alessandria se ne andò sbattendo la porta. A tutto questo si aggiungano pure le inchieste piovute sullo stesso Vietti e sugli ex magistrati che sono stati coinvolti nello scandalo Finmeccanica, con al centro una commessa da 550 milioni di euro per 12 elicotteri in India. L’ex presidente della corte d’Appello di Milano Giuseppe Grechi e l’ex presidente della corte d’Appello di Venezia Manuela Romei Pasetti, diventati consulenti di piazza Montegrappa, finirono nel tritacarne, indagati in un procedimento connesso. Il giudice per le indagini preliminari di Busto Arsizio, Bruno Labianca, scrisse: «Gli indagati, informati dell’esistenza di una indagine giudiziaria si sono attivati a porre in essere condotte di sovvertimento della genuinità delle prove, anche con tentativi di pretesa modifica della linea operativa dell’ufficio inquirente che procede e con l’asservimento o, quanto meno la compiacenza presso i maggiori organi di stampa». L'ennesima faida di una magistratura ormai allo sbando.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

Aivoglia denunciare le irregolarità alle procure. Mai nessuno è stato condannato per i concorsi pubblici truccati, tra cui quelli della magistratura, notariato, giornalismo, ecc,. e per gli esami di abilitazione all’avvocatura. E come si fa, se sono tutti stati baciati dal trucco?

Ma chi vogliono prendere per il culo…….

“Le segnalazioni di deprecabili irregolarità durante l’ultimo concorso per la magistratura ordinaria meritano qualche spiegazione in più del semplice comunicato diramato in queste ore dal Ministero della giustizia”. Lo dichiara in una nota Aldo Di Biagio, vice presidente vicario del gruppo “Per l’Italia” al senato e primo firmatario dell’atto bipartisan indirizzato al Ministro Orlando sulle presunte irregolarità in occasione del concorso per magistrati ordinari del 25-27 giugno 2014. “Stando alle denunce finora sporte e alle testimonianze riprese anche dai media – spiega Di Biagio – la “tre giorni” concorsuale si è rivelata essere un vero e proprio festival dell’irregolarità, tra codici commentati ma vidimati lo stesso dai commissari, elettricità saltata, drappelli di concorrenti intenti a svolgere il compito in team, a cui si aggiunge quella più vergognosa del tema nelle mani di una concorrente ben prima della dettatura e ben prima che entrasse addirittura la commissione nella struttura dove si svolgevano le prove d’esame”. “Alle polemiche è seguito solo uno scarno comunicato del ministero della giustizia in cui si ribadisce la regolarità del concorso – spiega – senza però spiegare cosa realmente sia successo nei padiglioni della fiera di Roma”. “Quanto verificatosi – continua il Senatore – instilla il dubbio di contaminazione in un processo solenne e delicato come quello del reclutamento dei detentori del potere giudiziario italiano che meriterebbe attenzione, trasparenza e regole ferree per non inficiare i principi di indipendenza, imparzialità e terzietà che la costituzione prevede”. Di Biagio conclude: “Con l’interrogazione chiediamo un intervento celere e puntuale del Ministro Orlando che chiarisca nel dettaglio gli accadimenti e valuti espressamente l’annullamento del concorso”.

Quel concorso per magistrati e la rabbia dei candidati: “Questa volta abbiamo toccato il fondo”, scrive “Corriere Univ”. “Irregolarità inaccettabili. Mi auguro che la vicenda finisca in prima pagina, ma dopo aver capito a cosa possono arrivare la corruzione e il disprezzo per la funzione pubblica, dubito che una riedizione del concorso segua comunque la regolarità”. Piovono denunce sul concorso per magistrati che si è tenuto alla Fiera di Roma il 25, 26 e 27 giugno 2014. Perquisizioni alle candidate fin dentro le mutande, codici commentati in possesso di alcuni concorsisti, commissioni distratte, svolgimenti a “gruppetti”, fogli con tracce che circolano prima di essere dettate. Questa volta, assicurano i candidati, pare si sia toccato davvero il fondo. Partiamo dall’inizio. Il 30 ottobre 2013, con un apposito decreto, l’ex ministro Annamaria Cancellieri ha firmato un bando di concorso per  365 posti di magistrato ordinario. Termine di scadenza per la domanda 9 dicembre 2013. Le prove scritte si sono tenute a Roma, presso la Fiera Roma, nei giorni 25, 26 e 27 giugno 2014. Sono 20.787 le domande di partecipazione, di cui 6.776 inviate con PEC e 14.011 inviate online. Tante, tantissime le segnalazioni raccolte dai candidati: “ Sono state compiute irregolarità inaccettabili e di una gravità che probabilmente molti dei concorrenti neanche hanno compreso appieno. Mi auguro che la vicenda davvero finisca in prima pagina, ma dopo aver capito a cosa possono arrivare la corruzione e il disprezzo per la funzione pubblica, dubito che una riedizione del concorso segua comunque la regolarità. Si è prospettata anche la possibilità di un annullamento del concorso: sembra davvero un’ipotesi molto difficile, ma è fondamentale che se ne parli”. “Al padiglione 3  - racconta A. C. –  sono state espulse alcune persone poiché avevano codici commentati ammessi per l’abilitazione di avvocato vidimati dalla commissione, che si è giustificata dicendo: “È stata una svista”. Un’altra candidata, invece, è stata trovata con fogli del Ministero con tre schemi di tre tracce diverse addirittura prima che la stessa commissione dettasse la traccia di Amministrativo. Ciò vuol dire che le tracce escono prima della dettatura, ma solo per gli eletti”. Molti candidati chiedono di rimanere anonimi, per paura di ritorsioni. Su Facebook, inoltre, è nato un gruppo che raccoglie idee e proteste. “Sono andata a fare il concorso dopo ben 8 anni dall’ultima volta: ho trovato tutto molto peggio di come l’avevo lasciato, i controlli per niente rigorosi, ed una calca mostruosa!” – racconta un’altra concorsista. Diversi candidati si lamentano del fatto che qualcuno è stato trovato in possesso di codici commentati. Eppure, due giorni prima delle prove, la commissione ha convocato tutti per analizzare dettagliatamente ogni singolo testo, ed apporvi il timbro ministeriale. “Chi ha sbagliato è chi ha fatto passare i codici – racconta D. I. – . Nel padiglione 3 erano in più di uno coloro che avevamo i codici commentati. La cosa che fa più specie è l’assoluta grossolanità del modo in cui sono entrati. Ora mi domando e vi domando: quanti codici a cui avran cambiato la copertina sono entrati e non sarebbero dovuti entrare? Certo è che, visto il sistema si può risalire anche al commissario che ha messo il timbro. (Sempre che i codici non siano entrati nottetempo con l’aiuto di qualche inserviente che ha messo il timbro) …”. “Secondo me questi codici non hanno passato nessun controllo e sono entrati tra il primo e il secondo giorno di prova – commenta un altro candidato – . Questi furbacchioni (e credo sia evidente a chi mi riferisca) pensano che basti mettere alcuni timbri sui codici non ammessi per scaricare qualsiasi colpa sui commissari. Non posso e non voglio credere che ci sia il coinvolgimento dei commissari, quindi non trovo altre spiegazioni. Spero di non sbagliarmi”. La rabbia, intanto, sale. “Si dice che ci fossero un numero infinito di raccomandati – racconta S. C. -. Tutto questo mi fa schifo. Io non sono figlia di nessuno, ho rinunciato a tutto per venire a Roma. Se davvero c’erano personaggi con le tracce in anticipo auguro loro di vergognarsi a vita! So solo che io ingenuamente sono stata perquisita in modo disgustoso e c’era pure un poliziotto uomo: io come una cretina con le lacrime agli occhi ho detto: cosa dovrei avere? Tutto ciò mi fa schifo”. “Io sono tra quelli che hanno consegnato con tanta rabbia, soprattutto pensando ai sacrifici fatti e ai miei piccoli bimbi. Non ho parole”. Già dall’inizio delle prove, si sono contati i primi disagi. L’ingresso dei candidati, infatti, era previsto per le ore 8. All’articolo 3 del Decreto 7 marzo 2014 ( Diario delle prove scritte del concorso a 365 posti di magistrato ordinario indetto con d.m. 30 ottobre 2013) si legge: “L’ingresso dei candidati sarà consentito fino alle ore 9.00; successivamente verranno chiusi i cancelli esterni e saranno ammessi all’esame solo i candidati presenti all’interno degli stessi”. Ma le cose sembrano essere andate diversamente. “Sono arrivata a Fiera di Roma molto presto. L’inizio delle prove era previsto per le 9 – racconta G., una candidata – . Ho fatto la fila il primo giorno dalle 8 alle 11:30. Hanno dettato la traccia di civile alle 12. E’ stato un massacro: tre ore in piedi per entrare. Il secondo giorno, giovedì 26 giugno, la traccia è stata dettata intorno alle 11:30, sempre con due ore e mezza di ritardo. Il terzo giorno, venerdì, ci sono stati parecchi casini: la tracia è stata dettata dopo le 12:30!”. Anche da dislocazione nei padiglioni era anomala. La lettera D era assieme alla Z, la L con la E… Scorso concorso la d era assieme la a b e c, com’è nella’ordine naturale”. Il regolamento, poi, vieta assolutamente ai candidati di parlare tra loro. All’articolo 4, del Decreto 7 marzo 2014, ancora, si legge: “E’ loro rigorosamente inibito, durante tutto il tempo di svolgimento delle prove, di conferire verbalmente con i presenti o di scambiare con questi qualsiasi comunicazione per iscritto, come pure di comunicare in qualunque modo con estranei”. Il concorso in questione è stato avvolto dalle polemiche anche per la questione di un ragazzo disabile che, dovendo fare la dialisi, ha chiesto lo spostamento delle prove fissate per 3 giorni di fila. Ha fatto presente il suo problema al ministero nei tempi e nei modi corretti. Al Ministero sarebbe stato sufficiente che modificassero le date delle prove e tutto si sarebbe potuto svolgere regolarmente, nella piena legalità e soprattutto nel pieno rispetto dei diritti della persona disabile in questione. E invece no. Il TAR del Lazio ha fatto sospendere il concorso, venendo incontro all’istanza presentata dal ragazzo disabile. Il 9 giugno 2014, però, ecco la risposta del ministero che, con un decreto monocratico del Consiglio di Stato (il 2435), blocca l’istanza di sospensione del Tar. Il concorso si fa e le date rimangono quelle, in barba al ragazzo disabile ed alla legge che prevede che ci siano per tutti condizioni di parità per accedere ai concorsi pubblici. La questione, però, non è ancora finita. Il 10 luglio si pronuncerà il Consiglio di Stato sulla questione, anche se difficilmente ribalterà la sentenza. Il 13 ottobre, però, toccherà di nuovo al TAR esprimersi. Il Codacons, intanto, ha deciso di intervenire nelle procedure selettive: è stata fatta richiesta di visionare i verbali della giornata di venerdì 27 giugno in particolare, perché i commissari verosimilmente non hanno espulso i candidati scorretti, violando chiaramente le regole. Il Ministero, al momento, non ha ancora chiarito la questione. Restano solo una serie di polemiche, che si scatenano soprattutto sul web. E la rabbia, mischiata alla delusione, dei candidati che hanno passato mesi e mesi di studio sui libri per presentarsi pronti.

La procura indaga sul concorso per magistrati. Diversi candidati hanno denunciato irregolarità nelle prove svolte il 25, 26 e 27 giugno scorsi nella Capitale, scrive “Il Tempo”. Sono i custodi della giustizia. Eppure da anni i concorsi per magistrati sono al centro di polemiche e indagini. Della magistratura. E stamattina la procura di Roma ha aperto un fascicolo sull'ultimo concorso che si è tenuto nella capitale il 25, 26 e 27 giugno scorsi. La decisione arriva dopo la presentazione di un esposto da parte di un candidato, che denunciava una serie di irregolarità, e dopo che il Codacons e una ventina di candidati hanno chiesto l'accesso ai verbali della commissione. Al momento il fascicolo aperto dal procuratore aggiunto Francesco Caporale è senza indagati e senza ipotesi di reato. Sullo svolgimento delle prove alla Fiera di Roma è stata depositata questa mattina in Senato anche un'interrogazione parlamentare bipartisan, a risposta scritta, per chiedere al ministro Orlando di fornire chiarimenti dettagliati su quanto accaduto e di valutare «espressamente» l'annullamento del concorso. Primo firmatario il senatore Aldo di Biagio (Pi). Tra le irregolarità denunciate il ritrovamento su un banco nel terzo padiglione di tre codici commentati, vidimati e timbrati dalla commissione, nonostante il regolamento ne vietasse espressamente l'utilizzo. Mentre una candidata sarebbe stata scoperta a scrivere sui fogli protocollati lo schema di un tema sul giudizio di ottemperanza, molto prima della dettatura della traccia. 

Il Ministero della Giustizia fa scena muta. Al concorso per magistrati libri sui banchi, inspiegabili ritardi, chiacchiere «libere» davanti ai bagni, scrive Martino Villosio  su “Il Tempo”. «Il ministero della Giustizia assicura sul regolare svolgimento delle prove». Una nota laconica, pubblicata lo scorso quattro luglio, sbattuta in faccia alle proteste, all'indignazione e allo sconforto di decine di giovani. È così che il dicastero retto da Andrea Orlando ha voluto rispondere a chi, dopo aver partecipato il 25, 26 e 27 giugno al concorso per magistrati ordinari, è uscito sconvolto dai padiglioni della Fiera di Roma per correre dritto in Procura. Tutto pulito e liscio. Nonostante i tre codici commentati che, sebbene vietati dal regolamento concorsuale, sono stati trovati sul banco di un candidato timbrati e vidimati dalla commissione. Nonostante l'anomalia, segnalata tra reclami feroci dagli aspiranti magistrati, sia stata ignorata dai commissari. Nonostante i candidati, in base alle tante testimonianze consegnate a forum, giornali, avvocati e procura, avessero ampia facoltà di chiacchierare tra di loro, di alzarsi e camminare tra i banchi, di scambiare pareri nelle lunghe file davanti ai bagni durante le prove. Una risposta troppo scarna, di fronte alla coralità e alla puntualità di accuse portate al cuore del concorso pubblico destinato a selezionare i futuri giudici del Paese. Quasi bizzarra, per il governo che si è assunto il fardello di traghettare l'Italia verso una svolta epocale. Sulla testa del ministro Orlando sta per piovere un'interrogazione parlamentare che chiede di annullare il concorso e di «fare chiarezza sulle motivazioni e le cause che hanno comportato il verificarsi dei numerosi casi di irregolarità». Primo firmatario è il senatore Aldo di Biagio, ma l'adesione è trasversale. Nel testo che sarà depositato agli uffici del Senato viene rivelato un nuovo gravissimo episodio su cui la nota di via Arenula ha invece sorvolato: «Il giorno 27 giugno, verso le ore dieci, nel padiglione n.3 - è scritto nel documento - è stata scoperta una candidata che, ben prima della dettatura della traccia, aveva iniziato a scrivere sui fogli protocollati lo schema di un tema sul giudizio di ottemperanza, malgrado non fosse cominciata ufficialmente la prova e non fossero addirittura presenti i membri della Commissione. La candidata veniva presa in consegna da funzionari e dagli agenti della polizia penitenziaria presenti, mentre il foglio protocollato con lo scritto veniva nel frattempo ritirato da un agente della polizia penitenziaria». Ai candidati che chiedevano quali provvedimenti fossero stati presi nei confronti della candidata, riporta ancora l'interrogazione, «il presidente della commissione rispondeva al microfono frasi concitate contro coloro i quali chiedevano chiarimenti, minacciandoli altresì di denunciarli per interruzione di pubblico servizio e si allontanava con la commissione senza dettare alcuna traccia da svolgere». Dopo un'ora, al rientro della commissione (formata da magistrati), la prova è ripresa normalmente e la candidata sorpresa a svolgere la traccia prima della dettatura è stata fatta riaccomodare al suo posto. Non solo: il ritardo così accumulato nel terzo padiglione sarebbe stato motivato - agli occhi degli aspiranti magistrati impegnati negli altri - con la necessità di attendere l'arrivo del candidato sottoposto a dialisi il cui ricorso, nelle settimane precedenti, aveva rischiato di far annullare il concorso. Un'ennesimo tassello in un quadro surreale, di fronte al quale i senatori firmatari si dicono pronti a chiedere anche una commissione d'inchiesta. Un affresco completato anche dal racconto sconfortato che ha fatto a «Il Tempo» un concorrente presente nel terzo padiglione. «Durante una delle prove ho visto un ragazzo alzarsi per ben quattro volte, attraversare l'aula a piedi e venire a parlare con una ragazza facendo finta di soffiarsi il naso. Alla scadenza delle prime due ore almeno 400 persone prendevano d'assalto gli unici due bagni sostando in coda parlando liberamente. Il tutto sotto gli occhi dei controllori, funzionari del ministero della Giustizia e allievi della polizia penitenziaria, che al massimo intervenivano chiedendo di "fare i seri"». «Eppure - ci ha detto con la voce incrinata questo ragazzo, - il regolamento concorsuale che ci hanno consegnato prevedeva l'espulsione per chi comunica durante le prove». Una testimonianza che stride con «la continua opera di vigilanza del personale giudiziario nei padiglioni» rivendicata dal ministero nella sua nota. Da via Arenula si fa notare anzi, a proposito dei tre codici commentati entrati a dispetto dei controlli, come i 29 commissari abbiano dovuto esaminare 30 mila codici. «Nei due giorni precedenti alle prove, divisi per lettera in ciascun padiglione, abbiamo consegnato i nostri codici che sono stati controllati e timbrati davanti ai nostri occhi dai commissari ma anche da sei funzionari del ministero. Mi sembra strano che siano potuti sfuggire quei testi», replica ancora la nostra fonte. Rivelazioni che combaciano con quelle di tanti altri. Alcune sono già arrivate in procura. Mentre gli avvocati Michele Bonetti e Santi Delia, che preparano un ricorso al Tar, hanno raccolto in pochi giorni le segnalazioni di 55 persone che dovrebbero confluire in un esposto/dossier destinato alla magistratura penale.

Quanti trucchi a quel concorso per la magistratura, scrive Martino Villosio su “Il Tempo”.  La procura di Roma indaga sul concorso per magistrati ordinari del 25, 26 e 27 giugno 2014. Dopo le proteste di molti candidati per le presunte irregolarità che si sarebbero consumate...La procura di Roma indaga sul concorso per magistrati ordinari del 25, 26 e 27 giugno. Dopo le proteste di molti candidati per le presunte irregolarità che si sarebbero consumate durante le prove scritte, in particolare nel terzo padiglione, il procuratore aggiunto Francesco Caporale ha aperto un fascicolo con modello 45. Al momento quindi non ci sono indagati e ipotesi di reato, ma sono in corso gli accertamenti e i riscontri preliminari sull’esposto presentato da un candidato nel quale vengono segnalate circostanze dubbie, come il ritrovamento su un banco dei tre codici commentati - vidimati e timbrati dai commissari - nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo. All’attenzione degli inquirenti, da ieri mattina, c’è anche l’interrogazione parlamentare al ministro Orlando presentata al momento da 6 senatori di diversi schieramenti politici e che è stata acquisita. Il tutto mentre continuano ad arrivare segnalazioni firmate via mail agli avvocati Michele Bonetti e Santi Delia, che a breve depositeranno un nuovo maxi esposto in procura a Roma, dettagliato e ordinato per aree tematiche. In una di queste mail - in possesso de Il Tempo - un aspirante magistrato che ha svolto la prova nel padiglione numero 7 segnala che uno dei membri era in commissione nonostante avesse già insegnato nella scuola di specializzazione per professioni legali di Torino, e che il tema della prova di diritto civile aveva lo stesso titolo di una sua monografia pubblicata nel 2012. «Ho visto due ragazze sistemate di fianco a me fare tutte e tre i temi insieme», aggiunge questo ex aspirante magistrato, «e non si sono scambiate solo qualche parola, ma hanno materialmente redatto i temi cooperando». «Signorina, taccia e torni a sedersi perché è anche nel suo interesse», avrebbe invece replicato un poliziotto a una ragazza che, durante la terza prova, aveva chiesto di poter visionare il verbale del giorno precedente per controllare che fosse stato annotato il ritrovamento dei codici commentati "sfuggiti" ai controlli. Un altro candidato segnala che il giorno 23, durante le operazioni di consegna e controllo dei codici da utilizzare durante le prove, i controllori annotavano nel registro apposito solo i nomi dei consegnatari e non i loro numeri di carta d’identità come sarebbe previsto dalle norme. «Nel mio padiglione, il numero 5», scrive ancora il giovane, «sono stati ritrovati appunti di vario genere nel water». La pioggia di mail che stanno scremando gli avvocati Bonetti e Delia gronda amarezza e disillusione. Una ragazza scrive ad esempio che, all’inizio delle prove, un membro della commissione ha detto ai candidati di non preoccuparsi dei segni di riconoscimento. «L’unica raccomandazione è non apporre il nome sui vostri fogli», avrebbe detto il commissario, «potete utilizzare la penna del colore che volete». «Per essere stata la mia prima esperienza al concorso che aspetto da una vita e per il quale ho sacrificato tutto», conclude la giovane nella mail spedita ai legali, «non so se sentirmi più indignata o delusa o amareggiata».

Però quando devono controllare lo fanno. Giusto per dare una parvenza di legalità, Commettendo abusi, però…….

Concorso Magistratura, la denuncia della candidata: “Costretta a rimanere nuda per i controlli, scrive “Corriere Univ”. E’ uno schifo” . “Non so cosa avrei potuto mettere nelle mutande o nel reggiseno, un codice commentato? un tema svolto?”. Continuano le polemiche intorno al concorso per magistrati che si è tenuto a Roma il 25, 26 e 27 giugno. Tante, tantissime le segnalazioni da parte dei candidati, che hanno raccontano eventuali irregolarità durante lo svolgimento delle prove. Molti concorsisti si sono riuniti anche online, tramite social network e gruppi Facebook, cercando di confrontarsi e chiarire quanto accaduto. Ecco la testimonianza di una candidata che è stata sottoposta a controlli da parte degli agenti. “Dopo i due controlli all’ingresso sono stata avvicinata da una agente della polizia penitenziaria che mi ha chiesto di seguirla e mi ha portato ai bagni. Una volta dentro non sono stata perquisita da vestita, mi è stato chiesto direttamente di posare le mie cose su un banchetto e spostarmi dall’altra parte rispetto alle due agenti donna. Mi è stato detto di alzarmi la maglia e anche il reggiseno. Poi di aprirmi i pantaloni. Dopo aver fatto anche questo le ho guardate pensando di aver fatto anche più di quanto fosse giusto chiedere, e invece no. “Si cali i pantaloni”. E dopo “si deve calare pure le mutande”. Ho iniziato a protestare, ho detto loro “ma state scherzando? ma vi rendete conto?”. La risposta è stata semplice: avevano trovato cose anche lì, e per loro non era certo un piacere fare controlli simili. “Se volevo potevo spostarmi davanti alle porte dei bagni dove c’era più privacy. Ho sbagliato e mi pento amaramente di non aver creato un casino rifiutandomi e pretendendo un verbale o una telefonata ai carabinieri. Sono uscita da quel bagno gonfia di pianto per l’umiliazione e ho pianto per ore, come faccio ancora adesso se solo ci penso. Non mi hanno toccato le tasche né fatto togliere le scarpe, avrei potuto avere bigliettini nascosti ma io ero una concorsista onesta, o forse fessa, da quello che si è sentito?”. “Non so cosa avrei potuto mettere nelle mutande o nel reggiseno, un codice commentato? un tema svolto? La ratio del controllo non è stata rispettata – continua lla candidata – , quindi devo chiedermi se non fosse intimidatorio o solo lesivo della dignità di una persona. Se vado a un concorso e rischio di dovermi abbassare le mutande senza alcun motivo di sospetto ma solo per un “controllo a campione” credo di doverlo sapere prima. Per essere un buon magistrato devo subire trattamenti del genere? devo essere in grado di fare un tema dopo un giro in un bagno a spogliarmi peggio di un criminale? Non so se è successo anche ad altri ma per me è stato shoccante. Credo che molte cose in questo concorso siano state “al limite” della legalità e dell’umanità”.

E poi……Quei corsi (di nascosto) a casa del giudice per preparare il concorso da magistrato, scrivono Matteo Di Paolo Antonio Augusto Parboni su “Il Tempo”. «Ho provato a chiedere una ricevuta alla fine del corso per prepararmi al concorso in magistratura, ma non c'è stato verso. Peccato, perchè lo studio legale... l'articolo sottostante è stato oggetto di una rettifica. «Ho provato a chiedere una ricevuta alla fine del corso per prepararmi al concorso in magistratura, ma non c'è stato verso. Peccato, perchè lo studio legale dove lavoro mi avrebbe rimborsato metà della spesa». Francesco è romano, ha 30 anni e vuole indossare la toga. Il suo insegnante è un magistrato, che dà lezioni tra le mura di casa sua da almeno di 5 anni. A partecipare sono una quarantina di ragazzi per volta. Pagano 800 euro per un corso da settembre a dicembre. Per uno analogo, regolare, si spendono dai 500 ai 2500 euro. Questo significa che il professore si mette in tasca 8000 euro al mese «puliti» per il corso degli aspiranti avvocati e altrettanti per quello che fa di preparazione al concorso in magistratura, che dura un altro quadrimestre. Senza contare che, a richiesta, ci sono delle lezioni extra, individuali o a piccoli gruppi alla modica cifra di 20 euro l’ora. «Le facciamo di sabato - racconta Luca, altro ragazzo del corso -, a casa sua, a Roma Nord, dove in un salone svuotato di ogni arredo vengono disposte diverse file di sedie di quelle di plastica pieghevoli e una cattedra dove siede l'insegnante. Ogni lezione dura dalle 2 alle 3 ore. Tutto è molto familiare e ogni tanto, incluso nel prezzo, c'è anche una fetta di ciambellone preparato dalla moglie». A domeniche alterne ci sono le prove pratiche: «Allora ci si divide in due gruppi - racconta Lucia, che al corso ha partecipato qualche anno fa -, uno va a casa della madre e l'altro rimane da lui. Questo perché la stanza viene trasformata da aula per le lezioni in una per le esercitazioni e all'interno vengono disposti dei banchi su cui poter scrivere che occupano molto più spazio. Le prove durano 4 ore e l'insegnante dopo aver dato le tracce spesso si cambia e va a correre. Quando torna, si fa una doccia e poi è pronto a raccogliere gli esercizi e riscuotere i soldi». Raccontano diversi ragazzi che per mesi hanno fatto lezione che il pagamento avviene ogni ultimo weekend del mese. Tutto rigorosamente in nero. Le modalità della transazione sono abbastanza singolari: «Di solito - spiega Luca - ci fa infilare i soldi in una specie di insalatiera, che tira fuori per l'occasione e segna ogni cosa scrupolosamente su un piccolo taccuino». Tutto questo è avvolto da un alone di mistero e non è facile avere informazioni sui corsi. Vige il passaparola e la procedura è semplice ma rigida, per controllare eventuali fughe di notizie: «Si chiama direttamente lui sul cellulare - racconta Francesco - e viene subito chiesto il nome di chi ha fornito il contatto. Solo allora si va avanti con le informazioni». La cautela è d’obbligo, perché l'attività di insegnamento è vietata alle toghe, salvo autorizzazioni del Consiglio superiore della magistratura. Qui, poi, si tratta di corsi di preparazione ad esami e concorsi nelle cui commissioni siedono dei magistrati. E tra di essi spesso c’è proprio l’organizzatore dei corsi romani, che magari si trova di fronte come candidato un suo discepolo. «Quando mi informavo all’inizio - assicura Luca - diceva apertamente di aver fatto parte della commissione di esame diverse volte. Ad alcuni di noi, in effetti, è capitato di averlo come esaminatore». Che quest’attività sia assolutamente incompatibile con la funzione giudiziaria lo hanno ribadito giusto a dicembre le Sezioni Unite della Cassazione. Facendo riferimento alla circolare del 1987 del Consiglio superiore della magistratura sugli incarichi extragiudiziari, ha confermato la sanzione disciplinare ad un magistrato, censurato dall’organo di auotogoverno delle toghe perché organizzava e gestiva una scuola per aspiranti magistrati ad Ercolano: Francesco Paolo Panariello. Eppure, pare che in tutta Italia di corsi irregolari del genere ne ce siano veramente tanti. Quello del nostro magistrato romano con l’insalatiera colma di soldi neri è solo uno di questi. Ma controlli e iniziative disciplinari, evidentemente, non fanno paura a questo tipo di toghe.

Pronta la reazione della toga. «In data 17 febbraio 2014, sul sito Web www.iltempo.it, nella versione on-line del quotidiano, è stato pubblicato l’articolo «Quei corsi (di nascosto) a casa del giudice per preparare il concorso da magistrato». Il medesimo articolo è stato pubblicato pure sulla versione cartacea del quotidiano. Nel predetto articolo si riferisce di un magistrato romano che organizza in modo clandestino corsi di preparazione per il concorso il magistratura e per l’esame di avvocato nella propria abitazione. Nel medesimo articolo si denuncia il comportamento di quello stesso magistrato, che percepisce dai suoi discenti compensi che non dichiara e, quindi, sottratti all’imposizione fiscale. Rilevato che nella parte finale dell’articolo è ricordata la recente sentenza della Corte di Cassazione, che ha confermato la sanzione disciplinare adottata dal Csm a carico del dott. Panariello per l’attività extragiudiziaria di docenza svolta in Ercolano; questo accostamento induce i lettori a ritenere che pure il dott. Panariello abbia svolto corsi di preparazione all’esame di avvocato e per il concorso in magistratura, in modo clandestino e sottraendo i compensi all’imposizione fiscale. Fino ai primi mesi dell’anno 2011 il dott. Francescopaolo Panariello ha svolto lezioni monografiche, di taglio seminariale, con cadenza di quattro al mese (una a settimana), presso la propria dimora in Ercolano, volte ad approfondimenti monografici di argomenti di carattere giuridico. I discenti erano del tutto liberi di seguire uno o più mesi di lezioni e di sfruttare nel modo ritenuto più opportuno gli studi seminariali in tal modo svolti. I compensi erano corrisposti a cadenza mensile, con rilascio di quietanza e puntualmente dichiarati nei modelli "Unico persone fisiche" annualmente presentati dal dott. Panariello ai fini dell’imposizione fiscale. Questa attività era stata regolarmente comunicata al Presidente della Corte d’Appello di Napoli (dott. Numeroso), presso cui il dott. Panariello prestava all’epoca servizio. Nel luglio 2007 la circolare sugli incarichi extragiudiziari è parzialmente cambiata e solo in conseguenza di questo mutamento (poi perfezionato con altra modifica della medesima circolare di agosto) ha riguardato soltanto il periodo dal 2007 al 2011. La sanzione è stata adottata unicamente per la ritenuta incompatibilità dell’attività didattica - liberamente svolta dal dott. Panariello, senza vincoli con terzi soggetti e senza aver ricevuto alcun incarico da altri, quindi in modo totalmente indipendente e autonomo - con la nuova versione della ricordata circolare, in vigore dall’estate 2007, la cui portata proibitiva, peraltro, dava luogo a non pochi dubbi interpretativi, tanto che il Csm ha avvertito la necessità di fugarli con ulteriore modifica della medesima circolare intervenuta ad agosto 2011 proprio sul punto specifico. Dunque, l’attività a suo tempo svolta dal dott. Panariello si connotava per: assenza di specifica destinazione all’esame di avvocato o al concorso in magistratura; assenza di clandestinità, regolare sottoposizione dei compensi percepiti ad imposizione fiscale, ossia per caratteri del tutto diversi, anzi opposti rispetto a quelli riferiti, nell’articolo giornalistico di cui sopra, ad un non meglio identificato magistrato romano. Ne deriva il carattere chiaramente diffamatorio del predetto vostro articolo nei confronti ed in danno del dott. Panariello, maliziosamente, oltre che infondatamente, accomunato al predetto magistrato». L’avvocato Francesca Giglio

Ma a chi voglion prender peri il culo?......

Fotocopiatrice sventa l'imbroglio al concorso, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Il diavolo fa le pentole, ma non i software». Se n'è accorta un giudice, sospesa ieri dal Csm perché autrice di uno sgangherato tentativo di truccare il concorso di accesso alla magistratura. Impresa mandata a monte, e qui sta il bello, da una fotocopiatrice integerrima e legalitaria che, ribelle alla commissaria che stava procedendo alla manipolazione notturna dell'esame di una candidata, ha deciso di rovesciarle addosso centinaia e centinaia di fotocopie con l'irruenza incontenibile e devastante della cascata dell'Iguassù. Magistrati, carte truccate al concorso Una fotocopiatrice sventa l'imbroglio Riaperta la busta di una candidata bocciata. Un pg confessa: non so cosa mi è preso. Il caso raccontato dalla rivista online «Diritto e giustizia». All'ultima sessione del marzo 2002 si è cercato di favorire la figlia di un ex componente del Csm La commissaria ieri è stata sospesa dalle funzioni e dallo stipendio Un codice personale inserito al posto del numero di copie fa scoprire la manomissione Per ore, mentre la macchina buttava e buttava e buttava fogli, la donna si è dannata l'anima per arginare il diluvio e far sparire le voluminose prove. Pensava d' esserci riuscita. Finché al mattino la belva elettronica si è risvegliata e... Ma è meglio ripartire dall'inizio. Al centro della vicenda, racconta Diritto e giustizia, un quotidiano on-line diretto da Roberto Ormanni ed edito dalla Giuffrè, specializzata in pubblicazioni giuridiche, c'è l'ultimo concorso per l'accesso alla magistratura, indetto il 12 marzo 2002. Tra i tantissimi candidati, che sognano ancora di indossare una toga nonostante le polemiche contro il «cancro» giudiziario, ce n'è almeno uno che porta un cognome importante: Gabriella Ferrara, figlia di un alto magistrato che fino all'anno scorso faceva parte del Csm per la corrente di Unicost. Niente di speciale, intendiamoci: di raccomandazioni e «aggiustamenti» è piena la cronaca. Basti ricordare l'esame di Stato per avvocati del 1997 a Catanzaro, quando la Finanza accertò che 2.295 temi su 2.301 partecipanti erano uguali in ogni dettaglio, perfino in alcuni errori di ortografia. O il concorso per l'abilitazione all'insegnamento del 2000 a Salerno e a Latina, dove alcuni commissari furono intercettati mentre chiedevano una bustarella di milioni: «Spenderà un po' ma può considerarsi promosso». O ancora l'esame di ammissione all' albo dei giornalisti professionisti del 1991, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un' agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. Né sono mancati, negli anni, altri episodi esilaranti. Come quella strepitosa sfida per il posto di primario di Ostetricia in un ospedale di Genova dove i tre chirurghi chiamati a dimostrare la loro perizia col bisturi simulando un'operazione su una donna (la rimozione di un uretere), fecero la loro prova sul cadavere di un uomo già svuotato di tutto perché sottoposto a un' autopsia. Meglio: non la fecero. Il che non impedì alla commissione (miracolo!) di dare dei tre «non interventi» di ostetricia sul corpo di un maschio tre differenti valutazioni. Il concorso per l'ingresso in magistratura di cui parliamo, però, stando alla ricostruzione del giornale, passerà alla storia come la pasta e fagioli dei «Soliti ignoti». Tutto comincia il giorno in cui Clotilde Renna, un magistrato di Cassazione con funzioni di sostituto procuratore generale presso la Corte d' Appello di Napoli, moglie di un presidente di sezione del Civile e componente della commissione esaminatrice, chiede ai colleghi come sia andata Gabriella, la sua protetta: «I colleghi mostrano il risultato: respinta, c'erano alcune lacune che non consentivano un giudizio favorevole. "Ma come - chiede il magistrato-commissario - è una ragazza molto brava". "Sarà - rispondono -. Ma la prova non va bene". Il giudizio era già stato verbalizzato, non c'era più niente da fare». Povera ragazza: come rimediare? Pensa e ripensa, la commissaria ha un'idea: «ritoccare» il compito con qualche aggiunta per consentire poi all' aspirante toga di fare un ricorso al Tar contro la bocciatura. E così, nottetempo come un topo d' appartamento, la nostra giudicessa penetra negli uffici dove sono custodite le prove scritte, «riapre la busta della candidata bocciata e inserisce alcuni fogli». Non contenta, come tocco finale, decide di fotocopiarli. E qui casca la Renna. Per azionare la macchina, infatti, ogni magistrato della commissione deve inserire il proprio codice a quattro cifre. La donna esegue ma nella fretta commette un errorino: riscrive il codice nello spazio dove si programmano le copie da stampare. E si ritrova come Topolino nell' «Apprendista stregone» di «Fantasia»: la fotocopiatrice, scossa da un sussulto di rivolta morale, comincia a sfornare centinaia e centinaia e centinaia di fogli fino a passare il migliaio. La poveretta tenta disperatamente di porre un argine all' esondazione cartacea e preme tutti i pulsanti possibili e tenta di staccare la spina e di distruggere quella massa di documenti che stanno travolgendo la sua furbata, la sua carriera, la sua vita stessa... Ma la macchina, spietata e implacabile come una toga rossa, non vuol sentire ragioni. E vomita, vomita, vomita... Finché, finalmente, dopo un'eternità, si ferma. Clorilde Renna tira un sospiro di sollievo, porta via non si sa come tutto quel po' po' di carta, controlla che sia tutto in ordine, spegne la luce e se la fila: «Oddio, è andata!». Macché. La mattina, all'arrivo in ufficio, il primo cancelliere prova a fare una fotocopia. Niente. Che c'è? Finita la carta. Scrupoloso, inserisce una risma nuova di A4. E la macchina virtuosa, come la scopa impazzita di Disney, ricomincia a vomitare: uno, due, tre, quattro... Fino a un centinaio di fogli. Tutti col loro bel timbro, le loro firme, le loro vidimazioni... Scandalo. E immediato tentativo di metterci se possibile un coperchio sopra: meglio non farlo sapere troppo in giro. La notte dopo, colta dal panico e dalla convinzione che comunque sarebbe stata scoperta, Clotilde Renna vuota il sacco con un collega: «Non so cosa mi sia preso...». Sssssh! Silenzio, che non si sappia in giro... La commissaria dà le dimissioni, viene sostituita, se ne torna a casa. Ieri, l'epilogo, col verdetto del Csm: sospensione dalla funzione e dallo stipendio. E quando se le dimenticherà, quelle fotocopie? E quando se le dimenticherà, quelle fotocopie? E quando se le dimenticherà, quelle fotocopie? E quando... Gian Antonio Stella 1991 Esame per giornalisti I raccomandati sono scoperti perché si trova un «file» su cui il caposervizio di un'agenzia, esaminatore, aveva annotato le prime righe dei temi di quelli da promuovere 1995 Concorso vigili urbani A Rimini il capo dei vigili viene arrestato durante un concorso per alcuni posti in Comune. Le buste destinate ai 20 candidati che devono vincere contenevano anche le risposte 2002 Prove per uditori giudiziari Il più recente concorso per l'accesso alla magistratura è stato indetto il 12 marzo del 2002. Hanno partecipato 25.109 candidati fra aspiranti giudici e aspiranti pubblici ministeri. I posti disponibili erano 350 1997 L'esame per avvocati Controllando i compiti dei concorrenti all'esame di Stato per avvocati a Catanzaro la Finanza accerta che 2.295 temi su 2.301 sono uguali in ogni dettaglio 2000 Il concorso a cattedra Concorso per l'abilitazione all'insegnamento del 2000 a Salerno e a Latina: alcuni commissari vengono intercettati mentre chiedono bustarelle milionarie.

MAGISTRATI. SI DIVENTA COL TRUCCO.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

“Dottoressa, giù le mutande”. La denuncia choc di Cristiana, aspirante magistrata. Nel silenzio assordante del CSM e del Ministero di Giustizia, scrive il 31 gennaio 2018 "Il Corriere del Giorno". L’edizione romana del quotidiano La Repubblica ha riportato la presunta tesi del Ministero: «Fonti ministeriali, però, dicono che la realtà è un’altra: Sani, dopo ripetuti andirivieni dalla sala verso il bagno, che avevano insospettito gli agenti, è stata sì perquisita e le sono stati trovati addosso alcuni bigliettini; per questo è stata espulsa dal concorso». La Sani però sostiene di non essere stata espulsa dal concorso e che nella perquisizione non è stato trovato nulla. Non ha mai ricevuto un verbale di espulsione e ha documenti che attestano che abbia portato a termine la prova. Il DAP- Dipartimento Amministrazione Penitenziaria smentisce La Repubblica, e la vergogna istituzionale continua! Cristiana Sani aveva deciso di partecipare al concorso di magistratura, perché, come tanti candidati, aspirava a fare il magistrato. A servire lo Stato, ad applicare e fare rispettare la Legge. Il concorso per magistrati è molto difficile come ben noto a tutti, ed è giusto che lo sia. Ma anche discutibile sotto molti punti di vista, ma quest’anno si è toccato il fondo della legalità e del non rispetto per la dignità delle persone che vi partecipano. Evidentemente al Ministero di Giustizia non era bastato il primo “scivolone”, sul tema di diritto amministrativo con una traccia che  incredibilmente era già stata proposta nella scuola per magistrati diretta dal consigliere Bellomo, il quale, appena sospeso dal Consiglio di Stato, ha trovato perfino il coraggio di autocompiacersi pubblicamente che i massimi organi della Giustizia italiana avessero scelto una sentenza di Palazzo Spada da lui scritta come estensore-relatore per valutare l´attitudine professionale nella preparazione degli aspiranti magistrati. Ma quello che sta facendo il giro dei social in queste ore, fa veramente rabbrividire. Il post nella propria bacheca Facebook è quello di una candidata al concorso di magistratura, Cristiana Sani, che lo ha scritto ed anche firmato, mettendoci la faccia e mettendosi in gioco, a questo punto sta rischiando anche un possibile esito sfavorevole della sua prova, perché quanto scritto da Cristiana altro non è che una gravissima denuncia di sistemi applicati che non sono altro che una vera e propria violenza aperta. Le discriminazioni e costrizioni incivili a cui sono state soggette, probabilmente, oltre a Cristiana, anche molte candidate sono inaccettabili. Delle donne umiliate ed offese nella loro femminilità, alle quali, senza tanti giri di parole, è stato addirittura richiesto di abbassarsi le mutande. Avete letto bene: calarsi le mutande. Sulla sua bacheca si è scatenata la protesta delle colleghe, Una di loro Chiara scrive: “Ti SCONGIURO, per il bene di noi tutte colleghe e future concorsiste, DENUNCIA PENALMENTE quello che ti è accaduto affinchè in futuro queste cose accadano con meno frequenza. Ciò che hai detto, che non ti hanno fatto togliere le scarpe, è assolutamente illuminante sul vero fine della perquisizione. Un giudice lo capirà perfettamente. Ricordo a TUTTI inoltre che ai sensi del codice di procedura penale chi viene perquisito ha diritto di fare assistere una persona di sua fiducia che sia prontamente reperibile”. Ed un’altra collega scrive: “E´ fuori dal mondo quello che è accaduto, è pura violenza…. E´ annientare i diritti procedere ad una perquisizione fino alle parti intime senza nessun più che fondato sospetto/motivo. Non esiste una cosa così….CHI NON DENUNCIA E´ COMPLICE. Esattamente come i magistrati che pur sapendo di reati di altri magistrati chiudono occhi e orecchie perchè sono “colleghi” (e purtroppo ne so qualcosa). Questo atteggiamento, certamente indotto dalla magistratura, doveva trovare un fermo rifiuto delle poliziotte/i….. C´è un limite invalicabile si chiama libertà e presunzione di innocenza, non puoi procedere ad una perquisizione nelle parti intime così, indiscriminatamente; metti delle telecamere dappertutto, fai girare le guardie in continuazione, controlla ma non oltre. Anche perchè, oltretutto, è un controllo di pulcinella, gli ovuli dove li nascondono? ho detto tutto, non entro nei particolari, ma davanti ad un controllo profondamente IDIOTA come questo, che ha solo il sapore della violenza e dell´abuso di potere, il disonesto lo passa indenne”. Sara Mauri una nostra collega del quotidiano il Giornale ha rivelato altri particolari a dir poco vergognosi e scabrosi che sarebbero degni di un’inchiesta ministeriale. Ne riportiamo di seguito un lungo stralcio: “La fila è lunga, alcune sono davanti alla porta da 20 minuti, tempo prezioso sottratto al test. L´esame scritto di magistratura richiede studio, concentrazione e costanza. Ed è chiaro che, in caso di necessità fisiologiche, l´obiettivo rimane quello di fare più in fretta possibile. Tuttavia, mentre le ragazze sono in attesa, «arrivano dei poliziotti penitenziari» che invitano le ragazze a recarsi nei bagni esterni. Ma le ragazze non vogliono perdere il loro posto in fila, perché è quasi il loro turno. E si rifiutano di cambiare servizi. Però, a quel punto, le cose si complicano: uno dei poliziotti va a chiamare due colleghe. Quando arrivano le poliziotte, le cose, stando a quello che scrive Cristiana, iniziano a prendere una brutta piega. «Non vogliono andare fuori che hanno freddo? Lasciatele qui che le riscaldiamo noi», dicono le poliziotte. Ed iniziano le perquisizioni. Arriva il turno di Cristiana. Ma lei capisce che qualcosa non funziona: la ragazza che c´è prima di lei esce dal bagno in lacrime. «Io lì per lì, non avevo capito quello che stava succedendo», scrive. Le poliziotte le dicono di mettersi nell´angolo, «nel corridoio, con loro due davanti che mi fanno da paravento per la perquisizione». E qui, Cristiana scrive, «non mi mettono le mani addosso. Mi fanno tirare su maglia e canotta. Mi fanno slacciare il reggiseno. Poi giù i pantaloni». Ma non finisce qui. «La cosa scioccante è stata quando mi hanno chiesto di tirare giù le mutande». Cristiana non cede. Abbassa di poco l´orlo degli slip. E allora, le poliziotte le dicono «Dottoressa, avanti! Si cali le mutande. Cos´è? Ha il ciclo che non vuole?»

Il post-denuncia di Cristiana Sani sta provocando molto rumore sul web, diventando virale,  ed ha fatto uscire allo scoperto anche altre denunce di fatti analoghi avvenuti in concorsi precedenti, come quello del 2014 di un’altra concorrente: “Ciao Cristina ( in realtà si chiama Cristiana ndr:), capisco benissimo quello che si provi, a me capitò la stessa cosa nel 2014 e ancora ricordo la sensazione di umiliazione e di impotenza che provai…naturalmente neanche a me trovarono niente…io non feci nulla, ma mi sono pentita di non aver denunciato quell’ episodio…un abbraccio”  Sulla questione si è espresso anche Enzo Iacopino, ex presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti:  “L’accaduto va oltre l’inciviltà e precipita, a mio avviso, nel codice penale. Spero che qualche Procura voglia occuparsene e confido che il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini, abbia il tempo per sollecitare un’indagine”. La vicenda non può venire ignorata anche perché, lo stesso Iacopino riferisce che “il vice presidente del Csm mi ha detto che considera vergognoso quanto riferito. Ovviamente dovrà fare degli accertamenti”. Il Dottor Fabio Roia, giudice che si occupa di reati di violenza di genere ammette: “Se è andata così -e non c’è motivo di dubitare di una ragazza seria, che fa parte di un’associazione di tutela delle vittime di abusi, deve intervenire la Procura. Esporre le parti intime per un concorso è disgustoso e spropositato”. La Sani, in altri post pubblici a commento del precedente, afferma che prima dell’inizio delle prove gli era stato detto che potevano subire perquisizioni, ma afferma anche che “non ci hanno fatto togliere né scarpe né stivali” e questo -riporta – è un fatto strano, visto che poi c’è stata la richiesta di togliersi gli slip. Chiaramente la presunta versione data da fonti ministeriali è completamente diversa. Ma l’edizione romana del quotidiano La Repubblica a firma del collega Francesco Salvatore ha riportato la tesi del Ministero, che invece ha smentito: «Fonti ministeriali, però, dicono che la realtà è un’altra: Sani, dopo ripetuti andirivieni dalla sala verso il bagno, che avevano insospettito gli agenti, è stata sì perquisita e le sono stati trovati addosso alcuni bigliettini; per questo è stata espulsa dal concorso». Da noi contattato l’ufficio stampa del DAP- Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha negato quanto pubblicato dal quotidiano LA REPUBBLICA in quanto “il ministero non ha fornito alcuna comunicazione ufficiale”. Il paradosso è che in un concorso pubblico, l’ufficio stampa del Dipartimento ignora la presenza di un presunto verbale di espulsione. Ci lamentiamo e sorprendiamo poi di quello che entra ed esce nelle carceri sotto gli occhi (spesso compici) della Polizia Penitenziaria?

La Sani però sostiene di non essere stata espulsa dal concorso e che nella perquisizione non è stato trovato nulla. L’ associazione antiviolenze A.R.P.A. Centri Antiviolenza dalla Rete TOSCAm di cui Chiara Sani fa parte in un post su Facebook, affermano qualcosa diffondendo un comunicato stampa che sembrerebbe smentire la versione del Ministero: “Niente di più falso. La candidata non ha mai ricevuto un verbale di espulsione e ha documenti che attestano che abbia portato a termine la prova. Questa si chiama violenza istituzionale.” Resta da capire cosa il silenzio inquietante sulla vicenda del presidente della commissione d’esame, il magistrato Luigi Agostinacchio. Quello che a molti giornali e colleghi è sfuggito, è la circostanza che Cristiana Sani lo scorso 16 gennaio sempre sulla sua pagina Facebook scriveva “Tra le tante cose belle che mi dà l’essere operatrice di un Centro Antiviolenza, c’è anche quella di far parte di un gruppo di donne con cui posso confrontarmi, discutere, crescere continuamente. E, anche durante le mattine in cui facciamo formazione, ridere tanto tanto tanto. Vi assicuro che è un valore immenso”. Possibile che un operatrice di un centro antiviolenza in presenza dei fatti che racconta non abbia chiamato i Carabinieri, la Polizia e presentato una denuncia? L’unico punto in comune tra le due versioni è la perquisizione effettuata da agenti della polizia penitenziaria femminile. Che non possono trattare delle donne che partecipano ad un concorso per magistrato, come se fossero delle carcerate. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha richiesto alla Commissione esaminatrice del concorso da magistrato, le cui prove si sono svolte dal 20 al 26 gennaio scorso, e al Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo, per quanto concerne i controlli, una relazione dettagliata sulle istruzioni impartite e sul concreto svolgimento dei controlli nei giorni delle prove.

"Giù le mutande" al concorso per magistrati, esiste un luogo immune dalla violenza? Scrive il 31 gennaio 2018 Nadia Somma, Attivista presso il Centro antiviolenza Demetra, su "Il Fatto Quotidiano". “Quello che è successo ad altre colleghe come me si chiama in un solo modo: VIOLENZA” è la denuncia indignata che Cristiana affida il 26 gennaio alla sua pagina Facebook raccontando di una perquisizione subita nei bagni del padiglione dove si stava svolgendo il concorso per entrare in magistratura. Tra i commenti al suo post anche quello di una donna che riferisce che l’estate scorsa è accaduta la stessa cosa. Mi domando che diamine sta accadendo a questo Paese? Che cosa sta passando sulla pelle delle donne? A volte si ha l’impressione che quanto più si smascheri il sistema di violenza simbolica, psicologica, fisica contro le donne quanto più quel sistema reagisce come fosse un mostro che ha molte teste. O forse tutto ciò accade a causa della decomposizione di una società che sta annichilendo la propria stessa civiltà, contaminata fin nelle fondamenta da una barbarie che ha fatto crollare il limite tra il lecito e illecito. O semplicemente accade che le donne hanno deciso di non tacere più. Ho sentito Cristiana al telefono questa mattina, è un’attivista dell’associazione A.R.Pa che a Massa ha aperto il Centro antiviolenza Duna, forse ci siamo viste o incrociate a qualche convegno e condividiamo un percorso comune. Sappiamo che non ci sono luoghi immuni da violenza. Mi racconta: “La commissione dopo due ore (prima è vietato alzarsi) ci ha dato il permesso di andare in bagno a scaglioni. Ero in fila, davanti a me dieci ragazze e dietro altre. È arrivato un poliziotto della polizia penitenziaria che ci ha chiesto di andare nei bagni fuori ma alcune ragazze si sono rifiutate. Avevano già fatto venti minuti di fila e fuori faceva freddo”. A quel punto il poliziotto risponde “Vi faccio passare dei guai” e “Allora ti lascio cintura e pistola e lo fai te il mio lavoro” e arrivano due poliziotte che esordiscono dicendo “Non vogliono andare fuori che hanno freddo? Lasciatele stare qui che le riscaldiamo noi!” Comincia così la perquisizione e Cristiana capisce che qualcosa non va quando vede uscire una ragazza dal bagno piangendo. “Mi dicono di mettermi nell’angolo del corridoio, vicino ai lavandini, chi si lava le mani può vedermi anche se le due agenti mi fanno da paravento. Mi fanno tirare su maglia e canottiera, davanti e dietro. Mi fanno slacciare il reggiseno. Poi giù i pantaloni, mi chiedono di girarmi e di tirare giù le mutande. Esito e a quel punto mi dicono: “Dottoressa, avanti! Si cali le mutande. Ancora più giù, faccia quasi per togliersele e si giri. Che ha? Il ciclo che non se le vuole tirare giù?” Mi sono rifiutata, rivestita e tornata al mio posto. In Cristiana scatta qualcosa. Sa che nei concorsi è ammessa l’eventualità di perquisizioni per normali controlli ma quelle modalità le dicono altro: “Ho capito che c’era qualcosa che non andava perché mi sono sentita a disagio, stavo male e quando il corpo segnala malessere lo si deve ascoltare”. L’associazione A.R.Pa in un comunicato stampa ha denunciato un abuso di potere, sostenuta dalla Rete Tosca: “Succedeva tanti secoli fa in un paese lontano, dove le donne erano considerate meno di zero, dove vigeva un regime antidemocratico, una dittatura militare, un paese dove la violenza e l’abuso di potere non erano reati perseguibili. Era l’anno 2018 del lontano paese del sud italico, nell’antica Roma”. Le donne del Centro antiviolenza A.R.Pa si chiedono perché alle candidate non è stato richiesto di togliersi le scarpe e perché la perquisizione è stata fatta in mezzo a un corridoio e non in locali idonei. Cristiana ha qualcosa da dire anche sul comportamento della stampa italiana, alcune testate hanno preso le foto dal suo profilo Fb senza chiederle il permesso poi smentisce Repubblica.it che, citando fonti ministeriali ha scritto che copiava, le avevano trovato dei bigliettini addosso. “Non è vero assolutamente. Non mi hanno trovato nulla addosso, non sono stata espulsa dal concorso, né ho fatto avanti e indietro dal banco al bagno anche perché non sarebbe possibile, è vietato. Ho il verbale della commissione e posso dimostrare che questa cosa è falsa”. Sul caso è intervenuto anche Fabio Roia, presidente di sezione presso il Tribunale di Milano, che sul Corriere della Sera commenta: “Se le cose sono andate così – e non c’è motivo di dubitare di una ragazza seria che fa parte di un centro antiviolenza – deve intervenire la Procura. Esporre le parti intime per un concorso è disgustoso e spropositato”. Cristiana mi saluta dicendo che farà un esposto al Consiglio superiore della magistratura e alla Procura. L’augurio è che le altre donne del concorso si uniscano a lei perché, come racconta Italo Calvino, il drago dalle sette teste lo si può sconfiggere. Insieme.

Concorso Magistratura, la denuncia della candidata: “Costretta a rimanere nuda per i controlli. E’ uno schifo”, scrive il 4 luglio 2014 su Corriere Universitario Raffaele Nappi. “Non so cosa avrei potuto mettere nelle mutande o nel reggiseno, un codice commentato? un tema svolto?”. Continuano le polemiche intorno al concorso per magistrati che si è tenuto a Roma il 25, 26 e 27 giugno. Tante, tantissime le segnalazioni da parte dei candidati, che hanno raccontano eventuali irregolarità durante lo svolgimento delle prove. Molti concorsisti si sono riuniti anche online, tramite social network e gruppi Facebook, cercando di confrontarsi e chiarire quanto accaduto. Ecco la testimonianza di una candidata che è stata sottoposta a controlli da parte degli agenti. “Dopo i due controlli all’ingresso sono stata avvicinata da una agente della polizia penitenziaria che mi ha chiesto di seguirla e mi ha portato ai bagni. Una volta dentro non sono stata perquisita da vestita, mi è stato chiesto direttamente di posare le mie cose su un banchetto e spostarmi dall’altra parte rispetto alle due agenti donna. Mi è stato detto di alzarmi la maglia e anche il reggiseno. Poi di aprirmi i pantaloni. Dopo aver fatto anche questo le ho guardate pensando di aver fatto anche più di quanto fosse giusto chiedere, e invece no. “Si cali i pantaloni”. E dopo “si deve calare pure le mutande”. Ho iniziato a protestare, ho detto loro “ma state scherzando? ma vi rendete conto?”. La risposta è stata semplice: avevano trovato cose anche lì, e per loro non era certo un piacere fare controlli simili. “Se volevo potevo spostarmi davanti alle porte dei bagni dove c’era più privacy. Ho sbagliato e mi pento amaramente di non aver creato un casino rifiutandomi e pretendendo un verbale o una telefonata ai carabinieri. Sono uscita da quel bagno gonfia di pianto per l’umiliazione e ho pianto per ore, come faccio ancora adesso se solo ci penso. Non mi hanno toccato le tasche né fatto togliere le scarpe, avrei potuto avere bigliettini nascosti ma io ero una concorsista onesta, o forse fessa, da quello che si è sentito?”. “Non so cosa avrei potuto mettere nelle mutande o nel reggiseno, un codice commentato? un tema svolto? La ratio del controllo non è stata rispettata – continua la candidata –, quindi devo chiedermi se non fosse intimidatorio o solo lesivo della dignità di una persona. Se vado a un concorso e rischio di dovermi abbassare le mutande senza alcun motivo di sospetto ma solo per un “controllo a campione” credo di doverlo sapere prima. Per essere un buon magistrato devo subire trattamenti del genere? devo essere in grado di fare un tema dopo un giro in un bagno a spogliarmi peggio di un criminale? Non so se è successo anche ad altri ma per me è stato shoccante. Credo che molte cose in questo concorso siano state “al limite” della legalità e dell’umanità”.

Quel concorso per magistrati e la rabbia dei candidati: “Questa volta abbiamo toccato il fondo”, scrive il 4 luglio 2014 Raffaele Nappi su "Corriere Universitario". “Irregolarità inaccettabili. Mi auguro che la vicenda finisca in prima pagina, ma dopo aver capito a cosa possono arrivare la corruzione e il disprezzo per la funzione pubblica, dubito che una riedizione del concorso segua comunque la regolarità”. Piovono denunce sul concorso per magistrati che si è tenuto alla Fiera di Roma il 25, 26 e 27 giugno. Perquisizioni alle candidate fin dentro le mutande, codici commentati in possesso di alcuni concorsisti, commissioni distratte, svolgimenti a “gruppetti”, fogli con tracce che circolano prima di essere dettate. Questa volta, assicurano i candidati, pare si sia toccato davvero il fondo.

IL CONCORSO – Partiamo dall’inizio. Il 30 ottobre 2013, con un apposito decreto, l’ex ministro Annamaria Cancellieri ha firmato un bando di concorso per 365 posti di magistrato ordinario. Termine di scadenza per la domanda 9 dicembre 2013. Le prove scritte si sono tenute a Roma, presso la Fiera Roma, nei giorni 25, 26 e 27 giugno 2014. Sono 20.787 le domande di partecipazione, di cui 6.776 inviate con PEC e 14.011 inviate online.

SEGNALAZIONI A PIOGGIA – Tante, tantissime le segnalazioni raccolte dai candidati: “Sono state compiute irregolarità inaccettabili e di una gravità che probabilmente molti dei concorrenti neanche hanno compreso appieno. Mi auguro che la vicenda davvero finisca in prima pagina, ma dopo aver capito a cosa possono arrivare la corruzione e il disprezzo per la funzione pubblica, dubito che una riedizione del concorso segua comunque la regolarità. Si è prospettata anche la possibilità di un annullamento del concorso: sembra davvero un’ipotesi molto difficile, ma è fondamentale che se ne parli”. “Al padiglione 3 – racconta A. C. –  sono state espulse alcune persone poiché avevano codici commentati ammessi per l’abilitazione di avvocato vidimati dalla commissione, che si è giustificata dicendo: “È stata una svista”. Un’altra candidata, invece, è stata trovata con fogli del Ministero con tre schemi di tre tracce diverse addirittura prima che la stessa commissione dettasse la traccia di Amministrativo. Ciò vuol dire che le tracce escono prima della dettatura, ma solo per gli eletti”. Molti candidati chiedono di rimanere anonimi, per paura di ritorsioni. Su Facebook, inoltre, è nato un gruppo che raccoglie idee e proteste. “Sono andata a fare il concorso dopo ben 8 anni dall’ultima volta: ho trovato tutto molto peggio di come l’avevo lasciato, i controlli per niente rigorosi, ed una calca mostruosa!” – racconta un’altra concorsista.

I CODICI COMMENTATI – Diversi candidati si lamentano del fatto che qualcuno è stato trovato in possesso di codici commentati. Eppure, due giorni prima delle prove, la commissione ha convocato tutti per analizzare dettagliatamente ogni singolo testo, ed apporvi il timbro ministeriale. “Chi ha sbagliato è chi ha fatto passare i codici – racconta D. I. –. Nel padiglione 3 erano in più di uno coloro che avevamo i codici commentati. La cosa che fa più specie è l’assoluta grossolanità del modo in cui sono entrati. Ora mi domando e vi domando: quanti codici a cui avran cambiato la copertina sono entrati e non sarebbero dovuti entrare? Certo è che, visto il sistema si può risalire anche al commissario che ha messo il timbro. (Sempre che i codici non siano entrati nottetempo con l’aiuto di qualche inserviente che ha messo il timbro) …”. “Secondo me questi codici non hanno passato nessun controllo e sono entrati tra il primo e il secondo giorno di prova – commenta un altro candidato –. Questi furbacchioni (e credo sia evidente a chi mi riferisca) pensano che basti mettere alcuni timbri sui codici non ammessi per scaricare qualsiasi colpa sui commissari. Non posso e non voglio credere che ci sia il coinvolgimento dei commissari, quindi non trovo altre spiegazioni. Spero di non sbagliarmi”. La rabbia, intanto, sale. “Si dice che ci fossero un numero infinito di raccomandati – racconta S. C. -. Tutto questo mi fa schifo. Io non sono figlia di nessuno, ho rinunciato a tutto per venire a Roma. Se davvero c’erano personaggi con le tracce in anticipo auguro loro di vergognarsi a vita! So solo che io ingenuamente sono stata perquisita in modo disgustoso e c’era pure un poliziotto uomo: io come una cretina con le lacrime agli occhi ho detto: cosa dovrei avere? Tutto ciò mi fa schifo”. “Io sono tra quelli che hanno consegnato con tanta rabbia, soprattutto pensando ai sacrifici fatti e ai miei piccoli bimbi. Non ho parole”.

ORARI SBALLATI – Già dall’inizio delle prove, si sono contati i primi disagi. L’ingresso dei candidati, infatti, era previsto per le ore 8. All’articolo 3 del Decreto 7 marzo 2014 (Diario delle prove scritte del concorso a 365 posti di magistrato ordinario indetto con d.m. 30 ottobre 2013) si legge: “L’ingresso dei candidati sarà consentito fino alle ore 9.00; successivamente verranno chiusi i cancelli esterni e saranno ammessi all’esame solo i candidati presenti all’interno degli stessi”. Ma le cose sembrano essere andate diversamente. “Sono arrivata a Fiera di Roma molto presto. L’inizio delle prove era previsto per le 9 – racconta G., una candidata –. Ho fatto la fila il primo giorno dalle 8 alle 11:30. Hanno dettato la traccia di civile alle 12. E’ stato un massacro: tre ore in piedi per entrare. Il secondo giorno, giovedì 26 giugno, la traccia è stata dettata intorno alle 11:30, sempre con due ore e mezza di ritardo. Il terzo giorno, venerdì, ci sono stati parecchi casini: la tracia è stata dettata dopo le 12:30!”. Anche da dislocazione nei padiglioni era anomala. La lettera D era assieme alla Z, la L con la E… Scorso concorso la d era assieme la a b e c, com’è nell’ordine naturale”. Il regolamento, poi, vieta assolutamente ai candidati di parlare tra loro. All’articolo 4, del Decreto 7 marzo 2014, ancora, si legge: “E’ loro rigorosamente inibito, durante tutto il tempo di svolgimento delle prove, di conferire verbalmente con i presenti o di scambiare con questi qualsiasi comunicazione per iscritto, come pure di comunicare in qualunque modo con estranei”.

RAGAZZO DISABILE – Il concorso in questione è stato avvolto dalle polemiche anche per la questione di un ragazzo disabile che, dovendo fare la dialisi, ha chiesto lo spostamento delle prove fissate per 3 giorni di fila. Ha fatto presente il suo problema al ministero nei tempi e nei modi corretti. Al Ministero sarebbe stato sufficiente che modificassero le date delle prove e tutto si sarebbe potuto svolgere regolarmente, nella piena legalità e soprattutto nel pieno rispetto dei diritti della persona disabile in questione. E invece no. Il TAR del Lazio ha fatto sospendere il concorso, venendo incontro all’istanza presentata dal ragazzo disabile. Il 9 giugno 2014, però, ecco la risposta del ministero che, con un decreto monocratico del Consiglio di Stato (il 2435), blocca l’istanza di sospensione del Tar. Il concorso si fa e le date rimangono quelle, in barba al ragazzo disabile ed alla legge che prevede che ci siano per tutti condizioni di parità per accedere ai concorsi pubblici. La questione, però, non è ancora finita. Il 10 luglio si pronuncerà il Consiglio di Stato sulla questione, anche se difficilmente ribalterà la sentenza. Il 13 ottobre, però, toccherà di nuovo al TAR esprimersi.

CODACONS – Il Codacons, intanto, ha deciso di intervenire nelle procedure selettive: è stata fatta richiesta di visionare i verbali della giornata di venerdì 27 giugno in particolare, perché i commissari verosimilmente non hanno espulso i candidati scorretti, violando chiaramente le regole. Il Ministero, al momento, non ha ancora chiarito la questione. Restano solo una serie di polemiche, che si scatenano soprattutto sul web. E la rabbia, mischiata alla delusione, dei candidati che hanno passato mesi e mesi di studio sui libri per presentarsi pronti.

Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba

Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti. Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso? Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato. E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti). Ne consegue una constatazione ovvia, per quanto dolorosa, che nulla toglie al merito – a volte condotto fino all'eroismo – di singoli magistrati che sacrificano le loro giornate e a volte la loro vita per compiere al meglio un dovere esigentissimo: la constatazione è che di tanti singoli magistrati ci si può fidare, della magistratura come «sistema» no. Essa è parte del problema generale dell'inefficienza di una macchina statale e burocratica che rappresenta il vero male oscuro (mica tanto oscuro) dell'Azienda Italia. Pensare che questa magistratura, così com'è, sia la soluzione al problema generale della cattiva amministrazione è quantomeno ingenuo. I vizi del nostro pubblico impiego – talmente eclatanti da essere meritatamente tema costate della commedia all'italiana – ricorrono tutti anche nella «casta delle toghe»: clientelismo, furbettismo, «demeritocrazia», pressappochismo. Bisognerebbe riformare la magistratura: ma non può farlo nessuno, se non essa stessa. Chi ci prova dall'esterno – compreso Renzi – viene respinto con perdite e anatemi. E immediatamente comincia a temere, forse a torto forse no, rappresaglie. Allora che la magistratura si autoriformi. Piercamillo Davigo, il segretario dell'Associazione magistrati, è certo un magistrato duro, serio e severo. Non sarà contento che le nuove leve della categoria siano selezionate grazie ai geroglifici che segnano sui compiti per farli riconoscere dagli esaminatori imbroglioni.

IL CODICE ANTIMAFIA E I CONCORSI TRUCCATI IN MAGISTRATURA, scrive Rocco Schiavone il 29 settembre 2017 su “L’Opinione”. L’Italia ormai approva solo leggi forcaiole e incostituzionali come questo assurdo Codice antimafia. L’ingresso della Casaleggio Associati in Parlamento è stato devastante, neanche il fascismo ha avuto strumenti legislativi simili... Basti pensare che con una querela di parte per stalking, l’indiziato, che potrebbe in ipotesi essere un poveretto che la moglie perseguita per rivalsa, potrebbe vedersi sequestrati tutti i beni. Siamo all’uso privatistico dell’azione penale. Ma detto ciò, di chi è figlia questa legge? Probabilmente dell’eterno dibattito congressuale interno al Partito Democratico. A leggere “Il Messaggero” sembra che neanche Matteo Renzi la volesse più. E che anzi sarebbe in polemica con il guardasigilli Andrea Orlando, che invece ne ha fatto una bandiera con cui giocare la propria battaglia interna al Pd. Il tutto, in attesa dell’ennesimo intervento riparatore della Consulta, nell’illusione di inseguire Beppe Grillo sul suo stesso terreno. Questa legislatura devastante per lo Stato di diritto, fatta di scandali mediatici che durano due giorni, solo su alcuni scandali veri è rimasta silente: i concorsi truccati in magistratura. Su “La Stampa” viene rievocata l’annosa vicenda di Pierpaolo Berardi e del concorso svoltosi nell’anno delle stragi di mafia del 1992. Nella commissione esaminatrice era presente anche la moglie di Giovanni Falcone, ma non poté opporsi alle combine dei colleghi, semplicemente perché il 22 maggio, mentre sono ancora in corso gli scritti, dopo aver firmato il registro delle presenze, saluta tutti, esce e va all’aeroporto di Roma, direzione Palermo, insieme al marito. L’ultimo viaggio in Sicilia della propria vita. I commissari che restano però, non onoreranno la sua memoria. Temi non corretti, temi riconoscibili, tanti figli di papà promossi e signori nessuno bocciati. Solo Pierpaolo Berardi, oggi avvocato, per anni reclamerà giustizia invano al Consiglio superiore della magistratura. Che a lungo impedirà l’accesso agli atti. Salvo poi, dopo che il Tar e il Consiglio di Stato, statuiranno il suo diritto di accesso e dopo che saranno constatati dallo stesso Berardi i brogli e i raggiri tipici di altri concorsi pubblici truccati che oggi assurgono alla prima pagina, finirà nel 2008 per dover ammettere che molti dei temi concorsuali (tra cui quello del Berardi) neppure erano stati corretti. Berardi, come tanti altri, era stato scartato a prescindere. In quel concorso del lontano anno delle stragi, cui avrebbe dovuto partecipare nella commissione esaminatrice la moglie di Falcone, tra i favoriti ci furono un magistrato che poi divenne persino giudice costituzionale e un altro che è stato di riserva nel tribunale dei ministri. Se questa è la maniera di selezionare una classe dirigente, lo giudichi il lettore. Ma che poi tanti Pm colleghi, o ex tali, di chi è diventato magistrato in questa maniera ci vengano tutti i santi giorni nei talk-show a fare la lezione su come la politica dovrebbe o meno comportarsi sta diventando francamente insopportabile. Per la storia più che per la cronaca: il concorso in magistratura del 1992 non fu l’unico a essere colpito o sfiorato da sospetti di trucchi. L’ex membro del Csm Mauro Mellini nel 1994 fece uno studio dei concorsi svoltisi dal 1949 a quell’anno, e scoprì, leggendo le stesse motivazioni delle commissioni con cui venivano ammessi agli orali dei veri e propri “caproni”, che il “volemose bene” era stato un vero e proprio metodo dal dopoguerra a oggi. Addirittura, nel concorso del 1949 si metteva per iscritto che quasi la totalità dei partecipanti era da bocciare per la propria impreparazione nel diritto, ma che data la circostanza delle carenze di organico lasciate dalla caduta del fascismo, dalle epurazioni e dalla Seconda guerra mondiale, si doveva comunque dare loro la toga sennò l’Italia sarebbe rimasta senza giudici. Fosse questo il vero peccato originale della Repubblica nata dalla Resistenza? Per un motivo semplicissimo, raccontato, nell’ottobre del 1994, dall’avvocato ed ex parlamentare radicale Mauro Mellini, in Il golpe dei giudici. Mellini sa bene quel che dice.

"Ci sono troppe leggi autoritarie. Tutta colpa del partito dei pm", scrive Dimitri Buffa su "Il Tempo" il 12 luglio 2017. Parla Mauro Mellini, storico leader Radicale: "Grillo e Renzi? Su questo sono uguali". "Grillo o Renzi o altri ancora per me pari sono. Fanno queste leggi da stato autoritario, dall'omicidio stradale a questa che vuole proibire i busti di Mussolini, passando magari per una nuova normativa di prevenzione per fare sequestrare e poi confiscare i beni degli indiziati di corruzione, come succede per quelli di mafia, per un solo motivo: sono tutti sotto ricatto. Il partito dei pm non l'ho inventato io, ma l'ho scoperto e denunciato per primo. E se all'epoca, quando stavo al Csm, Berlusconi mi avesse dato retta invece di tentare un'impossibile mediazione, non avrebbe fatto la fine che poi ha fatto". Mauro Mellini, Radicale storico dei tempi delle battaglie per il divorzio e l'aborto, e in seguito grande rivale politico, se non "nemico", all'interno di quella galassia, delle idee e dei metodi di Marco Pannella, dopo essere stato per quattro anni al Csm, su nomina del centrodestra, ha idee ben precise sul male italiano che affligge ormai tutti i poteri: giudiziario, esecutivo e legislativo.

E quali sono le sue idee su queste leggi liberticide che l'attuale parlamento sforna a getto continuo?

"È l'inquinamento culturale del partito dei giudici e del loro golpe iniziato con Mani Pulite. Che a sua volta è stato l'apogeo di una lunga marcia iniziata ai tempi della lotta al terrorismo e proseguita con la lotta alla mafia. Loro hanno chiesto e ottenuto alla politica di stravolgere lo stato di diritto, loro hanno instillato questo virus mortale dei fini che giustificano i mezzi, loro hanno voluto e vogliono uno stato autoritario, veramente e intrinsecamente fascista".

Insomma il fascismo degli anti fascisti di cui parlava spesso Pannella?

"Pannella distruggendo il partito radicale e riducendolo a una setta di cui lui era lo stregone, una specie di compagnia di giro di teatranti con lui come capo comico, ha a suo modo contribuito a far sì che le cose non cambiassero. Più concreta la Bonino che però è politicamente atea, nel senso che non crede in nulla, tranne che in se stessa, e infatti è una donna ambiziosa e egoista, ma, vivaddio, concreta".

Ma perché la politica non riesce secondo lei a dire di no al partito dei giudici?

"Ma sta scherzando, ma ancora non l'avete capito? Tutti hanno qualcosa da nascondere e da temere, tutti quelli che hanno volato troppo vicino al sole si sono bruciatile ali. Persino Renzi, che voleva rottamare tutto e tutti, è già tanto se non hanno rottamato lui. È una macchina da guerra, con le manette e gli sputtanamenti mediatici ottengono tutto, va avanti così da una trentina d'anni e fanno ridere questi politici ipocriti che ogni volta che vengono colpiti continuano a ripetere la litania del "confido nella giustizia". Ma che volete confidare? Al massimo dovrebbero dire che vogliono limitare i danni. Solo Sgarbi aveva capito queste cose ma poi gli hanno chiuso la trasmissione in tv... e poi tutto questo senza venire eletti da nessuno anzi diventando magistrati con concorsi poco trasparenti".

Addirittura?

"Quando stavo al Csm ne ho viste di tutti i colori, ho denunciato concorsi con il trucco in magistratura dal dopoguerra sino agli anni 90. Non sono diversi da altri settori della pubblica amministrazione".

Chissà quante querele avrà subito?

"Innumerevoli, mi hanno pignorato i soldi della pensione da parlamentare e i diritti sui libri che ho scritto, ma ho vinto anche tante cause contro di loro. Quella che mi diede più soddisfazione mi vedeva opposto all'allora procuratore di Palmi Agostino Cordova, il primo che ebbe la pensata di fare sequestrare tutti gli elenchi dei massoni d'Italia su denuncia di un avvocato di Palmi che straparlava di complotti. Presi in giro questa maniera di fare inchieste e di dare credito a questi personaggi parlando dei "Palmipedi", ma alla fine ebbi ragione io, anche perché Cordova nel frattempo, essendo fondamentalmente un idealista e un brav'uomo, era caduto in disgrazia presso l'allora Pds quando divenne procuratore a Napoli, tanto che di fatto lo fecero fuori".

La sua visione del conflitto tra politica e magistratura sembra a dir poco pessimistico, se non cinico...

"Può essere, ma è la verità. E i politici oltre a fare troppe ma veramente troppe leggi, le fanno tutte male e venate del morbo oscuro dell'autoritarismo. Quella che vuole far condannare chi si tiene a casa i busti del Duce è solo l'ultima. Ma la culla del diritto è diventata una bara già da trenta anni. Adesso piove solo sul bagnato. Perché ormai ai magistrati chi glielo toglie più il potere? Male hanno fatto i politici a consegnarsi mani e piedi, adesso per loro non c' è più scampo".

La prova di concorso e la giustizia “Ballarò”. Bastano solo otto minuti per diventare magistrati, scrive Gigi Moncalvo su “La Padania” il 9 febbraio 2003. Quanti dei quasi tre milioni di telespettatori che martedì sera su Raitre hanno visto “Ballarò”, hanno tirato fuori i fazzoletti e si sono asciugati le lacrime di commozione? Chissà quanti, alle ore ventitrè e passa, poco prima della fine della trasmissione, hanno sentito il loro cuore palpitare e la loro schiena venire attraversata da un brivido di commozione? Il “bravo presentatore” Floris, colui che le sinistre hanno scelto per sostituire Santoro, dopo aver scaricato ignominiosamente “Michele-chi?”. Ha mostrato il suo asso nella manica, dopo averlo tenuto nascosto per oltre due ore. C’era un giovane ospite, elegante e compunto, che fino a quel momento era stato tenuto dietro le quinte. La sorpresa era lui: un uditore giudiziario fresco di nomina ili quale doveva dimostrare, con il suo volto da boy scout e da ragazzo tutte le mamme vorrebbero come marito ideale delle proprie figlie, quanto sia “criminale” usare quella frase: “Assunti per concorso”. Gli strateghi di Raitre avevano pensato, giustamente, che la gente è stufa di vedere i soliti volti. Basta con i Caselli (la domanda è: ma dove troverà il tempo di lavorare con tutti i convegni che fa e le interviste che rilascia?). Ma quanti miliardi, esentasse, avrà incassato finora grazie alle provvisionali immediatamente esecutive decise dai suoi colleghi a carico di giornalisti e di case editrici? Basta con i Borrelli (la gente sa benissimo quanto ha preso di liquidazione e quanto prende di pensione e fa i paragoni con il proprio misero assegno mensile). Basta con i Di Pietro. Basta con i Bruti Liberati. Ci vuole un nuovo testimonial. L’ideale, hanno pensato a Raitre, potrebbe essere un giovane magistrato alle primissime armi, un uditore giudiziario, appunto. Chissà come è stata fatta la scelta, se è stata faticosa o no, chi ha provveduto alla designazione e chi ha deciso che fosse quel tale invece che qualcun altro. Bruti Liberati, forse, in combutta con Raitre? Alla fine lo hanno trovato (o hanno fatto dei provini tra una rosa di selezionati e la “giuria” è arrivata alla scelta finale?). Ed ecco Floris che si fa largo (Giuliano Ferrara aveva affrettatamente pensato che il boy scout a venticinque anni già avesse voglia di parlare di politica) e invita l’uditore, che per definizione dovrebbe “udire” e quindi ascoltare anziché parlare in Tv, a raccontare del modo in cui si diventa magistrato. L’obiettivo: cercare di “confutare” il sarcasmo, efficace e convincente, con cui Berlusconi nel famoso videomessaggio aveva parlato di “gente assunta per concorso”. E l’uditore infatti comincia a parlare del terribile concorso, pensate ci sono tre tremende prove scritte, e poi una agghiacciante prova orale, migliaia di candidati, una selezione terribile, pochi i vincitori e tutti in grado di superare quella prova tremebonda che si chiama concorso. La testimonianza avrebbe dovuto dimostrare che si diventa magistrati solo se si è davvero capaci e preparati, altro che todos caballeros. Noi sappiamo che ci sono giovani davvero preparati e meritevoli, e senza raccomandazione, ma sappiamo anche che loro per affermarsi ed essere promossi fanno fatica, mentre altri invece… Beh, lasciamo perdere. A noi quella testimonianza finale, così costruita è suonata fuori luogo. O si dice tutto, su quel famoso concorso, o è meglio tacere. Anche al fine di evitare una brutta figura a quel bravo giovane che, del tutto estraneo ai meccanismi di “Ballarò” e della Tv, è stato mandato letteralmente allo sbaraglio. Perché? Per la semplice ragione che, con la sua testimonianza parziale e incompleta, ha dimostrato perfettamente qual è lo schema del programma. Almeno Santoro ce l’aveva scritto in faccia e nei gesti l’odio, il rancore, la voglia di vendetta e di far corre il sangue. Floris invece si vede benissimo che lo hanno messo lì, deve preparare il terreno, fare il lavoro sporco, e poi però al momento chiave arrivano i professionisti a cancellare le tracce e a far sparire il cadavere. Ora noi vogliamo dimostrarvi, documenti alla mano, che cosa vi hanno nascosto in quel programma. E vogliamo che sappiate, dato che Floris non ve l’ha detto, come si diventa magistrati e quali sono le prove terribili cui si viene sottoposti dalla commissione esaminatrice. Dato che tutto questo “Ballarò” e Floris ve l’hanno nascosto, altrimenti Flore d’Arcais si sarebbe arrabbiato e avrebbe lasciato lo studio, ve lo vogliamo dire noi. Quello che avviene nel chiuso delle Commissioni di concorso è uno dei segreti meglio custoditi della Repubblica.

Sono rarissime le occasioni in cui è stato possibile squarciare il velo della segretezza. Ci si è riusciti la prima volta grazie a una candidata al concorso. Conosciuto l’esito negativo della prova scritta da lei sostenuta, fece ricorso al Tar del Lazio e chiese che venisse annullata la sua bocciatura previa esibizione dei verbali della commissione esaminatrice nella seduta in cui i suoi temi erano stati corretti. Il Tar ordinò di acquisire i verbali. La sfortunata candidata venne a sapere che aveva superato due prove scritte su tre e rimase stupefatta allorchè proseguì nella lettura dei verbali della commissione che quell’11 marzo 1993, sotto la presidenza del dottor Igino Capelli, presidente di sezione della Cassazione, le aveva impedito di diventare magistrato. La commissione era composta da Capelli più altri sei magistrati più due professori universitari. In totale dunque nove persone. Emerse dai verbali che la commissione quel giorno si era riunita alle ore 9,50 e aveva chiuso i lavori, e il relativo verbale, alle ore 13. In quelle tre ore e dieci (per un totale di 190 minuti) i nove commissari d’esame avevano esaminato i compiti di ventitrè concorrenti (dal numero 1933 al 1955). E quindi in quei 190 minuti i novi commissari avevano esaminato sessantanove elaborati, dato che ogni concorrente doveva preparare tre prove scritte: diritto romano e civile, diritto penale, diritto amministrativo. Passiamo ora ai calcoli, dopo avere spiegato come si svolge la correzione dei compiti. Uno dei nove commissari legge al alta voce ciascuno dei compiti. Ognuno di essi è composto ovviamente di più pagine manoscritte. Quelli della concorrente bocciata, la dottoressa T.C., constavano, complessivamente di 36 pagine, vale a dire una media di dodici pagine per ogni compito. In totale dunque, tenendo conto di una media di 12 pagine per ciascun compito dei 23 candidati (ognuno dei quali ha fatto tre compiti), abbiamo un totale di 828 pagine da leggere e giudicare. Dopo aver ascoltato la lettura di ogni compito, e quindi delle dodici pagine, ognuno dei nove commissari deve meditare e dare un parere che viene raccolto dal commissario verbalizzante. Dopo aver raccolto i nove pareri, il verbalizzante conteggia se il giudizio, positivo o negativo, è stato espresso a maggioranza o all’unanimità. Poi prende nota del medesimo, dispone la conservazione dell’elaborato, ognuno con allegata la busta chiusa con il nome del candidato, e infine passa alla lettura del compito successivo. Allora, abbiamo detto che la seduta della commissione comincia alle 9,50 e finisce alle 13, dopo 190 minuti. Proviamo a dividere 190 per il numero degli elaborati che sono stati letti (69 temi): il risultato è 2 minuti e 45 secondi per ciascuno. Questo è il tempo di ogni compito, ascolto e meditazione da parte dei commissari, formulazione dei pareri da parte di ciascuno dei nove, raccolta degli stessi pareri, conteggio, verbalizzazione del giudizio, conservazione dell’elaborato e ricerca della busta con il nome del candidato. Ripetiamo: due minuti e 45 secondi. Noi siamo stati magnanimi: in questo tempo infatti abbiamo omesso di considerare il tempo necessario per le firme, il caffè, la pipì, qualche commento, forse anche un paio di telefonate a casa prima o dopo la pipì, un minimo di intervallo per un po’ di riposo. Ripetiamo: due minuti e 45 secondi. Adesso fate una prova: provate a leggere (solo a leggere) dodici pagine che abbiano per argomento il diritto romano e civile, il diritto penale, il diritto amministrativo. Provate a cronometrare quanto tempo impiegate. Per darvi un termine di paragone vi diciamo che per calcolare il tempo di durata del testo di un servizio televisivo la regola è questa: dodici righe dattiloscritte lette con un certo ritmo, corrispondono a un minuto. In due minuti e quarantacinque, se è giusta questa regola, si riescono dunque a leggere solo una trentina di righe, cioè poco più di una pagina, altro che dodici pagine! Quindi per leggere, solo per leggere quelle 828 pagine, ci sarebbero volute almeno quattro ore e mezza! E loro invece hanno impiegato tre ore e dieci per fare tutto, non solo per leggere! Bene: possiamo dunque affermare che in Italia per diventare magistrato bastano due minuti e 45 secondi. Anzi, più esattamente 2 minuti e 45 moltiplicato per tre, dato che tre sono i compiti della prova scritta. In totale: 8 minuti e 15 secondi. È vero che a questi tempi e a questi nostri calcoli, abbondanti e generosi come avete potuto notare, occorre aggiungere il tempo necessario per la prova orale è molto meno selettiva e, per espressa ammissione contenuta in molte relazioni conclusive delle commissioni esaminatrici, spesso assai condiscendente e benevola. La fonte di queste nostre informazioni è il libro di Mauro Mellini dal titolo "Il golpe dei giudici" (Spirali/Vel Editore, Milano, Novembre 1994, lire 30mila). Mellini così conclude: “Così si diventa magistrato. E questo è il titolo di legittimazione di chi, non essendo soggetto altro che alla legge, ha diritto all’incensurabilità circa il modo in cui la legge si interpreta”. Secondo una capacità specifica valutata in otto minuti e dodici secondi (al lordo degli “accessori”), più l’esame orale. Conclusione: “Cossiga suscitò le più fiere reazioni perché parlò di “giudici ragazzini”. I quali ragazzini, quelli con i pantaloni corti, all’esame di terza media hanno diritto a qualcosa di più di otto minuti per la valutazione del dettato e del problemino”. Tutto questo, naturalmente, a “Ballarò”, su Raitre, non ve l’hanno detto perché vogliono che voi non lo sappiate. Altrimenti verrebbe delegittimata l’immagine della magistratura. A delegittimare la magistratura, naturalmente, non sono – tanto per limitarci alla cronaca di questa settimana – le sentenze come quella che ha assolto il potente generale e il suo autista che hanno provocato la strage vicino a Roma e non si sono fermati a soccorrere le quattro giovani vittime. Non sono le sentenze della Cassazione come quella, altamente educativa, che stabilisce che a 17 anni non è reato andare in gita scolastica con un bel pacco di hashish e farsi le canne, visto che c’è la professoressa che lo ha e ha dato il permesso (le si che è democratica) e visto che si è in gruppo. A delegittimare la magistratura non è la decisione della Corte d’Appello di Genova che risarcisce con otto miliardi un poveretto che è stato ingiustamente in carcere sette anni e mezzo. No: a delegittimare la magistratura cono le frasi di Berlusconi, e nel nostro piccolo siamo perfino noi – visto l’accanimento terapeutico con cui ci perseguitano -, sono le nostre trasmissioni tv (non perdetevi stasera alle 20,30 su Odeon e domani su Telepadania, alla stessa ora la nostra intervista con Francesco Pintus, fondatore pentito di Magistratura Democratica ed ex procuratore generale a Cagliari). Ah, dimenticavamo: a proposito, a pagare quegli otto miliardi sarà il ministero dell’Economia, cioè tutti noi. Ma è mai possibile che – trattandosi di errore giudiziario – come dice la parola stessa, non debbano pagare uno o più giudici o magistrati che hanno commesso quel clamoroso errore che ha rovinato una persona innocente? Ma allora che cosa si assicurano a fare all’inizio di ogni anno, pagando appena duecentomila lire circa, contro i rischi che qualcuno si rivalga su di loro per errori come questi? Tutte le risposte non le potrete trovare, naturalmente, a “Ballarò” e nemmeno su Raitre. Gigi Moncalvo

Il concorso truccato per magistrati. Un avvocato svela la truffa del 1992. Il Csm ammette: il suo scritto non è mai stato esaminato, scrive il 28/09/2017 Selma Chiosso su “La Stampa”. Era vestita di bianco, Francesca Morvillo. E’ il 23 maggio 1992 e all’hotel Ergife di Roma è il giorno dell’abbinamento delle buste del concorso in magistratura per uditore giudiziario: mercoledì 20, diritto penale; giovedì 21, diritto amministrativo; venerdì 22, diritto privato con riferimento al diritto romano. Lei alle 16 saluta, deve prendere l’aereo per Palermo. Rimarrà uccisa insieme a suo marito, Giovanni Falcone. È il primo colpo di scena del concorso durante le stragi di mafia. Concorso tanto particolare da finire ora in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè. Il dietro le quinte lo si deve 25 anni dopo alla caparbietà di Pierpaolo Berardi, avvocato astigiano. L’allora giovane legale è uno dei candidati. Quando legge il titolo del tema di penale si frega le mani soddisfatto: quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico lo ha appena affrontato in tribunale; la prova di amministrativo fila liscia; quella di diritto privato e romano è stata oggetto di un seminario seguito poco prima. Un anno dopo, quando escono i risultati degli scritti, non riesce a credere ai suoi occhi: bocciato.  Ed è lì che inizia la sua battaglia; da un lato Tar e Consiglio di Stato che gli danno ragione, dall’altra il ministero e il Csm che oppongono resistenza. L’avvocato chiede di potere vedere i suoi scritti e il verbale. «Mi dissero al telefono che il verbale non c’era» racconta oggi. Quando, dopo un ennesimo vittorioso ricorso al Tar, ha prove e verbali ecco cosa scopre: «I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no».  Va avanti e la legge gli consente di chiedere anche le prove degli altri candidati promossi. E lì scopre altre perle: temi riconoscibili perché scritti su una sola facciata, altri in stampatello; alcuni pieni di errori giuridici, altri idonei ma senza voto. Un candidato svolge il tema con una traccia diversa da quella indicata; uno scrive con una calligrafia doppia; un altro (si potevano solo consultare i codici) è degno di Pico della Mirandola: pagine e pagine copiate da manuali di Diritto. Tra i temi casuali che Berardi chiede di visionare c’è anche quello di Francesco Filocamo, attuale magistrato al tribunale di Civitavecchia ed estratto a sorte come presidente del tribunale dei ministri. Il ministero con estremo imbarazzo risponde a Berardi: le sue prove non sono in archivio. Un giallo.  Partono i ricorsi. A Perugia Berardi viene sentito da un pm con presente come uditrice una magistrata che aveva vinto quel concorso. Quando Tar e Csm ordinano di ricorreggere i suoi temi anziché nominare una nuova commissione è la stessa che lo aveva bocciato a farlo.  Nel 2008 il Csm dopo aver sempre affermato che era tutto regolare riconosce all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna.  

Un concorso truccato per aspiranti magistrati. Un avvocato svela la “truffa” subita nel 1992, scrive il 28 settembre 2017 "Il Corriere del Giorno".  Il Consiglio Superiore della Magistratura costretto ad ammettere: il suo scritto non era mai stato esaminato. Conseguenze? Nessuna! La vera “casta” porta la toga…Era il 23 maggio 1992 e all’Hotel Ergife sulla via Aurelia a Roma è il giorno dell’abbinamento delle buste del concorso in magistratura per uditore giudiziario: mercoledì 20, diritto penale; giovedì 21, diritto amministrativo; venerdì 22, diritto privato con riferimento al diritto romano. C’era anche Francesca Morvillo la compianta moglie del giudice Falcone, la quale alle 16 salutò tutti andando via. Doveva prendere quel maledetto aereo che la portò a Palermo dove venne uccisa insieme a suo marito, Giovanni Falcone. È il primo colpo di scena del concorso durante le stragi di mafia. Un concorso così particolare da essere finito in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè Editore.  Scoprire il dietro le quinte di quel concorso, svelato 25 anni dopo, è stato possibile alla tenacia un avvocato di Asti, Pierpaolo Berardi all’epoca dei fatti un giovane legale candidato a quel concorso, il quale racconta che allorquando lesse il titolo del tema di diritto penale era più che soddisfatto: proprio quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico, oggetto del concorso, lui lo aveva appena affrontato in Tribunale. La successiva prova di diritto amministrativo andò anche lei bene; quella di diritto privato e romano era stata oggetto di un seminario che aveva seguito poco prima del concorso. Ma passato un anno dopo quel concorso, allorquando vennero resi noti i risultati degli esami scritti, l’avvocato Berardi esito a poter credere ai suoi occhi. Era stato bocciato. Fu in quel momento che iniziò la sua battaglia legale. Il Tar ed Consiglio di Stato gli dettero ragione, mentre il Ministero di Giustizia e il Consiglio Superiore della Magistratura alzarono il loro solito muro di gomma “politico”. L’avvocato Berardi chiese legittimamente di potere vedere i suoi scritti e il verbale, ma – come racconta oggi al quotidiano LA STAMPA – “Mi dissero al telefono che il verbale non c’era”. Dopo un ennesimo ricorso vittorioso al Tar, il legale piemontese ottenne le prove ed i verbali del suo esame, da cui arrivò l’ennesima sorpresa: “I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no”. Berardi non si fermò ed andò avanti, infatti la Legge gli consentiva di poter di chiedere anche le prove degli altri candidati promossi. E lì scoprì tante altre anomalie ed illegalità. I temi erano facilmente riconoscibili perché una volta scritti su una sola facciata, altre volte in stampatello, alcuni persino pieni di macroscopici errori giuridici, altri idonei come il suo, ma sui cui non era stato apposto alcun voto. Addirittura un candidato elaborò il tema su una traccia diversa da quella indicata nell’esame.  Qualcuno scrisse con una calligrafia doppia (per far riconoscere il suo elaborato a chi doveva esaminare; un altro () aveva riportato copiando pagine e pagine copiate da manuali di Diritto, mentre si potevano solo consultare i codici. Tra i temi casuali che Berardi chiede di visionare c’è anche quello di Francesco Filocamo, attuale magistrato al Tribunale di Civitavecchia ed estratto a sorte come presidente del Tribunale dei Ministri. Il Ministero di Giustizia con estremo imbarazzo è costretto a risponde a Berardi ammettendo l’inverosimile e cioè che le sue prove non sono in archivio. Uno scandalo o una vergogna? Probabilmente entrambi. Partono i ricorsi. L’avvocato Berardi viene ascoltato a Perugia da un sostituto procuratore della Repubblica alla presenza come uditrice, di una magistrata che aveva vinto proprio quel concorso. Ma non è finita. Infatti quando il Tar ed il Consiglio Superiore della Magistratura ordinano di ricorreggere i suoi temi, invece di nominare una nuova commissione, incredibilmente viene chiamato a valutarlo la stessa che lo aveva bocciato! Dopo aver sempre affermato che era tutto regolare, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 2008 è costretto a riconoscere all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non erano mai stati esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna.  E poi parlando di indipendenza della magistratura… In realtà si sentono degli “intoccabili”.

Toga vinta ‘un si rigioca, scrive Cosimo Loré, Docente universitario e scrittore, l'11 ottobre 2010 su "Il Fatto Quotidiano". Se si entra in una bisca non si può pretendere che si giochi pulito! E le selezioni pubbliche si presumono truccate ma si confermano tali appena i controlli verificano i tempi di un concorso. Come ben risulta fin da quelli per magistrato. Da chi si ricorre poi se iudex si diventa in tal modo? Si legga Le toghe ignoranti (L’espresso 9.9.2010) dove l’avvocato penalista di Asti Pierpaolo Berardi ricorda il calvario per la ricerca della verità su imbrogli a catena per commettere prima e occultare poi la serie di illeciti fatti da magistrati e politici che lo bocciarono nel concorso in magistratura svoltosi nel maggio 1992; lo boicottarono intralciandone i ricorsi per ben 16 anni: il 30 aprile del 2008, però, il plenum del Csm riconobbe che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla commissione: l’organo di controllo dei giudici dei futuri giudici, il Csm, riconobbe il falso ideologico presente nel verbale, che invece affermava esservi stato l’esame delle prove scritte. Conseguenza in relazione a questo deliberato: nessuna. Intanto gli elaborati di un candidato vincitore, certamente esaminati, sono spariti dagli archivi del ministero: il padre è un magistrato ora in pensione, la mamma e il fratello magistrati in servizio; i cugini sono anch’essi magistrati; uno aveva superato il concorso del ’92, l’altro fuori ruolo al ministero ebbe l’incarico di esaminare un esposto dell’avvocato Berardi sul concorso, intanto vinto dal fratello e dal cugino…

Nel nostro volume Medicina Diritto Comunicazione (Giuffrè Milano 2005) scrivevamo…«L’attività dei seri ricercatori, la formazione dei giovani studenti, la memoria dei grandi maestri sarebbero meglio garantite se si provvedesse ad una più seria verifica (i concorsi sarebbero pubblici…) della idoneità oltre che della capacità di chi aspira ad indossare una toga. Non meno coraggiosa la denuncia dell’avvocato Pierpaolo Berardi nata nel 1992, anno in cui consegnò i propri scritti al concorso per magistrato, grazie alla legge 241 del 1990 che gli ha consentito di verificare con quale fraudolenti trucchi e impudichi marchingegni arraffarono la toga molti candidati (gli scritti sarebbero da pubblicare e studiare per far comprendere le ragioni reali di alcune disfunzioni della giustizia…). Su tale indagine vi sarebbe stato il silenzio-stampa (di fronte a fatti simili non c’è destra o sinistra che tenga…) se non avessero ritenuto di rendere pubblica questa vicenda – che a ragione si può definire storica – due giornalisti che onorano la professione e che riteniamo doveroso citare: Massimo Numa (La Stampa del 9 settembre 2004 a pag. 12, Lo strano concorso che fa tremare trecento magistrati) e Anna Maria Greco (Il Giornale del 10 settembre 2004 a pag. 10, Dopo dodici anni, concorso «sospetto», 275 toghe rischiano il posto).» La convinzione di molti  ̶  all’interno e all’esterno degli ambiti giudiziari e accademici  ̶  è che si tratti di aree affrancate da ogni forma di controllo e caratterizzate dall’assoluto arbitrio. In sostanza ed in sintesi vi è un assai consistente rischio – nel caso si vogliano adire le vie legali – di incappare in giudici non degni della toga indossata, talora con cupa alterigia …

Concorso truffa in magistratura: i testimoni raccontano, scrive il 28 Settembre 2017 "Zone d’Ombra". La storia è una di quelle tipiche italiane. Una di quelle, per intenderci, in cui spesso ci sono di mezzo politici e personaggi poco trasparenti. Questa volta, però, c'è di mezzo l'organo istituzionale che dovrebbe garantire il rispetto della legge. La vicenda è finita, 25 anni dopo, in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè. Pierpaolo Berardi, allora giovane legale, è uno dei candidati di un concorso in magistratura: era il 23 maggio del 1992. A quel concorso avrebbe dovuto partecipare anche Francesca Morvillo, moglie di Giovanni Falcone rimasta uccisa poco dopo. Berardi alla lettura del titolo del tema di penale non crede ai suoi occhi: quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico lo ha appena affrontato in tribunale. Tutto fila liscio. Quando un anno dopo escono i risultati degli scritti, però, Berardi legge di essere stato bocciato.  Lui non ci sta e intraprende una battaglia. Tar e Consiglio di Stato che gli danno ragione, ma il ministero e il Csm che oppongono resistenza. Come racconta La Stampa, l’avvocato chiede di potere vedere i suoi scritti e il verbale ma il verbale non c’era. Berardi dopo aver vinto un ricorso al Tar scopre che: "I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no".   L'avvocato non si ferma e va avanti nella sua battaglia. Visiona anche le prove degli altri candidati promossi e scopre altre questioni: i temi sono riconoscibili perché scritti su una sola facciata, altri in stampatello; alcuni pieni di errori giuridici, altri idonei ma senza voto. Un candidato svolge il tema con una traccia diversa da quella indicata; uno scrive con una calligrafia doppia; un altro copia pagine e pagine di manuali di Diritto.  A quel punto partono i ricorsi. A Perugia Berardi viene sentito da un pm con presente come uditrice una magistrata che aveva vinto quel concorso. Quando Tar e Csm ordinano di ricorreggere i suoi temi anziché nominare una nuova commissione è la stessa che lo aveva bocciato a farlo.  "Nel 2008 il Csm dopo aver sempre affermato che era tutto regolare riconosce all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non furono mai esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna."  

La storia dell'avvocato Di Nardo. Un'altra denuncia sui presunti concorso truccati in magistratura è quella fatta dall'avvocato isernino, Giovanni Di Nardo. Nel 2014 l'avvocato partecipò al concorso in magistratura ma, dopo l'esame, arrivò la lettera dal ministero della giustizia che lo informò sulla non ammissione. A quel punto Di Nardo fa ricorso al Tar chiedendo in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia risulta essere piena di errori ortografici e di sintassi. A quel punti Di Nardo presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. La denuncia viene archiviata. Di Nardo presenta un esposto alla Procura Generale e, a quel punto, viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta.

Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi, Mercoledì 29/10/2014, su "Il Giornale". "Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale". A svelare questo dettaglio sulla carriera dell'ex toga di Mani Pulite è il Tempo che riporta quanto detto dall’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma. Come scrive il quotidiano romano, "la vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online "Petrus", Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune". Corrado Carnevale è tornato in aula per difendersi dall'accusa di diffamazione mossa da Antonio Di Pietro. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. Durante il dibattimento in tribunale, il legale di Carnevale ha ribadito le dichiarazioni del suo assistito: "In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria". Opposta la versione del legale di Di Pietro: "Dagli atti documentali del processo di primo grado è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa".

Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive il 29 Ottobre 2014 “Il Tempo”. «Al concorso in magistratura Antonio Di Pietro ha avuto due "aiutini" agli scritti e poi è stato "stampellato" all’orale». Un aspetto non trascurabile del percorso che ha portato un vicecommissario del Molise a diventare uno dei magistrati di punta del pool di Mani Pulite, viene alla luce da una causa civile per diffamazione. È stato l’avvocato Roberto Aloisio, legale del giudice in pensione Corrado Carnevale, a spiegare ieri al collegio della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma come andò l’esame per diventare uditore di Di Pietro. La vicenda giudiziaria prende le mosse da un’intervista che nel 2008 Carnevale rilasciò al condirettore del giornale online «Petrus», Bruno Volpe, in cui confessò di essersi pentito di aver fatto promuovere Di Pietro al concorso in magistratura. «Fu un grande errore – svelò l’allora presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione – Mi lasciai commuovere dal suo curriculum. Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio davanti ad alcune sue lacune». Per quelle dichiarazioni, poi riprese da altre testate giornalistiche, Di Pietro ha querelato per diffamazione a mezzo stampa Carnevale. Il Tribunale civile di Roma recentemente ha condannato l’ex presidente della Cassazione a risarcire l’ex leader dell’Italia dei Valori di 15 mila euro, a fronte dei 200 mila chiesti da Di Pietro nell’atto di citazione. Ora i legali di Carnevale hanno chiesto alla Corte d’Appello di sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza. «L’urgenza di un’inibitoria – ha spiegato l’avvocato Aloisio – è dovuta al fatto che è già stato notificato l’atto di precetto. Lunedì scorso eravamo in attesa dell’ufficiale giudiziario. Il mio assistito non solo ritiene che giustizia non sia stata fatta, ma ritiene che 30 mila euro (se si considerano pure le spese legali e gli interessi) non siano una bazzecola per nessuno, anche per un magistrato la cui pensione mensile corrisponde alla metà di quella somma». Prima di celebrare l’udienza, ieri, il presidente del collegio d’Appello Francesco Ferdinandi ha chiesto alle parti «data la levatura delle loro personalità» se volessero raggiungere un accordo bonario e rinunciare al contenzioso, ma il legale di Di Pietro si è opposto. A quel punto l’avvocato Aloisio è entrato nel merito della questione: «In un’intervista in cui si parlava del fenomeno di Mani Pulite, il presidente Carnevale rispose che aveva sbagliato a valutare Di Pietro. Ha detto la verità, ossia ciò che sapeva. Il cosiddetto "aiutino" è stato riportato dal presidente Lipari e consiste in quello che è noto. Le commissioni esaminatrici per il concorso da uditori giudiziari si riuniscono preventivamente per stabilire i criteri di correzione dei compiti. Se alle prove scritte c’è una sufficienza seria e due 5 ci sono delle commissioni che legittimamente, nell’esercizio di un potere insindacabile, dicono: due 5 e un 6 passa poi vedremo agli orali. Non è mai stato detto che c’è stato un intrallazzo. Ha raggiunto la sufficienza agli scritti con questi due "aiutini". Poi all’orale, dove ha preso 8, è riuscito a raggiungere la media del 7, limite minimo che permette di superare il concorso. Infatti Di Pietro si è collocato nella parte finale della graduatoria». A difendere l’ex pm di Mani Pulite, in udienza, c’era un avvocato dello studio legale Scicchiatano, di cui lo stesso Di Pietro fa parte da quando ha lasciato la carriera politica per quella forense. «Dagli atti documentali del processo di primo grado – ha spiegato il civilista – è emerso che l’esame condotto da Di Pietro ha portato alla sua promozione perché era pienamente sufficiente. Quindi non corrisponde al vero dire che prese due insufficienze e una sufficienza agli scritti e che all’orale non andò meglio. Se non si deve dare valore ai documenti, ma alla prassi, come sostiene la controparte, allora bisognerebbe fidarsi esclusivamente della parola del presidente Carnevale; visto che altre prove non sono state prodotte, né tantomeno ci sono testi pronti a testimoniare che la prassi è questa». Ora la parola passa ai giudici di secondo grado che dovranno decidere se accogliere la richiesta di sospensiva della sentenza.

"Quel concorso da giudice: tutto truccato". Il racconto al Giornale di una candidata che ha partecipato al concorso di Milano: Ho visto troppe irregolarità. Sui banchi codici commentati o intere enciclopedie. Decine le denunce. Il ministero ha aperto un’inchiesta, scrive Luca Fazzo, Giovedì 27/11/2008, su "Il Giornale". «Una scena che non dimenticherò facilmente. Marasma totale, candidati che chissà come erano riusciti a portarsi appresso intere enciclopedie giuridiche, nessuno che sapeva che pesci pigliare, e in mezzo al caos un membro della commissione che strillava “Fermate quello spelacchiato che incita le persone”. Sembrava di essere al mercato, non al concorso per una delle professioni più delicate della nostra società». Questo è il racconto di V. che ha trent’anni e - per motivi che spiegherà più avanti - non vuole vedere il suo nome sui giornali. Ma il suo nome ce l’ha il ministro della Giustizia Angiolino Alfano, in calce all’accorata lettera che V. gli ha mandato per raccontargli le condizioni surreali in cui si è svolto a Milano, dal 19 al 21 novembre, il concorso per 500 posti da magistrato. Delle decine di testimonianze come quella di V. si dovranno occupare in diversi. Il ministero, che ha avviato una inchiesta interna. Il Consiglio superiore della magistratura che - su richiesta dei Movimenti riuniti e di Md - stamattina aprirà una sua indagine. E la Procura della Repubblica di Milano sul cui tavolo sono arrivati gli esposti che alcuni candidati inferociti si sono precipitati a depositare dopo avere rinunciato a portare avanti la prova. «Io non voglio buttarla in politica», dice V., «non voglio ipotizzare che ci fossero forme di corruzione o di connivenza. Non sta a me accertarlo. A noi spetta denunciare le irregolarità macroscopiche che erano sotto gli occhi di tutti e che la commissione ha fatto finta di non vedere. Adesso leggo che il ministero per fare luce sulla vicenda ha chiesto una relazione al presidente della commissione. Che obiettività ci si può aspettare? Perché non vengono sentiti anche i candidati?». Tema dello scandalo: l’introduzione - da parte di numerosi candidati all’oceanica prova d’esame convocata presso la Fiera di Milano - di vietatissimi codici commentati. Tradotto per i profani: agli esami per magistrato i temi riguardano faccende astruse («diritto di abitazione del coniuge superstite e della tutela del legittimario nel caso di atti simulati da parte del de cuius», recitava una traccia di settimana scorsa) cui i candidati debbono rispondere basandosi unicamente sui testi di legge, e non sui codici assai diffusi in commercio che, in fondo alle pagine, forniscono le risposte a ogni dubbio. Peccato che alla Fiera di Milano i codici del secondo tipo circolassero quasi liberamente. Risultato: sollevazione degli onesti, assalto alla presidenza, la prova che si blocca, riparte, finisce a notte inoltrata tra urla di «vergogna, buffoni», minacce, metà dei 5.600 candidati che abbandonano senza consegnare il compito. Come è stato possibile? Il presidente della commissione d’esame, il consigliere di Cassazione Maurizio Fumo, rifiuta ogni spiegazione. Così per ricostruire i fatti - che rischiano di portare all’annullamento della prova - bisogna affidarsi al racconto di V. e degli altri candidati. «La mia non è una denuncia anonima - dice V. - il ministro ha il mio nome in mano. Ma io quell’esame voglio riprovare a affrontarlo, stanno per essere banditi altri 350 posti. E se il mio nome girasse ne uscirei enormemente penalizzata». Che una aspirante magistrata sia convinta che il «sistema» si vendicherebbe della sua denuncia civile la dice lunga sull’aria che tira. V. non si dichiara ancora ufficialmente una disillusa, ma poco ci manca. «Io da sei anni non faccio altro che prepararmi per questo concorso. Voglio fare il magistrato, e credo che lo farei bene. Non ho aspirazioni missionarie, non ho una visione giustizialista della società. Ma credo che ogni società abbia bisogno di una cultura delle regole, e che per questo servano magistrati equilibrati e preparati. Io credo di essere entrambe le cose. Consideravo il concorso per magistratura l’ultima trincea della meritocrazia, evidentemente mi sbagliavo. All’idea che questo concorso premi i furbi che “ci hanno provato” mi sento profondamente indignata». «Abbiamo passato un giorno intero - racconta - a fare controllare i testi di cui chiedevamo di servirci. A me hanno tolto persino i segnapagine. Il giorno dell’esame ci sono ragazze che si sono viste perquisire anche la busta dei Tampax. I controlli, insomma, sembravano seri. E invece quando siamo entrati nell’aula è arrivata la sorpresa. C’erano candidati che avevano sul banco, con tanto di autorizzazione, codici commentati, manuali di diritto, enciclopedie. A quel punto è partita la protesta». Ma chi è stato, a permettere l’ingresso dei testi vietati? «I controlli li facevano i vigilantes, gli stessi che poi giravano tra i banchi. Non so chi li abbia istruiti. Ma so che un codice semplice si distingue facilmente da uno commentato: c’è scritto in copertina, e uno è alto un terzo dell’altro. Impossibile non accorgersene». E allora? Come è stato possibile? «Non lo so. Era una situazione surreale. E il presidente diceva: la prova va avanti, non è successo niente. Nei due giorni successivi il concorso è andato avanti così, chi copiava dai testi e chi si arrangiava in qualche modo. Se provavi a guardare il banco del vicino quello ti saltava in testa: cosa vuoi, fatti i fatti tuoi, vattene». Ed era il concorso da cui sarebbero usciti i magistrati di domani.

Tracce diffuse in anticipo. Venerdì scorso 27 giugno 2014, padiglione numero 3 della nuova Fiera di Roma. Sta per cominciare la terza prova del concorso per diventare magistrato, quasi 7 mila partecipanti per 365 posti. La traccia non è stata ancora letta ma una ragazza seduta verso il fondo della sala comincia a scrivere sui fogli timbrati che la commissione ha appena distribuito. Parte da qui il giallo che rischia di travolgere un concorso atteso da più di due anni, scrive Lorenzo Salvia su “Il Corriere della Sera”. In quel momento nessuno sa ancora quale sarà l’argomento del compito di diritto amministrativo ma la ragazza comincia a scrivere su un tema preciso, il giudizio di ottemperanza. I suoi vicini di banco iniziano ad urlare, chiedono l’intervento degli ispettori che girano fra i banchi. Chiedono che sia espulsa. Dicono che, evidentemente, conosceva la traccia in anticipo. Per trovare una soluzione arriva il presidente della commissione, il magistrato di Cassazione Antonio Prestipino. Dice ai candidati che se il compito sarà davvero su quell’argomento la ragazza sarà espulsa. Ma per il momento no, resta al suo posto. Nel padiglione tira aria di ammutinamento: «Noi l’esame non lo facciamo» urlano in coro molti di loro. Passano più di due ore prima che le tracce vengano lette. No, la materia non è quella «prevista» dalla candidata «sospetta». La ragazza resta al suo posto. Ma in aula si sparge la voce che nei cestini del bagno sono state trovate tutte le tracce, sia il titolo che lo svolgimento. Che lo stesso sarebbe successo il giorno prima per la prova di diritto penale. E che quelle due ore di blocco sarebbero servite alla commissione per cambiare al volo le tracce, in modo da evitare quella pericolosa coincidenza che avrebbe mandato a monte tutto il concorso. A giorni di distanza lo raccontano alcuni candidati, chiedendo l’anonimato. Ma, ufficialmente, questa ricostruzione viene smentita. «Sono solo persone in malafede che vogliono sabotare il concorso - dice il presidente della commissione Prestipino - forse perché sanno che la loro prova non è andata bene». Il magistrato nega il ritrovamento dei compiti nei bagni e che la commissione abbia cambiato al volo i temi. Conferma l’episodio della ragazza ma lo spiega così: «Erano solo degli schemi generali su un argomento che lei riteneva probabile uscisse ma che poi non è uscito. Davvero non capisco dove sia il problema». E quelle due ore di stop prima di leggere le tracce? «Nessun cambio di programma. Abbiamo cominciato più tardi per dare più tempo ad un candidato che tra una prova e l’altra doveva fare la dialisi». Ma il giallo della ragazza non è l’unico fatto contestato. Diversi candidati sono stati espulsi perché pizzicati in aula con i codici commentati, che non sono ammessi. Alcuni colleghi, sempre dietro anonimato, sostengono però di averli visti partecipare alle prove ma in una sala diversa. Una finta espulsione, insomma. «Ma figuriamoci - dice il presidente della commissione Prestipino - tra poco diranno pure che sono anche un trafficante di droga, di armi e di bambini. Senza una denuncia formale e senza una prova concreta queste voci, che sono arrivate pure a me, non valgono niente». Il magistrato si dice «già pentito» di aver accettato l’incarico di guidare la commissione. «Quello che sta accadendo è un segno dei tempi. Questo è l’unico concorso pubblico rimasto in piedi, la gente arriva con il coltello fra i denti ed è disposta a tutto pur di arrivare in fondo». Teme ricorsi? «Possibile che ci saranno, e questo rischia di allungare i tempi». In fondo, per chi vuole diventare magistrato, un assaggio del lavoro che verrà.

Concorso magistratura 2014: caos alle prove, annullamento vicino. Agli scritti lamentate irregolarità di ogni tipo. Cosa è successo, scrive “Leggi Oggi”. Magistratura 2014: aria di clamoroso annullamento. A pochissimi giorni dalle prove scritte di una delle selezioni pubbliche più discusse degli ultimi tempi, è un caos completo quello in cui si stanno muovendo Procura di Roma, Codacons e migliaia di candidati inviperiti. Dopo il tira e molla sulla date, infine confermate, erano 365 i posti disponibili in magistratura, messi a bando con il concorso più atteso dalle aspiranti toghe. Tanto è vero che ai blocchi di partenza si sono presentati un numero di iscritti venti volte superiore a quello dei futuri vincitori. Insomma, già di per sé, dando per assunto che tutto si sarebbe svolto nella massima regolarità, un compito davvero difficile attendeva gli oltre 7mila candidati - sulle 20 domande - che hanno presentato domanda di trovare un posto in Procura. Purtroppo, però, è arrivata prima la Procura da loro, che non il contrario. Già al terzo giorno consecutivo di prove, infatti, lo scorso venerdì 27 giugno, si sono sollevate forti rimostranze a opera di alcuni iscritti, che lamentavano palesi irregolarità nello svolgimento del test. Tutto ciò, nonostante fossero state prese le solite precauzioni per questo genere di appuntamenti: ritiro coatto degli smartphone a tutti i candidati, divisione delle singole postazioni per evitare collaborazioni e gli altri accorgimenti contro i soliti furbetti. E invece, qualcosa dev’essere andato storto, dal momento che molti dei candidati hanno denunciato comportamenti al limite dell’incredibile, con concorrenti pizzicati a consultavare indisturbati codici commentati, o, ancora, veri e propri gruppetti organizzati per risolvere la prova in comune, che si sarebbero visti soltanto rimproverare il rumore procurato. E tutto ciò, nell’indifferenza dei vigilanti: nessuna misura sarebbe infatti stata presa dai magistrati presenti, né provvedimenti disciplinari per i rei che, sotto gli occhi di tutti, avrebbero fatto il proprio comodo nelle ore di test. Peccato, però, che l’assenza di smartphone o altri dispositivi in grado di registrare fosse stata inibita al candidati, cosicché i coraggiosi che hanno gridato il proprio sdegno in Procura non hanno potuto portare prove concrete a suffragio. O, meglio, gli unici a cui era stato consentito tenere di nascosto i telefonini, sarebbero stati quei pochi favoriti dai commissari. Nel frattempo, il Codacons ha chiesto di poter consultare i verbali della commissione. Intanto, dal governo silenzio completo sulla faccenda. Lunedì, potrebbe tenersi un nuovo episodio: i concorrenti del concorso magistratura 2014 hanno infatti indetto una protesta simbolica in piazza, mentre in rete si ingrossa la rabbia dei tantissimi indignati per le scene viste in sede d’esame, ormai condivise tra i tanti aspiranti che si sentono defraudati del sogno della vita.

Torna a far discutere il concorsone che aveva rischiato di slittare per il ricorso di un candidato invalido. Dopo le prove alla Fiera di Roma fioccano segnalazioni su codici vietati, tracce già disponibili, commissari compiacenti. Tutto da verificare, ma alcuni candidati varcano la soglia della Procura e il Codacons chiede i verbali. E il Ministero, imbarazzato, per ora tace, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Si presentano in 7mila, affamatissimi di un posto tra i 365 in palio. Ma qualcosa va storto. Segnalazione dopo segnalazione, prende piede il sospetto che anche gli aspiranti magistrati della Repubblica commettano illeciti d’ogni tipo pur di diventarlo: smartphone imboscati con cui farsi dettare le risposte, tracce diffuse in anteprima da alcuni rispetto alla dettatura per tutti, codici commentati introdotti abusivamente fino al classico compito collettivo. Peggio, i magistrati chiamati a vigilare sulla correttezza della prova, secondo le testimonianze, avrebbero fatto spallucce delle tante segnalazioni rese dai partecipanti, omettendo di prendere gli opportuni provvedimenti, e perfino di verbalizzarle. Insomma, un putiferio sul concorso dei magistrati. E proprio mentre si torna a parlare di riforma della giustizia. Il concorso incriminato è quello per ordinari della Magistratura che aveva già fatto notizia per il rischio che saltasse tutto, dopo il ricorso di un ragazzo disabile impossibilitato a partecipare alle prove per tre giorni consecutivi (poi scongiurato da una sentenza lampo del Consiglio di Stato). Ma evidentemente il concorso è destinato a fare ancora notizia e forse a saltare davvero, stavolta per annullamento. Bandito con decreto il 30 ottobre 2013 è stato preso d’assalto con 20mila domande. Le prove scritte si sono tenute per tre giorni, 25, 26 e 27 giugno 2014, alla Fiera di Roma. L’ultima, quella di venerdì, sarebbe stata scandita da una serie di irregolarità tali da spingere alcuni candidati a varcare la soglia della Procura di Roma, il Codacons a chiedere i verbali della commissione, molti altri “aspiranti” a organizzare via web una protesta che potrebbe portare in piazza un sacco di gente, il 7 luglio. Sullo sfondo il Ministero che, contattato, non ha saputo fornire alcuna conferma o smentita circa i fatti. Restano una collezione di testimonianze che fioccano da ogni parte e alimentano la polemica, soprattutto sul web. Ad esempio sul sito www.miniterno.it che è il ricettacolo dei commenti pre e post e degli affanni dei concorsisti dilagano ricostruzioni e testimonianze che si spingono alla “parente del commissario con la traccia già scritta in bagno”. Ma c’è anche chi sta raccogliendo testimonianze circostanziate e non anonime, che saranno utili a chi vorrà vederci chiaro. Un giornalista del Corriere Università, Raffaele Nappi, le sta collezionando una ad una visto che di prove documentali (tracce audio-video) anche le vittime dei brogli non ne hanno potute produrre per mancanza di quei supporti che, invece, sembra impazzassero tra i colleghi meno onesti. I problemi sembra abbiano riguardato i padiglioni 3 e 4. “Più di uno aveva codici commentati” e con tanto di timbro del commissario, racconta ad esempio Fabrizio Ruggeri. “Ho visto alcuni candidati fare il compito a gruppetti, e la commissione invece di intervenire ha solo chiesto di fare meno rumore”, racconta Giovanni R. Una candidata racconta che, a fronte di nessun controllo su alcuni, ad altri veniva effettuata una perquisizione corporale da criminali di strada, parti intime comprese. Altre testimonianze ancora potranno arrivare dagli avvocati dello studio Santi Delia e Michele Bonetti a loro volta hanno ricevuto diverse segnalazioni e in seguito il mandato da parte di un gruppo di candidati per presentare istanza di accesso al Ministero della Giustizia per chiedere copia dei verbali di concorso. Sullo stesso fronte si muove poi il Codacons che circostanzia la sua azione al caso, l’unico per ora che sembra trovare riscontri netti, di tre candidati in possesso di codici commentati. “Qualora risultasse accertato quanto denunciato – spiega l’associazione in una nota – si determinerebbero serie e gravi responsabilità sia per i 3 candidati autori dell’illecito sia per i membri della Commissione, qualora non abbiano adottato le misure previste dalla legge nei confronti dei tre candidati scorretti”. Insieme a tutto il resto, è un’altra vicenda da chiarire.

Il trucco, si sa, vien da lontano. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Ed ancora......"Quel concorso da giudice: tutto truccato". Il racconto al Giornale di una candidata che ha partecipato al concorso nel 2008, scrive Luca Fazzo su "Il Giornale". «Una scena che non dimenticherò facilmente. Marasma totale, candidati che chissà come erano riusciti a portarsi appresso intere enciclopedie giuridiche, nessuno che sapeva che pesci pigliare, e in mezzo al caos un membro della commissione che strillava “Fermate quello spelacchiato che incita le persone”. Sembrava di essere al mercato, non al concorso per una delle professioni più delicate della nostra società». Questo è il racconto di V. che ha trent’anni e - per motivi che spiegherà più avanti - non vuole vedere il suo nome sui giornali. Ma il suo nome ce l’ha il ministro della Giustizia Angiolino Alfano, in calce all’accorata lettera che V. gli ha mandato per raccontargli le condizioni surreali in cui si è svolto a Milano, dal 19 al 21 novembre, il concorso per 500 posti da magistrato. Delle decine di testimonianze come quella di V. si dovranno occupare in diversi. Il ministero, che ha avviato una inchiesta interna. Il Consiglio superiore della magistratura che - su richiesta dei Movimenti riuniti e di Md - stamattina aprirà una sua indagine. E la Procura della Repubblica di Milano sul cui tavolo sono arrivati gli esposti che alcuni candidati inferociti si sono precipitati a depositare dopo avere rinunciato a portare avanti la prova. «Io non voglio buttarla in politica», dice V., «non voglio ipotizzare che ci fossero forme di corruzione o di connivenza. Non sta a me accertarlo. A noi spetta denunciare le irregolarità macroscopiche che erano sotto gli occhi di tutti e che la commissione ha fatto finta di non vedere. Adesso leggo che il ministero per fare luce sulla vicenda ha chiesto una relazione al presidente della commissione. Che obiettività ci si può aspettare? Perché non vengono sentiti anche i candidati?». Tema dello scandalo: l’introduzione - da parte di numerosi candidati all’oceanica prova d’esame convocata presso la Fiera di Milano - di vietatissimi codici commentati. Tradotto per i profani: agli esami per magistrato i temi riguardano faccende astruse («diritto di abitazione del coniuge superstite e della tutela del legittimario nel caso di atti simulati da parte del de cuius», recitava una traccia di settimana scorsa) cui i candidati debbono rispondere basandosi unicamente sui testi di legge, e non sui codici assai diffusi in commercio che, in fondo alle pagine, forniscono le risposte a ogni dubbio. Peccato che alla Fiera di Milano i codici del secondo tipo circolassero quasi liberamente. Risultato: sollevazione degli onesti, assalto alla presidenza, la prova che si blocca, riparte, finisce a notte inoltrata tra urla di «vergogna, buffoni», minacce, metà dei 5.600 candidati che abbandonano senza consegnare il compito. Come è stato possibile? Il presidente della commissione d’esame, il consigliere di Cassazione Maurizio Fumo, rifiuta ogni spiegazione. Così per ricostruire i fatti - che rischiano di portare all’annullamento della prova - bisogna affidarsi al racconto di V. e degli altri candidati. «La mia non è una denuncia anonima - dice V. - il ministro ha il mio nome in mano. Ma io quell’esame voglio riprovare a affrontarlo, stanno per essere banditi altri 350 posti. E se il mio nome girasse ne uscirei enormemente penalizzata». Che una aspirante magistrata sia convinta che il «sistema» si vendicherebbe della sua denuncia civile la dice lunga sull’aria che tira. V. non si dichiara ancora ufficialmente una disillusa, ma poco ci manca. «Io da sei anni non faccio altro che prepararmi per questo concorso. Voglio fare il magistrato, e credo che lo farei bene. Non ho aspirazioni missionarie, non ho una visione giustizialista della società. Ma credo che ogni società abbia bisogno di una cultura delle regole, e che per questo servano magistrati equilibrati e preparati. Io credo di essere entrambe le cose. Consideravo il concorso per magistratura l’ultima trincea della meritocrazia, evidentemente mi sbagliavo. All’idea che questo concorso premi i furbi che “ci hanno provato” mi sento profondamente indignata». «Abbiamo passato un giorno intero - racconta - a fare controllare i testi di cui chiedevamo di servirci. A me hanno tolto persino i segnapagine. Il giorno dell’esame ci sono ragazze che si sono viste perquisire anche la busta dei Tampax. I controlli, insomma, sembravano seri. E invece quando siamo entrati nell’aula è arrivata la sorpresa. C’erano candidati che avevano sul banco, con tanto di autorizzazione, codici commentati, manuali di diritto, enciclopedie. A quel punto è partita la protesta». Ma chi è stato, a permettere l’ingresso dei testi vietati? «I controlli li facevano i vigilantes, gli stessi che poi giravano tra i banchi. Non so chi li abbia istruiti. Ma so che un codice semplice si distingue facilmente da uno commentato: c’è scritto in copertina, e uno è alto un terzo dell’altro. Impossibile non accorgersene». E allora? Come è stato possibile? «Non lo so. Era una situazione surreale. E il presidente diceva: la prova va avanti, non è successo niente. Nei due giorni successivi il concorso è andato avanti così, chi copiava dai testi e chi si arrangiava in qualche modo. Se provavi a guardare il banco del vicino quello ti saltava in testa: cosa vuoi, fatti i fatti tuoi, vattene». Ed era il concorso da cui sarebbero usciti i magistrati di domani.

Le toghe ignoranti, inchiesta di Fabrizio Gatti sul "L'Espresso". Rimasta doverosamente ignorata dai media ossequiosi del potere giudiziario. Al popolino meglio non far sapere in che mani sono poste le loro vite. Appunti nascosti nel reggiseno. O in una cartucciera... Errori di grammatica. Sfondoni di sintassi. Scarsa conoscenza del codice penale. "L'espresso" ha letto i temi dei candidati che domani dovranno governare la giustizia. In pochi si salvano da un disastro generale. La dottoressa F., giovane magistrato di freschissima nomina, ha da poco messo in pratica l'antico insegnamento contadino del non darsi la zappa sui piedi. E anche quello poliziesco del non spararsi nelle parti intime. La dottoressa F. ha infatti partecipato agli scritti del concorso per magistrato ordinario nel novembre 2008. Ha poi chiesto l'annullamento dello stesso concorso al Tar del Lazio per le presunte irregolarità di cui era stata testimone. Ha quindi saputo di aver passato gli scritti. Ha superato gli orali nella primavera 2010. Ha immediatamente dimenticato le irregolarità di cui era stata testimone. E ha dichiarato al Tar la "sopravvenuta carenza di interesse" chiedendo ai giudici, nel maggio 2010, di annullare la richiesta di annullamento. Il 9 agosto, il Tar ha finalmente archiviato la bomba a orologeria del ricorso che l'audace candidata aveva piazzato sulla testa dei commissari d'esame. Niente male come inizio carriera. La sentenza è arrivata in tempo per vedere il nome del nuovo magistrato nell'elenco dei 253 vincitori, pubblicato dal ministero della Giustizia il giorno di Ferragosto. L'eccessiva attenzione a certe parti del corpo è invece costata l'esclusione ad altri laureati. Lo scrive Maurizio Fumo, presidente della commissione d'esame e consigliere della Corte di Cassazione, che in un verbale riservato prende atto "purtroppo, dell'atteggiamento obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima". Si trattava evidentemente di un vicequestore donna. Piuttosto che reggiseni e reggicalze, alcuni maschi hanno trovato ovviamente più consono indossare cartucciere da cacciatore dove nascondere i pizzini. Bernardo Provenzano ha fatto scuola ovunque. La generazione dei furbetti è entrata nelle aule di giustizia. I furbetti della toga: ragazzi e ragazze, più e meno giovani, che si sono formati studiando tra leggi ad personam e discussioni sul processo breve, tra le invenzioni del ministro Angelino Alfano e le comparsate tv dell'avvocato del premier, Niccolò Ghedini. Una generazione al passo con i tempi, tanto da averne già gustato il succo: l'importante è andare avanti. Chissenefrega. Così hanno rubato il posto ai migliori rimasti esclusi. Almeno questo denunciano le decine di ricorsi presentati al Tar del Lazio. Qualcosa però tutti questi ragazzi, promossi e bocciati, incontrati negli ultimi giorni, hanno già assimilato: hanno paura di parlare. Nemmeno quando si tratta dei loro diritti costituzionali. Niente nome e cognome, per carità. Potrebbe danneggiare il futuro. La legge bavaglio per loro è già una pratica. Anche per molti di quei 253 che dopo un periodo di tirocinio come uditori, diventeranno giudici, pubblici ministeri, gip, gup. E, quando sarà il loro momento, presidenti di Tribunale, procuratori della Repubblica, membri del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale. "L'espresso" ha letto i tre temi scritti da ciascuno dei magistrati appena nel 2010 nominati dal ministero. E ha analizzato i 235 verbali della commissione d'esame. Non mancano gli errori di ortografia. Pagine bianche e righe nere che assomigliano a singolari segni di riconoscimento (vietatissimi). Fogli pasticciati e scritti sui margini come fossero fumetti. Ma anche i documenti della commissione non scherzano. Voti allegati senza timbri ministeriali. Fogli volanti inseriti in mezzo ai verbali di valutazione. Correzioni e cancellature senza firme di convalida. La legge è stagionata, la 1860 del 15 ottobre 1925. Ma su questi punti è chiara. Articolo 18: "Le cancellature o correzioni, che occorressero, devono essere approvate una per una dal presidente e dal segretario, con annotazione a margine o in fine". Non ci sono prove che i commissari nominati tra magistrati, professori universitari e avvocati siano stati scorretti. Ma un po' troppo pasticcioni sì. Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". La questione che ha spinto quasi tutti i ricorsi è anche la presunta impreparazione della commissione nella compilazione dei verbali. Impreparazione che, secondo i ricorrenti, potrebbe avere viziato l'esame già dagli scritti, organizzati tra il 19 e il 21 novembre 2008 in due padiglioni della Fiera di Milano a Rho. Questo è il resoconto del presidente dei commissari: "Va innanzitutto ricordato che lo scrivente è stato individuato quale presidente della commissione esaminatrice", scrive di se stesso Maurizio Fumo in un verbale riservato inviato al ministro e al Csm, "solo pochi giorni prima dell'inizio dei lavori, a seguito della rinunzia del presidente nominato". Contrariamente a quanto stabilito dalla commissione in carica per il precedente concorso, "si è ritenuto di non ammettere testi contenenti note di dottrina e giurisprudenza anche se le relative pagine fossero state spillate o fatte spillare". Le operazioni di identificazione dei candidati (con tesserini questa volta senza foto) e di controllo dei testi con i codici durano due giorni, il 17 e il 18 novembre: "Sono affluiti circa 5.600 candidati. La media dei testi che ciascuno ha inteso introdurre può individuarsi in 5 o 6 per candidato. Per un totale, quindi, di 28.000-33.600 volumi". E qui cominciano i pasticci. Perché la regola in Italia, anche nel concorso per magistrati, è sempre flessibile: "Il problema della spillatura, nonostante l'annunzio pubblicato sul sito ministeriale, si è riproposto". I candidati che mostrano ai 250 sorveglianti i testi commentati e spillati "vengono invitati a strappare le pagine contenenti note di dottrina o giurisprudenza... oppure a rinunciare al codice stesso". I partecipanti che accettano la soluzione "hanno ottenuto la ammissione dei codici così purgati": che però "continuavano a recare sulla copertina la dicitura "codice commentato"". La mattina del 19 novembre la commissione si riunisce per scegliere le tre tracce di diritto amministrativo: "Subito dopo l'individuazione delle tre tracce, il professor Fabio Santangeli ha rappresentato di doversi allontanare per tornare a Catania... Né d'altronde il Santangeli poteva essere trattenuto d'autorità", ammette Fumo: "A tal punto la commissione ha ritenuto, all'unanimità, necessario eliminare le tre tracce e procedere all'individuazione di tre nuove tracce della medesima materia". Passano le ore. "Non pochi candidati", in attesa fin dalle 8, è sempre scritto nel verbale, "hanno lamentato di essere investiti da flussi violenti di aria fredda". Alle 12,45 la prova scritta non è ancora cominciata. Ormai sono evidenti sui banchi i testi con la dicitura "codice commentato". E i più rispettosi delle regole non la prendono bene. Scoppia la lite. Volano libri, qualche sedia, al grido di vergogna, vergogna: "La commissione, colta in un primo tempo di sorpresa per la violenza, la volgarità e la natura apertamente minacciosa che aveva assunto la protesta, ha comunque mantenuto la calma... solo, dopo più di un'ora e grazie all'atteggiamento fermo ma prudente della polizia penitenziaria, è stato possibile instaurare una qualche forma di dialogo... Altri inoltre chiedevano e ottenevano di verbalizzare dichiarazioni". Quel verbale, controfirmato da otto candidati, secondo i testimoni contiene nomi di persone sorprese con testi irregolari e ora promossi magistrati. Ma è impossibile verificare. Finora il Csm ha impedito l'accesso al documento. E il Tar Lazio non ha ancora depositato una decisione presa nel merito il 28 aprile 2010. "Nei giorni successivi le prove si svolgevano in maniera abbastanza regolare", conclude il presidente Fumo: "Si rendeva necessario tuttavia istituire un apposito banco delle espulsioni... In quanto il numero delle persone trovate in possesso di materiale non consentito (appunti, codici con annotazioni, testi giuridici mascherati con copertine di codici, telefonini e persino un orologio con database) era molto elevato".

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

PARLIAMO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA. SONO LORO A DOVER SVELARE I CONCORSI TRUCCATI. Scrive “Il Fatto Quotidiano”: Fermate quel concorso al Tar. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si sta svolgendo in questo periodo un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di PresidenzaCpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Ora, il dubbio è questo. Se un candidato è entrato in aula con i compiti già svolti, davvero può ritenersi certo che il concorso si sia svolto regolarmente per gli altri candidati? O non è forse legittimo sospettare che i compiti possano averli avuti anche altri candidati? E allora, perché la commissione (composta quasi tutta da magistrati amministrativi e nominata di fatto dal Cpga) non ha annullato il concorso in via di autotutela? Ho già scritto in un altro post la incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Orbene, anche in questo concorso la vittoria del blasonato fratello Mattei era ampiamente anticipata da voci correnti, prima ancora della apertura delle buste contenenti i nomi, tanto da indurmi personalmente (anche per la mia qualità di Presidente di una, pur piccola, associazione di Magistrati) a formalizzare una lettera di chiarimenti, regolarmente protocollata presso l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi. Un’ipotesi rara, in cui è addirittura formalizzato ufficialmente quello che si dice che accadrà di un concorso per l’accesso in magistratura (già oggetto di indagini penali) e che si verifica puntualmente. La mia richiesta di chiarimenti purtroppo non ha mai avuto risposta, mentre pare sia notizia di questi giorni che il fratello Mattei abbia passato gli scritti del concorso per 15 soli posti. Come dicevo, il condizionale è d’obbligo, non avendo il Cpga rilasciato, almeno sinora, alcun comunicato. Vedremo, ma intanto una certezza vi è già: la commissione nominata dal Cpga non ha attivato le pratiche per annullare quel concorso e la mia lettera sulle anticipatorie voci relative alla vittoria del Mattei giace da mesi in qualche cassetto, regolarmente protocollata.

Da "Il Corriere della Sera", invece.....Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo scrivono: Più «amanti» per tutti. Ricordate come il giudice Aldo Quartulli definì gli arbitrati, che consentono ai magistrati amministrativi di guadagnare soldi extra? «Le sentenze sono la moglie, gli incarichi l'amante». Bene: dopo essere stati più volte aboliti e ripristinati, stanno per tornare alla grande. Grazie a un emendamento che andrà in discussione proprio martedì. Il cuore dell'emendamento, firmato da tre senatori del Pdl, Massimo Baldini, Valter Zanetta e Luigi Grillo (il presidente della commissione Lavori pubblici del Senato rinviato a giudizio per concorso in aggiotaggio per i suoi rapporti con Giampiero Fiorani) è racchiuso in una sola riga: «Sono abrogati i commi 19, 20, 21 e 22 dell'articolo 3 della legge 24 dicembre 2007, n. 244». Arabo, per i non addetti ai lavori. Ma l'obiettivo è chiaro: vengono abolite le norme introdotte nell'ultima finanziaria del governo Prodi che vietavano alle pubbliche amministrazioni, senza eccezioni, di stipulare contratti contenenti la clausola del ricorso all'arbitrato in caso di disaccordo. Pena, l'intervento della Corte dei conti e pesanti sanzioni. Riassumiamo? Gli arbitrati (aboliti dal governo Ciampi, ripristinati da Berlusconi, ri-aboliti da Dini e via così…) sono una specie di corsia preferenziale parallela alle cause civili. Se l'ente pubblico che ha commissionato un lavoro e chi quel lavoro lo ha eseguito vanno a litigare sui soldi, possono chiedere che a stabilire le ragioni e i torti non sia la lentissima giustizia civile ma una specie di giurì. Un arbitro lo nomina un litigante, uno quell'altro e i due insieme nominano il presidente. Niente di male, apparentemente. Se non fosse per due nodi. Primo: gli «arbitri» sono spesso giudici chiamati a decidere «privatamente » su cose che a volte toccano lo stesso Comune, la stessa Provincia, la stessa Regione o lo stesso Ministero su cui possono essere delegati a decidere nelle vesti di membri dei Tar o del Consiglio di Stato. Secondo nodo: stando ai dati del presidente dell'Autorità per la vigilanza dei lavori pubblici Luigi Giampaolino, lo Stato (guarda coincidenza…) perde sempre. O quasi sempre: in 279 arbitrati in due anni tra il luglio 2005 e il giugno 2007, ha vinto appena 15 volte. Sconfitto nel 94,6% dei casi, ha dovuto pagare alle imprese private 715 milioni di euro. Pari al costo del Passante di Mestre. Va da sé che, oltre ai privati, hanno esultato gli arbitri. Che si sono messi in tasca, euro più euro meno, una cinquantina di milioni. Una cosa «indecorosa», diceva un tempo Franco Frattini invocando «l'incompatibilità totale fra lavoro istituzionale dei giudici e altri incarichi ». «Inaccettabile», concorda il Csm che da anni non consente ai giudici civili e penali di accettare arbitrati. «Indecente», insiste Antonio Di Pietro, che più di tutti ha spinto, da ministro delle Infrastrutture, per mettere fine all'andazzo. Macché: di proroga in proroga, è rimasto tutto come prima. E il divieto assoluto di ricorrere all'arbitrato non è mai entrato, di fatto, in vigore. Peggio: l'emendamento Grillo- Baldini-Zanetta non si limita a ripristinare gli arbitrati. Va oltre. E stabilisce una specie di percorso automatico: o l'ente pubblico e l'impresa privata che vanno in lite si accordano entro un mese oppure, senza più le procedure di prima, si va dritti alla composizione arbitrale. E dato che in questi casi lo Stato perde quasi sempre, va da sé che questo potrebbe spingere perfino le amministrazioni più riluttanti, per non subire oltre il danno la beffa di dover pagare avvocati e spese processuali, a rassegnarsi alla «proposta di accordo bonario». Cioè alle richieste delle imprese. Coscienti di spazzare via tre lustri di tentativi di moralizzazione avviati da Carlo Azeglio Ciampi, gli autori dell'emendamento hanno sciolto nella pozione uno zuccherino: il dimezzamento dei compensi minimi e massimi dovuti agli arbitri. Evviva! Fermi tutti: salvo la possibilità di aumentare del 25% le parcelle «in merito alla eccezionale complessità delle questioni trattate, alla specifiche competenze utilizzate e all'effettivo lavoro svolto». E chi decide l'aumento? Gli arbitri stessi. Non bastasse, la sconcertante manovra per rilanciare gli arbitrati mai aboliti arriva nella scia di altri due episodi, diciamo così, controversi, che riguardano gli stessi magistrati amministrativi, da sempre cooptati a decine in questo e quel governo, di sinistra o di destra, come capi di gabinetto o responsabili degli uffici legislativi. Incarichi che ricoprono continuando a progredire nella carriera giudiziaria come fossero quotidianamente presenti e cumulando i due stipendi. Il primo è la decisione di spostare la definizione delle norme che dovrebbero regolare gli incarichi pubblici. Abolito il tetto massimo di 289 mila euro fissato da Prodi, tetto che arginava alcuni stipendi stratosferici, il governo si era impegnato a fissare le nuove regole entro il 31 ottobre. Macché: tutto rinviato. Nel frattempo non solo tutto resta come prima, ma alcune società pubbliche come il Poligrafico, la Fincantieri o l'Anas hanno rimosso dai loro siti l'elenco delle consulenze e il loro importo, vale a dire uno dei fiori all'occhiello rivendicato sia dal vecchio governo di sinistra sia da Renato Brunetta. Ma la seconda «eccentricità» è forse ancora più curiosa. Riguarda un concorso. Erano in palio 29 posti di «referendario» (traduzione: giudice) nei Tar. Presidente della Commissione: Pasquale De Lise, «aggiunto» del Consiglio di Stato e autore di una celebre battuta sugli arbitrati suoi: «Il guadagno legittimo di qualche soldo». Partecipanti: 415 candidati. Ammessi agli orali, svoltisi in queste settimane: 30. E chi c'è, tra questi promossi? Una è Paola Palmarini, docente alla Scuola Superiore dell'Economia e delle Finanze di cui tempo fa era rettore il marito, Vincenzo Fortunato, capo di gabinetto di Giulio Tremonti nonché membro del Consiglio di Presidenza, cioè dell'organo di autogoverno delegato a nominare le commissioni d'esame. Un'altra è Anna Corrado, moglie di Salvatore Mezzacapo, giudice dei Tar e lui stesso membro dell'organo di autogoverno che sceglie le commissioni. Il terzo è Enrico Mattei fratello del magistrato del Tar Fabio Mattei, ammesso agli orali (dopo essere stato inizialmente scartato), grazie a una sentenza del Tar Lombardia firmata da Pier Maria Piacentini, il quale non molto tempo prima aveva avuto dal già citato organo di autogoverno l'autorizzazione ad assumere un incarico molto ben remunerato «di studio e approfondimento dei problemi concernenti concessioni di valorizzazione dei beni demaniali». Incarico «conferito dal Direttore dell'Agenzia del Demanio ». Cioè dalle Finanze.

Ed ancora da “Il Fatto Quotidiano”. Fermate quel concorso per Consigliere di Stato! Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse ieri le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Ma i fatti più gravi sono altri due. In primo luogo la celebrazione, nel giorno di pausa tra le varie prove scritte, di una seduta (che è pubblica) dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa nella sala ove si stava tenendo il concorso, senza spostare i codici legislativi portati dai concorrenti, che sono quindi rimasti accessibili da parte di persone esterne al concorso. In secondo luogo la violazione del principio dell’anonimato: diversamente dagli altri concorsi pubblici, la commissione ha costretto i candidati che avevano bisogno di fogli aggiuntivi per scrivere i temi, a compilare un modulo già predisposto, indicando il numero di fogli presi e firmandolo. In questo modo la commissione, aprendo le buste con le prove da correggere ed incrociando i dati sul numero di fogli aggiuntivi richiesti, ancor prima di aprire la busta con il nominativo del candidato al termine della correzione di tutte le prove, è in grado di conoscere chi dei (soli) 29 concorrenti ha scritto quel tema che si sta correggendo. Per essere più chiari, la commissione sa sin da ora che l’ottimo V. è l’unico ad aver richiesto 12 fogli aggiuntivi per la prova di amministrativo e 14 per la sentenza e 14 per il diritto internazionale. Che lo studiosissimo M. è l’unico ad averne richiesti sempre 8, nei primi tre giorni di prova. Che il bravissimo P. ne ha chiesti 13 per redigere la sentenza, mentre la diligentissima D. ne ha presi 5 per la prova di tributario e amministrativo e 8 per la sentenza. Il bravissimo D. ne ha presi 3 per diritto tributario, 6 per diritto amministrativo, 5 per la sentenza, mentre V. ne ha richiesti, per le stesse prove, rispettivamente 5, 4 e 4. E via dicendo per tutti gli altri concorrenti. Una procedura che rende quindi inutili tutte le accortezze previste per garantire l’anonimato e che, in considerazione del basso numero di concorrenti, avrebbe potuto facilmente essere evitata consegnando un numero maggiore di fogli a tutti i candidati o, semplicemente, non operando il “censimento”. Non è la prima volta che le prove di concorso del massimo organo (il Consiglio di Stato) deputato a giudicare della regolarità di tutti i concorsi pubblici italiani sono oggetto di irregolarità e polemiche: dopo il c.d. “caso Giovagnoli“, nel 2010 il Tar del Lazio ha dichiarato illegittimi i concorsi celebrati negli anni 2006 e 2007. Nel concorso del 2009 sono state corrette circa 700 pagine di compiti in poco più di 3 ore, per una media di 3,5 pagine al minuto: un record da guiness dei primati. Nel 2010, invece, ha vinto un candidato che aveva scritto un libro il cui titolo era esattamente identico al titolo della prova scritta di diritto civile.

Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente!

Riguardo il concorso di abilitazione alla magistratura vi è un commento di Valentina Dubini pubblicata su La Voce di Robin Hood. In seguito alle molte richieste e al grande interesse suscitato nei nostri lettori, dalla pubblicazione degli articoli "i veli sui concorsi truccati dei magistrati" e sul livello di credibilità sempre più basso della magistratura italiana vogliamo presentare un breve excursus dal 1992 ad oggi dei casi più salienti, per vedere cosa è stato fatto e se realmente qualcosa è cambiato.  Con il primo articolo del 2007 apparso sul tema un nostro anziano avvocato si domandava di quale credibilità potesse ancora godere la magistratura italiana se gli stessi concorsi per entrare a farne parte continuavano ad apparire poco trasparenti, come denunciato nei decenni precedenti da molteplici candidati, senza che si sia mai fatta piena luce sui diversi episodi di brogli e corruzione emersi in ogni parte d'Italia.

Correva l'anno 1992, quando trapelò per la prima volta che anche i concorsi per magistrati venivano truccati col beneplacito del Ministero di Giustizia e degli apparati di vigilanza: "Verbali sottoscritti da gente che non c'era, fascicoli spariti, elaborati giudicati "idonei" quando non lo erano affatto". Passarono poi ben 13 lunghi anni prima di venire a sapere tramite un articolo di denuncia del Corriere della Sera, pubblicato nel 2005, che i gravi fatti del 1992 non avevano ancora trovato alcuna soluzione nelle aule di giustizia amministrativa italiana né tantomeno sanzione penale.

Nel 2005, nonostante l'autorevole denuncia di Silvio Pieri, ex Procuratore Generale del Piemonte, e le diverse interrogazioni parlamentari sul tema, la scandalosa vicenda del concorso truccato del 1992, risultava finita nel porto delle nebbie, così come ogni altra successiva denuncia del genere. Vale la pena qui ricordare il suggestivo episodio della fotocopiatrice integerrima che smascherò il broglio di una componente della commissione esaminatrice della sessione del marzo 2002 e al contempo magistrato di Cassazione con funzioni di sostituto P.G. presso la Corte d' Appello di Napoli, la quale cercò di favorire la figlia di un ex componente del Csm, della corrente di Unicost, sostituendo clandestinamente durante la notte la prova giudicata negativa della sua protetta, ma venendo tradita dall'eccesso di zelo dell'incorruttibile copiatrice, utilizzata nottetempo dall'alto magistrato, che ripartendo al mattino misticamente vomitava fiumi di copie delle pagine contraffatte dalla giudice Dr.ssa Clotilde Renna.

Negli anni successivi, neppure l'agguerrito Ministro Alfano, al pari del Guardasigilli di centro-sinistra Mastella, provava a scalfire l'impenetrabile muro di gomma eretto dalla casta e dalle massomafie che la proteggono, sui criteri e le procedure che governano l'accesso alla magistratura. L'argomento, evidentemente troppo scottante anche per i falsi neoliberisti e i rampanti filoberlusconiani che sulla corruzione giudiziaria hanno prosperato, costruendo la loro fortuna economica e politica, continua così ad essere un tabù di cui nessuno si occupa.

Correva l'anno 2008, quando scoppia il nuovo caso della Fiera di Milano-Rho, in occasione dell'ennesimo Concorso Nazionale per Uditore Giudiziario truccato. Tra i 5600 aspiranti magistrati per soli 500 posti si scopre che c'è chi si può permettere di introdurre impunemente telefonini, appunti, codici "irregolari", rispetto alle norme dettate dal concorso e addirittura libri di testo, tanto da scatenare un vero e proprio putiferio. Mentre decine di candidati urlavano in piedi "vergogna!", un altro gruppo esprimeva il proprio sdegno chiedendo di annullare la prova.

Ma "more solito" tutto vien presto messo a tacere e il livello di preparazione e di moralità dei giudici italiani e la conseguente disponibilità a "non lasciarsi ammorbidire dal potere", restano quelli che tutti abbiamo avanti agli occhi ogni giorno nelle aule d'udienza: aperto favoreggiamento dei più forti, nepotismo, corporativismo, prepotenza e arroganza mischiate spesso ad aperta ignoranza ed assenza di rispetto nei confronti di avvocati e soggetti più deboli. (C'è persino chi scrive durante la prova riscuotere con la "q", chi confonde la Corte dell'Aja con la «Corte dell'Aiax», o un maturo Presidente di sezione di Corte d'Appello civile a Milano che alle soglie della pensione non conosceva neppure la differenza tra un reclamo in corso di causa ai sensi dell'art. 669 terdecies c.p.c. proposto al collegio da uno ex art. 669 septies c.p.c. proposto allo stesso giudice di merito).

La casta corrotta al pari della classe politica si protegge per autoriprodursi. Ma la cosa che più fa scalpore nel caso del concorso di Rho è il fatto che, messi a parte i dissidi tra il Guardasigilli Alfano e il C.S.M., è lo stesso organo di autogoverno della magistratura a richiedere con voto a maggioranza la frettolosa archiviazione del caso. Tutto normale anche per il Ministero di Giustizia, nonostante le molteplici denunce inquietanti di tanti candidati che segnalavano con dovizia di particolari come durante la prova milanese fossero saltate tutte le regole del gioco e che rampolli figli di noti magistrati avessero potuto fruire del tutto indisturbati di materiale vietato. Circostanza veramente anomala tenuto conto che il concorso per magistrati è ritenuto l'esame più controllato nel nostro Paese. I testi a disposizione dei candidati prima di venire ammessi e introdotti in aula vengono preventivamente verificati e timbrati da un'apposita commissione esaminatrice. Un cancelliere di Tribunale controlla siano realmente dei codici, che non vi siano nascosti appunti o fogli volanti e che siano conformi al bando. I nuovi brogli di Milano-Rho non potevano quindi venire liquidati, ancora una volta, laconicamente e senza alcuna indagine, per coprire le solite spinte corporative e gli oscuri interessi di chi controlla e manipola nell'ombra l'accesso in magistratura, prediligendo le logore logiche di nepotismo e di clientelismo, da cui si alimentano solo le massomafie, il malaffare e non di certo la legalità. Le molteplici proteste dei candidati della prova svoltasi alla Fiera di Milano-Rho per cui dovette persino intervenire la Polizia Penitenziaria per proteggere la commissione esaminatrice cieca, sorda e complice, non sono quindi ancora una volta servite a nulla.

La complicità della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano. Una cinquantina di candidati si recò in Procura a Milano per denunciare la gravità dei fatti di cui erano stati diretti testimoni, percependo che la Commissione intendesse mettere tutto a tacere per favorire i soliti raccomandati. Ma il procedimento, come di rito, viene frettolosamente archiviato, nonostante la quantità delle denunzie e la convergenza delle testimonianze, tutte acclaranti gravi irregolarità. Ciò, peraltro, senza disporre alcuna accurata necessaria indagine, seppure l'indignazione avesse inondato i siti web, estendendosi agli stessi consiglieri togati del Movimento per la giustizia e Magistratura Democratica che chiedevano un'inchiesta del Csm sulle innumerevoli irregolarità denunciate dai candidati. Dai media si apprende della richiesta di apertura di un fascicolo da parte della 9° Commissione di Palazzo dei Marescialli con l'obiettivo di "avere cognizione oggettiva dello svolgimento delle prove concorsuali e assumere le opportune iniziative in difesa del prestigio e credibilità della magistratura la cui prima garanzia è riposta nell'assoluta affidabilità della procedura di selezione". Ma, come denunciato, il 19 dicembre il C.S.M. definiva con una frettolosa archiviazione, eludendo ogni accertamento sullo svolgimento delle prove scritte del concorso indetto con D.M. 27/2/2008, svoltesi a Milano nei giorni 19/21 novembre 2008. La pratica era stata aperta da "I Giovani Magistrati", all'indomani delle inquietanti notizie fornite da stampa e televisione, in ordine alle modalità di espletamento del concorso. Dal sito www.movimentoperlagiustizia.it si apprende che nel corso della discussione plenaria, i consiglieri del Movimento per la giustizia chiesero invano il ritorno della pratica in Commissione per l'espletamento di ulteriore attività istruttoria, già inutilmente da loro richiesta anche in sede di Commissione, non condividendo la circostanza che la Commissione avesse voluto frettolosamente portare all'attenzione del plenum del C.S.M. una delibera monca, articolata sulla base di un'attività istruttoria carente, costituita essenzialmente dall'acquisizione delle sole relazioni del presidente della commissione di concorso (17, 20, 22 nov. e 1.12.08) e del direttore generale direzione magistrati del Ministero (25.11 e 9.12), nonché dalle audizioni dei commissari di concorso e di altri funzionari del Ministero di giustizia e della Procura Generale di Milano. "Nessun cenno nella delibera in esame del contenuto delle 19 missive, pervenute alla 9° Commissione anche via e-mail, delle quali più della metà regolarmente sottoscritte da candidati che segnalavano disfunzioni gravi o meno gravi riguardanti soprattutto il ritardo verificatosi il 19 novembre nella dettatura della traccia di diritto amministrativo e la presenza in loco di testi non consentiti". Per saperne di più, in relazione alla dinamica degli eventi, i tre consiglieri dissidenti aggiungono di avere inutilmente richiesto l'audizione di alcuni dei candidati firmatari degli esposti. Nessun cenno nella delibera del C.S.M. del contenuto della risposta del Ministro della Giustizia all'interrogazione parlamentare che, peraltro, si era sviluppata nel senso di una presa di distanza dall'operato della commissione di concorso. Il sito dei giovani magistrati del Movimento per la giustizia denuncia poi di avere sostenuto con forza che non vi fosse alcuna urgenza di definire, in tempi così brevi, una pratica dai risvolti talmente delicati, con una delibera che, agli occhi dell'opinione pubblica, avrebbe corso il rischio di essere additata (n.d.r.: come in effetti, poi, accaduto) "come una risposta corporativa e sostanzialmente "a tutela" dell'operato della commissione di concorso". Per di più, in una situazione in cui era in corso di indagini preliminari il procedimento aperto presso la Procura di Milano (iscritto a mod. 45), a seguito delle citate denunce pervenute dai candidati. Del resto, diversi sono gli aspetti inquietanti mai chiariti dal C.S.M. e dalla Procura di Milano, le cui archiviazioni hanno proceduto di pari passo per mettere tutto a tacere. Secondo quanto affermato nella relazione del Presidente Fumo sarebbero stati "schermati" i settori riservati ai candidati onde evitare comunicazioni telefoniche. Questo assunto, come si legge nel sito dei giovani magistrati, è stato smentito dal Direttore generale del Ministero, dott. Di Amato, che ha ammesso la mancanza di schermatura elettronica nei padiglioni ove si svolgeva il concorso, riscontrata peraltro dal sequestro di apparecchi telefonici che risultavano funzionanti all'interno dei locali. È appena il caso di rilevare che, come si legge nella relazione ministeriale, la "possibilità di una schermatura elettronica non ipotizzabile per la sede di Roma" era stata una delle ragioni che avevano condotto l'autorità competente alla scelta di Milano quale sede esclusiva di concorso. Quanto all'identificazione di circa 5.600 candidati con tesserini privi di fotografia e alla carenza di controlli anche dei testi e dei codici all'ingresso delle sale di esame (almeno 28.000 volumi), inutilmente proseguono i giovani magistrati di avere fatto richiesta di acquisizione di notizie più in dettaglio sui controllori (250 persone per ogni turno dislocate su 26 postazioni). Del pari, inutilmente hanno fatto richiesta di notizie sui 23 funzionari di segreteria e sui 750 addetti alla vigilanza durante le prove, che avrebbero potuto portare ad accertare le ragioni della discrasia tra l'enorme numero di addetti al controllo e gli insufficienti effetti del controllo medesimo. Accertamenti che avrebbero dovuto quindi trovare ingresso quantomeno in sede penale, onde poter escludere che l'indifferenza della commissione alle clamorose proteste dei candidati abbia inteso favorire i soliti raccomandati e che la prova invero "non fosse solo la solita farsa". Quanto allo svolgimento delle prove non ha poi convinto la scelta di non sorteggiare le materie nei diversi giorni di esame. "È vero che non vi era obbligo di legge in tal senso, ma è pur vero che ragioni di oppurtunità e trasparenza avrebbero dovuto indurre la commissione di concorso a procedere al sorteggio, così come le stesse ragioni inducono da anni il CSM a sorteggiare l'individuazione dei commissari di concorso". Ma soprattutto, ciò che non ha convinto i giovani magistrati è stato l'indisturbato allontanamento del commissario, prof. Fabio Santangeli (poi dimessosi il 25.11), il giorno 19, che è stato la principale causa dell'abnorme ritardo nella dettatura della traccia di "diritto amministrativo", avvenuta alle h.14. Parimenti, non hanno per niente convinto in particolare le giustificazioni fornite sul punto dal Presidente della Commissione, secondo il quale non sarebbe stato in alcun modo possibile trattenere nella sala il professore, senza chiarire la ragione perché non fosse stata approfondita sin dal primo momento la disponibilità di tempo del professore, evitando che partecipasse all'elaborazione dei testi. Cosa che poi provocava la ripetizione dell'operazione di individuazione /elaborazione delle tre tracce da sorteggiare, con l'ulteriore conseguenza della dettatura di una traccia ambigua, che ha causato ulteriori problemi di ordine pubblico, a causa delle diverse letture possibili. L'esistenza di queste accertate disfunzioni ed il mancato chiarimento di aspetti essenziali ai fini di un regolare e sereno svolgimento delle prove di esame avrebbero consigliato, secondo gli esponenti del Movimento per la giustizia, maggiore cautela nell'adozione di una delibera di archiviazione da parte del CSM. In definitiva, non si è compreso che solo una adeguata istruttoria avrebbe dissipato tutti i dubbi e reso trasparente l'operato della Commissione. Il nostro voto contrario, conclude il sito dei magistrati dissidenti, è determinato esclusivamente dall'esigenza di accertamento della verità. Esso non significa e non può significare "condanna", ma rappresenta una decisa presa di distanza da una logica di "tutela" preventiva ed incondizionata in favore di tutti i protagonisti istituzionali della vicenda, troppo frettolosamente ritenuti attendibili, pur in difetto di quel "contraddittorio" con le voci dissonanti dei candidati, come da noi richiesto e ribadito. "Il voto contrario non significa quindi che si ritiene sussistere i presupposti per l'annullamento del concorso in via di autotutela, ma testimonia il nostro disaccordo su una risposta istituzionale del tipo "tout va très bien madame la marquise!". Ne deriva che "Madama la Marchesa" dovrebbe trovare del tutto preoccupante e scandaloso che anche l'ennesima indagine sui concorsi truccati in magistratura condotta dalla Procura di Milano sia stata frettolosamente archiviata in breve tempo, trascurando i molteplici riscontri probatori, che avrebbero dovuto indurre il P.M. a svolgere più accurate indagini, il quale senza neppure ascoltare le persone informate sui fatti e i candidati parti lese, prendeva invece per "oro colato" la relazione presidenziale e le sole fonti istituzionali. E' quindi lecito dubitare che gli inquirenti al pari dei politici e dei membri del C.S.M. abbiano agito seguendo quel profondo senso di giustizia che dovrebbe animare coloro a cui è affidata la sorte della legalità.

Cosa si può fare? La parola ai candidati, ai magistrati e ai cittadini onesti. "Basterebbero 4 semplici telecamere ben piazzate, e tutto filerebbe in piena trasparenza. Finalmente si premierebbe e tutelerebbe l'impegno di chi ha studiato seriamente: questo dovrebbe stabilirsi per legge in TUTTI i concorsi pubblici. E perché non si fa? Non c'è rispetto per i nostri figli, così si facilita l'accaparramento dei posti di responsabilità in mano agli ignoranti. Dappertutto. E' veramente grave, questo. E' veramente grave non reagire, non ribellarsi. (Difficile dargli torto e non riconoscere il valore deterrente e dissuasivo dell'idea). "Così si vuole un paese di baroni ignoranti". Da Angelo (Un vero angelo di verità!).

A cosa serve questo concorso in magistratura? A seguito degli scandalosi eventi di Rho, colgo l'occasione per esprimere ciò che ho sempre pensato in merito al concorso in magistratura. In Italia la crisi, e oserei dire la paralisi, del sistema giudiziario è dovuto principalmente alla carenza di personale giudicante, inquirente e amministrativo. Questa situazione non la si vuole affrontare politicamente, perché fa comodo alla classe dominante avere una magistratura che non funziona. Ebbene la struttura del nostro concorso in magistratura consente davvero che si sfornino magistrati quantitativamente e qualitativamente capaci di amministrare bene e velocemente la giustizia? Assolutamente no!! E spiego il perché. Un concorso siffatto richiede una preparazione teorica estremamente elaborata e onnicomprensiva per conseguire la quale si impiegano un elevato numero di anni, in molti casi a due cifre. Se si ha poi la fortuna di passare il concorso grazie solo alla preparazione (e i fatti di Rho dimostrano che solo questa non è affatto sufficiente, o forse non è addirittura necessaria) i neo uditori saranno dei brillantissimi teorici, bravi conoscitori delle più svariate dottrine in materia giuridica, ma emeriti incompetenti da un punto di vista pratico e incapaci di amministrare la giustizia con rapidità ed efficienza, così come sarebbe ora che accadesse in un Stato normale.

E soprattutto si può essere bravi tuttologhi? Perché la magistratura non viene stratificata in competenze per materia? Magistrati che fanno solo civile, altri penale, lavoro, commerciale, fallimentare e così via. Si avrebbero così più magistrati più preparati. Dovrebbero esistere diversi concorsi in magistratura a seconda delle materie e il settore in cui specializzarsi dovrebbe essere individuato già dagli anni universitari. Solo così si potrebbero sfornare tanti magistrati, veramente seri, esperti in determinate materie e quindi capaci e professionali. E' un'ottimizzazione di tempi e risorse. Ma quando a delle conclusioni così semplici non si vuole arrivare, è chiaro che non c'è la volontà di risolvere i problemi e non certo il modo.

Teniamoci le caste, il prestigio e il potere dei pochi, facciamo apparire come condotta deplorevole e facinorosa quella di chi denuncia i misfatti e gli scandali e non quella di chi li compie, proprio come ha fatto la commissione a Rho che anziché denunciare la gravità dei fatti scoperti dai candidati, ha minacciato questi ultimi di procedere a identificazione e a denuncia per turbativa del concorso. Viva l'Italia che se la prende con la parte lesa anziché evitare che si consumino quotidianamente lesioni dei diritti fondamentali dell'individuo. E viva l'Italia dei paradossi: giustizia inefficiente per carenza di magistrati e milioni di laureati in giurisprudenza disoccupati. Neo magistrati mostri di preparazione teorica (nel migliore dei casi) e completamente incapaci di tenere un'udienza o di scrivere una mera ordinanza di rinvio.  Da Graziella (Quali sacrosante parole! Sei una vera Robin Hood!).

Ho paura che tutti i concorsi in magistratura fatti in precedenza siano stati truccati e che solo adesso sia scoppiato lo scandalo. Basta svolgere la professione di avvocato per rendersi conto quanto siano impreparati i giovani magistrati. Anch'io al concorso ho visto i miei colleghi copiare le tracce dagli appunti fatti a fisarmonica ma per solidarietà fraterna, non ho voluto fare la spia, ma adesso che è scoppiato lo scandalo ho il dovere morale di dirlo. Come si è potuto verificare tutto questo? Alcuni dicono che tutto ciò si è verificato a causa della negligenza dei controllori, altri dicono che la commissione voleva favorire soltanto i raccomandati. Una verità è certa, ed è che la magistratura è una casta chiusa, riservata soltanto a pochi eletti, cioè a coloro i quali hanno la fortuna di avere gli angeli in paradiso: non si spiegherebbe altrimenti il limite assurdo delle tre volte in cui si può tentare il concorso. Mi auguro soltanto che il ministro Angelino Alfano annulli in autotutela questo concorso al fine di ripristinare la trasparenza e la legalità nel concorso in magistratura. Intanto, gli anni passano e la sospirata toga di magistrato non sembra arrivare mai: di tanti anni di studio non resta nient'altro che l'amarezza. Per non parlare poi della sofferenza dei nostri genitori che vorrebbe vederci sistemati. (Da Michele da Siracusa).

Sui Concorsi per magistrati e simili. Sono il papà di un ex concorrente al concorso. Vi invio il testo di quanto ho scritto al Tgcom, sperando che qualcuno ne faccia una battaglia. Uno dei problemi di questi concorsi, come del resto per molti altri è l'assoluta mancanza di trasparenza. Infatti i concorsisti, molti dei quali prendono praticamente una seconda laurea, tanti sono gli anni che vengono dedicati ad una onerosa (anche economicamente) preparazione integrativa, alla fine hanno solo tre cartucce da sparare (solo tre concorsi); ma il bello è che non hanno nessun feedback dalle correzione dei compiti risultati inidonei; voglio dire che al di là del criptico giudizio non c'è altra informazione che consenta le prossime volte di "aggiustare il tiro". Ma non sarebbe più corretto pubblicare gli elaborati anche "mascherando" le generalità dei concorrenti, semplicemente indicando, come del resto è già, l'idoneità o meno? E' o non è un concorso pubblico per uno dei più importanti ruoli nell'ordinamento della repubblica? Ritengo ciò che è accaduto episodio ignobile e non c'è motivo di ritenere che precedentemente sia stato tutto in regola. Semplicemente, questa volta, la dilagante carenza organizzativa ha creato una situazione così ingestibile che ha avuto il pregio di fare da detonatore al peggiore approccio al concorso di chi si propone di amministrare la giustizia in modo adamantino e, dall' altra parte per chi, parte del sistema, dovrebbe garantire che tutto si svolga nella massima serietà possibile. Credo di non sbagliarmi nel dire che ciò che avviene e le questioni che contornano il prima durante e il dopo del concorso siano la manifestazione più forte di arroganza del potere oggi riscontrabile nel nostro Paese. Non si comprende perché a tanta serietà trasmessa e percepita non corrispondano comportamenti adeguatamente qualitativi, almeno quelli esprimibili attraverso gli atti prodotti, che dovrebbero essere il vero biglietto da visita da presentare al mondo esterno. A.M. (Una delle poche lettere firmate per capire il timore di ritorsioni da parte del sistema).

Egregio Direttore, sono un testimone oculare, aspirante magistrato. Ho letto un articolo sul vostro sito concernente il concorso a 380 posti di uditore giudiziario dove la commissione afferma che c'erano temi gravemente insufficienti. Personalmente partecipai a quel concorso e presi 19 allo scritto di amministrativo sull'acquisizione sine titulo coperto da giudicato, e non idoneo a penale. Credo che la commissione abbia esagerato dicendo quelle cose, perchè ho visto con i miei occhi che alcuni membri della stessa andavano ad aiutare i loro"pupilli", io chiamai il Presidente presente in sala, e per risposta disse che non poteva farci nulla. Sono accadute cose strane ad esempio un mio conoscente seppe in anticipo i risultati degli scritti. Come ne venne a conoscenza? Forse perchè il padre è agganciato politicamente? E' vero che i nomi devono restare segreti alla commissione? Ad esempio alcuni candidati non conoscevano le sentenze relative alla traccia di penale sulle scommesse clandestine e superarono lo scritto, io lessi le recensioni del Presidente Grillo sulla rivista Cassazione penale edita dalla Giuffrè e non lo superai. Altri candidati fecero scena muta alla prova orale e presero il massimo dei voti. Le pongo una domanda, siamo sicuri che la commissione non abbia volutamente esagerato, per mascherare le magagne come voi avete puntualmente pubblicato, avvenuta nei precedenti concorsi? La ringrazio anticipatamente, spero in un Suo riscontro. A.S. (lettera firmata)

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

LA MAFIA DEI CONCORSI PUBBLICI E DEGLI ESAMI DI STATO E L’OMERTA’ DEI MEDIA.

L’Italia è in mano ai vincitori di un concorso pubblico ed agli abilitati ad una professione. In Italia, si sa, non vale la meritocrazia e gli effetti sulla gestione della cosa pubblica e l’esercizio delle professioni di pubblica utilità ne sono un esempio.

Ma cosa è l’abilitazione alla professione, concessa dai commissari d’esame e non conquistata per merito?

Lo chiediamo al dr Antonio Giangrande, sociologo storico che sul tema ha scritto “Esamopoli e Concorsopoli” oltre che “Esame di Avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”.

«E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com, CreateSpace.com.

Abilitazione significa essere abilitati da qualcuno ad essere omologati a loro. La conformità universale è la regola. Essere diverso e rompere le palle al sistema ti pone fuori dal circuito professionale ed impedito a lavorare. Le stesse regole valgono per tutti i concorsi pubblici, nessuno esente. Quindi nessuno può chiamarsi fuori e rendersi verginella. L’autunno è il periodo prediletto per le sessioni degli esami di Stato e delle prove scritte dei concorsi pubblici. Per esempio, per quanto riguarda l’esame di avvocato le domande di partecipazione devono essere inoltrate entro l’11 novembre e i tre giorni per l’esame scritto vengono fissati tra il 10 ed il 20 dicembre.  Le tracce sono stilate al Ministero della Giustizia e la Commissione Centrale è composta da membri già cacciati dalle commissioni periferiche, di cui, per legge, non possono farne parte.

I risultati d’esame sono il frutto di una fase pubblica e di una fase internos tra una combriccola di commissari (sempre gli stessi).

Nella fase pubblica, ogni tanto, come fumo negli occhi, viene fuori che alcuni candidati hanno copiato dai cellulari o dai compagni di banco e la notizia fa eco sui giornali. Una volta oltre cento solo a Lecce. Nessuno dice che il vero malaffare si svolge in camera caritatis tra i commissari d’esame. Lor signori falsamente affermano di aver letto, corretto e giudicato con motivazione credibile ogni elaborato esaminato. Invece è tutto falso. E resta impunito e, quindi, reiterato. A loro serve solo abilitare i conformati o i loro pupilli. E di questo scempio né magistratura, né giornalismo osa punirlo o denunciarlo.

A riprova di ciò ci sono le innumerevoli sentenze dei Tar di tutta Italia. Cinque minuti per valutare il compito di un aspirante avvocato sono troppo pochi. Lo sostiene il Tar di Palermo ad ottobre 2014 che ha ammesso con riserva, all'orale, M.N., 30 anni, bocciato agli scritti nel 2013. Il giovane praticante avvocato si è accorto che la commissione di Salerno aveva corretto 45 elaborati in appena 235 minuti, con una media di poco più di cinque minuti per elaborato. E perciò, difeso dall'avvocato Girolamo Rubino, ha deciso di fare ricorso al Tar che gli ha dato ragione.

E a sua volta è lo stesso Tar di Salerno che accoglie i ricorsi dei bocciati. E’ la Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature.

Io è dal 1998 che partecipo all’esame di avvocato in quel di Lecce. Da abilitato al patrocinio legale dei sei anni non ho perso una causa e non mi sono genuflesso alle regole dei vecchi marpioni forensi; da presidente provinciale di Taranto dell’Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati ho combattuto ed ottenuto con la legge di riforma che i consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non facessero parte delle Commissioni d’esame e che i magistrati esaminatori fossero di fuori distretto. Di non essere omologato a generale marciume lor signori non me lo hanno perdonato. Non ho ricevuto solidarietà o aiuto né dai colleghi, quantunque vittime, né dalle istituzioni, né dai media. Un fatto è certo, dal 1998 sono sui banchi di esame per testimoniare il malaffare perpetuo e l’omertà imperante. Avvocato non lo diventerò più, grazie all’omertà ed alla collusione dei magistrati, che come prova non gli basta il fatto che i miei compiti sistematicamente non vengono corretti; che a presiedere la commissione ci sia uno estromesso e da me denunciato; che essere bocciato dal 1998, caso unico, più che raro, sia sintomo di una palese persecuzione. Questo basta per farmi dire che sono orgoglioso di essere diverso e di testimoniare al mondo cosa sia la conformità, specialmente nel silenzio assordante dei giornalisti. Comunque l’omertà dei giornalisti è pleonastica. Tanto chi vuol informarsi, lo fa.

Interrogazione a risposta scritta 4-08560 presentata da Elisabetta Zamparutti,  più altri,  martedì 14 settembre 2010, seduta n.367  al Ministro della giustizia. “L'avvocato di Asti, Pierpaolo Berardi, 46 anni, dopo 18 anni, 16 procedimenti al Tar e 8 al Consiglio di Stato, non avrebbe ancora avuto giustizia. Le sentenze hanno stabilito che le sue prove scritte per il concorso 1992 sono rimaste chiuse nelle buste, nonostante sui verbali sia scritto «non idoneo» . Un falso ideologico che il Csm ha riconosciuto soltanto due anni fa. Nonostante ciò, non risulterebbe sia stato preso alcun provvedimento”.  

Sul concorso per uditori giudiziari, parla con “La Stampa”  l'ex procuratore generale del Piemonte, Silvio Pieri. L'alto magistrato non usa mezzi termini: “Quanto è accaduto è gravissimo. Ho avuto modo di verificare l'intera documentazione raccolta dall'avvocato Berardi. Ho fotocopiato tutti gli atti, uno per uno. Credo che, a un certo punto, questa situazione si potesse risolvere subito, con decisione, con la necessaria trasparenza. Ma il ministero ha pervicacemente rifiutato, sino all'ultimo istante, di affrontare in modo  diretto quanto era accaduto, quanto era sotto gli occhi di tutti. Con il risultato di mettere a pregiudizio le posizioni anche di quei magistrati che svolsero, in allora, i temi in modo corretto. Ma non credo assolutamente che si possano ulteriormente ignorare i verbali sottoscritti da gente che non c'era, la storia dei fascicoli spariti, degli elaborati giudicati "idonei" quando non lo erano affatto». Non solo. Contro il muro di gomma opposto dal ministero di Grazia e Giustizia (a proposito del concorso per uditori giudiziari del 20, 21, 22 maggio 1992, ora sotto accusa per aver trasformato in «idonei» decine di candidati autori di prove molto discutibili) erano già rimbalzate, nel corso degli anni, ben 13 interpellanze parlamentari, firmate quasi tutte da Nicky Vendola di Rifondazione Comunista, ma anche da esponenti di An e di altri partiti. Morale: nessun risultato”.

L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964 , da 15 anni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992 . Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris. Luigi De Magistris abilitato con un esame farsa che si occupò dell’esame farsa di avvocato di Catanzaro.

Un’inchiesta facile, dal punto di vista dei documenti, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. I temi erano così identici l’uno all’altro che moltissimi riportavano la parola «precisamente» corretta con una barretta sulla «p» iniziale: «recisamente». Come se qualcuno si fosse corretto dettando la giusta soluzione del tema. La grande difficoltà era sui numeri: già è difficile processare un imputato, in Italia. Figuratevi 2.295.

I giovani magistrati protagonisti dell’indagine, Luigi De Magistris (poi trasferito a Napoli) e Federica Baccaglini (poi trasferita a Padova), una soluzione l’avevano individuata: un bel decreto penale. Cioè una sentenza che colpisse gli imputati (diventati man mano 2.585) almeno con una multa di 3 milioni e mezzo di lire ciascuno. Ipotesi respinta dal capo dell’ufficio Gip Antonio Baudi: troppo poco. Bene, rispose il pm delegato al caso appena gli fu possibile riprendere la palla in mano (dopo mesi e mesi perduti): raddoppiamo a 7 milioni e mezzo. Troppi, rispose questa volta Baudi rimandando tutto indietro. E via così, col processo che veniva spostato a Messina perché c’entravano altri magistrati e poi tornava a Catanzaro e poi si infognava in 2.585 pratiche e 2.585 ricorsi e 2.585 cavilli e 2.585 eccezioni... E intanto passavano le settimane, i mesi, gli anni... Ed eccoli là: tutti a casa. Immacolati. E neppure vergognosetti, potete scommetterci, per la figuraccia. Così fan tutti... O no?

Io no! Per questo che dal 1998 non mi abilitano all’avvocatura e mi hanno bocciato al concorso in magistratura; perché sono diverso!

A questo punto non mi si deve chiedere: perché non ho esposto tutto al Ministero della Giustizia? L’ho fatto, tutto lettera morta, specialmente se in commissione di esame centrale vi era colui il quale, ed i suoi colleghi, ho denunciato per i favoritismi e fatto estromettere con la riforma dell’esame.

A questo punto non mi si deve chiedere: perché non denuncio tutto alla magistratura? L’ho fatto per anni e in fori diversi ed ho trovato un muro di gomma e di insabbiamenti, anzi il tutto mi si è ritorto contro con accuse penali infondate dei magistrati, accertate con sentenze.

Inoltre non mi si deve chiedere: perché non ho fatto ricorsi al Tar? Li ho fatti e sistematicamente il Tar di Lecce li ha respinti. Questi signori per le stesse doglianze da me presentate: agli altri candidati ricorrenti i ricorsi li accoglieva, i miei li rigettava.

Non mi si deve chiedere: perché non mi sono rivolto alla stampa? L’ho fatto per anni e non solo per le mie vicende, ma su tutti i temi sociali. Per loro, abilitati col trucco e zerbini dei magistrati, meglio ignorare e tacere.

Morale: si parla di mafia. Quale mafia?»

MAGISTRATURA:COME TI INSABBIO LE DENUNCIE PER UN CONCORSO TRUCCATO.

La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca

La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza del 22 febbraio 2008, n. 4603)

DENUNCIA DI MOBBING GIUDIZIARIO E FORENSE

Dopo 13 anni di bocciature all’esame forense il Dr Antonio Giangrande non si arrende.

Dal 1998 ad oggi, dopo 13 anni, il sottoscritto Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (TA) ed ivi residente alla via Manzoni, 51, Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, per l’ennesima volta sono stato bocciato all’esame forense tenuto a Lecce. Non mi chiuderanno mai la bocca. Non ho paura delle ritorsioni. Nonostante l’omertà e la censura mediatica e gli insabbiamenti giudiziari continuerò a denunciare le nefandezze giudiziarie a danno dei più deboli, come quelle di Taranto, in cui i magistrati arrivano addirittura ad archiviare una denuncia contro se stessi, e a smascherare un concorso forense che era e sarà sempre oggettivamente truccato. Il fatto di essere reiteratamente perseguitato dai magistrati di Taranto con accuse di diffamazione a mezzo stampa, senza mai essere stato condannato, e con sequestri illegali di interi siti web, per impedirmi di denunciare gli abusi giudiziari, e di essere bocciato dalle commissioni di esame forense per impedirmi di diventare avvocato, nonostante la mia preparazione e competenza, e per impedirmi di divulgare motivi di nullità del concorso, vuol dire che arreco molto fastidio al sistema giudiziario e forense. Sono conosciuto in tutta Italia, per quello che faccio e dico, e me la fanno pagare.

In questi anni le mie accuse formalizzate in denunce circostanziate sono state tutte insabbiate e mai che sia scaturita calunnia. Prima della riforma del 2003 le Commissioni d’esame erano investite da scandali e condanne. Dopo la riforma che ha sfiduciato i componenti, le Commissioni d’esame spesso sono illegittime, ovvero sono lobbiste e razziste, specie contro i ragazzi dei distretti delle Corti d’Appello di Bari, Potenza e Lecce. I compiti non sono corretti, ma dichiarati tali. C’è impedimento alla tutela amministrativa. L’ultima mia denuncia, scaturente il procedimento penale, con verbale di identificazione e prove documentali allegati, il n. 140/09 attivato a Lecce, è rimasto lettera morta. Spero che dopo 13 anni cessi questa palese ingiustizia.

Si chiede, come persona offesa dal reato, che mi venga comunicato ogni atto di cui ho diritto di essere avvisato e in particolare modo quanto previsto dagli artt. 406 comma 3 c.p.p. (proroga del termine delle indagini preliminari) e 408 comma 2 c.p.p. (richiesta di archiviazione). Mi oppongo, ex art.459 c.p.p., alla eventuale richiesta dell’emissione del decreto penale di condanna.

Avetrana lì 21 giugno 2010

Presidente Dr Antonio Giangrande – ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE

099.9708396 – 328.9163996       

www.controtuttelemafie.it

www.telewebitalia.eu     

Tale esposto-denuncia è stato presentato, oltre che al Ministero della Giustizia, di cui, usualmente, è rimasta lettera morta, anche alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lecce ed alla procura Generale presso la Corte di Appello di Lecce.

Bene, dopo appena 9 giorni, il 30.06.2010, la Dott.ssa  Donatina Buffelli della procura ordinaria apre il procedimento n. 3614/10 mod. 44 nei confronti di ignoti e chiede ed ottiene l’archiviazione.

Si potrebbe opinare sul fatto se sia o meno fondata la mia convinzione di essere vittima dei poteri forti, ma non si può eccepire il fatto che in presenza di un chiaro riferimento ad un insabbiamento da parte dell’ufficio della Procura di Lecce e sicuramente il coinvolgimento di magistrati di Lecce nella commissione di esame di avvocato a Lecce, avrebbe dovuto far astenere il Pm a procedere in atti prettamente di competenza della procura di Potenza ed ad essa far ritenere o meno se i responsabili fossero ignoti e ad essa far svolgere le indagini che, chiaramente il loco non si sono svolti in quei 9 giorni. Di sicuro i miei compiti non sono stati visionati per la costatazione della mancata verifica.

La denuncia presentata a Potenza contro un chiaro abuso d’ufficio da parte del pm di Lecce ha avuto esito scontato. Il PM Domenico Musto della Procura di Potenza ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione.

L’anno successivo, si presenta ulteriore denuncia a Lecce in data 6 dicembre 2011.

DENUNCIA/QUERELA PENALE - INFORMATIVA DI REATO

(artt. 330, 333,336 c.p.p.)

ALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA

Al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello

Al Procuratore Capo presso il Tribunale

SEZIONE REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

nell’interesse di

ANTONIO GIANGRANDE, nato in Italia ad Avetrana provincia di Taranto, il 02.06.1963 (codice fiscale GNGNTN63H02A514Q), cittadino italiano (sesso maschile) di professione Presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero Interni, residente in Italia, Avetrana (TA), via Manzoni, 51 (telefono 0039+099 9708396; telefax 0039+099 9708396 cell. 328 9163996 e-mail presidente@controtuttelemafie.it), e per gli stessi motivi della medesima denuncia già ricorrente presso la Corte Europea dei diritti dell’Uomo.

Contro

Avv. Antonio De Giorgi del foro di Lecce, denunciato,

presidente della commissione centrale del concorso forense sessione 2010

1ª sottocommissione di esame forense di Palermo, sessione 2010, denunciata,

GRILLO avv. Mario Nato a Palermo il 7.2.1954 Ordine di Palermo (Sostituto presidente);

LORELLO prof.ssa Laura Nato a Palermo il 27.5.1967 Professore ordinario Università degli Studi di Palermo Facoltà di Giurisprudenza;

CONTRAFATTO dott.ssa Vania Nata a Palermo il 2.3.1971 Magistrato ordinario che ha conseguito la II valutazione di professionalità Procura della Repubblica c/o Tribunale di Palermo;

STALLONE avv. Francesco Nato a Palermo il 2.3.1966 Ordine di Palermo (indicato in decreto di nomina erroneamente come Stallo Francesco);

PETRUCCI dott. Luigi Nato a Roma il 28.1.1972 Magistrato ordinario che ha conseguito la II valutazione di professionalità Tribunale di Palermo;

1ª sezione TAR di Lecce, denunciata,

Antonio Cavallari, Presidente

Luigi Viola, Consigliere, Estensore

Massimo Santini, Referendario

Altri concorrenti nel reato di falso, abuso d’ufficio e  associazione a delinquere.               

PREMESSO CHE

Il sottoscritto denunciante dal 1998 a tutt’oggi partecipa all’esame di abilitazione forense presso il distretto di Corte d’Appello di Lecce.  Da subito ho presentato esposti e denunce contro il concorso che reputo truccato, tanto palesi erano e sono le anomalie e gli abusi nazionali sotto gli occhi di tutti. Attività di denuncia che ha portato alla riforma della legge 180/2003: consiglieri dell’Ordine degli Avvocati cacciati dalle commissioni e compiti locali corretti da commissioni di altri distretti di Corte d’Appello. Da qui la mia notorietà nell’ambiente locale e nazionale. Le mie denunce presentate per abuso d’ufficio, falso in atti pubblici ed associazione a delinquere presso gli uffici giudiziari con competenza diretta (in riferimento alle commissioni d’esame) o indiretta (in riferimento all’interesse nazionale) sono state tutte archiviate o insabbiate senza che sia conseguita calunnia.

Le indagini non sono state svolte per i seguenti motivi:

Nelle commissioni d’esame vi erano gli stessi inquirenti o loro colleghi;

Agli inquirenti non appariva verosimile l’ipotesi di un possibile complotto nei miei confronti o comunque per loro non era possibile che un concorso pubblico tal fatto potesse essere truccato;

Le indagini venivano delegate a Polizia giudiziaria locale che dovevano svolgere indagini contro i loro magistrati di riferimento. Questi non avevano la competenza culturale e professionale a svolgere siffatte indagini o comunque vi era collusione-commistione con gli inquisiti, che poi erano i loro magistrati referenti- deleganti locali. In questo modo la mia audizione avveniva nell’assoluta ostilità.

In rapporto alla mia propensione e capacità a tutelare i miei diritti ed in base alla fondatezza e gravità dei fatti in oggetto sono state presentate delle interrogazioni parlamentari da parte di deputati e senatori di tutti gli schieramenti. Inoltre sono stato costretto a presentare un ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani, per il fatto che in Italia non ho trovato un ufficio giudiziario che svolgesse le doverose indagini, con disinteresse e senza preconcetti e pregiudizi.

Per gli effetti, dal 2004, dopo la riforma, i miei compiti itineranti sono stati valutati presso le commissioni di vari distretti italiani di Corte d’Appello: da Venezia a Torino, da Palermo a Salerno, Da Catanzaro a Reggio Calabria, ecc.. Da sempre mi è stato dato un voto simile a tutti gli elaborati. A decine di prove scritte (3 per 14 anni = 42) riferenti al parere penale o civile o all’atto giudiziario l’identico voto dato è stato “25” senza alcuna motivazione. Con tali giudizi mi si nega l’idoneità alla prova orale e l’impedimento all’abilitazione.

Potrei farmene una ragione per essere causa del mio male,  se non fosse altro che vi sia una evidente regia dietro alle mie disgrazie:

di fatto i miei compiti non sono stati mai corretti. Affermazione desunta dalla mancanza di correzioni e dalla mancanza di tempo per farlo;

l’avv. Antonio De Giorgi, da me è stato denunciato quando prima della riforma ha ricoperto per 3 anni l’incarico di presidente di Commissione di esame di Lecce, a cui ho partecipato, e contestualmente di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Dopo la riforma del 2003, l’avv. De Giorgi, estromesso dagli incarichi concorsuali, è stato nominato membro del Consiglio Nazionale Forense su  incarico istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. All’uopo il De Giorgi è stato nominato addirittura nella sessione di esame 2010 presidente di commissione centrale di esame. Nomina vietata per incompatibilità prevista dalla riforma: i consiglieri dell’ordine locale non possono far parte delle commissioni d’esame. E il De Giorgi non è altro che l’espressione a Roma (Longa Manu) del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Lecce. Inoltre il De Giorgi quando non è presidente nazionale della sessione d’esame forense è nominato ispettore nazionale. In ogni caso l’avv. De Giorgi per gli incarichi istituzionali ricoperti ha rapporti con tutti i membri delle commissioni locali, nominati dal C.N.F. in sede di commissione del Ministero della Giustizia, di cui egli fa parte;

Cosa più grave è che il ricorso giudiziario amministrativo, da me presentato nel 2011 avverso il giudizio negativo della sessione 2010 dato dalla commissione d’esame di Palermo ai miei compiti, (metodo di correzione contestato in vari punti in fatto ed in diritto con sostegno giurisprudenziale), è stato rigettato dal Tar di Lecce. Strano, però che per molto meno lo stesso Tar di Lecce ha accolto ricorsi simili, entrando addirittura nel merito, valutando in modo positivo esso stesso l’elaborato. E’ palese la discriminazione attuata in riferimento ai ricorsi sottoposti allo stesso Tar per la stessa sessione e negli stessi giorni.

Da quanto detto si evince, oltre che essere palese la fondatezza delle accuse, si ravvisa anche la extraterritorialità della questione sollevata, in virtù delle tante commissioni coinvolte, compresa quella centrale.

E COMUNQUE SE CIO’ AVVIENE PER ME, NULLA IMPEDISCE CHE CIO’ POSSA SUCCEDERE AD ALTRI.

Ciò rende la presente denuncia non prettamente di competenza territoriale, ma di interesse nazionale.

PER QUANTO SU DETTO SI CHIEDE ALLA S.V.

La certa condanna per violazione degli articoli di legge che si riterrà di applicare, per reati consumati, continuati, tentati, da soli o in concorso con terzi, o di altre norme penali, con le aggravanti di rito, e attivazione d’ufficio presso gli organi competenti per la violazione di norme amministrative.

DETTO QUESTO,

il denunciante con tale atto presenta denuncia e denuncia-querela penale ed esposto amministrativo contro i soggetti identificati, da soli, o in correità con persone non conosciute, per gli atti e i fatti e per i reati applicabili, scaturenti da una doverosa indagine, con istanza di punizione, con riserva di costituzione di parte civile nell’instaurando procedimento penale. Inoltre si chiede, come persona offesa dal reato, che gli venga comunicato ogni atto di cui ha diritto di essere avvisato e in particolare modo quanto previsto dagli artt. 406 comma 3 c.p.p. (proroga del termine delle indagini preliminari) e 408 comma 2 c.p.p. (richiesta di archiviazione). Si oppone formale opposizione, ex art.459 c.p.p., alla richiesta dell’emissione del decreto penale di condanna.

AI FINI PROBATORI

Tenuto conto che per anni sono stato svenato al fine di produrre in copia migliaia di documenti, senza conseguire risultati, per la presente denuncia si indica esclusivamente come fonte di prova il dossier pubblicato alla pagina web http://www.ingiustizia.info/dossier%20malagiustizia.htm, che tra i suoi allegati raccoglie e contiene tutti i documenti pubblici estrapolati da fonti ufficiali o atti depositati presso uffici pubblici. Documenti non in possesso del denunciante, ma comprovanti nei fatti le mie affermazioni d’accusa. Si va dalla nomina del De Giorgi ai compiti non corretti, dal ricorso al TAR alle sue sentenze contraddittorie e persecutorie, dalle interrogazioni parlamentari al ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani. In questo modo il magistrato competente evita di delegare le indagini in loco, salvo che solo per identificare il presente denunciate, attingendo direttamente gli atti necessari. A causa dell’indigenza procurata dalla mancata abilitazione, si è oggettivamente impossibilitati alla trasferta per rendere dichiarazioni presso l’ufficio giudiziario procedente.  

Avetrana (Ta) lì 6 dicembre 2011

Si allega documento di riconoscimento.

Bene, dopo appena 23 giorni in periodo festivo, il 28. 12. 2011, il dr. Antonio Negro della procura presso il Tribunale di Lecce apre il procedimento n. 13516/11 mod. 21 e chiede ed ottiene l’archiviazione.

Questa volta l’archiviazione è ampiamente motivata:

Visti gli atti del procedimento penale in epigrafe nei confronti di Grillo Mario + 4 per il reato di cui all’art. 323 c.p.;

accertato che non emergono dalle indagini preliminari espletate elementi idonei e sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio, in quanto non sussiste alcun dato concreto dal quale possa desumersi che gli elaborati scritti di Giangrande Antonio, candidato per 14 anni all’esame di abilitazione per l’esercizio della professione di avvocato, siano mai stati palesemente sufficienti;

rilevato che non è ravvisabile alcuna violazione di legge o di regolamento, o omissione di astensione nei casi prescritti, nello svolgimento delle proprie funzioni, da parte degli indagati e degli altri soggetti indicati nella denuncia del Giangrande, non compiutamente identificati;

rilevato, altresì, che non risulta accertato il conseguimento di alcun vantaggio patrimoniale da parte dei soggetti denunciati;

ritenuto, altresì, che non vi è alcun elemento dal quale possa vagamente desumersi un intento persecutorio da parte di alcuno dei soggetti indicati in denuncia nei confronti del Giangrande;

ritenuta, quindi, l’assoluta infondatezza della notizia di reato, chiede l'archiviazione.

Si potrebbe opinare sul fatto se sia o meno fondata la mia convinzione di essere vittima dei poteri forti, ma non si può eccepire il fatto che in presenza di un chiaro riferimento ad un insabbiamento da parte dell’ufficio della Procura di Lecce reiterata negli anni e sicuramente il coinvolgimento di magistrati nella commissione di esame di avvocato a Lecce, avrebbe dovuto far astenere il Pm a procedere in atti prettamente di competenza della procura di Potenza ed ad essa far svolgere le indagini che, chiaramente il loco non si sono svolti in quei 23 giorni. Di sicuro i miei compiti non sono stati visionati per la costatazione della mancata verifica.

Meno male che per me parlano i fatti.

Magistratura e avvocatura. La truffa dei concorsi pubblici, scrive  Paolo Franceschetti.

Considerazioni a margine dell’esame da avvocato 2010.

1. Il problema dei concorsi nel mondo del diritto. 2. Considerazioni. 3. Le ragioni dell’attuale sistema di illegalità.

1. Il problema dei concorsi nel mondo del diritto. Esce oggi il risultato della Corte di appello di Roma relativo all’esame da avvocato. I risultati sono sempre i soliti: meno del 20 per cento di promossi. Normalmente, tra le persone, sono passati i più mediocri, mentre i migliori non riescono a passare (questo osservando il risultato tra circa una settantina di miei allievi, ove riscontro questo curioso trend nel rapporto preparazione/superamento esame). Qualche tempo fa l’ineffabile Fatto Quotidiano (il giornale che non perde occasione per incensare il peggio del peggio del sistema che abbiamo – lodi all’Unione Europea, lodi ai magistrati più delinquenti, e ultimamente anche lodi alla massoneria con inviti ad iscriversi rivolti alla magistratura nel suo complesso – ; il giornale che riduce tutti i problemi italiani a due soli: la mafia e Berlusconi) ha pubblicato un articolo lodando la politica del Ministero della Giustizia in fatto di concorsi. Infatti di recente sono stati annullati due concorsi per l’accesso alla magistratura del Consiglio di Stato e del Tribunale amministrativo regionale (cosiddetto TAR) per irregolarità; è stato annullato un concorso notarile per palesi irregolarità. E’ il segno, secondo il quotidiano, che si tenta di fare pulizia in questo campo. In realtà è il segno che si sta facendo pulizia, sì, ma in senso completamente diverso. Spieghiamoci meglio. Fino a qualche tempo fa il concorso in magistratura e quello notarile erano considerati “puliti”. Circolava voce tra i candidati che queste prove fossero infatti tra le più pulite nel mondo dell’amministrazione pubblica. All’esame da avvocato, al contrario, le porcherie dell’amministrazione sono state effettuate sempre a cielo aperto. Il famoso caso di Catanzaro del 2001 fu la prova provata, lampante, eclatante, delle irregolarità di massa effettuate all’esame: la magistratura infatti – a seguito di una denuncia di tre candidati, che segnalarono il fatto che la commissione aveva dettato le soluzioni delle tre prove a tutti – aprì un’inchiesta che coinvolse tutte le migliaia di candidati presenti all’esame, oltre ai membri della commissione, ma il risultato fu che venne tutto messo nel dimenticatoio e archiviato. Le irregolarità sono continuate; e il sud continua a sfornare percentuali altissime di vincitori, a fronte della bassa percentuale dei candidati del nord, ove regolarmente vengono trombati i migliori e fatti passare i peggiori. Al concorso in magistratura, invece, le cose erano sempre andate diversamente. In realtà in questi anni anche il mito della pulizia di questo concorso è stato sfatato in modo palese. E’ dal 2003 infatti che le irregolarità al concorso in magistratura sono sempre più eclatanti. In quell’anno scoppiò il famoso caso Clotilde Renna, ovverosia il caso di un magistrato di Cassazione sorpreso a truccare un elaborato; successivamente la commissione avallò il comportamento del magistrato sostanzialmente ammettendo le irregolarità, ma non venne preso alcun provvedimento. Negli anni successivi c’è stato poi lo sfascio totale del concorso, con i candidati che portavano in aula testi non ammessi, le persone sorprese a copiare che non venivano espulse, ecc...Anche il concorso notarile sta seguendo, a quanto pare, il trend degli altri concorsi, mostrando apertamente le irregolarità commesse. Il motivo per cui è stato sospeso il concorso di recente, infatti, non è un motivo banale e secondario, ma un motivo gravissimo, che dimostra platealmente una precisa volontà di non seguire le procedure da parte della maggioranza dei commissari (precisamente furono assegnate – contrariamente a quanto dice la legge – delle tracce che erano già state assegnate pubblicamente in una scuola notarile romana).

2. Considerazioni. Che anche i concorsi per magistratura e notariato fossero truccati, in realtà, è sempre stato noto a chi lavora nell’ambiente. Ricordo perfettamente, ad esempio, che anni fa un magistrato della Corte Costituzionale, scambiandomi per un massone a causa dell’incarico importante che rivestivo (incarico da cui mi buttarono fuori dopo pochi giorni), mi propose di fare il concorso al TAR anche se non ne avevo i titoli, che tanto “ci avrebbero pensato loro”. Così come ricordo che un mio conoscente con cui facevo ogni settimana il viaggio Napoli-Roma, figlio di una importantissima famiglia romana, vinse il concorso notarile pur avendo sbagliato la soluzione e pur non riuscendo a cogliere la differenza tra usufruttuario di un bene e amministratore di un bene (secondo lui erano la stessa cosa perché l’usufruttuario ha anche l’amministrazione del bene), e superò anche l’esame da avvocato pur non avendo con sé i codici durante le tre prove, tranne quello di procedura penale (perché secondo lui il diritto civile e penale li conosceva, quindi il codice non gli serviva, e il codice di procedura penale invece lo aveva portato a tutte e tre le prove perché – cito testualmente – “può sempre servire”). La differenza dei concorsi in magistratura e notarile rispetto all’esame da avvocato era che le irregolarità erano molto più raffinate e nascoste rispetto a quelle dell’esame da avvocato (che sono sempre state commesse a cielo aperto) ed erano evincibili dai dati e si riusciva a captarle solo se si aveva una conoscenza approfondita del sistema. La gran differenza rispetto agli anni scorsi è unicamente che, da dieci anni a questa parte, il sistema ha deciso di rendere note a tutti le irregolarità. Oggi tutti le hanno potute constatare e raccontare. Resta da chiedersi il perché. Il sistema ha sempre nascosto le notizie che non voleva fossero conosciute, dando all’esterno l’immagine che sceglieva di avere. E’ ovvio allora che le irregolarità di questi ultimi concorsi, e l’accentuazione di quelle effettuate all’esame da avvocato, sono volute. Sono infatti troppo evidenti, e troppo stupide, per poter essere casuali. Far entrare dei candidati che portavano con sé testi non ammessi, sì che tutti attorno potessero constatare il fatto, e per giunta espellere in alcuni casi le persone che protestavano proteggendo colui che stava commettendo il reato, nonché ammettere pubblicamente le irregolarità, come fece in TV la commissione del concorso in magistratura nel 2003, assegnare a 5000 candidati delle tracce palesemente illegittime, significa perseguire una precisa volontà di esternare a tutti i candidati la situazione. Significa dire a tutte le migliaia di candidati: vedete? Noi commettiamo irregolarità! Questi concorsi sono truccati. Sappiatelo. E significa esternare tutto ciò in modo sfacciato, sicuri dell’impunità. Allora, lungi dal vedere in ciò un segno positivo del sistema, occorre vedere un segno di altro tipo. Occorre cioè domandarsi: perché il sistema ha deciso di uscire allo scoperto, rendendo palesi certe irregolarità? Il motivo a mio parere è sociale e psicologico.

3. Le ragioni dell’attuale sistema di illegalità. Il motivo è da ricercare nel trend dell’attuale situazione politica. Tutti abbiamo notato che in questi anni c’è un decadimento della politica. Si sono abbassati i contenuti della lotta, e i personaggi che dominano la scena sono privi di spessore e cultura. La politica insomma è diventata un caos. L’istruzione, dalle scuole elementari all’università, peggiora la qualità dei servizi sfornando gente sempre più ignorante. Nell’ambito della giustizia si è fatta la stessa cosa. Perché il sistema attuale possa funzionare, dobbiamo avere leggi pessime e farraginose, magistrati ignoranti e demotivati, e avvocati dello stesso livello. Non a caso lo sfascio a cielo aperto del sistema giustizia comincia dal 2001, anno in cui viene nominato come Ministro della Giustizia un ingegnere. La nomina di un ingegnere come Ministro della Giustizia non è casuale. Apparentemente può sembrare un’anomalia come tante nel nostro panorama politico. Un’anomalia grave, ma in fondo simile a quella di tanti altri ministeri, ove si avvicendano alla sanità persone che di medicina non capiscono nulla, all’istruzione persone incolte, ecc. Ma in realtà la scelta non è affatto casuale. Ogni ministro, e ogni ruolo che ricopre, infatti, serve anche a dare un segnale politico e a trasmettere messaggi simbolici che possono essere colti solo da chi è “iniziato” a tale linguaggio. Era quello il segnale politico che doveva essere distrutto il sistema in modo sistematico. Nel 2001 abbiamo lo scandalo di Catanzaro. Nel 2003 lo scandalo Renna. In una discesa allo sfascio che ormai non conosce più ostacoli. Le ragioni? Demotivare i migliori. Far andare avanti prevalentemente i raccomandati, gli stupidi, quelli che il sistema non lo capiscono veramente. Gli altri, quelli che capiscono, scelgono di lavorare altrove. Abbandonano. Si demotivano. Perché non possono continuare a lavorare in un sistema dove vengono premiati i peggiori e in cui le irregolarità sono all’ordine del giorno, sotto gli occhi di tutti, e vengono commesse sia nelle piccole cose che nelle grandi. Il 2001, insomma, è l’anno cruciale per il sistema giudiziario. La nomina di Castelli all’esecutivo è l’ordine – dato in termini simbolici – di dare il via alla danza dell’irregolarità conclamata. Le ragioni delle scelte ministeriali in tema di esame da avvocato e concorsi, insomma, è la stessa che sta alla base di tutte le altre scelte politiche. Sfasciare. Demotivare. Ordo ab chao, il motto massonico.

CONCORSO TRUCCATO IN REGIONE.

“È possibile partecipare a un concorso pubblico, essere bocciati alle preselezioni, e poi presentarsi ugualmente alla fase successiva?” si chiede la Gazzetta del Mezzogiorno? A quanto pare sembrerebbe di si… e la ratio di simili “alchimie” sarebbe come sempre la stessa…

Quei candidati «ripetenti» al concorso della Regione, scrive Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È possibile partecipare a un concorso pubblico, essere bocciati alle preselezioni, e poi presentarsi ugualmente alla fase successiva? Ebbene sì, è possibile. Il 20 e 21 gennaio 2015, alla Fiera del Levante, si svolgeranno gli scritti del concorso per 200 funzionari di categoria «D» della Regione. Tra i circa 2.000 concorrenti ci sono infatti 10 «ripetenti»: non hanno superato i test a risposta multipla, eppure vanno avanti lo stesso. È l’effetto – probabilmente non voluto – del contestato meccanismo in base a cui gli interni, cioè coloro che possono vantare almeno un anno di anzianità di servizio presso la Regione, possono saltare le prove preselettive e presentarsi agli scritti (rinunciando però a 2 punti in graduatoria). Agli interni vengono infatti riconosciuti 2 punti per ciascun anno di servizio pregresso, fino a un massimo di 6 anni. In effetti nulla vietava loro di partecipare alle preselezioni conservando così i 12 punti, che alla fine garantiranno un bel vantaggio rispetto a tutti gli altri. Il problema è che il sistema informatico consentiva una sola iscrizione al concorso per ciascun profilo, ed in quella sede bisognava dichiarare il proprio diritto all’esenzione: ecco perché viene il dubbio che qualcuno abbia voluto fare il furbo. Ma il personale del Formez (che gestisce le procedure e si è già distinto per aver predisposto una banca dati dei quiz piena zeppa di strafalcioni) incredibilmente non se n’è accorto. La «Gazzetta» ha ricevuto una segnalazione che riguarda 8 posizioni, ed ha chiesto alla Regione di verificarla: si tratta di 7 candidati per il profilo amministrativo (sarà senz’altro una coincidenza, ma uno è il segretario cittadino Pd di un Comune del Barese, un altro è un esponente delle Fabbriche di Nichi che oggi lavora in un’agenzia regionale collegata allo spettacolo) e di 1 per il profilo tecnico. Tutti risultano tra i «non idonei» alla prova preselettiva ma allo stesso tempo figurano nella lista degli esentati dalla prima fase, ammessi direttamente agli scritti. La Regione ha confermato l’anomalia anche per altre due posizioni, ed ha assicurato che si sta occupando di tutti i 10 casi. «Possono averlo fatto – dice l’assessore al Personale, Leo Caroli – o in buona fede, perché non c’è un divieto esplicito nel bando, oppure furbescamente nel tentativo di non perdere 2 punti per l’anzianità lavorativa. In un caso o nell’altro, ritengo che dovranno essere ammessi agli scritti con riserva, per consentire alla commissione di valutare la loro posizione e deliberare nel merito». Il concorso da 200 posti (ma 12 sono stati coperti con la mobilità) dovrebbe concludersi a febbraio con le prove orali. Negli scorsi mesi ci sono state molte polemiche proprio sui punti extra riconosciuti agli «interni», che a parità di condizioni risulteranno avvantaggiati rispetto a tutti gli altri concorrenti: se n’è discusso con toni aspri anche in Consiglio regionale. «Il concorso – garantisce però Caroli – va avanti tranquillamente, all’insegna della trasparenza».

Concorso, la Regione avvia un’indagine, scrive Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ci sarà un approfondimento urgente sui 10 candidati «ripetenti» al concorso per 200 funzionari. Le polemiche sollevate dal centrodestra, che è arrivato a chiedere l’invio in Procura degli atti, hanno convinto la Regione ad andare fino in fondo sul caso dei candidati che pur essendo stati bocciati alle prove preselettive risultano ammessi agli scritti che si svolgeranno a gennaio. L’assessore al Personale, Leo Caroli, ha chiesto «un’indagine approfondita» al Formez: «Visto che il bando non vieta ciò che si è verificato – spiega – è possibile che si tratti di una possibilità non prevista dal software che gestisce le procedure. Ma è stata montata una stucchevole speculazione politica su un caso inesistente, che rischia di scoraggiare i tanti bravi candidati interessati al concorso». La «Gazzetta» ha raccontato ieri quanto emerso da una segnalazione poi verificata dagli uffici regionali: 10 concorrenti risultano allo stesso tempo aver partecipato alle preselezioni (che non hanno superato), e poi esonerati dalla preselezione e dunque ammessi alla prova scritta. Possibilità che spetta, secondo il bando, a chi negli ultimi 5 anni ha lavorato per almeno un anno in Regione. Dalle prime verifiche, emergerebbe che i 10 hanno effettuato una sola iscrizione dichiarando di avere i requisiti per l’esonero, ma poi si sono presentati ugualmente in Fiera del Levante il giorno dei quiz: «Il sistema informatico – spiega Caroli – non prevedeva la possibilità che un esonerato si presentasse ai test, e dunque li ha lasciati entrare per sostenere la prova». Sembrerebbe, però, che nessuna delle persone interessate possegga i requisiti per l’esonero: dovrebbero essere (o essere stati) dipendenti delle società collegate. «Se così fosse – spiega Caroli -, non hanno alcun diritto di saltare le preselezioni. Quando la commissione valuterà i titoli, cosa che secondo il bando deve avvenire solo dopo il superamento delle prove scritte, verranno valutate anche le autodichiarazioni che come noto comportano una responsabilità personale». L’assessore difende dunque l’operato del Formez: «Sta lavorando benissimo, nel pieno rispetto del bando, e di certo darà comunicazione non appena conclusi gli approfondimenti». Tuttavia ieri il caso ha scatenato le proteste dell’opposizione: «Avevamo denunciato che si tratta di un concorso truffa – tuona il capogruppo di Forza Italia, Ignazio Zullo – e a distanza di pochi mesi cominciamo ad avere le prime conferme». «Se quanto emerso sarà confermato – dice Giammarco Surico - ci sarebbero profili di responsabilità penale. Chiediamo risposte chiare e inconfutabili, non trasparenza a parole, non sarebbe male se Vendola e Caroli mandassero le carte in Procura». Alla richiesta si associa anche Giandiego Gatta, secondo cui il concorso «è una manovra elettorale del centrosinistra su cui le ombre sono tante». Il gruppo regionale Ncd, in una nota, punta il dito sull’«apparizione di “amici” della maggioranza nell’elenco dei primi beneficiari», mentre il consigliere Aldo Aloisi dice che «il centrosinistra che, furbescamente, ha fissato a Roma il prossimo esame proprio il giorno delle elezioni». Al consigliere di Forza Italia risponde però il capogruppo Sel, Michele Losappio, che parla di «ostilità pregiudiziale»: «La data delle elezioni regionali – dice – non è nemmeno stata fissata. Secondo Forza Italia la Regione non deve né assumere per concorso, né stabilizzare secondo legge, ma solo favorire la disoccupazione».

CONCORSO TRUCCATO AL MINISTERO DEGLI ESTERI: PER DIPLOMATICI.

ANNO 2014. Farnesina, ombre sul concorso per diplomatici. E tra i vincitori non mancano i "figli d'arte". Il ministero degli Esteri ha bandito 35 posti per il gradino più basso della carriera da ambasciatore ignorando gli idonei dello scorso anno, che andavano riassorbiti. Una vicenda su cui ora tutti i partiti, con otto interrogazioni, chiedono di fare luce. E fra chi ha passato lo scritto anche candidati dalle parentele famose, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso” AAA ambasciatore cercasi. C’è un settore che sembra non conoscere crisi. Al punto che continua ad assumere mentre le pubbliche amministrazioni sono costrette a ridurre le piante organiche e a non rimpiazzare il personale andato in pensione. È il ministero degli Esteri che, grazie a una particolare deroga, dal 2010 ha diritto di prendere ogni anno fino a 35 segretari di legazione. Un incarico ambito, dato che rappresenta il gradino più basso della carriera diplomatica e che - fra stipendio tabellare, retribuzione di posizione e di risultato - l’emolumento si aggira sui 5 mila euro al mese. Forse anche per questo quasi ogni concorso è stato puntualmente accompagnato da una ridda di contestazioni e ricorsi. Col picco esponenziale raggiunto proprio quest’anno, con l’eco delle polemiche che è approdata perfino in Parlamento, dove sono state depositate ben otto fra interpellanze e interrogazioni per fare luce su presunte irregolarità nelle selezioni svolte a luglio: due del Partito democratico e del Movimento cinque stelle e una di Sel, Udc, Fratelli d’Italia e Ilic (gli ex grillini al Senato). Irregolarità che riguarderebbero innanzitutto le immancabili furbate di ogni concorso che si rispetti: non solo qualcuno sarebbe riuscito a utilizzare tablet, smartphone, libri e manoscritti perché non era stata allestita una sala deposito accanto all’aula d’esame, ma - in base a quanto denunciato da un commissario nel corso delle prove - alcuni candidati si sarebbero perfino agganciati alla rete wi-fi del suo cellulare, riuscendo così a navigare su internet. Il punto centrale riguarda tuttavia il numero di posti banditi: 35, il numero massimo consentito, nonostante lo scorso anno i vincitori siano stati 42. Per i 7 rimasti fuori - secondo la formula di “idonei non vincitori” che ben conosce chi partecipa ai concorsi pubblici - si sarebbero dovute aprire le porte quest’anno: dal 2013 la legge prevede infatti lo scorrimento delle graduatorie prima di effettuare una nuova selezione. Una questione di risparmio ma anche di buon senso che la Farnesina stessa ha adottato prima ancora che fosse obbligatorio: nel 2010 gli idonei non vincitori furono sei e l’anno seguente furono banditi 29 posti anziché 35. Quest’anno è andata diversamente. Come mai? Il ministero sostiene la regolarità della scelta in base a un parere consultivo e un paio di sentenze del Consiglio di Stato più un’altra emessa dal Tribunale amministrativo del Lazio. Atti che però sono tutti precedenti o relativi a fatti antecedenti la legge del 2013, contestano gli idonei, che hanno fatto ricorso al Tar. Quel che è certo è che quest’anno scade la deroga al blocco delle assunzioni e quindi il concorso potrebbe rappresentare l’ultima grande infornata prima di un lungo digiuno. Anche così si spiegano i numeri record: poco meno di 700 quanti hanno partecipato alle prove scritte, che prevedono un esame di storia, diritto, economia, inglese e una seconda lingua a scelta fra tedesco, francese e spagnolo. Quasi il triplo dell'anno scorso. Di questi, però, solo il 5 per cento ce l’ha fatta: gli ammessi agli orali, che si terranno a fine mese, sono appena 34. In pratica tutti quanti hanno già il posto assicurato e non ci saranno nuovi casi di idonei non vincitori. Nella graduatoria non mancano cognomi famosi, come Francesco Calderoli, nipote del leghista Roberto, che si è piazzato al 29esimo posto in classifica. Penultimo è arrivato invece Ferdinando Stagno d’Alcontres, primogenito di Francesco, ex deputato di Forza Italia e cugino dell’ex ministro degli Esteri Antonio Martino (anche lui berlusconiano della prima ora) e dell'ex ambasciatore in Russia e Usa, Ferdinando Salleo. Una circostanza ricorrente, quella di cognomi e parentele importanti, dal momento che la diplomazia è uno dei settori della pubblica amministrazione in cui il tasso di "figli d'arte" è più alto. Nel 2009, ad esempio, tramite lo scorrimento della graduatoria (quello non effettuato quest’anno) fu “ripescato” Stefano La Tella, figlio di Guido, ex ambasciatore in Argentina e presidente di commissione dell'attuale selezione: La Tella junior l’anno prima era risultato quinto degli idonei non vincitori e a essere assorbiti - come ha rilevato il sindacato Flp-Affari esteri in un volantino ironico intitolato “Il divino concorso” - furono proprio i primi cinque (su un totale di 13). Lo scorso anno però andò ancora peggio, quanto a contestazioni: delle 60 domande del test di preselezione, sei erano errate e il ministero, anziché eliminarle, decise di "abbonarle" a tutti i partecipanti, facendo in questo modo lievitare gli ammessi alle prove scritte.

ANNO 2013. Il clientelismo tossico della pubblica amministrazione, scrive Paolo Becchi su “Byo Blu”. Che i concorsi pubblici siano a volte truccati non è una novità per nessuno. Scoprire il trucco qualche volta è però difficile. Oggi ci concentriamo su un singolo caso piuttosto istruttivo: il concorso bandito dal Ministero degli esteri per l’assegnazione di 35 posti a segretario di legazione in prova, tenutosi dal 1 al 5 luglio 2013 presso il comando dei carabinieri in via Tor di Quinto a Roma, è stato falsato sin dal giorno delle prove preselettive, tenutesi l’11 giugno c.a. presso l’hotel Ergife, sempre a Roma. Secondo quanto previsto dal bando di concorso, la nuova modalità di svolgimento della prova preselettiva consisteva in un quiz di 60 domande a risposta multipla in 60 minuti, concernenti le tre materie degli scritti affiancate da domande in lingua inglese e di logica. Per avere accesso alle prove scritte, erano necessari i due terzi delle risposte corrette, pari a 40 risposte. Purtroppo, sin dalla pubblicazione dei risultati delle prove preselettive, si sono verificati alcuni episodi che hanno gettato fondati dubbi sulla validità e sulla trasparenza di tale concorso. Innanzitutto, molte delle domande a risposta multipla contenute nei test preselettivi non erano esposte in modo preciso. Alcune contenevano errori palesi, altre, invece, erano formulate in modo ambiguo mentre altre ancora esulavano dal programma di studio. Per ovviare a questa imbarazzante situazione il Ministero ha abbuonato arbitrariamente sei domande su sessanta a tutti i concorrenti. Tuttavia, non è affatto chiaro quale sia stato il criterio seguito per abbuonare proprio quelle sei domande e non altre, altrettanto oscure. In ogni caso, tale potere di “abbuono” non è contenuto nel regolamento del bando ed è quindi da considerarsi illegittimo, in quanto il regolamento del bando non può essere modificato né tantomeno disatteso dopo che è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Il ministero ha agito, in questa circostanza, contro le stesse regole da esso emanate. Come se ciò non bastasse, il Ministero ha violato un’altra prescrizione del bando. Ovvero, anziché applicare la soglia dei due terzi indicata nel bando alle 54 domande ritenute valide, è stato mantenuto il punteggio minimo di 40 risposte esatte non applicando quindi la regola dei due terzi alle 54 domande ritenute valide. In questo modo, era però sufficiente azzeccare 34 risposte corrette per passare il test e non più 40. Sembra un aiuto per tutti, ma vedremo che non è affatto cosí. Per questi motivi, il Movimento 5 Stelle ha già presentato un’interrogazione parlamentare nei confronti del Ministro degli esteri allo scopo di fare luce sulla vicenda di questo concorso. Nell’interrogazione si chiede al Ministro se e come intenda intervenire al fine di ristabilire una situazione di trasparenza e di correttezza amministrativa, anche annullando l’intero concorso e ordinarne la ripetizione a causa dei numerosi errori contenuti nei test preselettivi e delle situazioni poco chiare appena esposte che ne hanno palesemente falsato l’esito. L’interrogazione, presentata il 27 giugno c.a. e che prevede una richiesta di risposta scritta, è caduta nel dimenticatoio. Il Ministero ha ignorato completamente le legittime richieste di chiarimenti su tale situazione di manifesta anormalità presentate dai numerosissimi candidati ingiustamente esclusi e ha lasciato che il concorso si svolgesse come se nulla fosse accaduto. Anche per quanto riguarda le prove scritte, con incredibile velocità, le correzioni dei temi consegnati dai candidati sono arrivate nel tempo record di 20 giorni: considerando che i consegnatari erano circa duecento e che le prove erano cinque a testa, sembra difficile ipotizzare che mille temi possano essere stati corretti ed equamente valutati in un tempo così ristretto. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Infatti, nonostante sia possibile per ciascun candidato visionare le proprie prove scritte, queste non presentano alcun segno di correzione e nemmeno il voto è riportato in calce alla prova. Gli esiti dei compiti scritti vengono pubblicati solo online e credere che le proprie prove siano state realmente corrette o che i voti non siano stati scambiati tra i candidati è un atto di mera fiducia nei confronti del Ministero. Evidentemente malriposta. Considerate le vicissitudini del concorso diplomatico di quest’anno, risulta assolutamente incomprensibile pensare a come il Ministero degli esteri possa selezionare opportunamente il proprio personale diplomatico tramite un concorso cosí palesemente falsato, che già a partire dalle prove preselettive ha escluso validi candidati sulla base di domande inesatte che hanno causato confusione a tutti i partecipanti alla prova. Ecco perché, come anticipato poc’anzi, l’abbuono arbitrario delle sei domande non è affatto un aiuto per tutti: buona parte degli ammessi è in realtà insufficiente (ma alcuni di loro dovevano passare…), mentre anche chi non ne ha beneficiato non è, a buona ragione, escludibile a causa della confusione generale derivante dai quesiti errati e/o mal posti. Si configura, in questo modo, un danno evidente all’immagine del Ministero stesso e della diplomazia italiana ma soprattutto di tutti quei giovani preparati e volenterosi che per l’ennesima volta devono amaramente confrontarsi con il malfunzionamento e con il clientelismo tossico della pubblica amministrazione italiana. Poi non meravigliamoci se quelli bravi sono costretti ad andare all’estero. A meno che la funzione del Ministero degli Esteri non sia proprio questa: mandare i migliori all’estero. I deputati Manlio Di Stefano, Carlo Sibilia, Maria Edera Spadoni, Alessandro Di Battista, Emanuele Scagliusi, Marta Grande e Daniele Del Grosso del Movimento Cinque Stelle hanno presentato una interrogazione a risposta scritta al Ministro degli affari esteri.

Si legge testualmente nell’interrogazione che in data 11 aprile 2013 veniva bandito in Gazzetta Ufficiale, 4a Serie speciale concorsi ed esami, il concorso, per titoli ed esami, a trentacinque posti di segretario di legazione in prova;

alcune segnalazioni pervenute agli interroganti dai candidati confermerebbero vistose violazioni della normativa concorsuale avvenute durante lo svolgimento delle prove scritte tra il 30 giugno e il 4 luglio 2014 presso il Centro nazionale di selezione e reclutamento del Comando generale in Roma, Via di Tor di Quinto, 153;

in particolare, sotto il profilo giuridico, il concorso diplomatico è regolato dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1 aprile 2008, n. 72, il cui articolo 15 rinvia, per quanto non espressamente previsto, alla disciplina contenuta nel regolamento generale concorsi per i pubblici impieghi, ovverosia al decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1994, n. 487. A sua volta, l’articolo 13, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica n. 487 del 1994 prescrive che: «I candidati non possono portare carta da scrivere, appunti, manoscritti, libri o pubblicazioni di qualunque specie»;

inoltre, nel calendario delle prove scritte, pubblicato in Gazzetta Ufficiale, 4a Serie speciale concorsi ed esami del 10 giugno 2014, veniva assunto il seguente autovincolo: «All’interno della sala non è consentito utilizzare né tenere con sé, a pena d’esclusione, telefoni cellulari, palmari, lettori multimediali, carta da scrivere, appunti, manoscritti, libri, periodici, giornali quotidiani e altre pubblicazioni di alcun tipo, ivi inclusi dizionari di alcun genere, né si possono portare borse o simili, capaci di contenere pubblicazioni»;

pertanto, pur se in presenza di una pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. VI, del 7 maggio 2009, n. 2832, che ha ammesso l’ingresso in aula di telefoni cellulari, e altro, laddove il bando di concorso si limiti a precludere soltanto l’utilizzazione della strumentazione elettronica, questa pronuncia sembrerebbe non trovare applicazione rispetto al concorso diplomatico, in quanto ai candidati non è consentito soltanto di utilizzare, ma anche e semplicemente di tenere con sé, magari sul banco o in una borsa chiusa accanto al banco, smartphone, e altro. Le stesse considerazioni potrebbero valere con riferimento ai manoscritti, e altro, che i candidati non possono portare con sé, a norma dell’articolo 13, decreto del Presidente della Repubblica n. 487 del 1994;

la violazione dell’articolo 13, decreto del Presidente della Repubblica n. 487 del 1994, e soprattutto dell’autovincolo menzionato, potrebbero determinare l’annullamento dei provvedimenti amministrativi viziati, ai sensi dell’articolo 21-octies, della legge n. 241 del 1990;

ciò nondimeno, sotto il profilo fattuale, sono stati ammessi in aula telefoni cellulari, borse, manoscritti, libri di testo, tablet,smartphone, ecc. D’altra parte, non era stato previsto un deposito accanto all’aula d’esame come si può evincere da una pubblica dichiarazione, resa il primo giorno delle prove scritte, prima dell’estrazione delle tracce, da parte del consigliere d’ambasciata Fabrizio Lobasso, segretario della Commissione e dirigente dell’ufficio reclutamento del Ministero degli affari esteri. Peraltro, in base a un’ulteriore dichiarazione pubblica resa dallo stesso Consigliere Lobasso il terzo giorno degli scritti prima dell’estrazione delle tracce, alcuni telefoni o tablet si agganciavano al suo hotspot; ciò nonostante, non sono state prese misure di espulsione, di sequestro generalizzato della strumentazione elettronica o di contenimento delle ulteriori violazioni della normativa concorsuale, quanto meno prima del terzo giorno delle prove scritte. Per di più, il quarto giorno degli scritti, quando la Commissione aveva intensificato, pur se tardivamente, i controlli, il Consigliere Lobasso ha ribadito che telefoni e tablet si erano agganciati al suohotspot, dichiarazione reiterata il quinto e ultimo giorno delle prove scritte. Questi fatti, ovviamente, sembra siano avvenuti in pubblico e potrebbero formare eventualmente oggetto di testimonianza in sede giurisdizionale –:

come intenda verificare quanto segnalato in premessa e quindi se effettivamente e in via generalizzata, in occasione delle prove scritte del concorso diplomatico dal 30 giugno al 4 luglio 2014, siano stati ammessi in aula telefoni cellulari, borse, manoscritti, libri di testo, tablet, smartphone, e altro;

come intenderà procedere al fine di garantire la legalità, l’imparzialità e l’economicità dell’azione amministrativa laddove fosse confermato quanto segnalato in premessa. (4-06181).

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-01214 presentato da MANNINO Claudia. testo di Mercoledì 10 luglio 2013, seduta n. 50.

MANNINO. — Al Ministro degli affari esteri. — Per sapere – premesso che:

il giorno 11 giugno 2013 si è tenuta presso i saloni dell'Ergife Palace Hotel di Roma la prova preselettiva per il concorso, per titoli ed esami, a 35 posti di segretario di legazione in prova, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 4o serie speciale del 12 aprile 2013 e con scadenza 27 maggio 2013;

la prova era affidata alla società «Selexi Srl» di Milano su mandato dell'ufficio V concorsi del Ministero degli affari esteri;

secondo quanto previsto dal bando di concorso, pubblicato all'indirizzo internet del Ministero, la nuova modalità di svolgimento della prova preselettiva consisteva in un quiz di 60 domande a risposta multipla in 60 minuti, concernenti le tre materie degli scritti (storia delle relazioni internazionali, diritto internazionale pubblico e dell'Unione europea, politica economica e cooperazione economica, commerciale e finanziaria multilaterale) affiancate da domande in lingua inglese e di logica. Per avere accesso alle prove scritte, erano necessari i due terzi delle risposte corrette, pari a 40 risposte;

i risultati della prova sono stati resi noti, mediante pubblicazione sul sito del Ministero, la sera stessa dell'11 giugno 2013, indicando esclusivamente la lista dei nomi ammessi senza comunicare i risultati effettivi; a quanto risulta agli interroganti soltanto in data 17 giugno 2013 è stato possibile accedere agli atti: in tale sede i candidati, ammessi e non ammessi, hanno potuto constatare che i risultati erano stati calcolati attraverso un procedimento che si ritiene essere palesemente anomalo e che prevede l'inusitato «abbuono» (come da dicitura ministeriale comparsa nel sito) di 6 domande, che sono state ritenute non valevoli ai fini della valutazione;

è così emerso che nel novero di queste 6 domande «abbuonate» alcune contenevano quesiti mal posti e palesemente errati, mentre altre invece risultavano formulate regolarmente;

a complicare ed aggravare la situazione di manifesta anormalità vi era la presenza di quesiti mal posti e palesemente errati anche nel resto delle altre domande; a parere degli interroganti, se da un lato appare grave che, con una presa di posizione che appare arbitraria si sia intervenuto sulla correzione (che ha previsto di considerare esatte le risposte date alle domande errate e di «abbuonare», perché ritenuti inesatti, anche i quesiti che in realtà non lo erano), altrettanto grave è che non si sia intervenuto o non ci si sia accorti di altre domande che risultano mal poste, ambigue dove non macroscopicamente errate;

per quanto sopra descritto risulta all'interrogante illogico ed immotivato il criterio con cui il Ministero, la Commissione esaminatrice e la società incaricata di formulare il questionario abbiano deciso di «abbuonare» le domande errate, così permettendo a numerosi candidati di accedere alla soglia minima delle 40 risposte, sulla base di domande che sono manifestamente inesatte e, di contro, di non intervenire su altre domande anch'esse inesatte;

risulta incomprensibile come possa il Ministero degli affari esteri selezionare opportunamente il proprio personale diplomatico, tramite domande inesatte, che hanno creato solo confusione a tutti i candidati, finendo col fuorviare tutti i partecipanti alla prova, dati i ristretti limiti di tempo per le risposte, e non hanno permesso di selezionare i candidati migliori: si ribadisce che buona parte degli idonei appare in realtà insufficiente ed ha beneficiato dell’«abbuono», a giudizio dell'interrogante arbitrario, mentre anche chi non ne ha beneficiato non è, a buona ragione, escludibile a causa della confusione generale derivante dai quesiti errati e/o mal posti. Si configura, pertanto, un danno evidente che implica un vulnus alla buona immagine del Ministero stesso, della diplomazia e di tutti i volenterosi e preparati futuri servitori dello Stato;

nessuna risposta è stata fornita dal Ministero degli affari esteri ad analoga interrogazione a risposta scritta n. 4-00450 a prima firma del senatore Orellana depositata in data 27 giugno 2013 –:

quali siano i motivi per cui, a fronte di una procedura completamente automatizzata, il parziale accesso agli atti sia stato possibile solo sette giorni dopo la pubblicazione della lista degli idonei, ledendo in questo modo l'interesse legittimo degli esclusi a tutelare nei modi più opportuni le loro posizioni;

quali siano le ragioni per cui a fronte della pubblicazione dei nomi e cognomi degli idonei non sia stata fornita contestuale indicazione del punteggio conseguito, informazione che avrebbe permesso ai candidati di verificare l'idoneità della procedura selettiva rispetto all'applicabile normativa e al bando di concorso;

quale fosse la graduatoria e quali fossero i rispettivi punteggi di tutti i candidati a seguito della somministrazione del test preselettivo prima dell’«abbuono» elaborato, in corso d'opera, dalla commissione;

quali siano le ragioni che hanno comportato la scelta della procedura dell’«abbuono» e non già quella più logica, non arbitraria, e più rispettosa dei diritti dei candidati, dell'eliminazione delle domande errate, con la conseguente riconsiderazione della punteggio minimo per l'ammissione;

come sia stato possibile agire con la dovuta diligenza nella selezione delle domande da «abbuonare» nel lasso di tempo intercorso tra la fine della prova nella tarda mattinata dell'11 giugno e la pubblicazione della lista degli idonei avvenuta nella prima serata del giorno stesso;

come sia stato possibile incorrere in errori marchiani, inserendo domande errate, valutando errate domande giuste e lasciando per buone domande non corrette;

se la commissione sia stata in grado di vagliare preventivamente i quesiti che sarebbero stati posti ai candidati;

se il Ministero abbia provveduto o intenda provvedere, attraverso l'ufficio di competenza, a rivalersi sull'impresa appaltatrice, ovvero la «Selexi Srl» e, in caso contrario, quali iniziative urgenti intenda assumere al riguardo;

se il Ministero non intenda intervenire, nell'ambito delle proprie competenze, con procedura d'urgenza, al fine di ristabilire una situazione di trasparenza e di correttezza amministrativa, anche disponendo l'annullamento della prova attitudinale e la sua ripetizione a causa dei numerosi errori nei quesiti proposti e per l'arbitrarietà delle procedure adottate nella valutazione che ne hanno a giudizio dell'interrogante oggettivamente falsato l'esito finale;

quali misure intenda prendere in subordine per attenuare tale grave discriminazione;

quali siano state le motivazioni che hanno determinato il Ministero alla sostituzione del commissario di tedesco, avvenuta in data 28 giugno 2013 e, allo stato, ad avviso dell'interrogante non chiaramente motivata;

se quindi non sia stato manifestamente irragionevole far proseguire la procedura di selezione facendo svolgere le prove scritte, permettendo, a termine della loro correzione, il consolidarsi di ulteriori e contrarie posizioni di interesse nei candidati;

quali garanzie il Ministero intenda fornire affinché non si ripetano simili irregolarità nelle future edizioni della procedura di selezione;

se il Ministero intenda, alla luce dei fatti occorsi, non avvalersi più dei servizi della società «Selexi Srl», nonché, valutare nell'immediato la possibilità di procedere con ogni iniziativa utile a tutela della propria immagine e credibilità, con particolare riguardo al danno arrecato dalla richiamata società «Selexi Srl». (4-01214)

Atto Camera. Risposta scritta pubblicata Venerdì 9 agosto 2013 nell'allegato B della seduta n. 69, 4-01214 presentata da MANNINO Claudia.

Risposta. — Circa lo svolgimento della prova attitudinale del concorso per titoli ed esami a 35 posti di segretario di legazione in prova per l'accesso alla carriera diplomatica per l'anno 2013 si forniscono i seguenti elementi informativi:

1) L'11 giugno 2013 si è svolta la prova attitudinale del concorso per l'accesso alla carriera diplomatica per l'anno 2013. La nuova prova attitudinale, istituita con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 17 del 28 giugno 2013, è volta ad accertare la capacità del candidato a svolgere l'attività diplomatica, in particolare verificando la preparazione nelle materie oggetto di concorso, inclusa la lingua inglese e le capacità di logicità del ragionamento. La prova attitudinale non concorre alla formazione del voto finale di merito. Tale prova consiste in un questionario composto da 60 quesiti a risposta multipla, a cui il candidato è tenuto a rispondere in 60 minuti. I quesiti sono incentrati sulle materie oggetto di concorso: storia delle relazioni internazionali, diritto internazionale pubblico e dell'Unione europea, politica economica e cooperazione economica, commerciale e finanziaria multilaterale, attualità internazionale in lingua inglese e test psico-attitudinali. Per essere ammessi alle successive prove scritte d'esame, il candidato è chiamato a rispondere correttamente ad almeno due terzi delle domande del questionario a risposta multipla della prova attitudinale (quindi, 40 su 60). Dopo una ricerca di mercato, amministrazione ha affidato alla ditta Selexi Srl l'incarico di elaborare i questionari. Lo stesso 11 giugno sono state effettuate le correzioni anonime automatizzate da parte della ditta Selexi, ed è stata resa nota sul Sito web del Ministero degli affari esteri la lista dei 233 candidati ammessi alle prove scritte. Nei successivi 3 giorni lavorativi (e in particolare tra la mattinata di mercoledì 12 giugno e le ore 12,00 di lunedì 17 giugno) è stato possibile per i candidati accedere via web al proprio test attitudinale.

2) In tempi strettissimi l'amministrazione e l'azienda Selexi Srl hanno caricato sul web ben 1308 schede di risposta e le relative domande, nonché circostanziati elementi esplicativi dei risultati stessi. Vale la pena sottolineare che, qualora non fosse esistita l'automatizzazione in questa prima fase concorsuale (esercizio voluto fortemente dall'amministrazione negli ultimi anni, in linea con i principi di trasparenza, efficienza dell'azione amministrativa e dematerializzazione cartacea), i tempi per visionare la propria scheda sarebbero stati molto più lunghi. Ai sensi di legge, infatti, possono intercorrere sino a 30 giorni tra l'eventuale richiesta del candidato e l'accesso al materiale d'esame.

3) L'esercizio dell’«abbuono» consiste nella cosiddetta «sterilizzazione» di uno o più quesiti a risposta multipla che contengano elementi di non univocità e/o ambiguità. Tale esercizio è attività ricorrente nella prassi concorsuale e si verifica (in genere successivamente alla realizzazione dei quesiti, a prova conclusa e nella fase di correzione anonima e automatizzata dei test) in virtù del sorgere di elementi inaspettati (come ad esempio la rilevazione da parte della ditta di cosiddette «anomalie statistiche» su quesiti ritenuti inizialmente chiari) che rendano doveroso un nuovo controllo sugli stessi quiz. Proprio per evitare l'alterazione della soglia di sbarramento dei 2/3 di risposte esatte prevista nella prova attitudinale in oggetto, e quindi per assicurare equanimità di trattamento a tutti i candidati, l'abbuono ha permesso l'attribuzione di un punto per ogni quesito abbuonato a tutti i candidati. Quindi, è come se tutti avessero risposto esattamente ai sei quesiti. In questo modo è stata assicurata equanimità di trattamento ai partecipanti e il mantenimento dei dettami di legge e del bando di concorso. Peraltro, lungi dall'aver adottato misure arbitrarie per la correzione dei test, l'amministrazione, sulla base di valutazioni tecnico-discrezionali, ha agito in linea con superiori principi di buon funzionamento ed imparzialità del procedimento. E difatti, il suddetto abbuono è stato applicato prima dell'abbinamento tra schede risposte e schede anagrafiche, nel pieno rispetto dei principi di anonimato, equità e trasparenza. Altra cosa (e con ben altri effetti) sarebbe stato l'esercizio di «annullamento» dei quiz non univoci e/o ambigui (ossia, l'eliminazione delle domande errate), Quello sarebbe stato certamente un atto illogico, arbitrario e irragionevole. Rendendo nulle alcune domande, tale opzione avrebbe alterato la soglia numerica di ammissione per passare alle prove successive, creando ingiusta ed ingiustificata disparità di trattamento tra i candidati.

4) Giova ricordare che il regolamento del concorso diplomatico (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 17 del 2013) prevede che per l'espletamento della prova attitudinale, l'amministrazione possa avvalersi anche di procedure automatizzate gestite da enti o società specializzate in selezione del personale. È prassi concorsuale che, per assicurare piena trasparenza e anonimato della prova, la produzione e l'attuazione dei test a risposta multipla siano affidate a ditta specializzata sul mercato. Ciò peraltro avviene da molti anni al Ministero e in altre amministrazioni pubbliche. La possibilità di incorrere in errori nella produzione dei quesiti a risposta multipla esiste, e ciò pur in presenza di ripetuti e doverosi controlli di qualità effettuati dalla ditta, in linea con precisi protocolli operativi interni alla stessa. Nel case in parola, la procedura ha seguito un iter logico e trasparente, ivi compresa la proposta di correttivi adottati per la sterilizzazione delle domande considerate non univoche e/o ambigue.

5) Stante quanto sopra, atteso che l'esercizio dell'abbuono dei se quesiti considerati validi per tutti i candidati assicura il mantenimento assoluto dell'equo trattamento a beneficio di tutti i partecipanti alla prova, la non alterazione della soglia di sbarramento prevista dal bando di concorso, la salvaguardia della procedura e dei relativi atti amministrativi, un eventuale annullamento dell'esercizio concorsuale sarebbe senza dubbio un atto illegittimo, arbitrario, viziato da eccesso di potere e, infine, non giustificabile.

6) La sostituzione del membro aggiuntivo di lingua tedesca della commissione esaminatrice, come esaustivamente motivato nelle premesse del decreto di nomina decreto ministeriale n. 5015/0406/BIS, e occorsa per sopraggiunti motivi di salute dello stesso.

7) Per completezza di informazione si segnala che, rispetto al concorso diplomatico del 2012, il numero dei ricorsi presentati nel 2013 avverso l'esito della prova attitudinale è stato di gran lunga inferiore (meno della metà). Tale circostanza conforta ulteriormente l'Amministrazione, sul rispetto della trasparenza e dell’ adeguatezza dell'intero esercizio. Il Viceministro degli affari esteri: Marta Dassù.

CONCORSO TRUCCATO AL MINISTERO DEGLI ESTERI: PER INSEGNARE ALL’ESTERO.

Insegnare all'estero: concorso nel caos, test cambia all'ultimo, prova annullata. All'Ergife di Roma le prove per l'insegnamento negli altri paesi europei, ma la commissione annuncia una variazione nella prova di francese. Veementi proteste, con i candidati che lasciano l'aula, costringendo a cancellare la giornata, scrive Salvo Intravaia  su “La Repubblica”. Caos nella selezione per insegnare all'estero nell'anno scolastico 2011/2012. Dopo le proteste dei candidati per le modalità di svolgimento del concorso, la prova di Francese viene annullata. All'hotel Ergife di Roma sono ancora in corso le prove di accertamento linguistico per gli insegnanti italiani che intendono recarsi all'estero - come semplici lettori, come insegnanti in una scuola italiana all'estero o in una scuola europea e come personale Ata - ma questa mattina, dopo le istruzioni fornite dalla commissione, si è scatenata un'autentica bagarre che ha indotto la stessa commissione esaminatrice ad annullare la prova di Francese, facendo slittare anche quelle di Spagnolo, Tedesco e Inglese in programma per oggi per lettori e Ata. Sul banco degli imputati il Formez, che avrebbe organizzato la prova secondo modalità "impossibili". "Alle 10,30 circa - racconta Giuseppe, uno dei candidati - la commissione ci consegna il librone con tutte le domande dalle quali sarebbero state sorteggiate le 40 oggetto della prova". Com'è avvenuto per il concorso a preside, la selezione si svolge su 40 domande a risposta multipla, sorteggiate su una batteria di duemila test pubblicato un mese e mezzo fa. Per rispondere alle 40 domande, il bando predisposto dal ministero degli esteri ha previsto 45 minuti, nei quali occorre individuare le domande nel librone e rispondere annerendo i pallini di un apposito foglio a lettura ottica. Ma quando la commissione ha comunicato ai seimila candidati che tra le 40 domande ci sarebbero stati anche quattro brani, si è scatenata la protesta. "Com'è possibile rispondere leggendo quattro brani in lingua straniera, rispondere alle 40 domande, annerire i pallini prestando attenzione a non uscire dal cerchietto sul foglio in 45 minuti?", continua Giuseppe. La protesta ha letteralmente travolto la commissione che stava sovrintendendo al concorso e che è stata costretta ad annullare la prova dopo un batti e ribatti con richiesta di verbalizzazioni da parte dei candidati e dopo che docenti e Ata sono usciti dalle aule per protesta e hanno portato con sé anche il librone ancora sigillato con le domande. Solo l'intervento della polizia ha ripristinato l'ordine. Domani è prevista la selezione per le scuole europee e ancora per il personale Ata (inglese e tedesco) mentre lunedì 5 sarà la volta dei docenti che desiderano insegnare in una delle tante scuole italiane sparse in ogni angolo del mondo. Al momento, non si sa esattamente quando verrà recuperata la prova di francese di questa mattina, ma pare che potrebbe essere recuperata dopo l'ultima. I candidati che supereranno la selezione, potranno inserirsi in una speciale graduatoria dalla quale vengono reclutati ogni anno insegnanti, lettori e Ata destinati all'estero. Interrogazione parlamentare dell'On.Franco Narducci, deputato Pd, al ministro degli Esteri Giulio Terzi. “Secondo quanto appreso dalle notizie stampa sullo svolgimento delle prove gravano pesanti ombre di irregolarità e di illegittimità, in quanto troppe modalità sembrano non aver funzionato; per appena 280 posti disponibili si sono presentati oltre 25mila candidati senza alcuna opportuna preselezione. Alcune domande delle prove d'esame sono risultate imprecise ed errate e il tempo a disposizione per rispondere ai quiz non è sembrato essere proporzionale al compito assegnato. Le prove sui test avrebbero dovuto avere inizio alle ore 8, ma i questionari sono stati distribuiti con circa due ore di ritardo. In seguito a tali ritardi è scattata la prima contestazione da parte di alcuni candidati, i quali hanno chiesto che fosse messa a verbale la ristrettezza di tempo concesso (45 minuti) per leggere i testi e rispondere a 40 test, da ricercare in un librone e riportare in un foglio a lettura ottica. Tra disfunzioni, ritardi, sospensioni e rinvii, proteste e presunte irregolarità il concorso si è svolto nella confusione generale, tanto da richiedere l'intervento delle forze dell'ordine”.

CONCORSI TRUCCATI E PARENTOPOLI ALL'AGENZIA DEL  DEMANIO.

Il candidato è bravo? Scartiamolo» Caso di Parentopoli al Demanio. Assunto un concorrente «con lacune» ma parente di un dipendente. Escluso per «antipatia» un architetto con un ottimo curriculum, scrive Fabrizio Peronaci su “Il Corriere della Sera”. Il processo al capo del Personale per l’ennesima Parentopoli in una branca della pubblica amministrazione si terrà a ottobre, ma gli esclusi, soprattutto architetti e ingegneri, stanno già affilando le armi. Alcuni hanno deciso di costituirsi parte civile, altri meditano di farlo. All’Agenzia del Demanio - dopo il rinvio a giudizio per abuso d’ufficio di Antonio Ronza, il direttore delle Risorse umane accusato di cinque assunzioni pilotate - sono giorni di grande fibrillazione. Grazie all’accesso agli atti preteso, a colpi di ricorsi al Tar, da un battagliero avvocato, stanno infatti filtrando carte scottanti su uno dei temi più cari agli italiani, soprattutto in tempi di crisi e alta disoccupazione: il «metodo» di selezione del personale nello Stato, il «quid» necessario a ottenere l’agognato posto fisso. E dunque come funzionava al Demanio, che è diretta emanazione del ministero dell’Economia? Un appunto, un paio di frasi (forse dal sen fuggite) forniscono qualche indizio... «Il candidato riconosce i propri limiti e non cerca di nascondere eventuali lacune», ha trovato scritto l’avvocato Gian Paolo Stanizzi in una scheda di valutazione redatta nell’ambito delle selezioni per «gestori di patrimoni pubblici» nel periodo 2007-2012. Bene. Ma il candidato, per sua stessa ammissione non all’altezza della compito, fu di conseguenza scartato? No, assunto. Scelto in quanto «ha un parente dipendente», ha specificato il legale nella denuncia in Procura, dalla quale è nata l’inchiesta. Il che, certo, non è una novità. Di «corsie preferenziali» spianate da padri, fratelli o cugini a loro familiari (e aspiranti colleghi) sono lastricate le cronache antiche e recenti di Parentopoli. L’elemento decisivo ai fini del rinvio a giudizio del dirigente del Demanio, piuttosto, potrebbe essere stato un altro: la motivazione, inserita anch’essa in una scheda di valutazione, con cui è stato scartato il concorrente con tutti i requisiti in regola e dal cursus honorum invidiabile. «Ha avuto incarichi di progettazione?», era stato chiesto a un architetto dopo aver letto le sue tre pagine di curriculum. «Sì, a decine». «Le è mai capitato di dirigere personalmente i lavori?». Di nuovo: «Sì, in più occasioni». Ha altre esperienze da segnalare? «Sono stato correlatore in varie tesi di laurea», era stata la risposta. Troppo preparato, suvvia: l’esibizione di tanta competenza deve essere parsa arroganza. Il concorrente è stato così escluso per aver mostrato «un atteggiamento supponente e indisponente, prolisso e verboso», questa la testuale argomentazione. «Prendere uno bravo, senza raccomandazioni, nel pubblico impiego evidentemente suona strano, insolito...» L’avvocato Stanizzi, in vista del processo fissato per il 7 ottobre, auspica che, oltre alla già costituita parte civile (assistita dal collega Leo Pallone, del foro di Catanzaro), si facciano avanti «altri professionisti che si ritengano danneggiati, nel loro ipotetico diritto all’assunzione, dalla condotta illegittima evidenziata dall’inchiesta». 

PARLIAMO DEL CONCORSO IN POLIZIA.

A proposito di sprechi e di concorsi pubblici truccati. Mai dire poliziotto. «Non solo non si può vincere un concorso pubblico, se non si ha la fortuna o la conoscenza giusta, ma quando si partecipa con oneri non indifferenti e lo si vince, spesso, esso rimane una chimera irraggiungibile, in quanto non si sarà mai chiamati a coprire quella funzione o quell’impiego pubblico al quale si ha diritto - spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , e scrittore dissidente che proprio sul tema dei concorsi pubblici truccati ha scritto un libro. Uno tra i tanti libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Inoltre egli ha aperto un gruppo Facebook “Abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazioni delle professioni” al fine di sensibilizzare sul problema ed aggregare tutte le vittime di un sistema marcio di cooptazione - Io stesso ho partecipato al concorso per entrare in Polizia. Primo tra gli idonei agli scritti, paracadutista, disoccupato con moglie e figli, ma nelle fasi di selezione psico-fisiche e attitudinale qualcosa di avverso è intervenuto. La stessa cosa mi è successa al concorso per diventare autista degli automezzi speciali dedicati ai magistrati. Negli scritti (test a quiz) tra i primi, nella fase successiva qualcosa di avverso è successa. Potrei farmene una ragione e dire che è colpa mia, ma non posso tacere quanto capita ad altri poveretti. Esempio è la testimonianza, una delle tantissime, di una ragazza vincitrice di un concorso truffa in Polizia. Testimonianza di cui si rende pubblico conto. "Gentile Presidente, con la presente vorrei sensibilizzare la sua Attenzione per una questione che mi sta particolarmente a cuore. Il 17 Novembre del 1997 ho partecipato con tanto entusiasmo  al Concorso di cui sopra riportando un punteggio di 7.14, risultando quindi idonea alle successive fasi di selezione psico-fisiche e attitudinale. E' stato denominato anche "Il Concorso delle BEFFE": Siamo stati abbandonati e mai arruolati nel ‘96 pur essendo idonei, al Concorso di 780 Allievi Agenti Polizia di Stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, IV Serie Speciale “Concorso ed Esami” nr.101 del 20.12.1996. Oggi anziché avvalersi di quella che è la nostra graduatoria, il Ministero dell'Interno continua a indire concorsi riservati solo ai VFP, SPERPERANDO ancora una volta DENARO PUBBLICO, rifacendosi all'articolo 16, comma 1 della Legge n. 226/2004 la quale cita testualmente: Dal 1° gennaio 2006 e fino al 31 dicembre 2020 i posti messi a concorso sono riservati esclusivamente ai Volontari in Ferma Prefissata (VFP) in servizio o in congedo. Ma che senso ha tutto questo? Esiste anche un gruppo su Facebook il quale è stato fondato al fine di raggruppare tutti quelli che come me, hanno visto violati i propri diritti e le proprie attese. Tale gruppo si chiama “780 Allievi Agenti Polizia di Stato”. Vogliamo dare voce a quest'ingiustizia. Vogliamo essere ARRUOLATI. Con L’occasione è gradito porgerle Cordiali Saluti. Giuseppina Currieri"».

Il concorso in polizia, come negli altri concorsi pubblici, non è il marcio in quel che si vede, che deve essere estirpato, ma in tutto quello che non si vede. Il trucco non è nelle prove scritte, ma la scelta dei raccomandati si svolge nelle fasi delle prove psico-fisico-attitudinali e, in particolar modo, nel colloquio finale con un dirigente, come è successo a me.

Viminale, concorso di Polizia annullato una volta per fuga di notizie. Alla seconda i candidati non sono anonimi. Il Tar del Lazio ha accolto con giudizio di merito il ricorso degli esclusi: gli obblighi di trasparenza non sono stati rispettati, e anche se magari ne può risultare un “beneficio eccessivo” i ricorrenti vanno promossi alla fase successiva. Il Tribunale amministrativo stabilisce anche un importante precedente: d’ora in avanti il ministero dovrà cambiare i meccanismi di concorso, scrive Lorenzo Vendemiale il 22 febbraio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Avevano annullato e ripetuto da zero il concorso per agenti di Polizia, dopo la fuga di notizie sulle risposte grazie a cui tutti i candidati avevano ottenuto il massimo del punteggio. Hanno rifatto le prove, ma stavolta hanno violato il diritto all’anonimato dei candidati. Risultato: il Tar del Lazio ha accolto il ricorso degli esclusi che così saranno tutti ammessi all’ennesima ripetizione dei test. Il concorso per 559 agenti di Polizia di Stato diventa una farsa all’italiana: in realtà lo era da tempo, dopo l’esito dei quiz svolti nel 2016, con tanto di inchiesta penale tutt’ora in corso. Al centro di quell’indagine c’è la prima prova, le domande a crocette sulla cultura generale: quasi 200 candidati avevano ottenuto il punteggio massimo, non sbagliando neanche una delle ottanta risposte, mentre altri 140 circa avevano fatto un solo errore e un centinaio ne aveva commessi due. Tra coloro che avevano risposto in maniera corretta, quasi tutti risultavano residenti in Campania, stessa Regione della Società che aveva vinto l’appalto dal Ministero dell’Interno per la somministrazione dei quiz. Una serie di strane circostanze che avevano costretto il Dipartimento di Pubblica sicurezza del Viminale ad azzerare tutto per “garantire l’imparzialità delle operazioni di selezione”, con tanto di figuraccia pubblica nazionale. Di male in peggio, anche la seconda preselezione è finita in tribunale. L’esito delle prove stavolta pare regolare: gli ammessi ai test attitudinali sono stati solo 933. Il problema è un altro: il Ministero non ha rispettato l’elementare principio dell’anonimato dei candidati, previsto da qualsiasi tipo di concorso pubblico e non. Nel foglio di ingresso con tutti i partecipanti, accanto al nome compariva anche il codice segreto: poi nella busta i candidati dovevano inserire solo quest’ultimo, ma essendo stata già rivelata l’associazione in un documento visibile a tutti, chiunque avrebbe potuto risalire all’autore della prova. Una svista macroscopica che è costata la seconda bocciatura per il concorso. Il Tar del Lazio, che già si era pronunciato in questo senso con precedenti sentenze cautelare, ha accolto con giudizio di merito il ricorso degli esclusi: gli obblighi di trasparenza non sono stati rispettati, e anche se magari ne può risultare un “beneficio eccessivo” i ricorrenti vanno promossi alla fase successiva. Ma non è tutto, la sentenza del Tribunale amministrativo stabilisce anche un importante precedente: d’ora in avanti si cambia tutto nei concorsi pubblici. “La decisione – si legge nel dispositivo – avrà come ulteriore effetto l’onere per l’Amministrazione di ripensare le modalità con le quali espletare le diverse selezioni che periodicamente bandisce, individuando forme di somministrazione dei test di prova che siano scrupolosamente rispettose del principio dell’anonimato, onde evitare di incorrere in consistenti contenziosi”. La tirata di orecchi per il Ministero è completa, anche perché – come sottolineano i giudici – “le pesanti ricadute sulle casse erariali sono facilmente intuibili”. “Si tratta di una decisione importantissima su una questione di legalità: solo rispettando le garanzie di segretezza e anonimato si possono prevenire effettive violazioni, in un settore nevralgico come quello dei concorsi pubblici”, spiegano gli avvocati Santi Delia e Michele Bonettiche hanno curato il ricorso. Per il futuro, dunque, i test andranno ripensati. Intanto, però, al Viminale devono occuparsi di chiudere una volta per tutte il concorso di Polizia, che si trascina ormai da troppo tempo. La procedura era stata bandita nel gennaio 2016, e molto partecipata (oltre 14mila i candidati, a fronte di 559 posti a disposizione). A distanza di due anni, non è ancora conclusa: il primo corso per i vincitori dovrebbe iniziare il 26 febbraio, ma i ricorrenti (almeno 50 in tutta Italia) sono stati ammessi di diritto ai test attitudinali, per cui il Ministero dovrà predisporre presto delle prove suppletive. Sperando che siano le ultime.

Lo scandalo dei concorsi della polizia di Stato. Il racconto di un poliziotto che ha vinto il concorso sei anni fa e non ha mai indossato la divisa. Racconto riportato da di Nadia Francalacci su “Panorama”. “I fondi dello Stato Italiano? Vengono sperperati per vendere false illusioni nei concorsi per entrare nella Polizia di Stato”. Gaetano Martorana è un poliziotto senza divisa. Ha partecipato al concorso nel 2006 per entrare nella Polizia di Stato, lo ha vinto ma non ha mai indossato neppure per un giorno l'uniforme del poliziotto. Ventisette anni, originario di Agrigento, Martorana è il rappresentante della 2° Aliquota della Polizia di Stato ovvero di quel gruppo di 1.700 uomini e donne che sono in attesa da quasi 6 anni di essere chiamati a ricoprire il ruolo per il quale hanno vinto il concorso: il poliziotto. Intanto, però, per "ingannare" l'attesa di una eventuale chiamata, sia lui che gli altri quasi duemila ragazzi, sono stati ceduti "in prestito" alle Forze Armate. Così prevede la legge. “Io presto servizio dal 2009 nell’Esercito e il mio contratto, della durata di 4 anni si esaurirà a fine 2013 – continua Martorana – poi sarò un vero e proprio disoccupato e sarò costretto a rimanere a casa, nonostante il mio concorso vinto. Stesso destino spetterà agli altri vincitori che sono stati parcheggiati presso le altre Forze Armate: Marina Militare, Aeronautica o come me, Esercito”. Ma secondo il racconto del poliziotto della 2°Aliquota della Polizia di Stato, la vergogna sarebbe un’altra. “Dopo il concorso del 2006 e gli esuberi di poliziotti che lo Stato non è riuscito ad assorbire immediatamente, il Ministero ha pensato di indire un nuovo concorso questa volta per 907 persone. Anche in questa occasione, non tutti i vincitori sono riusciti ad entrare e molti di loro, come nel concorso precedente, sono confluiti all’interno della 2°Aliquota. - prosegue. A questo punto molti di noi hanno pensato che non ci sarebbero più stati bandi fino alla completa assunzione di tutti i vincitori e quindi all’esaurimento dell’aliquota. Ma il Ministero è tornato a sorprenderci”. “Utilizzando i fondi stanziati per l’assunzione dei vincitori dei bandi precedenti, quindi per tutti noi - continua Martorana – sono stati indetti altri due concorsi rispettivamente per 1.600 e 2.800 posti. Una vera e propria vergogna perché così facendo si sono sperperati soldi pubblici e create nuove e false illusioni a coloro che vi hanno partecipato vincendolo”. Ma all’amarezza di un poliziotto che il poliziotto non fa, si aggiunge la beffa. “Nell’ultimo concorso, quello da 2.800 posti, spinti dalla disperazione hanno partecipato per la seconda volta moltissimi dei poliziotti dell’Aliquota, dunque poliziotti che avevano già vinto il concorso, e alcuni di loro sono riusciti finalmente ad entrare. Molti altri, invece, sono nuovamente finiti, per la seconda volta, da dove erano venuti: dall’Aliquota”. La maggior parte dei 1.700 poliziotti della 2°Aliquota che attualmente prestano servizio presso le Forze armate, sono rimasti a casa per due anni, dopo aver vinto il concorso e incredibilmente, a loro non spetterebbe niente. “Nei 24 mesi "di attesa" ovvero nei due anni a completa disposizione dello Stato, lo Stato stesso non ci ha riconosciuto né l’anzianità, né una retribuzione, se pur minima, e neanche siamo stati inquadrati a livello previdenziale. Insomma noi siamo a tutti gli effetti “poliziotti” ma non esistiamo neanche per lo stesso Stato che stiamo servendo - continua lo sfogo di Martorana- tra i vincitori del concorso in Polizia, Finanza e Carabinieri siamo in 4 mila ad indossare una divisa che non è la nostra. Siamo un vero e proprio “esercito in prestito” senza in nostro posto. Centinaia di poliziotti che hanno vinto il concorso, adesso fanno i camerieri in Marina o in Aeronautica”. “I cittadini ci vedono per strada con indosso una tuta mimetica ma non sanno che in realtà noi siamo poliziotti”, conclude Gaetano Martorana. Ma nonostante le cifre del “precariato” e dei costi dei concorsi, entro la fine del 2012 il Ministero si sta preparando ad indire un nuovo bando:1.600 nuovi posti. Insomma, lo Stato è davvero determinato a vendere nuove illusioni e sicuramente ad accrescere il numero dei poliziotti all’interno della 2° Aliquota.

Le stranezze del concorso di Polizia: dubbi e perplessità sulla correttezza dell’esame, scrive Anonimo su “Oggi”. Il sottoscritto è un ex vfp1 dell’Esercito Italiano in congedo che ha partecipato quest’anno al concorso per il reclutamento di 964 Allievi Agenti della Polizia di Stato, e che vorrebbe rimanere anonimo nonostante la disponibilità per eventuali repliche o risposte via mail. Come tutti sanno il servizio militare obbligatorio è stato abolito da oltre 10 anni e con esso anche gli “ausiliari” nelle Forze dell’Ordine, perciò il reclutamento per il personale della Polizia di Stato Carabinieri Finanza Penitenziaria e via dicendo, è soggetto al requisito essenziale dell’aver svolto almeno 1 anno come vfp1 nelle Forze Armate…Come (quasi) ogni anno la Polizia di Stato bandisce i concorsi pubblici per Agenti rivolto, come descritto in precedenza, esclusivamente ai vfp1 in servizio o in congedo.Anche quest’anno il concorso è uscito (non senza polemiche in quanto coprirà solo una piccola parte dei pensionamenti, con relativo aumento di sotto-organico per la Polizia di Stato), per la precisione indetto sulla Gazzetta Ufficiale 4° Serie Speciale “Concorsi Pubblici”. Avendo partecipato al quiz di cultura generale (il primo step del concorso) mi sento di dovere, anche se a distanza di qualche mese, di segnalarVi alcune incongruenze o lacune o cose strane (qualunque termine anche penale può essere considerato idoneo a descrivere tali cose) che sono accadute durante tale quiz, con riferimento al giorno in cui il sottoscritto ha effettuato il test ovvero il 13 giugno alle ore 14:00 presso l’Aeroporto Militare di Guidonia. Breve premessa… Dopo gli anni “sporchi” della corruzione dilagante degli anni passati, in tutti i concorsi pubblici sono stati istituiti dei metodi e dei dispositivi di sicurezza volti ad assicurare la massima trasparenza e meritocrazia all’interno degli stessi, che sono senza dubbio una ottima occasione per far valere la preparazione culturale del “libero cittadino in libero Stato”. Gli essenziali di essi possono essere elencati e descritti in questa modalità:

-1-Codici a barre applicati sui “fogli risposte”;

-2-Libertà di scegliere il banco su cui effettuare la prova;

-3-Estrazione casuale dei quesiti da parte di un candidato qualsiasi scelto a sorteggio;

-4-Correzione ottica mediante sistema informatizzato e pistola ottica dei “fogli risposte” vigilata da un candidato scelto a sorteggio.

Il sottoscritto, lungi dal voler creare polemiche sterili ed alimentare il sospetto ed il terrorismo psicologico che regna sui concorsi pubblici, Vi sta scrivendo poichè nessuno di questi fondamentali dispositivi e tecniche di meritocrazia sono stati applicati nel concorso per 964 Allievi Agenti della Polizia di Stato bandito nel c.a.. Nello specifico desidero descrivere analiticamente tutte le lacune in merito ai dispositivi elencati in precedenza. Punto 1. I codici a barre erano presenti sotto forma di rettangoli di carta autoadesiva e venivano consegnati al candidato che doveva poi autonomamente apporli sul “foglio risposte” e sul “foglio anagrafico” (talloncino riservato ai dati personali del candidato quali Cognome Nome Nascita Residenza et cetera). Tuttavia TUTTI gli aspiranti (me compreso), in TUTTE le diverse sedi geografiche di esame e di TUTTE le sessioni, indistintamente e senza dubbi o incertezze di sorta; hanno lamentato (vocalmente alla vigilanza e sul famoso social network Facebook) lo scandaloso fatto che gli stessi codici a barre SI STACCAVANO senza che ci fossero motivi di sorta. In pratica, la colla che permetteva la auto-adesività dello stesso era scarsa. Taluni potrebbero affrontare questa mancanza con una semplice risata, ma se osserviamo l’avvenimento sotto una più attenta lente di ingrandimento potremmo tranquillamente denunciare che, con qualsiasi tipo di “raccomandazione” o aiuto tipici della dilagante corruzione italiana che ogni anno la Corte dei Conti denuncia nel suo rapporto consuntivo al Parlamento, i codici a barre sono asportabili e sostituibili con una immensa quanto truffaldina facilità. Dato che il compito degli inquirenti di tutto il mondo è quello di indagare oltre la superficialità e diffidare della buona fede o della mancanza in generale, sarebbe già solamente questo un validissimo motivo per sostenere che gli esiti degli accertamenti culturali di questo concorso possono essere facilmente alterati e modificati a piacimento staccando il codice a barre che non aderisce, sostituendo il foglio risposte con uno compilato in modo esatto al 100%, ed apponendolo ad esso senza che nessuno noti alcuna discrepanza o non-originalità del foglio risposte. Punto 2. Nel concorso pubblico per VFP4 Esercito al quale partecipano un numero ben più alto di candidati rispetto a quello per la Polizia di Stato, e in generale ad ogni concorso pubblico che rispetti l’”anonimato fisico” e la meritocrazia dei partecipanti, il banco dove ogni candidato deve completare il quiz è a scelta dello stesso, fatta salva la consuetudine (peraltro non indicata dai bandi di concorso quindi totalmente priva di valore legale) di procedere per “riempimento” onde evitare il verificarsi di banchi vuoti. Tutto ciò nel concorso in oggetto non avveniva. Infatti veniva consegnato ad ogni candidato un tesserino da apporre nell’indumento che lo stesso indossava in modo ben visibile sul petto, volto ad indicare con esattezza il numero di banco verso cui doveva dirigersi e sedersi per effettuare il quiz (a Guidonia era un enorme Hangar aeronautico). Da ciò è quindi facilmente individuabile il sospetto che, coloro che hanno intenzione di alterare il concorso mediante aiuto altrui, possano essere facilmente individuati nel bel mezzo della folla. Punto 3. Adesso ci troviamo di fronte probabilmente alla più grossa truffa e mancanza del concorso in oggetto. In ogni concorso che si rispetti, dalla banca dati (tutte le 5.000 domande che il Ministero poteva usare per somministrare a gruppi di 80 domande a quiz) vengono (solitamente per l’alto numero di quesiti totali) pre-stampati dei moduli contenenti 80 quiz ognuno, tanti sono quelli contenuti in ogni singolo questionario per la prima prova di cultura generale, che la Polizia di Stato identifica tramite le lettere dell’alfabeto (perciò quiz A, quiz B, quiz C, quiz D, et cetera) per poi somministrarle giorno per giorno, sessione per sessione alla totalità degli aspiranti da sottoporre a questionario ogni giorno. Per esempio, giorno 4 Settembre ore 8.00 per tutti il quiz A, 4 Settembre ore 14:00 per tutti quiz C, 5 Settembre ore 8:00 per tutti quiz E, 5 Settembre ore 14:00 quiz B, 6 Settembre ore 8:00 quiz D, 6 Settembre ore 14:00 quiz F, 7 Settembre ore 8:00 quiz H, et cetera. Il tutto avviene come di consueto e come nel concorso per VFP4 Esercito, il giorno stesso mediante un’urna contenente le lettere sotto forma di sfere ad opera di un candidato qualsiasi e sotto l’attento occhio della Commissione e di tutti gli altri aspiranti che si godono la scena mediante un televisore messo in ogni aula di esame, o comunque sotto registrazione audiovisiva. Anche questo elementare sistema di anonimato dei quesiti d’esame, è venuto meno in questo concorso. Agli aspiranti veniva semplicemente comunicato mediante microfono che il quiz scelto era stato il questionario “X” senza che nessuno di loro potesse verificare nulla od partecipare alle operazioni di estrazione casuale dello stesso. Infine il punto 4, fratello del punto 3. Lo stesso candidato scelto a caso tra i partecipanti, nel concorso VFP4 Esercito e in altri, assiste fisicamente alla correzione obiettiva ed informatizzata dei fogli risposte che avviene mediante pistola ottica, vigilando che i correttori non commettano nessun tipo di errore di lettura o falsificazione o simili. Ancora una volta tutto questo non avveniva poichè nessun candidato ha mai fatto presente di essere stato presente a tale correzione, ne mai nessun candidato è stato scelto a sorte per questo compito. Questo fatto permette di fantasticare sui possibili “magheggi” che avrebbero potuto essere messi in atto durante la correzione dei quiz. Gentili destinatari di questa mail… Penso di aver descritto con sufficiente esaustività ed analiticità le lacune del Concorso per 964 Allievi Agenti della Polizia di Stato 2013. Mi permetto solo una ultima considerazione, che non vuole essere polemica o atto di accusa nei confronti di nessuno. Nel nostro amato Paese, credo che qualunque cittadino onesto o meno desideri che ci siano degli operatori di Polizia, tutori dell’Ordine Pubblico e della legalità sotto ogni forma, preparati e meritevoli. Non sto polemizzando ne accusando che qualcuno dei vincitori del concorso in oggetto o dei passati possa non esserlo con dolo, ne che la Pubblica Amministrazione sia corrotta. Bensì Vi sto solo denunciando un ventaglio di lacune che potrebbero tranquillamente essere sfruttate e usate a favore o a sfavore di taluni candidati in futuro. Mi auspico che le problematiche evidenziate in questa email possano essere messe in risalto all’opinione pubblica e ai vertici della altrettanto Pubblica Amministrazione mediante i Vostri autorevoli quotidiani e testate giornalistiche, poichè uno Stato Democratico e di Diritto non può assolutamente permettersi certe oscenità e mancanze. Distinti saluti.

CONCORSO TRUCCATO PER LA POLIZIA PENITENZIARIA.

Con una lettera indirizzata al Ministro Orlando e al Capo di Gabinetto Melillo il Sappe, primo Sindacato del Corpo, ha chiesto l’annullamento delle prove selettive del concorso da allievo agente tenutesi nello scorso mese di maggio 2014. Il Sappe, nel prendere atto di quanto accaduto durante le prove, allorquando tre candidati sono stati trovati in possesso di elaborati già compilati e gli atti sono stati trasmessi alla Magistratura, ha chiesto al Ministro Orlando di annullare o congelare il concorso con un provvedimento amministrativo in autotutela. Secondo il Sappe, infatti, considerati i precedenti  casi analoghi (concorso vice ispettore 2003 durato dieci anni) ha esternato al Guardasigilli tutti i propri timori per il rischio di non potere immettere in servizio i nuovi agenti. Considerata la gravissima carenza di organico della Polizia Penitenziaria e la perdita di quasi mille unità all’anno a causa dei pensionamenti, il Sappe ha pregato il Ministro di valutare ancora una volta l’opportunità di assumere gli idonei non vincitori dei passati concorsi al fine di immettere in tempi brevissimi forze nuove in servizio. Per quanto riguarda, invece, il concorso in questione il Sappe ha auspicato che venga annullato o quantomeno congelato l’iter, per dare subito corso ad un altro bando pubblico con procedure selettive accelerate. 

Il concorso taroccato dei secondini, scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”. Sono stati trovati con le tracce in mano e ora il concorso per il reclutamento degli agenti penitenziari rischia di saltare. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria... Sono stati trovati con le tracce in mano e ora il concorso per il reclutamento degli agenti penitenziari rischia di saltare. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), dopo aver svolto un’indagine interna, ha inviato gli atti alla Procura di Roma, che dovrà fare luce sulle irregolarità riscontrate. Il ministero della Giustizia lo scorso novembre ha bandito una selezione per formare allievi da destinare alla vigilanza nelle carceri, riservata ai volontari in ferma prefissata di un anno e quattro anni. Al 30 dicembre 2013, termine fissato per l’iscrizione, sono arrivate circa 14 mila domande di partecipazione, a fronte di 208 posti disponibili per gli uomini e 52 per le donne. La prima prova di esame consisteva in una serie di domande, con risposta a scelta multipla, di aritmetica, educazione civica, geografia, geometria, italiano, scienza e storia. Per gli aspiranti agenti donna i test si sono svolti l’8 e il 9 maggio, mentre i candidati uomini sono stati convocati in ordine alfabetico dal 12 maggio al 22 maggio, a Roma, presso la Scuola di formazione del Corpo di polizia penitenziaria in via di Brava. Proprio qui, durante una delle giornate d’esame, tre dei circa 4mila partecipanti al concorso sarebbero stati trovati in possesso delle tracce: c’è chi le aveva scritte sul tradizionale foglio e chi su un tablet. È stato il personale della polizia penitenziaria, che vigilava sul regolare andamento dell’esame, a rilevare le irregolarità. Gli accertamenti sono stati demandati al Nucleo investigativo centrale del Dap dal dirigente del personale e della formazione, Riccardo Turrini Vita. Gli atti poi sono stati inviati alla Procura, che dovrà chiarire come e da chi sia partita questa fuga di informazioni. La procedura prevede che sia una ditta esterna a selezionare i quesiti e che le buste vengano aperte dalla commissione esaminatrice davanti ai candidati, prima dell’inizio delle prove. Le irregolarità nel concorso sono un ulteriore motivo di fermento nell’amministrazione penitenziaria, da alcuni giorni priva del suo vertice. Il 26 maggio, infatti, il capo del Dap, Giovanni Tamburrino, e il suo vicario, Luigi Pagano, sono stati costretti a fare le valigie, in base alla legge sullo spoil system. Il nuovo governo, e in particolare il ministro della Giustizia Andrea Orlando, non ha riconfermato la fiducia nei loro confronti. Probabilmente non ha convinto lo sforzo fatto per decongestionare le carceri: si è passati da 66mila a 60mila detenuti in un anno. Lo stesso termine imposto all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per risolvere il sovraffollamento. La sentenza Torregiani, che ha condannato il nostro Paese a risarcire il detenuto per trattamento disumano subito dietro le sbarre, ha infatti aperto la strada ad altri 4 mila ricorsi. I candidati al concorso sono 14 mila per 208 posti disponibili.

LA NOMINA DEI PRESIDENTI DI SEGGIO E DEGLI SCRUTATORI.

Inchiesta. La polemica sulla nomina dei presidenti di seggio e degli scrutatori.

E’ solo una guerra tra poveri.

Ogni anno, dappertutto in Italia ad ogni tornata elettorale, vi sono aspettative e delusioni e si scatena la tradizionale bagarre sulla nomina degli scrutatori e dei presidenti di seggio, col corollario di polemiche ed accuse contro i nominati.

L'accusa più ricorrente è che a svolgere le funzioni di scrutatore e presidente di seggio siano più o meno sempre gli stessi raccomandati.

Dichiarazione di Antonio Giangrande, presidente della “Associazione contro tutte le mafie”, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. «E’ come se l'ufficio di collocamento fosse gestito dai partiti politici, e ogni partito potesse fare assumere un certo numero di lavoratori, in base alla percentuale di voti ottenuti. Sarebbe ovviamente uno scandalo: ma è proprio questo che avviene con le attuali modalità di nomina. La differenza risiede solo nella durata dell'occupazione, ma la sostanza dell'ingiustizia è la stessa. Ma ci sono altri aspetti importanti da valutare. Facciamo chiarezza. Cominciamo dagli scrutatori che dal 2005 vengono scelti non più tramite sorteggio ma per nomina diretta da un comitato elettorale costituito da soggetti politici, i cui criteri di scelta sono discrezionali. Quindi per farsi scegliere bisogna presentare a loro le proprie referenze. Qualcuno, per orgoglio, non si abbasserà a tanto, ma è anche vero che la conoscenza conta, anche solo dei motivi della scelta necessaria rispetto ad altri candidati. Cosa diversa è per la nomina dei presidenti di Seggio-Sezione. In questo caso la scelta spetta al presidente della Corte d'Appello competente per territorio. In più vi è una circolare del 2009 del Ministero dell'Interno che, per limitare il verificarsi di problemi in un ruolo comunque delicato, di fatto invita a favorire chi, in passato, ha già svolto bene l'incarico, senza commettere errori o irregolarità. Per questo salta all’occhio la periodica nomina di alcuni presidenti di Seggio, evidentemente capaci, e questo unito al fatto che ai suddetti presidenti sono aggregati i soliti segretari da loro nominati (molte volte loro parenti). Spesso gli incarichi di segretario e presidente si alternano tra loro, ma da fuori sembra che sia sempre uguale ed ecco spiegato come mai, sopratutto nei piccoli comuni, vengano percepiti come "sempre gli stessi". Quello che la gente dovrebbe sapere, però, prima di incorrere in qualunquistici luoghi comuni è che le elezioni sono una cosa seria e gli adempimenti burocratici sono onerosi e dispendiosi. Il collegio deve essere formato da gente capace e dedita all’incarico. A volte ci si trova a dover coordinare persone svogliate, o che non sanno, o non possono, per handicap, o non vogliono scrivere. In questo modo l’ingranaggio si inceppa e la gente fuori fa la fila, impedita a votare. Gente che guarda caso si da appuntamento all’orario dello struscio e si accalca sempre negli orari di punta che sono sempre gli stessi: il pomeriggio tardi e la prima sera. E poi c’è che il sabato molti dei nominati non si presentano ed allora bisogna che il presidente chiami il primo soggetto disponibile che ha di fronte, la cui capacità è tutta da dimostrare. Per gli assenti della domenica, poi, non vi è sostituzione ed allora il collegio è monco. Ancora una cosa la gente non sa. Non è il far votare che stanca, ma l’aspetto burocratico con la redazione dei doppi verbali ed il bilanciamento dei numeri e la formazione dei pacchi. Inoltre vi è l’incognita dei rappresentanti di lista. Situazione da monitorare. Molti rappresentanti di lista sono nominati apposta per falsare od intralciare il regolare andamento della votazione. Ecco perché, spesso, le polemiche sono montate ad arte, specie se a presiedere il seggio vi è qualcuno non propenso ad agevolarli. Comunque le strumentali o fondate diatribe circa la nomina è solo una guerra tra poveri. Un solo dato attinente le ultime elezioni. Preparazione seggio al sabato dalle ore 16,00. Un paio di ore, se non tre,  per autenticare le schede elettorali (bollatura e firmatura) e tutti gli altri adempimenti. La domenica apertura alle ore 07,00, ma con rientro almeno mezzora prima per istruire gli scrutatori. Cosa che nessun comune fa nei giorni precedenti al voto. Termine votazione alle ore 23,00. Spoglio e chiusura dopo almeno 3 ore. Ricapitolando: 3 ore al sabato ed una ventina la domenica. Sono 23 ore di lavoro impegnativo e di responsabilità, ricoprendo la qualità di pubblico ufficiale. Si percepisce 96 euro (un decina in più per il presidente). Fate i conti: 4 euro circa ad ora. La dignità e l’orgoglio imporrebbe a questo punto rendersi conto che è inutile alimentare una guerra tra poveri e favorire il clientelismo sostenuto dalle nomine, ma ribellarsi al fatto che ci hanno ridotto ad anelare quei 4 euro l’ora per una sola e misera giornata.»

CONCORSI TRUCCATI ED ESAMI DI STATO: LA GARA ALL’IMPUDENZA.

Quello che di seguito si racconta è il modo in cui, tra i tanti, si riuscirebbe a favorire qualcuno nei concorsi pubblici od esami di Stato e poi farla franca con l’aiuto di pubblici ministeri compiacenti, oppure come ci si sente talmente forti della propria impunità che si stravolgono procedure concorsuali anche avendo alti incarichi istituzionali.

Tutti sotto processo, perchè l’approfondimento in sede dibattimentale è necessario per fare piena luce sull’ormai noto caso della nomina del segretario generale della Camera di Commercio. E’ quanto deciso questa mattina 6 maggio 2014, in sede di udienza preliminare, dal gup del tribunale di Taranto, dottoressa Valeria Ingenito, scrive “La Voce di Manduria”. Ad essere rinviati a giudizio, con prima udienza fissata per il 7 luglio prossimo, il presidente della Camera di Commercio Luigi Sportelli e gli altri componenti della commissione esaminatrice – il vicepresidente CdC, Leonardo Giangrande, i consiglieri Paolo Nigro e Riccardo Caracuta, il rappresentante di Unioncamere Ugo Girardi – ed il dirigente delle cancellerie del tribunale Tommaso Valentino, designato quale vincitore. Era il 5 settembre 2011, la prova orale venne sostenuta da Valentino a luglio. La delibera però fu però poi revocata in autotutela: da qui la contestazione di reato tentato e non consumato. La “sovrabbondante valutazione dei titoli” posseduti da Valentino è alla base del presunto abuso d’ufficio. Come detti, il caso è quello del concorso per il nuovo segretario generale della Camera di Commercio, aperta dal sostituto procuratore Remo Epifani a seguito dell’esposto presentato dall’ex commissario dell’ente, Roberto Falcone. Un caso complesso, che aveva anche fatto registrare un ricorso al al Tar da parte del candidato risultato vincitore, vale a dire proprio Tommaso Valentino, che non ha mai rivestito l’incarico. La sua nomina fu annullata con provvedimento di autotutela dell’Ente camerale, dopo l’esposto presentato dal consigliere Falcone.

Concorso pilotato alla Camera di Commercio? Sarà un processo a stabilirlo, scrive invece Mimmo mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il giudice per l’udienza preliminare Valeria Ingenito, accogliendo la richiesta formulata dal sostituto procuratore Remo Epifani, ha rinviato a giudizio il presidente della Camera di commercio Luigi Sportelli, l’allora suo vice Leonardo Giangrande, i consiglieri Riccardo Caracuta e Paolo Nigro, il rappresentante di Unioncamere Ugo Girardi e il dirigente del tribunale di Taranto Tommaso Valentino, coinvolti nell’inchiesta sul concorso sospetto da segretario generale dell’ente. La decisione è stata assunta dopo la formulazione da parte del pm Epifani del capo di imputazione, così come ordinato dal gup con proprio ordinanza lo scorso 10 aprile. I sei imputati saranno giudicati dal tribunale di Taranto a partire dal prossimo 7 luglio per tentato abuso d’ufficio. Secondo l’accusa, Sportelli-Giangrande-Caracuta-Nigro-Girardi, nella qualità di componenti della commissione esaminatrice per la selezione del segretario generale della Camera di Commercio, avrebbero favorito il candidato Tommaso Valentino, attribuendo un voto alla sua laurea superiore a quello attribuito ad un candidato che aveva riportato un voto di laurea superiore e identico a quello di un altro candidato che pure aveva ottenuto un voto di laurea superiore a quello conseguito da Valentino, consentendo così a Valentino di accedere alla successiva fase del colloquio al cui esito veniva attribuito il punteggio più elevato con collocazione al primo posto della graduatoria. La procedura poi si bloccò perché a seguito dei rilievi formulati dal responsabile del procedimento, la giunta camerale nella seduta del 7 ottobre 2011 annullò in autotutela tutti gli atti sino ad allora adottati. L’inchiesta è nata da una denuncia presentata dall’ex commissario della Camera di Commercio Roberto Falcone. In un primo momento, il pubblico ministero Remo Epifani chiese al giudice per le indagini preliminari Martino Rosati di archiviare il procedimento, ritenendo che quanto segnalato da Falcone riguardo la presenza di irregolarità nelle procedure di selezione per l’incarico di segretario generale della Camera di Commercio non era meritevole di approfondimento investigativo ma al limite di ricorso al competente giudice amministrativo. Falcone tramite l’avvocato Ludovica Coda si oppose alla richiesta del pm Epifani, fornendo al gip elementi tali da ordinare alla pubblica accusa di svolgere tutti gli accertamenti del caso. Il gip Rosati aveva ritenuto, infatti, che nel caso in specie, «a fronte di specifiche circostanze di fatto, seppure in parte rappresentate sulla base di notizie generiche e da fonti anonime, non è stata operata alcuna verifica, sebbene delle circostanze, allo stato in astratto, potrebbero essere rivelatrici di comportamenti suscettibili di rilevanza penale».

E poi......

Università, i pizzini dei baroni: "Sono il padrone dei concorsi". Le intercettazioni dei prof sotto indagine a Bari. L'ex garante della privacy raccomandava il figlio. Indagata anche l'ex ministro Anna Maria Bernini, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”.  La procura di Bari ha chiuso il primo filone dell'inchiesta sul malaffare del sistema universitario italiano: 38 indagati, due associazioni a delinquere. A essere mercanteggiati sono i posti da professori negli atenei, i mercanti sono i baroni. L'hanno chiamata "Do ut des", perché "la sostanza di quest'indagine complessa è tutta in quella locuzione latina: io do affinché tu dia". A essere mercanteggiati sono i posti da professori ordinari e associati nelle università di tutta Italia. Mentre i mercanti sono i baroni e i mammasantissima del diritto costituzionale, canonico e pubblico comparato. La procura di Bari ha chiuso il primo filone dell'inchiesta sul malaffare del sistema universitario italiano. Trentotto indagati e due associazioni a delinquere: una con base Bari, l'altra a Milano, dove sono stati inviati gli atti per competenza. L'ex ministro Anna Maria Bernini e l'ex garante della privacy Francesco Pizzetti già iscritti nel registro degli indagati. E il filone sul diritto costituzionale  -  nel quale sono stati denunciati dalla Finanza cinque dei saggi scelti dal presidente Napolitano per le riforme costituzionali  -  al vaglio dei pm. Complessivamente sono una cinquantina i concorsi "il cui andamento ed esito finale  -  sostiene la Guardia di Finanza  -  nulla hanno avuto a che vedere col merito". Esiste, dicono gli inquirenti, "una rete criminale tra i più autorevoli docenti ordinari che hanno consentito sistematicamente il prevalere della logica del favore su quella del merito e della giustizia. In sostanza i concorsi universitari sono stati celebrati, discussi e decisi molto prima del loro espletamento". "Era il barone, era il capo di tutti". Così veniva definito dai colleghi il professor Giorgio Lombardi. Insieme con il collega Giuseppe Ferrari era l'uomo che aveva in mano il diritto pubblico comparato in Italia. E si era impegnato perché Anna Maria Bernini, ex ministro di Forza Italia, vincesse un concorso. Lombardi poi si ammala, tanto da spegnersi durante l'indagine: "Io se non avessi avuto questo accidente  -  si sfoga con un collega  -  ero il padrone di tutti i concorsi. A me interessano due risultati e ne chiedo uno solo: la Bernini! Perché quando uno prende un impegno lo mantiene, io sono abituato a fare così". Le pressioni per la Bernini sono molte. Lo ammette lo stesso Ferrari. "Lo so, però ho bisogno che gli parli dieci minuti... perché io non ce la faccio più guarda, tra De Vergottini, Amato (ndr, Giuliano) e Morbidelli per la Bernini. Pizzetti te lo raccomando lui e la famiglia... non ce la faccio più". Con Lombardi che si ammala il potere è nelle mani di Ferrari. È lui stesso in un'intercettazione a spiegare quello che la Finanza definisce il "potere ventennale dell'aristocrazia ferrariana". "Quello che cercavamo di praticare era un metodo che è stato concepito in un momento in cui Lombardi pigliava tutto. C'era una specie di aristocrazia nel senso aristotelico, cioè i migliori che si accordano nell'interesse della corporazione!". La Finanza fa un conto: 18 dei 32 concorsi banditi tra ordinari e associati sono "espressione di una maggioranza di chiara appartenenza alla corporazione di matrice ferrariana, a riprova dell'esistenza di un sistema basato essenzialmente sul dato dell'appartenenza a una corrente accademica". Tra gli atti intercettati c'è una mail del professor Ferrari dalla quale si evince un'intesa tra il docente bocconiano e il collega Luis Eduardo Rozo Acuna. "Carissimo, consegno un'umile richiesta al pizzino telematico" e via un elenco di richieste. "Scusa per la sintesi brutale, ma meglio essere franchi... A buon rendere. Grazie". Tra gli indagati c'è anche l'ex garante della privacy, che secondo gli investigatori fa pressioni per far vincere un concorso al figlio come evidentemente gli aveva promesso Lombardi. "Lui  -  dice al telefono con Ferrari, in riferimento a un altro professore  -  dice che gli farebbe piacere che appunto il desiderio di Lombardi si realizzasse ". Ferrari: "Stai tranquillo". Pizzetti: "È un secolo che ci conosciamo, sappiamo anche comunque quando ci siamo presi degli impegni reciproci non li abbiamo mai fatti mancare". Sono decine le telefonate di Pizzetti, che viene definito dagli investigatori "astuto e "infaticabile". "Volevo dirti che ho visto Augusto (ndr, Barbera) - dice Pizzetti a Ferrari - e anche lui una mano su Gambino potrebbe darla". E poi: "Se ti serve possono parlare anche io a padre Paolo (padre Paolo Scarafoni, ex rettore dell'Università europea di Roma, indagato, ndr)". Il concorso alla fine salterà.

Concorsopoli. I baroni regnano sull'università. Raccomandazioni, scambi di favori, meriti negati, titoli ignorati. Il concorsone per scegliere i professori 
è sommerso di ricorsi. Il consiglio di stato ha accolto le proteste di un bocciato e potrebbe annullare l’intera tornata di nomine. Ecco come naufragano gli atenei italiani, scrive Emiliano Fittipaldi su "L'Espresso". "Ah porci!", esclamò Perpetua. "Ah baroni!", esclamò don Abbondio». I lanzichenecchi che distrussero la Lombardia nel 1630 Alessandro Manzoni li chiama proprio così, «baroni». Dal latino "baro - baronis", termine che, dice la Treccani, indicava "il briccone, il farabutto, il furfante". I mammasantissima delle nostre facoltà non hanno portato la peste come i soldati tedeschi che assediarono Mantova, ma di certo il loro dominio incontrastato ha contribuito a devastare L'università italiana. Dove, al netto delle eccellenze e dei tanti onesti, è sempre più diffuso il morbo del familismo, della raccomandazione e del corporativismo, a scapito del merito, delle capacità dei più bravi, della fatica dei volenterosi. Per i baroni la strada maestra per mantenere il potere e gestire il reclutamento è, ovviamente, quella di controllare i concorsi. Come dimostra l'inchiesta "Do ut des" della procura di Bari, che sta indagando per associazione a delinquere decine di professori di diritto costituzionale: «Carissimo, consegno un'umile richiesta al pizzino telematico. Ti chiederei il voto per me a Roma... sono poi interessato a due concorsi di fascia due, d'intesa con Giorgio che ha altri interessi. Scusa per la sintesi brutale, ma meglio essere franchi. A buon rendere. Grazie», si legge in una mail che il bocconiano Giuseppe Franco Ferrari ha mandato qualche anno fa a un collega, missiva ora al vaglio della Guardia di Finanza. La riforma Gelmini varata nel 2010 doveva mettere fine agli scandali e modernizzare finalmente gli italici atenei, da tempo in coda a ogni classifica delle eccellenze europee. Ahinoi, non sembra essere andata come si sperava. La nuova abilitazione scientifica nazionale (che ha da poco chiuso la tornata del 2012: i promossi a professori di prima e seconda fascia sono quasi 24 mila, i bocciati circa 35 mila) è stata un flop colossale. Nonostante un costo stimato superiore ai 120 milioni di euro, il concorso ha generato proteste a catena, incredibili favoritismi, migliaia di ricorsi al Tar e - come risulta a "L'Espresso" - anche i primi esposti mandati alle procure. La lista di presunti abusi basta leggere le accuse che arrivano da ricercatori esclusi, docenti e persino premi Nobel - è impressionante: se in qualche caso sono stati promossi candidati che vantano solo dieci citazioni (in articoli e pubblicazioni varie) a discapito di altri che ne hanno oltre seicento, tre commissari di Storia medioevale avrebbero truccato i propri curriculum attribuendosi monografie mai scritte pur di far parte della "Giuria". A Storia economica, invece, sono stati esclusi specialisti apprezzati in tutto il mondo, ma privi evidentemente dei giusti agganci: un gruppo di dodici studiosi stranieri, tra cui un Nobel, hanno così spedito al ministro Stefania Giannini una lettera indignata in cui si dicono «inquietati» dall'esito delle selezioni. I casi sono decine: da archeologia a biochimica, da architettura a chirurgia, passando per storia economica e latino, quasi in ogni settore sono stati denunciati giudizi incoerenti e comportamenti al limite dell'etica. Che spesso nascondono, sussurrano i ricercatori frustrati, la volontà dei baroni di cooptare, al di là delle reali capacità dei singoli, i predestinati e gli "insider", cioè i candidati già strutturati nelle facoltà. Andiamo con ordine, partendo dal concorso di Diritto privato. L'abilitazione è finita sulle pagine di cronaca perché il commissario straniero (il membro Ocse è una delle novità più rilevanti della riforma) parlava solo spagnolo. Come abbia fatto Josè Miguel Embid a leggere e valutare i complessi tomi di diritto prodotti dai candidati è un mistero. "La conoscenza della lingua italiana", ha spiegato in una nota il ministero dell'Istruzione, "non è prevista dalla legge". I giudici del Consiglio di Stato si sono però fatti beffe delle giustificazione, hanno accolto un ricorso sul merito e sospeso tutto. Le stranezze non si contano. Se il commissario Maria Rosaria Rossi, ordinaria a Perugia, prima di essere sorteggiata componente della commissione aveva annunciato di voler sabotare la riforma Gelmini («a chi lavora nell'università spetta ora il compito di operare interstizialmente tra le pieghe della legge e oltre la legge stessa e sperimentare pratiche quotidiane di sabotaggio dell'ideologia che la sostiene», ha ragionato carbonara sul "Manifesto"), il ricercatore napoletano Andrea Lepore è stato promosso anche se il giudizio scritto, inizialmente, sembrava ipotizzare ben altro epilogo: «La qualità della produzione è limitata sotto il profilo dell'originalità e dell'innovatività, nonché per il rigore metodologico... Si rinvengono, tra l'altro, ampie frasi riprodotte alla lettera da lavori di altri autori precedentemente pubblicati». Andrea Lepore, in pratica, è accusato di essere un copione. Da promuovere, però, «all'unanimità». Francesco Gazzoni, professore della Sapienza e maestro indiscusso della materia (è suo il manuale di Diritto privato più venduto d'Italia), all'abilitazione nazionale ha dedicato un saggio, intitolato "Cooptazioni: ieri e oggi": «Il potere accademico è una vera e propria piovra mafiosa», si leggeva sulla rivista online "Judicium" prima che l'articolo fosse repentinamente rimosso. «Cooptare, in sé, non è un male, lo diventa quando la scelta avviene, come sempre avviene, in base a criteri che prescindono dal merito... I professori di università sono novelli Caligola, con in più il fatto di promuovere, all'occorrenza, anche asini patentati in difetto di cavalli». Il luminare fa nomi e cognomi, e se la prende con l'intera commissione di Diritto privato «inidonea a giudicare, essendo priva di autoritas sul piano scientifico». I più bravi, in sintesi, sarebbero stati bocciati perché «non avevano un'adeguata protezione accademica e perché non tutti i commissari erano in grado di leggere e capire i loro titoli». Forse il professore esagera, ma di certo qualche candidato di Diritto privato è stato più fortunato di altri. Come l'avvocato Claudia Irti, che ha scoperto che il presidente della commissione, Salvatore Patti, era stato suo tutor alla tesi di dottorato. Un conflitto di interesse non da poco per il docente, tanto più che è la Irti in persona a rispondere al telefono della sede milanese dello studio Patti: «Sì, sono stata promossa, ma ci tengo a dirle che io non lavoro per il professore. Perché rispondo al telefono del suo studio? È una situazione particolare, a Milano presidio la sede, ma faccio solo da rappresentanza. Il professore si sarebbe dovuto astenere dal giudicarmi? Significa che tutte le persone che collaborano con i membri della commissione non avrebbero dovuto presentare domanda al concorso. Le assicuro che sono tante». È il sistema, dunque, a permettere che possa accadere di tutto: se Patti, oltre alla Irti, ha potuto valutare i titoli di tre magistrati di Cassazione che potenzialmente possono essere giudici delle sue cause (tutti abilitati), il collega Francesco Prosperi dell'Università di Macerata ha promosso a ordinario il giovane Tommaso Febbrajo, un tempo suo allievo, e figlio dell'ex rettore dell'ateneo dove lo stesso Prosperi insegna. Non è un caso che il concorso di diritto privato conti già un centinaio di ricorsi al Tar. Un professore associato dell'università di Tor Vergata, Giovanni Bruno, ha già avuto soddisfazione dal Consiglio di Stato. I magistrati hanno accolto alcune censure decisive, tanto che qualcuno ipotizza che l'intero svolgimento dell’abilitazione nazionale sia a rischio: il regolamento ministeriale pubblicato nel 2011 sarebbe illegittimo, perché avrebbe dato alle commissioni un eccesso di discrezionalità nella valutazione dei candidati. Bruno ha pure mandato un esposto alla procura di Roma, accusando Prosperi di non aver partecipato a una delle riunioni in cui si definivano i giudizi: a leggere un programma accademico dell’Università di Macerata, risulta che il 29 novembre 2013 il sociologo abbia partecipato (almeno fino alle 13) a un convegno nelle Marche. Anche un altro candidato trombato, l'avvocato Giuseppe Palazzolo, ha mandato una denuncia ai pm (stavolta a Napoli) in cui chiede il sequestro della piattaforma elettronica usata dai membri della commissione. Già, alcuni candidati avrebbero voluto controllare se i loro giudici hanno davvero letto i loro titoli (mandati in formato elettronico) o abbiano promosso e bocciato alla cieca, senza nemmeno effettuare il download. Il ministero ha rigettato, però, tutte le richieste d'accesso ai tabulati. Nel 1898, in una cronaca del "Corriere della Sera", si raccontava che il ministro della Pubblica istruzione del governo Pelloux, Guido Baccelli, "impaurito e seccato dagli scandali occorsi nelle commissioni chiamate a giudicare pe' i concorrenti alle cattedre vacanti d'università, abbia in animo di abbandonare il sistema adottato quest'anno per l'elezione delle commissioni". Cos'era successo? "Qualche concorrente" spiegava il cronista "non aveva trovato miglior mezzo per riuscire, di domandare la mano di sposa alla figliola di un commissario: il matrimonio si combinava per il dopo concorso; il fidanzato, manco a dirlo, riusciva primo, e festeggiava in un giorno medesimo la cattedra e la moglie". Dopo centosedici anni e una quindicina di riforme, dopo gli scandali dell'ultimo ventennio (citiamo quelli che travolsero il concorso nazionale del 1993, le inchieste che hanno svelato le appartenenze militari alle cosiddette "scuole" e le tristi vicende dei concorsi locali, dove spesso e volentieri il candidato indigeno vince a mani basse), il legislatore sembra aver toppato anche stavolta. La legge 240, quella della riforma Gelmini, ha sì previsto dei parametri oggettivi che gli aspiranti avrebbero dovuto superare per passare l'esame (le cosiddette "mediane"), ma molti professori hanno deciso come sempre: di testa loro. In effetti gli studiosi della "Voce.info" hanno scoperto che per i concorrenti con un profilo scientifico più debole "la conoscenza di un membro della commissione ha migliorato significativamente le chance di successo". A parità di curriculum, per esempio, in Politica economica "gli insider hanno avuto il 14 per cento di probabilità in più" di passare rispetto a coloro che non frequentano gli atenei, una percentuale che sale al 23 per cento in Scienza delle finanze. Polemiche a go-go anche nella macroarea di Archeologia, dove un gruppo di accademici (tra cui Salvatore Settis, Fausto Zevi ed Ermanno Arslan) hanno scritto una lettera in cui prima attaccano «lo strumento mostruoso delle mediane, ridicolo artifizio blibliometrico che rinuncia alla qualità e fa discendere i giudizi delle quantità», poi se la prendono con i colleghi della commissione, che avrebbero aiutato le scuole più forti «privilegiando alcuni candidati, non sempre di evidente alta qualità, e danneggiato altri, con scelte valutative a dir poco opinabili». «I talenti sono stati bocciati, i "peggiori" sono stati sistematicamente promossi, anche a Latino» ha attaccato l'ordinario perugino Loriano Zurli. Un meccanismo che non solo è amorale ma anche anti-economico, dal momento che il rilancio dell'università e della ricerca sono fondamentali - secondo tutti gli esperti - per la crescita della ricchezza nazionale. Se il professore di Biochimica Andrea Bellelli definisce «una farsa» il concorso del suo settore e ricorda che «uno dei cinque commissari sorteggiati pare non avesse le mediane», un gruppo di prof e ricercatori dell'associazione Roars (presieduta da Francesco Sylos Labini) ha sottolineato alcune scellerate scelte dell'Anvur che ha considerato "scientifiche" ben 12.865 riviste tra cui spiccano "Alta Padovana" del Comune di Vigonza, "Delitti di carta" specializzata nella giallistica, "L'annuario del liceo di Rovereto", il mensile della parrocchia di San Domenico, "Cineforum" e "Stalle da latte". Ma è capitato di peggio. A Progettazione architettonica i commissari hanno fatto letteralmente a pezzi alcuni candidati pubblicando online giudizi (leggibili da tutti) in bilico tra ironia e insulto. Il professor Giuseppe Ciorra, ordinario all'università di Camerino, bocciando una ricercatrice a Torino scrive, letteralmente, che «la candidata non è scema, ha dimestichezza con la scena internazionale e rivela curiosità in tutte le direzioni... Incoraggiabile ma non recuperabile, temo». Il collega Benedetto Todaro ha definito una collega associata di Napoli, Emma Buondonno, una «candidata sconcertante, che si impegna volenterosamente in lavori completamente privi del necessario acume critico». Ciorra (che arriva a liquidare un esaminando con un definitivo «sparisca, per favore»), sembra assai più gentile quando si tratta di valutare candidati che conosce di persona. Quando è costretto a bocciare la sua ex dottoranda Rita Giovanna Elmo spiega che lo fa «con dolore umano», mentre non si fa specie nel promuovere (il suo sarà l'unico "sì") Anna Rita Emili, ricercatore in forza alla sua stessa università poi bocciata da tutti gli altri colleghi. La Emili si può consolare, è in ottima compagnia: la commissione ha fatto fuori i migliori progettisti italiani. Anche stavolta qualcuno si è lagnato con la Giannini: l'Associazione italiana di Architettura e critica «manifesta un totale dissenso contro qualsiasi atteggiamento sessista e maschilista della commissione d'esame volto a schernire le ricercatrici. Suggeriamo ai membri della commissione di mostrare anche più rispetto, in futuro, per la grammatica italiana». Il barone che sbaglia le congiunzioni, in effetti, è davvero troppo.

Il ministro Stefania Giannini: «Abolirò i concorsi universitari». «La riforma Gelmini ha fatto il suo tempo: bisogna cambiare le cose. Le singole università devono poter chiamare in totale autonomia chi vogliono». Ecco il piano della titolare del dicastero dell'Istruzione in un intervista di Emiliano Fittipaldi su "L'Espresso". Il ministro dell'Istruzione e dell'Università Stefania Giannini ha appena terminato il suo intervento al convegno della Cgil a Rimini. «Li ho quasi sorpassati a sinistra, e la cosa mi preoccupa», dice sorridendo a "L'Espresso". Il segretario di Scelta Civica la riforma Gelmini l'ha ereditata, e i risultati della nuova abilitazione scientifica nazionale la fanno ridere assai meno. «Cambierò tutto. Il sistema dell’abilitazione nazionale va trasformato, e i concorsi locali vanno aboliti tout court. Ogni università deve poter assumere i docenti che vuole. Chi assumerà parenti e ricercatori incapaci lo farà a proprio rischio e pericolo: gli atenei che produrranno poco subiranno ripercussioni economiche, gli taglieremo i fondi».

Farete un'altra riforma?

«No, ma cambieremo molte cose. I meccanismi di selezione dei nostri docenti negli ultimi vent’anni sono stati modificati ben quattro volte. Se le regole del gioco sono state corrette ad ogni lustro, i risultati sono sempre uguali: proteste, ricorsi al Tar, giudizi discutibili. Ricordo, però, che l'etica individuale e la correttezza comportamentale non si possono imporre per decreto: c'è un mondo universitario, da cui io provengo, che si deve interrogare nel profondo, in modo da evitare continui scandali e fare reclutamenti all'altezza». Sperare che i baroni si autoriformino sembra un’utopia, ministro. Voi che farete nel concreto? «Le regole dell'abilitazione nazionale sono troppo complicate, il marasma normativo ha lasciato spazio all'opacità e declinazione impropria del sistema. È questo il principale difetto della riforma Gelmini, bisogna semplificare l'impianto generale. Guarda caso sono arrivati già mille ricorsi. In futuro, per migliorare la qualità dei lavori delle commissioni e permettere carriere più rapide, dobbiamo evitare che le abilitazioni vengano fatte ogni quattro-cinque anni».

Con che cadenza saranno banditi i nuovi concorsi nazionali?

«Vorrei creare commissioni permanenti per le varie discipline. I blocchi, come si è visto, producono fiumane di candidati e decine di migliaia di domande, gli esami diventano difficili e poco controllabili. Alcune commissioni dovevano giudicare oltre mille persone, 15 mila i libri che ognuno dei cinque membri avrebbe dovuto leggere in pochi mesi. Un’enormità. In altri Paesi la valutazione continuativa esiste da decenni: anche in Italia bisogna passare dalle "tornate concorsuali" a giudizi "a sportello". Le commissioni, naturalmente, devono essere innovate dopo un certo periodo. Poi, dopo aver ottenuto l'abilitazione da parte della comunità scientifica di riferimento, il candidato potrà essere assunto».

Oggi nei concorso locale i baroni dettano legge. Vincono quasi sempre i candidati interni.

«Credo che i concorsi locali vadano aboliti per decreto. Sono convinta che le singole università debbano poter chiamare in totale autonomia chi vogliono, rispettando ovviamente standard internazionali. Bisogna che capacità, numero e importanza di pubblicazioni siano premianti. Spero che riuscirò a fare proposte concrete prima delle vacanze estive. Finora al governo ci stiamo muovendo velocemente: abbiamo iniziato le procedure per il concorso per la scuola 2015. Ci saranno 17 mila nuove assunzioni entro il 2016. Circa la metà saranno giovani, gli altri saranno presi dalle graduatorie. Ma già l’anno prossimo prenderemo altri 6-7 mila ragazzi, già idonei perché hanno superato il concorso, molto selettivo, istituito da mio predecessore Francesco Profumo».

Non c'è il rischio che con un'autonomia assoluta i dipartimenti assumano, ancor di più, chi vogliono a discapito del merito?

«Il sistema funzionerà solo se riusciremo a garantire la continuità e la trasparenza nelle abilitazioni nazionali (la seconda tornata non verrà modificata, la Giannini intende solo prorogarla fino a settembre, ndr). E, in secundis, se le università saranno sottoposte a un meccanismo di valutazione da parte del ministero e dell'Anvur, l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario. Se qualcuno decide di assumere al posto di uno scienziato capace un candidato meno bravo ma raccomandato, l'ateneo sarà duramente penalizzato sotto il profilo economico. A chi non raggiunge risultati sul profilo della ricerca e delle pubblicazioni, per dirla brutalmente, taglierò i soldi. Una cosa che non ha mai fatto mai nessuno. Gli strumenti normativi già esistono, ma finora non c'è stata la volontà politica di usarli».

Lei è stata a capo dell'Università degli Stranieri di Perugia, e la riforma Gelmini è stata applaudita anche dalla Conferenza dei rettori di cui lei faceva parte. Non usa mai, nelle interviste, il termine "baroni". È un caso o non vuole dispiacere i suoi colleghi?

«Non la uso volutamente. Ma non per paura di urtare la suscettibilità dei docenti. Semplicemente, io credo che le università abbiano le loro magagne, ma che la patologia non sia così diffusa come la descrive la stampa. Esistono casi come quello di Bari o le inchieste sulla Sapienza, ma la parte sana è ampiamente maggioritaria. Quello che considero davvero infausta è la mentalità tribale di molti professori, che spesso si pongono come primo obiettivo la conservazione e lo sviluppo della propria specie. Ogni settore scientifico tira acqua al suo mulino, e a volte capita che il reclutamento ne sia condizionato. Le raccomandazioni esistono, ma quello che va combattuto è innanzitutto il corporativismo. Bisogna abbandonare la logica tribale e abbracciarne una industriale».

In che senso?

«I dipartimenti devono lavorare per dare il meglio ai loro studenti, in modo da competere con altre realtà italiane e straniere. Dal rettore fino al ricercatore, tutti devono essere responsabilizzati. Le norme che voglio introdurre faranno sì che sarà molto più difficile che qualche barone assuma il figlio, la fidanzata o l'allievo asino. Sarà costretto, dalle leggi di mercato, a chiamare chi saprà dare lustro al gruppo di ricerca, chi permetterà di accedere ai finanziamenti. Se riusciremo a compiere questa rivoluzione, staneremo i professori che non pubblicano da 10 anni, quelli che cofirmano gli articoli ma non hanno più idee innovative. Alzeremo muri di vetro in una casa da sempre protetta dal cemento armato».

La «cupola» dei concorsi universitari non si fermava di fronte a nulla, scrive Giovanni Longo su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Anche quando, nella «spartizione» dei posti, sorgeva qualche intoppo tra i più grandi baroni italiani. La Guardia di finanza li ha intercettati per mesi, ed è convinta che esistesse un'associazione in grado di pilotare concorsi universitari. A tessere le fila con importanti addentellati anche a Bari, è l'ipotesi dei pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli il professor Giuseppe Ferrari, milanese: 18 dei 32 concorsi banditi tra ordinari e associati - annotano gli investigatori - sono «espressione di una maggioranza di chiara appartenenza o vicinanza alla corporazione di matrice ferrariana, ciò a riprova dell’esistenza di un sistema di valutazione di candidati basato essenzialmente sul dato dell’appartenenza a una corrente accademica». Nell'indagine, di cui adesso si occuperanno i magistrati di Milano cui la procura di Bari ha trasferito le carte per competenza territoriale, rientrano anche i baresi Aldo Loiodice e Gaetano Dammacco. La loro posizione, come quella del dirigente in pensione dell'Ateneo barese Innocenzo Santoro e di Angelo Colarusso, patron dell'università telematica Giustino Fortunato, resterà a Bari. La Procura di Milano vaglierà la posizione di altri docenti baresi: Isabella Loidice, figlia di Aldo, Luigi Volpe e Marina Calamo Specchia, tutti ordinari di diritto pubblico comparato. Aldo Loiodice, che secondo l'accusa avrebbe tentato di «orientare» il concorso per ricercatore in diritto internazionale dell'Università telematica Unisu di Roma verso sua figlia Isabella Loiodice, viene ascoltato al telefono mentre si sfoga con una commissaria, la professoressa D'Angeli. Dammacco, interessato a sistemare un proprio protetto, viene intercettato mentre parla con il collega Bordonali di Palermo. «Questi della telematica sono inesperti e deficienti, mentre stavano facendo il decreto per bandire il concorso e nominarti membro interno, questi della telematica milanese si sono accorti che la materia non ce l'avevano. Allora sono ritornato a bomba perché io un posto lo devo per forza avere, comunque lo devo avere. E devi essere nominato tu membro interno. Allora è molto probabile che riusciamo a farla con la telematica di Benevento, perché sono accadute tante cose, Loiodice non è più il rettore, il Rettore è Fantozzi». Nel mirino degli inquirenti, come ormai noto, sono finiti decine di concorsi da ricercatore, associato e ordinario relativi a diritto ecclesiastico, costituzionale e diritto pubblico comparato. Nelle intercettazioni finiscono le trattative per comporre le commissioni. Giorgio Lombardi, uno dei baroni (poi scomparso per una grave malattia), si rende ad esempio conto di aver perso gran parte del proprio potere, mentre si spende (a quanto pare invano) per l'ex ministro Anna Maria Bernini. «Io se non avessi avuto questo accidente - dice Lombardi al telefono - ero il padrone di tutti i concorsi. A me interessano due risultati e ne chiedo uno solo: la Bernini! Perché quando uno prende un impegno lo mantiene, io sono abituato a fare così».

Inchiesta sui "baroni" da Bari lo scandalo si allarga a tutt'Italia. Chiuso il filone pugliese, sono 38 i docenti indagati, scrive Flavia Amabile su "La Stampa". Pressioni, scambi, nomi eccellenti, telefonate su telefonate intercettate per favorire un candidato piuttosto che un altro, un sistema collaudato di spartizione di posti da docenti ordinari e associati in tutta Italia. C'è tutto questo nell'inchiesta partita nel 2008 e condotta dalla procura di Bari. Il primo filone di indagini si è chiuso, gli atti sono stati inviati pochi giorni fa per competenza a Milano. Cinquanta concorsi all’esame degli inquirenti, più della metà degli esami - 18 su 32 - sotto accusa, 38 docenti finiti nel mirino. Nel registro degli indagati figurano nomi di peso come la senatrice di Forza Italia ed ex ministra per le Politiche Europee, Anna Maria Bernini, associata di diritto pubblico a Bologna, e Francesco Pizzetti, all’epoca dei fatti presidente dell'Ufficio del garante della Privacy e ordinario di diritto pubblico a Torino. Diversi i capi d'accusa: dall'associazione a delinquere, alla corruzione, fino alla truffa aggravata e al falso. Dalle indagini emerge un sistema consolidato che decideva le assunzioni in tutt'Italia in base alla corrente accademica di appartenenza. Alla faccia del merito e della trasparenza. Per il mondo dei ricercatori e dei tanti che hanno tentato di entrare nelle università italiane non è una sorpresa. Luigi Maiorano, presidente dell'Apri, l'associazione dei precari della ricerca, è categorico: «Nella nostra esperienza il sistema è una cupola che coinvolge tutti i concorsi, sia quelli per ordinari che quelli per associati o per ricercatori. Si bandisce un concorso solo quando esiste già un vincitore, una persona da sistemare, non in base alle esigenze della ricerca o della didattica. E la persona designata è sempre interna al sistema. Per noi, infatti, andare all'estero significa uscire dal sistema e perdere ogni possibilità di rientrare». Lui, infatti, è laureato in Scienze Naturali, ma ha anche un titolo di dottore di Ricerca in Natural Resources, ottenuto negli Stati Uniti, cinque borse di studio semestrali per meriti scolastici presso l'University of Idaho (Usa), un incarico di ricercatore postdottorato all'Università di Losanna ma quando è dovuto rientrare in Italia per motivi familiari si è visto chiudere un bel po' di porte davanti. Oggi è assegnista alla Sapienza, ma nemmeno con i bandi Montalcini o i bandi Sir in cui le università hanno quasi soltanto vantaggi e nessun costo si riesce a sfondare le barriere costruite intorno agli atenei: «La riposta più gentile che si ottiene è "Non rompere l'anima alle file locali"». Quattro anni fa un ricercatore si era divertito a costruire un sito di previsioni un po' particolari. Si chiama «Pronostica il ricercatore», annunciava i concorsi, ma anche i vincitori. Su 134 pronostici ne ha indovinati 110. Un po' inquietante, no? «Il sistema funziona attraverso reti - continua Luigi Maiorano -. Quando il posto da assegnare è di alto livello come nel caso degli ordinari, la rete diventa nazionale. Se invece si tratta di sistemare dei ricercatori ci si muove a livello locale ma comunque attraverso una rete che sceglie il suo candidato». L'Adi, associazione dei dottorandi e dottori di ricerca italiani, nel 2013 ha pubblicato un'analisi da cui emerge che il 93% di chi ha ottenuto un assegno di ricerca non continuerà a fare ricerca nell'università. Alessio Rotisciani, portavoce dell'associazione: «La difficoltà che si incontra nell'ottenere una stabilizzazione rende anche più stridente il contrasto con i processi seguiti durante alcuni concorsi. Quello che emerge è che anche di fronte a nuove norme, come è avvenuto con la riforma Gelmini, il sistema riesce sempre ad innescare processi adattativi che permettono di plasmare le regole in base ai propri interessi. Per questo chiediamo che siano ridisegnate le regole coinvolgendo tutti i soggetti senza calare le norme dall'alto e senza demonizzazioni come è avvenuto nel 2008 introducendo solo una stagione di tagli e demolizione dell'università».

CONCORSO TRUCCATO ALLE ASL.

Scandalo sanità in Basilicata, arrestato governatore Pittella: "Dobbiamo accontentare tutti". Operazione della Guardia di Finanza su nomine e concorsi nel sistema sanitario lucano: ordinanze nei confronti di una trentina di persone. Il presidente della Regione ai domiciliari per falso e abuso d'ufficio. Il gip: "Deus ex machina della distorsione istituzionale", scrive Leo Amato il 6 luglio 2018 su "La Repubblica". È un vero e proprio terremoto quello che si è abbattuto sulla Regione Basilicata. C'è anche il governatore Marcello Pittella (Pd), infatti, tra i destinatari dell'ordinanza di misure cautelare eseguita questa mattina dagli agenti della Guardia di finanza di Matera. L'inchiesta riguarda nomine e concorsi nella sanità lucana. Per Pittella il gip della città dei Sassi ha disposto gli arresti domiciliari. In carcere, invece, è finito il commissario straordinario dell'Azienda sanitaria provinciale di Matera, Pietro Quinto, che attraverso il suo legale, Vincenzo Montagna, ha già annunciato le dimissioni dall'incarico. In carcere anche il direttore amministrativo dell'Asm Maria Benedetto. Ai domiciliari il commissario straordinario dell'Azienda sanitaria di Potenza, Giovanni Chiarelli, il direttore amministrativo dell'Azienda ospedaliera regionale San Carlo di Potenza, Maddalena Berardi, e un dirigente del Centro oncologico regionale della Basilicata di Rionero, Gianvito Amendola. Nella stessa inchiesta ai domiciliari anche il direttore generale della Asl di Bari, Vito Montanaro. In tutto le misure cautelari eseguite sono una trentina.

IL PROCURATORE: "SCAMBIO RECIPROCO TRA POTERI APICALI". Il sistema sanitario lucano è stato piegato a "interessi privatistici e logiche clientelari". È quanto ha sostenuto il procuratore capo di Matera, Pietro Argentino, commentando l'inchiesta della Guardia di finanza. Argentino ha parlato di concorsi pilotati col "taroccamento" dei punteggi e la distruzione dei verbali con i voti reali ottenuti dai "raccomandati". Il gip Rosa Nettis, che ha accolto la richiesta di misure cautelari avanzata dal pm Salvatore Colella, parla di "un sistema di corruzione e di asservimento della funzione pubblica a interessi di parte di singoli malversatori, su sollecitazione di una moltitudine di questuanti espressione (...) di pubblici poteri apicali che si interfacciavano tra loro, in uno scambio reciproco di richieste illegittime e promesse o dazioni indebite".

IL GIP: "PITTELLA SUGGERIVA DI ACCONTENTARE TUTTI". Il giudice evidenzia un motivo di fondo dietro tutte le condotte contestate: "la politica nella sua sempre più fraintesa accezione negativa e distorta, non più a servizio della realizzazione del bene collettivo ma a soddisfacimento dei propri bisogni di locupletazione e di sciacallaggio di potere e condizionamento sociale". Pittella è accusato di abuso d'ufficio e concorso in falso e sarebbe stato il "deus ex machina di questa distorsione istituzionale nella sanità lucana", in cui le assunzioni sarebbero servite ad alimentare "il consenso elettorale" e come merce di scambio per "politici di pari schieramento che governano regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania". Inoltre, nell'ordinanza di custodia cautelare, il gip scrive anche che, relativamente a un concorso del 2015 "il cui esito ha vacillato fino alla fine", tutto è stato poi "sopito con la mediazione del governatore Pittella, che avrebbe suggerito... di accontentare tutti". In questo senso andrebbe inteso il ruolo del direttore generale dell'Asl di Bari Vito Montanaro, finito a sua volta agli arresti domiciliari, che si sarebbe attivato per favorire un paio dei concorrenti ad alcune delle selezioni finite sotto indagine, 4 in tutto: in particolare l'attuale responsabile dell'anticorruzione della stessa Asl di Bari, Luigi Fruscio. Dalla Campania, invece, arriva la vincitrice del concorso per un posto da dirigente amministrativo al Centro oncologico regionale di Basilicata, Lucia Esposito (non indagata), prima di non eletti in Senato del Pd nel 2013, ma entrata lo stesso a Palazzo Madama a settembre dell'anno scorso per l'ultimo scampolo della scorsa legislatura.

SPUNTA ANCHE IL VESCOVO DI MATERA (NON INDAGATO). Tra gli altri sponsor, che non risultano indagati, gli inquirenti hanno individuato l'ex viceministro degli interni Filippo Bubbico (Leu). Mentre il vescovo di Matera Antonio Caiazzo, il deputato nonché ex sottosegretario lucano alla Salute Vito De Filippo (Pd), il deputato barese Gaetano Piepoli (Cd), e il questore di Matera, Paolo Sirna (tutti non indagati) avrebbero sollecitato il commissario straordinario dell'Azienda sanitaria della città dei Sassi, Pietro Quinto, a intercedere su altre vicende, come l'assunzione del figlio di Piepoli alla Fondazione Matera 2019 (mai avvenuta perché secondo il gip gli indagati avrebbero saputo dell'inchiesta). Quinto, per cui è stata disposta la custodia cautelare in carcere, è accusato anche di corruzione per aver affidato una serie di incarichi legali al professore di diritto amministrativo dell'Università di Bari, Agostino Meale, in cambio della sua disponibilità come relatore della tesi di laurea del figlio e dell'impegno per assicurargli un dottorato di ricerca.

Scandalo sanità a Matera, tra i 30 arrestati anche il direttore generale della Asl di Bari, Montanaro. Il direttore generale della Asl Bari, Vito Montanaro. Il manager è coinvolto in una maxi-inchiesta della procura di Matera su appalti truccati nella sanita, insieme al responsabile dell'Anticorruzione dell'Asl, Luigi Fruscio. Domiciliari anche per il professor Agostino Meale, scrive Chiara Spagnolo il 6 luglio 2018 su "La Repubblica". Finisce agli arresti domiciliari il direttore generale dell'Asl di Bari, Vito Montanaro, coinvolto in una maxi-inchiesta su appalti truccati nella sanita, partita dalla Procura di Matera e che ha fatto finire ai domiciliari anche il governatore lucano Marcello Pittella del Pd. Nel filone barese dell'indagine è coinvolto anche il responsabile dell'Anticorruzione dell'Azienda sanitaria del capoluogo pugliese, il barlettano Luigi Fruscio, anch'egli agli arresti domiciliari. L'inchiesta, coordinata dal procuratore capo di Matera, Pietro Argentino, e condotta dal pm Salvatore Colella, ha portato all'emissione di 30 provvedimenti cautelari: 2 ordinanze di custodia cautelare in carcere, 20 agli arresti domiciliari e 8 obblighi di dimora. Abuso d’ufficio, falso ideologico per soppressione, truffa aggravata, turbata libertà degli incanti e corruzione le accuse contestate all'esito degli accertamenti della guardia di finanza. Montanaro e Fruscio sono coinvolti nell'indagine a causa di un presunto abuso d'ufficio, che si sarebbe consumato proprio per l'assunzione a tempo indeterminato del responsabile dell'Anticorruzione, inserito in una graduatoria, che sarebbe stata fatta scorrere in maniera poco trasparente. Montanaro attualmente è commissario dell'Asl di Bari, in attesa di essere riconfermato direttore generale nell'ambito delle nuove nomine che la Regione dovrà effettuare per tutte le aziende sanitarie pugliesi. La riconferma di Montanaro per Bari era data come quasi certa. Ai domiciliari è finito anche Agostino Meale, professore ordinario di diritto amministrativo dell'Università di Bari con l'accusa di corruzione in concorso con il dg della Azienda sanitaria di Matera, Pietro Quinto, per aver ottenuto incarichi di consulenza e assistenza legale in cambio della disponibilità ad agevolare la carriera universitaria e professionale del figlio di Quinto, studente a Bari. In particolare, Meale avrebbe accettato di fare da relatore della tesi di laurea del figlio di Quinto, studente a Bari, lo avrebbe poi indirizzato per la pratica forense presso un avvocato amico e, infine, avrebbe dato la sua disponibilità a supportarlo nel dottorato di ricerca presso la propria cattedra. Dal dg Quinto avrebbe in cambio ottenuto, fra giugno 2017 e gennaio 2018, incarichi per complessivi 57 mila euro circa in qualità di legale di volta in volta della ASM, della ASP e della Asl di Bari, in sette diversi procedimenti dinanzi ai Tribunali amministrativi di Matera, Potenza e Bari.

Sanità Basilicata, arrestato governatore Pittella (Pd): “Influenza le scelte. Se si ricandida, pericolo che ricommetta reati”. Il presidente della Regione ai domiciliari con l'accusa di concorso in falso e abuso d'ufficio in un'inchiesta su raccomandazioni nelle nomine e manipolazione di concorsi. Altre 29 persone ai vertici del sistema sanitario lucano sono state raggiunte da misure restrittive perché accusate "a vario titolo di reati contro la Pubblica amministrazione", scrive il 6 luglio 2018 "Il Fatto Quotidiano". Un’inchiesta su manipolazione di concorsi e raccomandazioni nelle nomine ai vertici della sanità lucana arrivata fino al presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella (Pd), agli arresti domiciliari con l’accusa di concorso in falso e abuso d’ufficio. È lui il “deus ex machina di questa distorsione istituzionale”, scrive il gip di Matera Angela Rosa Nettis nell’ordinanza di custodia cautelare. È Marcello Pittella “che influenza le scelte gestionali delle aziende sanitarie e ospedaliere interfacciandosi direttamente con i direttori generali che sono stati nominati con validità triennale dalla sua giunta”, si legge. E, volendosi ricandidare a governatore alle prossime regionali, scrive il gip, il pericolo di reiterazione dei reati è “quantomai attuale e concreto”, visto che “ciò fa ritenere che continuerà a garantire i suoi favori e imporre i suoi ‘placet‘ ai suoi accoliti pur di consolidare il suo bacino clientelare, potendo contare su appoggi locali, in uno scambio di utilità vicendevoli”. Marcello, fratello del senatore ed ex eurodeputato del Pd Gianni Pittella, è agli arresti domiciliari nella sua casa di Lauria, in provincia di Potenza, come hanno confermato all’Ansa persone a lui vicine che hanno definito la sua posizione nella vicenda “surreale”. “Dobbiamo accontentare tutti”, diceva in un’intercettazione. Frasi che rivelano, secondo le indagini della Guardia di Finanza, come il presidente della Regione cercasse di gestire nomine e concorsi pubblici, per esempio gonfiando il punteggio ottenuto dai candidati, sostiene chi indaga. Gli accertamenti eseguiti dalla Procura e dalla Guardia di Finanza hanno evidenziato il “totale condizionamento della sanità pubblica da parte di interessi privatistici e da logiche clientelari politiche”, ha detto in conferenza stampa il Procuratore Pietro Argentino. Altre 29 misure restrittive sono state eseguite nei confronti dei vertici delle aziende sanitarie lucane e anche della Asl di Bari. In totale due arresti in carcere, 20 ai domiciliari e otto obblighi di dimora eseguiti da cento agenti delle Fiamme Gialle che riguardano persone coinvolte “a vario titolo in fatti riconducibili a reati contro la Pubblica amministrazione”. Sono 31 i capi di imputazione contenuti nell’ordinanza il gip, in cui si parla di un “sistema di corruzione e asservimento della funzione pubblica a interessi di parte”. L’inchiesta è iniziata un anno e mezzo fa dopo l’esposto di un ex dipendente della cooperativa “Croce verde Materana” che denunciava un tentativo di truffa all’Azienda sanitaria di Matera circa irregolarità contributive nell’ambito di un servizio di trasporto di persone infermi che sarebbe stato svolto da personale non assunto. Da questo episodio è partita l’inchiesta. Quinto “collettore” delle raccomandazioni di Pittella – Il commissario straordinario dell’Azienda sanitaria di Matera, Pietro Quinto (in precedenza direttore generale della stessa Asm) è “il collettore delle raccomandazioni che promanano” da Pittella. Così il procuratore Argentino, nella conferenza stampa sull’operazione, spiega i rapporti tra il governatore e Quinto, in carcere con le accuse di corruzione e turbata libertà degli incanti. Quinto è la figura chiave dell’inchiesta, per il gip figura di “indubbio potere”. Dal 29 maggio 2017, si legge nell’ordinanza, ha saputo di essere intercettato e gli inquirenti ritengono sia stato avvisato dal senatore Salvatore Margiotta che aveva appena incontrato. “Molto altro ancora si sarebbe appreso di tale malgoverno del potere e della funzione pubblica se non ci fossero state illecite ingerenze – si legge nell’ordinanza – Tuttavia due mesi di captazione sono bastati a disvelare le dinamiche interne di una sfrontata gestione di uno dei settori nevralgici della Pubblica amministrazione”. Quinto, da commissario della Asm, intrattiene – secondo gli inquirenti – “significativi rapporti con altre figure politiche e religiose di spicco”, spiega il pm Argentino. E in carcere è finita anche la direttrice amministrativa della stessa Asm, Maria Benedetto. “Nulla si muove senza il suo dictat” – La ratio che muove ed è al centro di questo sistema, scrive ancora il giudice Angela Rosa Nettis, è “sempre la stessa”: vale a dire “la politica nella sua sempre più fraintesa accezione negativa e distorta, non più a servizio della realizzazione del bene collettivo ma a soddisfacimento dei propri bisogni di locupletazione e di sciacallaggio di potere e condizionamento sociale”. E’ la politica infatti “che condiziona pesantemente” la gestione delle Asl lucane “ed in particolar modo le procedure selettive per assumere personale nella sanità”. E questo “non solo al fine di ampliare il consenso elettorale ma anche allo scopo di scambiare favorii a politici di pari schieramento che governano Regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania”. E se questo è il quadro, conclude il gip, il “deus ex machina di questa distorsione istituzionale” è proprio il governatore Pittella: “Nulla si muove senza il suo dictat“. 

“Concorsi truccati con precisione matematica” – Gli investigatori “si sono trovati in presenza di concorsi letteralmente truccati”, raccontare ancora il pm Argentino in conferenza stampa. In particolare per “quattro procedure concorsuali risultate ‘viziate’ perché caratterizzate da abusi d’ufficio, rivelazioni indebite di segreti d’ufficio e falsi in atti pubblici”. Un “taroccamento” dei punteggi, ha proseguito il procuratore, “condotto con precisione matematica”, con la “creazione di verbali ideologicamente falsi” e la “distruzione di verbali con i punteggi effettivamente conseguiti dai candidati ‘raccomandati‘, con la complicità dei componenti segretari”. Il pm Argentino ha aggiunto poi che si tratta di concorsi per un posto a tempo indeterminato da dirigente amministrativo, “vinto da tre persone, e non deve apparire come una stranezza – ha precisato – perché uno è il vincitore effettivo, e gli altri due sono anch’essi vincitori attraverso il sistema di scorrimento delle graduatorie e delle convenzioni fra Asl”. Poi altri concorsi per otto posti da assistente amministrativo, per un posto a tempo indeterminato a dirigente amministrativo nel Centro oncologico regionale della Basilicata di Rionero in Vulture, e per due posti a tempo indeterminato da dirigente medico di otorinolaringoiatria. Gli altri arresti tra Basilicata e Bari – Ai domiciliari invece il commissario straordinario dell’Azienda sanitaria di Potenza, Giovanni Chiarelli, il direttore amministrativo dell’Azienda ospedaliera regionale San Carlo di Potenza, Maddalena Berardi, e un dirigente del Corb di Rionero, Gianvito Amendola. Ci sono poi il direttore generale dell’Asl di Bari, Vito Montanaro, e il responsabile dell’anticorruzione della stessa Asl, l’avvocato Luigi Fruscio di Barletta, tra le trenta persone destinatarie di misure cautelari eseguite da “circa cento tra uomini e donne delle Fiamme Gialle”. A quanto apprende l’Ansa, ai due indagati pugliesi, entrambi agli arresti domiciliari, viene contestato un episodio di abuso d’ufficio legato ad un presunto concorso truccato alla Asl di Matera. C’è anche un professore ordinario dell’Università di Bari tra le persone arrestate. Si tratta dell’avvocato Agostino Meale, docente di diritto amministrativo. Meale, finito ai domiciliari, è accusato di corruzione in concorso con il dg della Asm Quinto, per aver ottenuto incarichi di consulenza e assistenza legale in cambio della disponibilità ad agevolare la carriera universitaria e professionale del figlio di Quinto, studente

Pittella e il secondo mandato: “Pericolo di reiterazione dei reati” – Nelle scorse settimane il Pd lucano aveva dato mandato a Pittella, fratello dell’senatore ed ex eurodeputato Gianni e governatore dal 2013, di correre per un secondo mandato in Regione alle elezioni per il rinnovo del parlamentino lucano, previste tra fine 2018 e inizio 2019. Per questo, scrive il gip, il pericolo di reiterazione dei reati è “quantomai attuale e concreto solo se si consideri che negli ultimi giorni ha manifestato la volontà di ricandidarsi come Governatore della Basilicata e ciò fa ritenere che continuerà a garantire i suoi favori e imporre i suoi ‘placet‘ ai suoi accoliti pur di consolidare il suo bacino clientelare, potendo contare su appoggi locali, in uno scambio di utilità vicendevoli”.

Basilicata, concorsi e gare truccate: 22 arresti. Ai domiciliari Pittella. Il gip: una talpa rivelò l'indagine. Tra gli arrestati anche i commissari delle uniche due aziende sanitarie lucane: Giovanni Chiarelli (Asp Potenza) è ai domiciliari; Pietro Quinto dell'Asm Matera è in carcere, così come il direttore amministrativo dell’Azienda sanitaria di Matera, Maria Benedetto. Il governatore Marcello Pittella ai domiciliari nell'ambito di una maxi inchiesta della procura di Matera. A Montanaro contestata assunzione responsabile Anticorruzione, l'avvocato Luigi Fruscio, scrive Massimiliano Scagliarini il 6 Luglio 2018 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella, è stato arrestato oggi dalla Guardia di Finanza nell'ambito di una maxi inchiesta della procura di Matera su concorsi e forniture nelle aziende sanitarie lucane. Pittella è agli arresti domiciliari nella sua casa di Lauria (Potenza). Coinvolto anche il direttore generale dell’Asl Bari, Vito Montanaro, e il responsabile dell'anticorruzione della stessa Asl, l'avvocato Luigi Fruscio.  Il presidente della Regione è accusato di falso e abuso d'ufficio per la gestione di un concorso da dirigente che sarebbe stato truccato per favorire Vito D’Alessandro, Alessandra D’Anzieri e Luigi Fruscio. In questa vicenda sarebbe intervenuto anche il commissario straordinario della Asl di Bari, Vito Montanaro, per favorire Fruscio con la commissione. Ai candidati - secondo l’accusa - sarebbero state fornite le tracce in anticipo. Il buon punteggio, «attribuito a tavolino», ritengono gli inquirenti, avrebbe consentito a Fruscio lo «scorrimento della graduatoria con assunzione presso altre aziende sanitarie locali». Ai due indagati si contestano i reati di abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio. Montanaro, infatti, avrebbe anche passato a Fruscio le tracce della prova, ricevute direttamente da Maria Benedetto, direttore amministrativo della ASM e presidente della commissione esaminatrice (Quinto e Benedetto sono in carcere). L'INCHIESTA - L'inchiesta, coordinata dal procuratore capo, Pietro Argentino, e condotta dal pm Colella, ha portato all'emissione di trenta misure restrittive, tra cui due custodie cautelari in carcere, venti arresti domiciliari e otto obblighi di dimora. Le accuse contestate, a vario titolo, sono abuso d’ufficio, falso ideologico per soppressione, truffa aggravata, turbata libertà degli incanti e corruzione. L’indagine nasce da una denuncia relativa a irregolarità per la convenzione con l'associazione Croce Verde Materana. Da qui sono partite le intercettazioni telefoniche e ambientali sui vertici della Asm di Matera.

LA PITTURAZIONE A CASA - Tra le persone arrestate e poste ai domiciliari ci sono anche i commissari delle uniche due aziende sanitarie lucane, Giovanni Chiarelli dell'Asp Potenza (ai domiciliari) e Pietro Quinto dell'Asm di Matera, in carcere, così come il direttore amministrativo dell’Asm, Maria Benedetto. Per Quinto, le accuse sono di corruzione e turbata libertà degli incanti. A Quinto è contestata la corruzione perché avrebbe ricevuto da un imprenditore, Gaetano Appio, la pitturazione interna del suo appartamento di Bari in cambio di presunti favori nel procedimento di accreditamento presso la Asm. Proprio Quinto, secondo il procuratore di Matera, Pietro Argentino, era «il collettore dei desiderata della politica e non solo per le raccomandazioni all’interno dei concorsi della sanità». «Gli investigatori si sono trovati davanti a quattro concorsi letteralmente truccati. In particolare, quello per concorso pubblico da un posto di dirigente amministrativo è stato vinto da tre persone, perché uno è vincitore effettivo e gli altri due lo sono di fatto per effetto dello scorrimento delle graduatorie».

L'ASSUNZIONE DEL DIRIGENTE ANTICORRUZIONE - Il filone che vede indagato il manager dell'Asl barese Montanaro (che attualmente era commissario dell'azienda sanitaria in attesa della definizione delle nuove nomine) riguarderebbe appunto l'assunzione del responsabile della stessa Anticorruzione dell'Asl Bari, il 40enne barlettano Luigi Fruscio (passato da tempo determinato a tempo indeterminato attraverso lo scorrimento della graduatoria ritenuto illegittimo). Fruscio ha prestato servizio come dirigente Asl a tempo determinato dal febbraio 2015 fino alla fine di agosto dello scorso anno.

SCAMBIO DI FAVORI - Tra gli arrestati anche un docente di diritto amministrativo dell’Università di Bari, Agostino Meale. È accusato di aver ottenuto incarichi legali da Quinto in cambio di agevolazioni alla carriera universitaria del figlio Giuseppe Quinto. In particolare, Meale avrebbe accettato di fare da relatore della tesi di laurea del figlio di Quinto, studente a Bari, lo avrebbe poi indirizzato per la pratica forense presso un avvocato amico e, infine, avrebbe dato la sua disponibilità a supportarlo nel dottorato di ricerca presso la propria cattedra. Dal dg Quinto avrebbe in cambio ottenuto, fra giugno 2017 e gennaio 2018, incarichi per complessivi 57 mila euro circa in qualità di legale di volta in volta della ASM, della ASP e della Asl di Bari, in sette diversi procedimenti dinanzi ai Tribunali amministrativi di Matera, Potenza e Bari.

«CONCORSI LETTERALMENTE TRUCCATI» - Gli investigatori «si sono trovati in presenza di concorsi letteralmente truccati», in particolare per «quattro procedure concorsuali risultate viziate perché caratterizzate da abusi d’ufficio, rivelazioni indebite di segreti d’ufficio e falsi in atti pubblici», ha spiegato il procuratore Argentino. Le indagini hanno permesso di appurare il «taroccamento» dei punteggi, ha proseguito il procuratore, «condotto con precisione matematica», con la «creazione di verbali ideologicamente falsi» e la «distruzione di verbali con i punteggi effettivamente conseguiti dai candidati raccomandati, con la complicità dei componenti segretari». Il procuratore ha aggiunto poi che si tratta di concorsi per un posto a tempo indeterminato da dirigente amministrativo, («vinto da tre persone, e non deve apparire come una stranezza - ha precisato Argentino - perché uno è il vincitore effettivo, e gli altri due sono anch’essi vincitori attraverso il sistema di scorrimento delle graduatorie e delle convenzioni fra Asl»), per otto posti da assistente amministrativo, per un posto a tempo indeterminato a dirigente amministrativo nel Crob di Rionero in Vulture (Potenza), e per due posti a tempo indeterminato da dirigente medico di otorinolaringoiatria.

NON È FINITA QUI - Ma l'inchiesta, con tutte le ramificazioni, non è finta qui. «L’indagine - ha detto il procuratore Argentino - va ancora completata».

II GIP: TALPA INDEGNA RIVELO' INDAGINE - Il commissario straordinario dell’Asm di Matera, Pietro Quinto, avrebbe scoperto a metà dello scorso anno di essere intercettato nell’ambito dell’inchiesta della Procura sulla sanità, perché «qualche indegna talpa istituzionale - precisa il gip nell’ordinanza - gli faceva rivelazioni sull'attività investigativa in corso». A maggio 2017, infatti, gli investigatori capiscono che Quinto ha ricevuto una «soffiata» sulle indagini: il suo atteggiamento, nelle successive telefonate e nelle conversazioni, cambia drasticamente atteggiamento. E fa lo stesso il direttore amministrativo dell’Asm Maria Benedetto, alla quale Quinto rivela quanto saputo. Quest’ultima, a sua volta, avrebbe imposto maggiori accortezze ai suoi collaboratori, aumentando il volume della radio nelle conversazioni, o uscendo sui terrazzi per parlare. Secondo il gip, «è stato possibile ricostruire nel dettaglio» che Quinto "ha appreso dal senatore Salvatore Margiotta» che non risulta indagato «di essere intercettato, e forse anche da qualche forza dell’ordine».

SALVINI: PRONTI A LIBERARE LA REGIONE - La lunga rincorsa verso le elezioni regionali del prossimo autunno era appena cominciata con l'indicazione del Pd per il «bis» di Marcello Pittella (ora agli arresti domiciliari nella sua Lauria): l’inchiesta sulla sanità che in Basilicata ha scatenato una bufera rimette però tutto in gioco nei dem e di conseguenza nel centrosinistra. E all’orizzonte apre una prospettiva di vittoria, fino a pochi mesi fa quasi impensabile, per il centrodestra (con la Lega di Salvini che si «prepara - afferma il suo leader - a liberare la Basilicata") e soprattutto per il Movimento cinque stelle, che chiede le dimissioni immediate del governatore e può sognare di piazzare la prima bandierina «gialla» su una Regione. «A prescindere dalle inchieste e dagli arresti delle scorse ore - ha detto Salvini - Lega e Centrodestra si preparano a liberare la Basilicata alle prossime elezioni regionali. Vogliamo "rimettere al centro gli interessi di tutti i Lucani - conclude - e non solo di pochi affaristi».

Gli arrestati. 

In carcere: Pietro Quinto e Maria Benedetto, commissario e direttore amministrativo dell’Azienda sanitaria di Matera.

Ai domiciliari: Il presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella (Pd), Agostino Meale, Vito Montanaro, Maddalena Berardi (direttore amministrativo dell’azienda ospedaliera San Carlo di Potenza), Anna Rita Di Taranto, Davide Falasca, Vito D’Alessandro, Alessandra D’Anzieri, Luigi Fruscio, Giovanni Chiarelli (commissario straordinario dell’Azienda sanitaria di Potenza), Gianvito Amendola, Carmine Capobianco, Grazia Maria Ciannella, Gennaro Larotonda, Domenico Petrone, Lorenzo Santandrea, Rosanna Grieco, Carmela Lascaro, Roberto Lascaro e Claudio Lascaro.

Obbligo di dimora: Graziantonio Lascaro, Cristoforo Di Cuia, Gaetano Appio, Michele Morelli, Francesco Mannarella, Roberta Fiorentino, Angela Capuano e Ferdinando Vaccaro.

Parla il procuratore della Repubblica di Matera Pietro Argentino: «I fatti dimostrano che i concorsi sono stati pilotati», scrive il 6 Luglio 2018 "la Gazzetta del Mezzogiorno". «Mi devo attenere ai fatti e i fatti dimostrano che per un certo periodo di tempo, alcuni concorsi sono stati pilotati». Così ha commentato lo scandalo che ha colpito la sanità lucana, a margine della conferenza stampa, il Procuratore della Repubblica di Matera, Pietro Argentino. «L'inchiesta prosegue - ha aggiunto argentino - e gli accertamenti eseguiti dalla Procura della Repubblica di Matera e dalla Guardia di Finanza hanno evidenziato il totale condizionamento della sanità pubblica da parte di interessi privatistici e da logiche clientelari politiche con il commissario dell’Azienda sanitaria di Matera, Pietro Quinto (in precedenza direttore generale della stessa Asm) a fare da collettore delle raccomandazioni che promanano dal presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella». «Il governatore Pittella risponde quindi a titolo di concorso». Durante la conferenza stampa i militari della guardia di finanza di Matera che hanno condotto le indagini hanno spiegato anche il motivo del nome dell'operazione L’hanno chiamata «Suggello», dal termine utilizzato in un’intercettazione della dirigente amministrativa Maria Benedetto, arrestata stamane insieme con il commissario dell’Azienda sanitaria materana, Pietro Quinto, ed altre 28 persone indagate ed ai domiciliari, tra cui il governatore Pittella, più 8 con obbligo di dimora. La scelta è ricaduta su questo nome - spiegano i finanzieri- perché la lista dei raccomandati, letta dalla Benedetto a Quinto, aveva il suggello del presidente Pittella».

Nomine e concorsi nella sanità: arrestato il governatore Pittella. Terremoto alla Regione Basilicata. Finisce ai domiciliari il presidente (Pd), in carica dal 2013. Con lui altri 29 in manette, scrive Sergio Rame, Venerdì 06/07/2018, su "Il Giornale". Terremoto giudiziario alla Regione Basilicata. Il governatore Marcello Pittella, esponente del Partito democratico in carica dal 2013, è finito agli arresti domiciliari. È, infatti, tra le persone coinvolte nella maxi inchiesta condotta dalla procura di Matera per questioni connesse a concorsi e nomine nella sanità lucana anche il direttore generale e la direttrice dell'azienda sanitaria di Matera. Per i trenta finiti in manette si configurano adesso una sfilza di reati contro la Pubblica amministrazione in Basilicata. Le accuse sono tutte pesantissime. Si va dall'buso d'ufficio al falso ideologico, dalla truffa aggravata alla corruzione. E coinvolge una trentina di esponenti di spicco della Regione Basilicata. Oltre al governatore, fratello dell'eurodeputato dem Gianni Pittella, sono finiti agli arresti anche il direttore generale dell'Asl di Bari, Vito Montanaro, e il responsabile dell'anticorruzione dell'Asl, Luigi Fruscio. "È la politica che condiziona pesantemente la gestione delle Aziende sanitarie lucane e in particolar modo le procedure selettive per assumere personale nella sanità", scrive il gip Angela Rosa Nettis secondo cui l'intero sistema era stato orchestrato non solo per "ampliare il consenso elettorale" ma anche "allo scopo di 'scambiare' favori ai politici di pari schieramento che governano Regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania". "Deus ex machina di questa distorsione istituzionale nella sanità lucana", secondo gli inquirenti, era proprio Pittella che non si limitava a "formulare gli atti di indirizzo politico per il miglioramento e l'efficienza della Sanità regionale" ma influenzava anche "le scelte gestionali delle Aziende sanitarie ed ospedaliere lucane interfacciandosi direttamente con i loro direttore generali i quali sono stati tutti nominati con delibere di giunta regionale nonchè con i successivi decreti del governatore". Fu grazie al direttore generale Asm Pietro Quinto (da oggi in carcere) che don Angelo Gallitelli, segretario del vescovo di Matera Antonio Giuseppe Caiazzo interessato a far ammettere la sorella Maria e un amico al percorso di formazione, a numero chiuso e per massimo 50 posti per il conseguimento della specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità nella scuola primari, riuscì a "trovare prontamente un'alternativa" a Pittella. Fu, infatti, messo in contatto con Vito De Filippo, all'epoca viceministro dell'Istruzione nel governo Gentiloni (e prima ancora con Matteo Renzi) e ora deputato del Pd. "Le richieste del prelato - si legge nell'ordinanza cautelare del gip di Matera - risulteranno esaudite perché la sorella di Gallitelli risulterà vincitrice del concorso, che era stato indetto dall'Università della Basilicata per l'anno accademico 2016/17". La circostanza rende molto bene l'idea di come Quinto fosse "il collettore delle raccomandazioni che promanano" da Pittella. Era infatti lui a "intrattenere significativi rapporti con altre figure politiche e religiose di spicco".

La rovinosa caduta del governatore Pittella. La maxi inchiesta della procura di Matera incastra il presidente della Regione Basilicata: Pittella finisce agli arresti domiciliari dopo 25 anni di politica, scrive Giorgia Baroncini, Venerdì 06/07/2018, su "Il Giornale". Il governatore della Regione Basilicata Marcello Pittella, figlio dell'ex senatore Domenico Pittella e fratello di Gianni, per anni capogruppo SD al Parlamento europeo e attuale senatore del Pd, è finito agli arresti domiciliari dopo la maxi inchiesta della procura di Matera.

La carriera in politica. Nato a Lauria (Potenza), Pittella diventa nel 1993 consigliere e assessore alle attività produttive e allo sport del paese natio per il Psi. Eletto nel consiglio della Provincia di Potenza, si dimette da assessore e diviene in seguito capogruppo dei Democratici di Sinistra.

Già presidente nel consiglio provinciale di Potenza nel 1999, due anni più tardi viene eletto sindaco di Lauria con il 66,57% dei voti validi. Il 31 maggio 2005, prima del termine naturale del mandato, lascia l'incarico di sindaco per candidarsi alle elezioni regionali in Basilicata del 2005 nella lista Uniti nell'Ulivo. Nel 2012 viene nominato assessore alle attività produttive nella rinnovata giunta presieduta da Vito De Filippo.

Presidente della Basilicata. Dopo le dimissioni di De Filippo a seguito delle indagini giudiziarie su diversi consiglieri e assessori accusati di peculato, Marcello Pittella, nonostante il suo coinvolgimento nella vicenda, diventa vicepresidente della Basilicata. Si candida alle primarie il 22 settembre e, battendo il presidente in carica della Provincia di Potenza Piero Lacorazza (Pd), Nicola Benedetto (Cd) e Miko Somma (Comunità lucana - Movimento no oil), diventa il candidato del centrosinistra per la presidenza alle elezioni regionali del 2013.

Nella tornata elettorale del 17 e 18 novembre 2013 è eletto presidente della Regione Basilicata con oltre 148 mila voti (59,6%). Nelle scorse settimane il Pd lucano aveva dato mandato a Pittella di correre per un secondo mandato in Regione alle elezioni per il rinnovo del parlamentino, previste al più tardi per l'inizio del 2019.

Sanità: operazione Gdf Matera, eseguite 30 misure. Pittella ai domiciliari, scrive il 6 luglio 2018 "Il Corriere del Giorno". Le indagini sono cominciate circa un anno e mezzo fa in seguito all’esposto di un dipendente di una ditta fornitrice di servizi che non aveva ricevuto la sua quota di Tfr. Maxi operazione della Guardia di Finanza in Basilicata. Gli accertamenti eseguiti dalla Procura della Repubblica di Matera e hanno evidenziato il “totale condizionamento della sanità pubblica da parte di interessi privatistici e da logiche clientelari politiche” che ha portato a 30 misure di cui 22 arresti, dei quali 2 in carcere e 20 ai domiciliari. L’inchiesta si basa sull’assunzione di una ventina di persone, “raccomandati dal presidente Pittella e da altre autorità civili e religiose” come è riportato negli atti, come il senatore ed vice ministro degli Interni, Filppo Bubbico ma anche alcuni vescovi. Gli indagati avevano fornito le tracce in anticipo in alcuni concorsi interni, favorendo alcuni candidati a danno di altri. I concorsi nelle Asl della Basilicata funzionavano così, come ha ricostruito la Guardia di Finanza: le graduatorie venivano realizzate parallelamente. Quelle “reali” e quelle, in rosso, con il bonus raccomandati. Le indagini sono cominciate circa un anno e mezzo fa in seguito all’esposto di un dipendente di una ditta fornitrice di servizi che non aveva ricevuto la sua quota di Tfr. Le misure restrittive sono state eseguite dalla Guardia di Finanza di Matera nell’ambito di un’operazione sul sistema sanitario in Basilicata nei confronti di persone coinvolte “a vario titolo in fatti riconducibili a reati contro la Pubblica amministrazione”. L’attività come comunicato dalla Guardia di Finanza “vede impegnati, allo stato, circa cento tra uomini e donne delle Fiamme Gialle”. Agli arresti domiciliari da questa mattina anche presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella (Pd) nella sua casa di Lauria (Potenza) per “falso e abuso d’ufficio”. Il provvedimento gli è stato notificato dalla Guardia di Finanza, nell’ambito dell’inchiesta su alcuni episodi di manipolazioni di concorsi e raccomandazioni nel sistema sanitario. Persone vicine al governatore hanno definito la sua posizione nella vicenda “surreale”. Secondo il Gip di Matera Angela Rosa Nettis nell’ordinanza d’arresto il governatore della Regione Basilicata Marcello Pittella  sarebbe il “deus ex machina’ della “distorsione istituzionale” nella sanità lucana, sottolineando che Pittella “non si limita ad espletare la funzione istituzionale formulando gli atti di indirizzo politico per il miglioramento e l’efficienza” della sanità regionale, “ma influenza anche le scelte gestionali delle Asl  interfacciandosi direttamente con i loro direttori generali” tutti da lui nominati. Tra le persone arrestate e poste ai domiciliari nell’ambito dell’inchiesta condotta dal pm Salvatore Colelladella Procura di Matera, compaiono anche i commissari delle uniche due aziende sanitarie lucane, Giovanni Chiarelli (Asp Potenza) e Pietro Quinto (Asm Matera) che deve rispondere delle accuse di corruzione e turbata libertà degli incanti. Ai domiciliari è stato posto anche il direttore amministrativo dell’Asm, Maria Benedetto, il direttore amministrativo dell’Azienda ospedaliera regionale San Carlo di Potenza, Maddalena Berardi, e un dirigente del Centro oncologico regionale della Basilicata di Rionero, Gianvito Amendola. Nell’ambito della stessa indagine, è stato posto agli arresti domiciliari anche Vito Montanaro direttore generale dell’Asl di Bari,  ed il responsabile dell’anticorruzione della stessa Asl, l’avvocato Luigi Fruscio di Barletta. Ai due indagati pugliesi, viene contestato un episodio di abuso d’ufficio legato ad un presunto concorso truccato alla Asl di Matera. Vito Montanaro, direttore generale dell’Asl di Bari, (a lato nella foto) sarebbe intervenuto, rivolgendosi al direttore generale della Asl materana Pietro Quinto, per agevolare il posizionamento “utile” in graduatoria di Luigi Fruscio, attualmente responsabile anticorruzione della Asl di Bari (anche lui ai domiciliari), nel concorso indetto nel giugno 2017 per un posto da dirigente alla ASM. Quinto è accusato anche di corruzione per aver affidato una serie di incarichi legali al professore di diritto amministrativo dell’Università di Bari, Agostino Meale, ottenendo in cambio la sua disponibilità come relatore della tesi di laurea del figlio e dell’impegno per assicurargli un dottorato di ricerca. Dalla Campania, invece, arriva la vincitrice del concorso per un posto da dirigente amministrativo al Centro oncologico regionale di Basilicata, Lucia Esposito (attualmente non indagata), prima di non eletti in Senato del Pd nel 2013, che era entrata lo stesso a Palazzo Madama a settembre dell’anno scorso per l’ultimo scampolo della scorsa legislatura. Il commissario dell’Azienda sanitaria di Matera, Pietro Quinto (in precedenza direttore generale della stessa Asm) secondo gli inquirenti è “il collettore delle raccomandazioni che promanano” dal presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella, ed intrattiene significativi rapporti con altre figure politiche e religiose di spicco”. Quinti attraverso il suo legale, Avv. Vincenzo Montagna, ha annunciato le proprie dimissioni dall’incarico ricoperto. Il buon punteggio, “attribuito a tavolino”, secondo gli inquirenti, avrebbe consentito al Fruscio lo “scorrimento della graduatoria con assunzione presso altre aziende sanitarie locali”. Ai due indagati baresi si contestano i reati di abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio. Il gip del tribunale di Matera, dr.ssa Rosa Nettis, che ha accolto la richiesta di misure cautelari avanzata dal pm Salvatore Colella, lo descrive nella sua ordinanza come “un sistema di corruzione e di asservimento della funzione pubblica a interessi di parte di singoli malversatori, su sollecitazione di una moltitudine di questuanti espressione (…) di pubblici poteri apicali che si interfacciavano tra loro, in uno scambio reciproco di richieste illegittime e promesse o dazioni indebite”. Il giudice mette in evidenza  “la politica nella sua sempre più fraintesa accezione negativa e distorta, non più a servizio della realizzazione del bene collettivo ma a soddisfacimento dei propri bisogni di locupletazione e di sciacallaggio di potere e condizionamento sociale”  in cui le assunzioni sarebbero servite ad alimentare “il consenso elettorale” utilizzato come merce di scambio per “politici di pari schieramento che governano regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania“. Inoltre, il gip nell’ordinanza di custodia cautelare scrive anche che, relativamente a un concorso del 2015 “il cui esito ha vacillato fino alla fine, tutto è stato poi sopito con la mediazione del governatore Pittella, che avrebbe suggerito… di accontentare tutti”. Tra i vari “sponsor” che al momento non risultano indagati, gli inquirenti hanno individuato l’ex viceministro degli interni Filippo Bubbico (ex Pd ora Leu). Mentre il vescovo di Matera Antonio Caiazzo, il deputato ed ex sottosegretario lucano alla Salute Vito De Filippo (Pd), il deputato barese Gaetano Piepoli (Cd), ed il questore di Matera, Paolo Sirna avrebbero sollecitato il commissario straordinario dell’Azienda sanitaria della città dei Sassi, Pietro Quinto, a intercedere su altre vicende, come l’assunzione del figlio di Piepoli alla Fondazione Matera 2019 che non si è concretizzata in quanto secondo il gip gli indagati avrebbero appreso dell’inchiesta.

Concorsi truccati, ecco come favorivano i raccomandati. Quattro le selezioni finite nel mirino della magistratura, scrive Basilicata 24 il 06 luglio 2018. Il commissario straordinario dell’Asm di Matera, Pietro Quinto, raggiunto da ordinanza di custodia cautelare in carcere nell’ambito dell’inchiesta su concorsi e assunzioni pilotate nella sanità lucana per gli inquirenti era il “collettore” delle raccomandazioni che promanavano dal governatore lucano, Pittella, e da altre figure di spicco della politica e della Chiesa lucana.

I concorsi truccati. Dalle indagini è emerso che sono quattro, al momento, i concorsi completamente truccati.  Il primo riguardava un posto, a tempo indeterminato per dirigente amministrativo all’Asm. Tre sono stati i vincitori, il primo effettivo, gli altri due, sono stati assunti con il sistema dello scorrimento delle graduatorie in altri presidi sanitari pubblici della Basilicata. Il secondo concorso riguardava otto posti per assistente amministrativo, riservati esclusivamente a disabili. Il terzo era un posto a tempo indeterminato a dirigente amministrativo presso il Crob di Rionero. Il quarto riguardava due posti a tempo indeterminato per dirigente medico otorino laringoiatra.  

Come truccavano i concorsi. Il gip di Matera che ha disposto le ordinanze di custodia cautelare accogliendo così le richieste della Procura spiega che gli indagati “taroccavano i punteggi e compilavano successivamente verbali di concorso falsi dopo aver distrutto i verbali precedentemente formati riportanti l’effettivo punteggio conseguito dai candidati “raccomandati” con la complicità dei componenti segretari depositari di tali verbali”. Il dominus dei raccomandati. Pietro Quinto, il commissario straordinario dell’Asm, considerato dagli inquirenti il “dominus di tutto il sistema” pur senza apparire in alcun documento, avrebbe agito per favorire i raccomandati, attraverso il direttore amministrativo, Maria Benedetto anche lei finita in carcere. Diverse le persone che sarebbero state segnalate a Quinto sia da Pittella che da altre figure di spicco, politiche e religiose. Spuntano, infatti, tra i segnalatori, anche (non sono indagati) l’ex viceministro degli interni Filippo Bubbico (Leu), l’attuale deputato Pd ed ex sottosegretario lucano alla Salute Vito De Filippo, il deputato barese Gaetano Piepoli (Cd), il vescovo di Matera Antonio Caiazzo e il questore di Matera, Paolo Sirna. Secondo gli inquirenti avrebbero sollecitato il commissario straordinario dell’Asm, Pietro Quinto, a intercedere su altre vicende, e tra queste l’assunzione del figlio di Piepoli alla Fondazione Matera 2019. Assunzione poi non avvenuta perché gli indagati avrebbero avuto notizia dell’inchiesta.

Raccomandazioni nelle Asl lucane, Pittella ai domiciliari: «Vuole ricandidarsi…», scrive Simona Musco il 7 luglio 2018 su "Il Dubbio". In carcere due manager, misure restrittive per altri 28, incluso il presidente della Regione: «Poteva reiterare abusi e falsi per conquistare voti». «Un avvilente quadro di totale condizionamento della sanità pubblica da parte degli interessi privatistici e di vile asservimento a logiche clientelari politiche». Con queste parole il gip di Matera Angela Rosa Nettis sintetizza l’inchiesta che ieri ha fatto finire ai domiciliari il presidente della Regione Basilicata Marcello Pittella, del Pd. Sarebbe lui il «deus ex machina» di quella che il giudice definisce «distorsione istituzionale nella sanità lucana». Nata dalla segnalazione per un tentativo di truffa alla Asm, l’inchiesta della Guardia di Finanza ha fatto venir fuori un quadro ben più complesso, fatto di concorsi truccati e raccomandazioni, e ha portato in carcere Pietro Quinto e Maria Benedetto, rispettivamente commissario e direttore amministrativo dell’Azienda sanitaria di Matera. Venti le persone ai domiciliari, tra i quali, oltre Pittella, Agostino Meale, professore dell’università di Bari, Maddalena Berardi, direttore amministrativo dell’Azienda ospedaliera San Carlo di Potenza, e Giovanni Chiarelli, commissario straordinario dell’Azienda sanitaria di Potenza, ai quali si aggiungono otto obblighi di dimora. Per il governatore, accusato di falso e abuso d’ufficio, avendo concorso in illeciti materialmente consumati da Benedetto, il gip ha ravvisato il pericolo di reiterazione dei reati, data l’intenzione di ricandidarsi alla guida della Regione. Elemento, si legge, che «fa ritenere che continuerà a garantire i suoi favori e imporre i suoi “placet” ai suoi accoliti pur di consolidare il suo bacino clientelare». Dalle carte, la politica si manifesterebbe nella sua accezione distorta, «a soddisfacimento dei propri bisogni di locupletazione e di sciacallaggio di potere e condizionamento sociale», al punto da piegare la sanità per ampliare il consenso elettorale e «scambiare favori ai politici di pari schieramento che governano regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania». In questo quadro Pittella – figlio dell’ex senatore Domenico e fratello di Gianni, per anni capogruppo Sd al Parlamento europeo e attuale senatore dem – avrebbe influenzato le scelte gestionali delle Aziende sanitarie lucane. Tra i “poteri forti” della sanità lucana», relazionandosi con i «poteri forti» per essere sempre in credito. La Finanza ha contato quasi 14mila telefonate in meno di tre mesi, che assieme alle conversa- zioni intercettate negli uffici dell’Asm hanno consentito di monitorare i rapporti di Quinto con parlamentari del precedente governo – alcuni ancora in carica , tanto da spendersi con l’allora viceministro all’Istruzione, Vito De Filippo, per soddisfare la richiesta del segretario del vescovo di Matera, don Angelo Gallitelli, che aveva chiesto l’ammissione della sorella Maria e di un suo amico al percorso di specializzazione a numero chiuso per le attività di sostegno. Ma gli interlocutori sono tanti: come il questore di Matera, Paolo Sirna, che aveva segnalato un conterraneo per un concorso, il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico, che lo contattò per due assunzioni, o il deputato Gaetano Piepoli, che chiese l’assunzione del figlio nella Fondazione Matera 2019, in cambio spendendosi per inserire il figlio di Quinto come tirocinante alla Procura generale di Bari. Nessuna di queste persone risulta indagata: la raccomandazione, precisa il gip, «non costituisce una forma di concorso morale nel reato di abuso d’ufficio» in assenza di altri fatti significativi. Rimane, dunque, la figura del dg, «ambiziosissimo quanto inosservante della legalità». Un’immagine consegnata dalle intercettazioni, andate avanti da marzo 2017 al 29 maggio 2017, quando una talpa svelò le indagini in corso. L’Asm di Matera, tramite le assunzioni, rappresentava per Pittella «una possibile proficua leva sociale di consenso elettorale». Sarebbero quattro i concorsi ‘ viziati’, con candidati selezionati in base a logiche clientelari, tramite «una gestione direttoriale centrale da parte del presidente Pittella», sulla base di un piano delle assunzioni, «calibrato sulla necessità di collocamento del personale». Perfino le singole prove, in alcuni casi, sarebbero state costruite “su misura” per i candidati segnalati, informati preventivamente sulle tracce. Ma non solo: i punteggi sarebbero stati rimaneggiati, anche distruggendo i verbali pubblici, e le assunzioni venivano effettuate con l’utilizzo distorto dello scorrimento delle graduatorie, in modo che anche gli esclusi potessero essere «opportunamente ‘ ripescati’ in altre Asl anche fuori regione». Emblematico il caso del concorso per un posto da dirigente amministrativo, il cui esito ha vacillato sino alla fine per i forti interessi in campo, per poi risolversi con la mediazione di Pittella, «che avrebbe suggerito la soluzione più diplomatica possibile». Ovvero «accontentare tutti».

Scandalo sanità, le denunce di chi veniva considerato "pazzo". Parla un medico in servizio a Policoro che ha presentato diverse denunce contro il "sistema marcio", scrive Giusi Cavallo il 12 luglio 2018 su "Basilicata24". Gli hanno dato del pazzo, screditandolo sul posto di lavoro. Pietro Mondì è un medico originario della Sicilia che ha scelto di lavorare e vivere in Basilicata, a Policoro. Dirigente Medico di Psichiatria, attualmente in servizio all’ambulatorio di psicogeriatria. Al telefono, mi ha chiesto come mai non avessi pubblicato quanto da lui inviato nelle ore successive allo scandalo che ha travolto la sanità lucana. “Le avranno raccontato che sono pazzo- mi ha detto senza mezzi termini con il suo accento siciliano. Di “pazzi” come lui ne ho conosciuti parecchi per sapere che il venticello della calunnia soffia sempre dove serve. Di certo il dottor Mondì è uno che parla senza peli sulla lingua, fa nomi e cognomi di coloro i quali ritiene responsabili dello sfacelo in cui è piombata la sanità lucana. Nomi che sono nell’ordinanza di custodia cautelare del gip di Matera ma anche nomi che ne sono fuori. Lo stesso Mondì i nomi li ha fatti anche in diverse denunce presentate contro “il sistema” prima che l’inchiesta della Procura di Matera alzasse i riflettori sulla cattiva gestione della sanità lucana. Il febbraio scorso il medico aveva presentato denuncia, ai carabinieri di Policoro, contro le nomine dei commissari straordinari delle Asl lucane. Oggi Mondì torna a scrivere con ufficialità alla Task Force inviata dal Ministero in Basilicata a seguito dell’inchiesta che ha portato a 22 arresti, tra cui quello del governatore Pittella e del commissario straordinario dell’Azienda sanitaria di Matera, Pietro Quinto. Chiede agli esperti inviati dal ministro Giulia Grillo di essere ascoltato al riguardo di fatti che ritiene stiano compromettendo il servizio sanitario lucano e in particolar modo della struttura in cui presta servizio. Segnala una persecuzione nei suoi confronti, anch’essa ampiamente segnalata all’autorità giudiziaria di Matera e a tutti i corpi delle forze dell’ordine. Ritenendo che i fatti da lui conosciuti potrebbero essere di interesse per l’attività della Task Force ministeriale, Mondì chiede con forza di essere ascoltato da essa. Al telefono, il dottor Mondì è un fiume in piena, si augura che “il nuovo Ministro della Salute Grillo invii alla Asl di Matera Ispettori che appurino, ascoltino chi vuol essere ascoltato come me, guardino attentamente i bilanci, il reale stato giuridico del personale, le modalità adottate dal dottor Quinto per dare gli incarichi di strutture semplici dipartimentali”. Racconta anche del suo lavoro, della sua professionalità “sottostimata”. Nell’ambulatorio di cui è dirigente non c’è la folla-spiega- per questo ho chiesto di dare una mano al Centro di Salute mentale, ma chissà perché preferiscono tenermi chiuso in una stanza a fare poco o niente”. “La Procura - aggiunge - ha aperto questa indagine, adesso deve allargarla, se ci sono gli estremi! Non è che si può indagare su questo e non su quest’altro? Per dirla come Amleto: “C’è uno spettro che si aggira per la sanità lucana e per tutte le Pubbliche amministrazioni, dove la piovra ha affondato i tentacoli e posto gli uomini giusti nei posti giusti per controllare totalmente la vita Politica e Sociale della Regione. Occorrerebbe aprire il Vaso di Pandora dei mali e dei misteri lucani per bonificare la Regione”. Esprimo il parere mio e di molti altri cittadini- prosegue- tra i quali anche operatori sanitari della A.S.M., persino medici in servizio e medici in pensione che l’operazione “Suggello” è solo “puvvirazzu”, come diciamo noi siciliani, polverone in italiano, e finirà in una bolla di sapone. L’Eminenza grigia, io credo, se ne stia tranquilla a dirigere la sua struttura, insieme col medico favorito, ovviamente divenuto il suo braccio destro. Vogliamo solo un polverone che legittimi una Procura per tempo avvolta nell’oblio? A riprova di ciò le ricordo che ho presentato una denuncia per delle accuse non meno pesanti di quelle ad oggi contestate al dottor Quinto. Chiedo che fine ha fatto questa denuncia della quale non so niente. Ecco perché dovrebbero ascoltarmi sia la Task Force Ministeriale che i magistrati”. 

Concorsi con tracce svelate in anticipo e punteggio stabilito a tavolino. Il ruolo dell’ex dg dell’Asp Giovanni Bochicchio. Indagato anche l'ex direttore dell'Asp, e attuale dg del Crob, per il concorso per la copertura di un posto di dirigente amministrativo indetto dall'Azienda sanitaria di Matera, scrive il 7 luglio 2018 "Basilicata 24". Tra gli indagati a piede libero dell’inchiesta sulla sanità lucana che nella giornata del 6 luglio ha portato a 22 arresti c’è anche Giovanni Bochicchio, ex direttore dell’azienda sanitaria di Potenza e attuale Dg del Crob di Rionero. Il filone in cui è indagato è quello sul presunto taroccamento del concorso per la copertura di un posto di dirigente amministrativo indetto dall’Azienda sanitaria di Matera con delibera del 24 dicembre 2015. Bochicchio, scrive il gip nell’ordinanza, nella sua qualità di direttore dell’azienda sanitaria di Potenza, e in concorso con altri indagati avrebbe fornito in anticipo le tracce dei temi della prova pratica di concorso a tre candidati: Vito D’Alessandro, Alessandra D’Anzieri e Luigi Fruscio (tutti e tre finiti ai domiciliari) per la copertura di un posto di dirigente amministrativo indetto dall’Azienda sanitaria di Matera con delibera del 24 dicembre 2015. Con attribuzione “a tavolino” del punteggio – scrive il gip – si sarebbe determinata la vincita del concorso per D’Alessandro e il posizionamento “utile” in graduatoria per gli altri due concorrenti per consentire loro di beneficiare dello scorrimento delle graduatorie ed essere assunti in altre strutture sanitarie pubbliche della Basilicata determinando per i tre candidati un un vantaggio patrimoniale ingiusto consistito nell’assunzione con la qualifica dirigenziale. L’esito favorevole ai tre candidati, sarebbe stato determinato grazie alla collaborazione di Maria Benedetto (finita in carcere), direttore amministrativo dell’Asm e presidente della commissione di concorso, Maddalena Berardi, direttore amministrativo dell’Azienda ospedaliera San Carlo e componente della commissione d’esame (finita ai domiciliari), Davide Falasca, dirigente amministrativo dell’Aor San Carlo componente della commissione e Ferdinando Vaccaro collaboratore tecnico dell’As esperto di informatica componente aggiuntivo della commissione esaminatrice che avrebbero eseguito le direttive loro impartite dal presidente della Giunta regionale Pittella, dal direttore generale dell’Asm Quinto, dal direttore dell’Asp Bochicchio e dal dirigente Montanaro (anche lui indagato a piede libero). Benedetto Maria - spiega il gip - d’accordo con Quinto avrebbe invitato il candidato D’Alessandro a esprimere preferenze per i temi della prova pratica, avrebbe poi stabilito i temi della prova passando le tracce a D’Alessandro che a sua volta sarebbe stato incaricato di passarli a D’Anzeri. Mentre il dirigente Montanaro li avrebbe forniti a Fruscio dopo averli chiesti e ottenuti dalla stessa Benedetto. 

Il Crob, il San Carlo e le solite coincidenze nella gestione del personale. Procedura di mobilità e trasferimento anche per la moglie del fratello del genero del direttore generale dell'ospedale San Carlo, scrive il 6 giugno 2018 su "Basilicata 24". Appena ieri, 5 giugno, ci siamo occupati del fratello del genero del direttore generale dell’azienda ospedaliera San Carlo di Potenza. Il primo classificato in una graduatoria per la mobilità attraverso una procedura piuttosto bizzarra. Oggi scopriamo che anche la moglie del fortunato fratello del genero del direttore Maglietta, è beneficiaria di una procedura di mobilità. In sostanza su sua richiesta la dottoressa dirigente medico viene trasferita dal Crob all’ospedale San Carlo. Nella delibera di trasferimento del 31 maggio 2018 si legge chiaramente che adesso quel posto al Crob di dirigente medico di medicina nucleare è vacante. E quindi? Serve o non serve al Crob un dirigente medico di medicina nucleare? Perché se serve, quel trasferimento sarebbe, almeno al momento, inopportuno. Se non serve, perché è stata assunta? Ad ogni modo è ragionevole immaginare che ci sarà un nuovo concorso o una procedura di mobilità per la copertura di quel posto ormai vacante. Chissà forse qualcuno si sta già riscaldando a bordo campo. Il fatto che in questa vicenda di ordinaria amministrazione siano coinvolti il fratello, e la di lui moglie, del genero del direttore Maglietta è una pura coincidenza, per carità. La fortuna è sempre dalla parte degli audaci.

Assunzioni all’ospedale San Carlo: Il gioco delle tre carte del direttore generale. Mobilità bizzarra e concorsi soverchi, scrive il 5 giugno 2018 "Basilicata 24". Siamo alle solite? Si utilizzano le istituzioni pubbliche per sistemare amici e familiari? Sembrerebbe che ancora una volta l’azienda ospedaliera San Carlo di Potenza agisca con scarsa trasparenza, in modo del tutto discrezionale e contraddittorio, in materia di assunzione di personale. Cosa sarebbe successo questa volta? Il San Carlo bandisce, nell’agosto 2017, l’avviso di mobilità per un posto di tecnico di radiologia, pubblicando la relativa graduatoria a distanza di quasi un anno: il 28 maggio 2018. Il 14 maggio 2018, e cioè ancor prima di completare le procedure di mobilità, viene bandito un concorso per la copertura a tempo indeterminato di 7 posti di tecnico di radiologia. Circostanza alquanto bizzarra considerato che il concorso viene bandito nonostante esista una graduatoria di ben 12 idonei per la mobilità. In questa graduatoria il primo classificato sarebbe il fratello del genero del direttore generale del San Carlo, guarda caso l’unico a beneficiare del trasferimento per mobilità volontaria. Si tratterebbe dell’ennesimo escamotage per beffare la legge. Un gioco da ragazzi: Si fa la mobilità per un posto di tecnico di radiologia per poi bandire un concorso per 7 posti, senza aver, di fatto, utilizzato la graduatoria della mobilità, o meglio dopo averla utilizzata per un unico partecipante, guarda caso un familiare del direttore generale. E sarebbe un atto tanto più grave ed illegittimo se si considera che il nostro ordinamento, a buona ragione, consideri prioritario il ricorso alla procedura di mobilità di personale proveniente da altre amministrazioni invece dell’utilizzo di graduatorie concorsuali di idonei, seppure ancora valide ed efficaci. Perché? Perché il percorso della mobilità consente l’acquisizione di personale già formato e l’immediata operatività del personale. In un contesto legislativo generale caratterizzato da un particolare favore riservato all’istituto della mobilità quale strumento per conseguire una più efficiente distribuzione organizzativa delle risorse umane nell’ambito della pubblica amministrazione, con significativi riflessi sul contenimento della spesa pubblica, appare oltremodo irragionevole la scelta di bandire un nuovo concorso in presenza di una valida graduatoria di idonei interessati alla mobilità volontaria.

Marcello Pittella e la pedagogia del clientelismo. Assunzioni a tutta birra e carriere fulminanti. Il presidente della Basilicata userebbe le procedure di mobilità a proprio piacimento, scrive il 26 agosto 2017 "Basilicata 24". Vi ricordate la storia dell’Ente Parco val d’Agri? Casi di assunzioni urgenti a tempo determinato che, per uno strano gioco di prestigio, a volte anche in pochi giorni, perdono il requisito dell’urgenza e diventano motivo di necessario distacco ad altri enti. In particolare alla Regione. Ce ne siamo occupati in una nostra inchiesta. Ebbene, cari amici lettori, il mercato delle clientele è sempre aperto.

Gli esempi emblematici, ma non rari. Luglio 2015, distacco “comandato” di Cristina Florenzano alla Regione Basilicata, nella segreteria “particolare” del Presidente (determinazione Direttore -Ente Parco- n. 319 del 21/07/2015). Marzo 2015, distacco “comandato” architetto Giusy Lucia D’Avenia, al Dipartimento Presidenza Giunta Regionale (deliberazione giunta regionale n. 232 dell’8/03/2016). Giugno 2016, nulla Osta al trasferimento di Maria Greco, “vincitrice” del concorso da Funzionario Amministrativo classe C con prova orale il 13/3/2015. Poiché nell’albo pretorio del parco si vede solo l’intestazione dell’atto, non è dato sapere a quale Ente sia stata trasferita. Verosimilmente agli uffici della Regione.

Il caso Cristina Florenzano. Sembrerebbe che “i comandati”, assunti con un livello coerente con la funzione esercitata nell’Ente Parco, nel momento in cui passano ad altro Ente salgano di livello. Sarebbe il caso di Cristina Florenzano la quale, “comandata” nella segreteria particolare del Presidente della Giunta Regionale, ha un incarico il cui “trattamento economico è determinato ai sensi della Disciplina delle Posizioni Organizzative”. Senza malignare, occorre aggiungere che Florenzano è stata rappresentate del candidato Marcello Pittella all’interno del Comitato organizzativo promotore delle primarie di centrosinistra per la scelta del candidato presidente per le elezioni regionali. L’incarico alla Florenzano è stato prorogato circa un mese fa.

Il caso Lucia D’Avenia. L’architetto Giusi Lucia D’Avenio dipendente del Parco, prima comandata al Dipartimento Presidenza della Giunta Regionale, oggi è entrata definitivamente nei ruoli regionali con inquadramento livello economico C1, giusta delibera della Giunta n. 825 del 4 agosto 2017.

Tutto questo è possibile? Sì. Basta adottare le procedure di mobilità previste dall’articolo 30 del decreto legislativo n. 165 del 2001: “… le amministrazioni, prima di procedere all’espletamento di procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti vacanti in organico, devono attivare le procedure di mobilità … provvedendo, in via prioritaria, all’ammissione in ruolo dei dipendenti provenienti da altre amministrazioni, in posizione di comando o di fuori ruolo e bla bla bla…” Come al solito sul piano formale (e legale) è tutto a posto. O quasi (La Florenzano, in quanto dipendente a “tempo determinato” non poteva essere “comandata”) I percorsi lavorativi a propria immagine e somiglianza questi signori li sanno ricamare per bene:

· Ti assumo, magari anche a tempo determinato, magari anche senza concorso o attingendo da una graduatoria di un concorso scaduto da dieci anni e magari anche con procedura d’urgenza per la copertura urgente di una funzione urgente;

· Poi dell’urgenza e di tutto il resto ci facciamo una pippa e ti distacco o comando nel posto e nell’Ente dove la politica ha stabilito che devi andare;

· Arrivato il quel posto c’è già la garanzia di uno scatto di carriera in termini di livello e di posizione.

· Il gioco è fatto ed è tutto regolare;

· Ci sarà qualche mugugno ma, quelli esclusi dalla giostra delle prebende capiranno “che o sei con me o sei fuori dalla pagnotta”.

La pedagogia del clientelismo. Insomma, a parte le stranezze procedurali e concorsuali, l’Ente Parco incarna una palese contraddizione. Lamenta carenze di personale, non a caso negli ultimi mesi avrebbe messo mano più volte all’organizzazione degli uffici, di fatto moltiplicandoli, assume a tutto spiano – a tempo determinato – adducendo motivi di urgenza e indifferibilità. Subito dopo però, a volte anche dopo poche settimane, il personale assunto è ceduto “in comando” ad altri Enti. E’ tutto regolare? Rimane ancora forte il dubbio che l’Ente Parco e non solo (si veda Arpab,) funzioni come area di transito per sistemare amici e compari di politici, in particolare del governatore Pittella, in posizioni più sicure e ben retribuite. Tutto questo si chiama “pedagogia del clientelismo”.

Il bordello delle assunzioni all’Arpab e alla Regione Basilicata. I Concorsi? E che li facciamo a fare! E’ ormai da mesi che l’Arpab sembra impegnata affannosamente sul fronte delle assunzioni. Ma c'è qualcosa di strano, scrive Michele Finizio il 22 agosto 2017 su "Basilicata 24". I concorsi? E che li facciamo a fare! E’ ormai da mesi che l’Arpab sembra impegnata affannosamente sul fronte delle assunzioni. Mentre sui versanti dell’efficienza delle proprie prerogative a tutela dell’ambiente sembra, al contrario, molto svogliata: siamo più vicini alle chiacchiere che ai fatti. Sulle assunzioni, invece, siamo dentro i fatti, Regione compresa.  E che fatti! Ricominciamo.

Il “bordello” delle assunzioni all’Arpab. Il direttore generale Edmondo Iannicelli continua a pescare dirigenti da una graduatoria del 2009 relativa ad un concorso del 2008. Quella graduatoria, non prorogabile, poiché il vincitore fu assunto all’epoca né utilizzabile perché vecchia, è diventata il pozzo senza fondo da cui l’Arpab attinge personale dirigente e non. La lista si sta allungando oltre ogni decenza e questo suscita qualche dubbio. La domanda è: un ente sub regionale (quindi pubblico) può assumere personale facendo ricorso a vecchie graduatorie? Boh. Si parte il 19 luglio del 2017 quando il direttore generale assume a tempo pieno e determinato, per tre anni, dal 20 luglio 2017, nel ruolo di dirigente professionale l’ing. Auletta Maria Angelica Domenica. Assunzione senza concorso, grazie allo scorrimento di una vecchia graduatoria del 2009 il cui vincitore era stato assunto. Con delibera n. 251 dell’8 agosto viene assunta a tempo pieno e determinato l’architetto Marianna Denora, funzione dirigente, mediante scorrimento delle graduatorie dei concorsi pubblici del 2008. Assunzione senza concorso. Con delibera n. 255 del 14 agosto, sono assunti in qualità di collaboratori amministrativi, Colucci Rosaria e Mango Antonello, “utilmente collocati, quali idonei non ancora assunti, nella graduatoria approvata con DD n. 198/2011. Stesso disco. Con deliberazione n. 258 del 21 agosto, viene assunto un dirigente, Lo Galbo Fabrizio con una procedura di scorrimento di una graduatoria approvata nel 2010 il cui primo classificato era stato assunto. Stessa canzone.

Tutto regolare? La presidente del Consiglio Comunale di Lagonegro assunta all’Asp. Chi è la fortunata assunta? Lei, Mariangela Gioia, eletta nella lista civica del sindaco Pd Mitidieri alle elezioni amministrative del giugno 2016, scrive il 6 novembre 2017 "Basilicata 24". Ci ha incuriosito l’assunzione a tempo determinato, pieno ed esclusivo, per un anno, di un collaboratore tecnico professionale sociologo all’Asp di Potenza.  La curiosità è originata da due “stranezze” contenute in alcune di quelle diavolerie formali che spesso gli enti utilizzano per oscurare ben altre sostanze. La prima deriva dal fatto che la persona assunta è seconda in una graduatoria di un concorso per titoli e colloquio relativo ad un avviso pubblico dell’Azienda sanitaria di Matera. La seconda deriva dal fatto che la persona assunta è presidente del consiglio comunale di Lagonegro eletta nella lista civica (Pd) alle elezioni amministrative del giugno 2016. Area Pittella. Andiamo per ordine. Dunque l’Asm fa un avviso per la copertura di un posto di sociologo. Una persona si classifica prima in graduatoria. Sembrerebbe che questa persona sia stata assunta dall’azienda materana. L’Asp di Potenza avrebbe necessità di un sociologo e quindi lo reperisce dalla graduatoria materana. Assume così la seconda classificata “nelle more di apposita procedura di mobilità finalizzata alla copertura a tempo indeterminato del posto in argomento da indicare nel redigendo Piano dei fabbisogni di personale”. L’Asp, modifica la propria pianta organica cosi che risulta un posto vacante di sociologo. La Regione Basilicata approva con delibera di Giunta. Insomma, attraverso una procedura che sul piano formale non farebbe una piega, si arriva a creare le condizioni per l’assunzione di questo benedetto sociologo. Facciamo rilevare che la selezione è stata effettuata con il criterio dei titoli e del colloquio. Chi è la fortunata assunta? Lei, Mariangela Gioia, coordinatrice della casa di riposo di Maratea, notoriamente bacino elettorale di tutti i partiti, consigliere comunale e presidente del Consiglio a Lagonegro. Eletta nella lista civica del sindaco Pd Mitidieri (Marcello Pittella). Nulla di strano, per carità. La persona assunta, tra i tanti sociologi disoccupati, probabilmente è la più brava, ma non sarebbe la più bisognosa.  In questi casi si sa, è il merito che conta e non la posizione economica dei candidati. La persona assunta, in quanto presidente del Consiglio comunale di Lagonegro ha chiesto legittimamente, ai sensi di legge, i permessi per mandato politico. Diciamo che la necessità, e a quanto pare l’urgenza, di avere un sociologo, si è poi attenuata. Insomma, volevamo vederci chiaro in questa vicenda per dissipare ogni dubbio e soddisfare ogni curiosità. Ma non ci siamo riusciti e vi spieghiamo perché.

La trasparenza è tutta fuffa? Andiamo sul sito dell’Asp e cerchiamo la delibera del direttore generale del 10 luglio 2017 di conferimento dell’incarico alla sociologa. Abbiamo anche il numero del documento.  Clicchiamo su Albo Pretorio On line. Ecco, ci siamo. Compare un link: “delibere del direttore generale archiviate dopo il 18 marzo 2013”. Clic. Il sistema ci offre 12 elementi dall’1 al 4 novembre. E il resto? Proviamo a fare la ricerca filtro. Inseriamo numero della delibera, data, oggetto. Aspettiamo, aspettiamo. Il sistema gira a vuoto, niente, nessuna delibera con i criteri inseriti. Trenta minuti di operazioni senza nulla ottenere. Andiamo sul sito dell’Asm e cerchiamo una delibera del direttore generale del 21 aprile 2017 di approvazione della graduatoria di merito.  Andiamo sull’albo pretorio on line ed ecco il link al documento. Sì è proprio la delibera che cerchiamo, Clic. Ma la delibera non si scarica, è un pdf, ma non si scarica, perché? Perché “per accedere al file occorre inserire il valore chiave associato alla delibera”. Così è scritto. E che cos’è questo valore chiave? Dove lo troviamo, chi ce lo fornisce? Mistero. Probabilmente il valore chiave è scritto sulla delibera, ma se ho la delibera in mano è evidente che non ho bisogno di cercarla sul sito. Fatto sta che non siamo riusciti a scaricare il file. Saremo noi degli incompetenti. Ignoranti in diavolerie informatiche. Certo è che per accedere alla campana di vetro delle due aziende, bisogna attraversare oscuri cunicoli.

Parentopoli nella sanità. Procura apre un'inchiesta, «salta» il vertice dell'Irccs. Un concorso per dirigente - vinto dal nipote del segretario regionale del Pd - «sistema» una serie di poltrone di amici e pochi intimi: la graduatoria è quasi esaurita, scrive Massimiliano Scagliarini il 14 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Un vecchio concorso da dirigente amministrativo nella sanità sta avvelenando la politica pugliese alla vigilia delle nomine dei direttori generali delle Asl. L’esposto presentato alla Procura di Trani da un sindacalista ha evidenziato una serie di coincidenze: la graduatoria pubblicata a febbraio dall’Irccs di Castellana per un posto di dirigente del patrimonio vede come vincitore il nipote di Marco Lacarra e come prima degli idonei la moglie dell’attuale dg della Asl Brindisi, Giuseppe Pasqualone. Gli idonei sono in tutto 15, e in poco meno di sei mesi ne sono già stati chiamati 12. E così la scorsa settimana i militari del Nucleo di polizia tributaria della Finanza di Bari si sono presentati al «De Bellis» di Castellana per acquisire i documenti. L’obiettivo è verificare le procedure (non ci sono indagati), ma intanto anche la Regione vuol capire se ci siano state irregolarità. Perché l’altro tema è l’utilizzo della graduatorie. Le Asl possono scambiarsele (avviene spesso - soprattutto per il personale medico), ma con la massima discrezionalità: Asl Bat, Foggia, Aress e Policlinico di Bari (che ha assunto così 6 dirigenti amministrativi) hanno utilizzato la graduatoria del piccolo «De Bellis», mentre nello stesso periodo la Asl Bari ha attinto a quella della Asl di Matera, e la Asl di Brindisi ne ha una propria ancora vigente. Va anche detto che le domande di partecipazione a Castellana sono state 41, mentre concorsi simili nelle Asl grandi attraggono centinaia (se non migliaia) di concorrenti: insomma, pur essendo per un solo posto, il concorso di Castellana (che era stato bandito nel lontano 2014) sta per esaurire la graduatoria. Il presidente della commissione di concorso era Tommaso Stallone, all’epoca direttore amministrativo e oggi commissario straordinario del «De Bellis», un manager che è stato rimosso dalla giunta regionale (al suo posto andrà la dg dell'Asl Lecce, Silvana Melli. In commissione c’era anche un dirigente amministrativo della Asl Bat, Maurizio De Nuccio: la stessa Asl - fa notare l’esposto - dove già lavorava come funzionario l’avvocato Daniela Prudente, moglie del dg Pasqualone, nonché la prima Asl in ordine di tempo (marzo 2017) a sfruttare la graduatoria di Castellana. Pasqualone, che in questi anni ha ben figurato tanto da essere in predicato per passare proprio alla Bat, respinge ogni insinuazione. «Mia moglie - dice - è dipendente della pubblica amministrazione da 25 anni, lavorava nella sanità da prima che ci arrivassi io, ha sempre partecipato a tutti i concorsi indetti in Puglia. E ogni volta c’è stato un esposto e sono arrivati i carabinieri. Non la farei mai partecipare in una azienda che dirigo io, ma per il resto non posso mortificarla e impedirle di fare un concorso. Ben venga la verifica dei documenti». Se ora fosse effettivamente designato alla Bat (perché Ottavio Narracci sembra destinato alla Asl di Lecce), Pasqualone si ritroverebbe in azienda la moglie come dirigente degli affari generali. «Non è bello - commenta - avere un parente come sottoposto, anche se negli ospedali accade sempre. Di certo mia moglie non farebbe mai carriera». Il vincitore del concorso di Castellana si chiama invece Fabio Scattarella. Anche lui avvocato, era funzionario presso l’Arpa Puglia e in precedenza aveva un impiego a termine presso il Comune di Bari. Suo zio, il segretario pugliese del Pd (e consigliere regionale) Marco Lacarra, allarga le braccia: «Parliamo - dice - di una persona di grande preparazione, che ha fatto pratica legale con me. Ha sempre primeggiato e non può rinunciare a opportunità lavorative per via dello zio. Non ha bisogno di me per vincere un concorso né potevo chiedergli di non partecipare, ma sapevo che questa storia sarebbe stata strumentalizzata». Anche in Regione, come detto, vogliono vederci chiaro. Per le nomine dei direttori generali si attende l’ok all’albo degli idonei, che non dovrebbe essere portato in Giunta oggi. È molto probabile che se ne riparli la prossima settimana.

Il concorso truccato alla Asl, risposte pronte per il quiz, scrive il 19 settembre 2015 Alberto Parodi su “Il Secolo XIX”. «Leggi e dimentica, io faccio un giro, sono le domande, c’è una per una, diverse». «Grazie spero di non farti fare una brutta figura». È il dialogo intercettato, l’incontro è anche filmato, tra Claudia Agosti (all’epoca direttore sanitario Asl e presidente di commissione, ora in pensione) ed E. C., che risulterà poi la vincitrice per il posto da direttore di distretto. E di nuovo stessa scena con L. G., mandato poi a dirigere un presidio ospedaliero, convocato nell’ufficio: «Io intanto vado a fare un giro». L. G.: «Ma devo farlo?». E la Agosti risponde: «Eh se lo vuoi fare almeno leggiti qualcosa, quelle cose lì». Le risposte erano state mostrate prima del concorso o colloquio decisivo. Concorsi, colloqui e nomine interne all’Asl nel giugno - luglio 2014 sarebbero stati truccati, fatti su misura, disegnati e preparati ad hoc, in base al curriculum di chi doveva vincere. I vincitori già designati insomma. In un caso addirittura il prescelto - secondo la tesi della Procura e della Finanza che era “entrata” negli uffici Asl tramite microspie e telecamere - aveva a disposizione due posti. Bastava scegliere. I presunti maneggi sono stati filmati e sono finiti nel faldone del nucleo di polizia tributaria che si è concentrata con il pm Pelosi sull’ipotesi di reato dell’abuso d’ufficio e rivelazione e utilizzo di segreti d’ufficio attribuito a vario titolo ai dirigenti Asl Neirotti, Baldinotti, Agosti e Damonte, nel filone d’indagine che ha preso spunto da quello principale della turbativa d’asta su Gsl. Claudia Agosti avrebbe consentito secondo la denuncia dei finanzieri “la copiatura di domande relative ai concorsi di imminente svolgimento”. E addirittura un indagato “poteva arbitrariamente decidere quale concorso vincere” è la constatazione contenuta nell’informativa finita nell’ “operazione Ippocrate” i cui atti sono stati consegnati ai legali dei vertici Asl e Gsl chiamati il 9 ottobre in Tribunale per discutere la richiesta di sospensione. Nel dossier consegnato alla Procura c’è anche la selezione per la struttura complessa dei sistemi informativi. Selezione vinta dall’ingegner E.S. «Non voglio farlo proprio ritagliato su S.» è la frase del direttore amministrativo Baldinotti, trascritta negli allegati. Poi la procedura di selezione per addetto alla documentazione con l’assunzione di M. M., al centro di un’altra indagine della Procura.

Eppoi. Concorsi truccati all’azienda sanitaria pubblica che, per fare un bando di gara, chiede la consulenza all’Unione Industriali non tenendo in considerazione il conflitto d’interessi. È quanto emerge a margine dell’inchiesta della Guardia di Finanza su Gsl ad Albenga. Asl 2 savonese nella bufera. «Di ’sta roba non ne so niente. E nei confronti di chi mi accusasse di avere fatto la sperimentazione di ortopedia privata all’ospedale di Albenga con l’obiettivo di assegnarla al gruppo Gsl di Albani, sono pronto alla denuncia per calunnia. Non sono mai stato sentito dagli inquirenti, non ho atti a disposizione». L’ex presidente della Regione Claudio Burlando è indagato dalla Procura di Savona, nell’inchiesta portata avanti dalla Guardia di Finanza, per concorso in turbativa d’asta e abuso d’ufficio. Secondo i pm, proprio la Regione avrebbe favorito i privati chiudendo una convenzione del valore complessivo teorico sino al 2020 di 165 milioni di euro a partire dal 2011. Un trasferimento di risorse pubbliche al privato, per evitare la fuga dei pazienti fuori Liguria, su cui aveva messo gli occhi anche la Corte dei Conti che aveva attivato le Fiamme Gialle. Un lavoro seguito dal sostituto procuratore Ubaldo Pelosi, che ha portato ad indagare quindici persone tra Gsl (Gruppo Sanitario Ligure), medici e dirigenti, vertici di Asl e Regione. Oltre a Burlando sono nei guai il suo ex vice e assessore alla salute Claudio Montaldo e Franco Bonanni, direttore generale del dipartimento sanità. Solo per i manager pubblici dell’Asl e per l’imprenditore Gsl Alessio Albani (consigliere Carisa e leader ligure dei giovani di Confindustria) il pm ha chiesto al giudice per le indagini preliminari la sospensione dagli incarichi. Burlando non fa parte del gruppo d’indagati per cui sono state chieste misure cautelari, ma nelle informative della Guardia di Finanza finite nel fascicolo della Procura è accusato, da presidente, di aver esercitato pressioni psicologiche («coazione morale») capaci d’indurre i funzionari Asl a «condotte collusive» con le quali sarebbe stata influenzata la regolare procedura di gara a favore di Albani. Una tesi tutta ancora da dimostrare. Burlando, dal suo punto di vista, spiega così l’operazione Albenga: «Un’idea della Regione. La giunta ha condiviso la proposta dell’assessorato competente per evitare le fughe dei pazienti lontano dalla Liguria e risparmiare. L’ospedale di Albenga era una scatola parzialmente vuota. E il progetto non ci è stato proposto da Albani, che neppure conoscevo prima di questa operazione. Non ho mai avuto il suo numero di telefono. In merito alla favola del voto di scambio, alle primarie sosteneva Cofferati. Non era certo vicino alle mie posizioni».

Sassari, "concorso truccato alla Asl": i camici bianchi restano in corsia, scrive Andrea Busia su L’Unione Sarda”. Sospensione bocciata: i camici bianchi coinvolti nell'inchiesta sul presunto concorso truccato alla Asl di Sassari restano al loro posto. La decisione del tribunale del Riesame di Sassari è arrivata nel pomeriggio: i giudici hanno respinto il ricorso del pubblico ministero Carlo Scalas contro la decisione del gip Giuseppe Grotteria con la quale si confermavano i ruoli dei dirigenti indagati. Niente sospensione, dunque, per Franco Cudoni, primario del reparto di Ortopedia e Traumatologia dell'ospedale civile di Sassari, Peppino Mela, primario al Giovanni Paolo II di Olbia, Luciano Cara, primario del reparto di Ortopedia e Traumatologia del Marino di Cagliari, Marcella Rassu, la dottoressa che secondo le accuse sarebbe stata favorita nella selezione e Katia Spanedda, responsabile del procedimento. L'ipotesi della Procura di Sassari è che sei dirigenti, oltre ai cinque già menzionati è indagato anche il consigliere regionale Antonello Peru, abbiano interferito con il concorso per l'assunzione di nove medici nel reparto del Santissima Annunziata di Sassari. Al centro dell'udienza di oggi l'intercettazione in cui Franco Cudoni diceva al suo interlocutore: "Io mantengo sempre le promesse". Un'ammissione di colpa, secondo il pm. Tutta un'altra versione per il difensore Antonella Cuccureddu che ha riferito quella frase agli obiettivi raggiunti dal reparto che Cudoni dirige.

ASL MONZA BRIANZA. CONCORSO PER OSTETRICHE: CONCORSO TRUCCATO?

Quando si partecipa ad un concorso con gravi oneri di trasferta e partecipazione e scatta nei partecipanti il dubbio che esso sia un concorso truccato, non fa niente se lo sia davvero (e il 99% delle volte lo è), quello che conta è la mancanza di fiducia nelle procedure concorsuali che ne minano dalle fondamenta la credibilità dei risultati. Ma tanto nessuno se ne fotte se qualcuno dubita dei risultati concorsuali e pensa che a vincere siano gli incapaci raccomandati: i vincitori (a torto o a ragione) rimarranno tali, alla faccia degli altri concorrenti esclusi. Così si esprime il dr Antonio Giangrande, sociologo storico, che su tema ha scritto il saggio pubblicato su Amazon: “Concorsopoli ed Esamopoli”. Tutto a dispetto dei miscredenti, che negano l’evidenza.

Monza. 10.04.2014 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la formulazione di una graduatoria per la copertura a tempo indeterminato di n. 2 posti di Collaboratore Professionale Sanitario – Ostetrica. Dei 1.077 ammessi al concorso, si presentano 484 candidati, e solo 7 vengono ammessi alla prova pratica, 5 dei quali con votazione 30/30. Il racconto di un candidato: la prova programmata per le 8.30 ha inizio solo alle 12.25,  mi siedo al posto indicato e attendo che mi venga consegnata una  busta per garantire l’anonimato, in realtà all’ingresso mi consegnano una cartellina aperta con all’interno la scheda candidato, il foglio istruzioni, la scheda risposte e una busta da lettere con i  codici identificativi. Dopo aver inserito i dati anagrafici sulla scheda candidato ho attaccato il codice sulla scheda stessa e sulla scheda risposte, prima dell’inizio della prova sono stare raccolte non in un busta chiusa, a mano dal personale addetto tutte le schede. In seguito tra tre prove chiuse in singole buste, un candidato ne ha scelta una, le altre due non sono state nemmeno lette. Abbiamo quindi svolto la prova e alla fine è stata raccolta dal personale addetto la scheda risposte nuovamente a mano senza alcuna busta chiusa. Poi disarmati andiamo a casa. Dopo solo 4 ore la graduatoria è pronta: solo 7 ammessi alla prova pratica, ai non ammessi non è stata data comunicazione del punteggio conseguito.

Monza, bufera sul concorso dell’Asl. Esposto delle ostetriche escluse, scrive Rosella Redaelli su “Il CittadinoMB”. Per due posti di ostetrica a tempo indeterminato nei consultori della Asl si sono iscritte in 1070. In 480 si sono presentate, da tutta Italia, giovedì mattina, al Pala Desio per sostenere la prima prova scritta. Trenta domande, un’ora di tempo e un punteggio minimo per passare di 21. In serata, dopo la pubblicazione dei risultati, si è scatenato il putiferio via web. Solo in sette hanno superato la prova, in cinque addirittura con il massimo del punteggio, gli altri due con 21,5 e 22,5. Un risultato che ha scatenato più di un dubbio tra le partecipanti che venerdì mattina, 11 aprile, si sono date appuntamento davanti alla sede della Asl di viale Elvezia con tanto di striscione : “No ostetriche, no parti” e nel pomeriggio hanno presentato un esposto alle forze dell’ordine. «Ci sentiamo prese in giro - dicono Marina, Jessica, Maria e Chiara, partite da Pisa - non mettiamo in dubbio la preparazione delle colleghe, ma risulta quantomeno strano che tra di loro ci sia chi ha già lavorato in Asl. Allora perché fare un concorso nazionale, tra l’altro nella settimana della Fiera più importante di Milano, quando i costi degli alberghi sono triplicati?Non potevano ricorrere ad una graduatoria interna?». Le veterane dei concorsi dicono che la storia si ripete sempre uguale: «A Melegnano eravamo in 780 per due posti e le prime cinque già lavoravano nell’ospedale di Melegnano - racconta Chiara, laureata nel 2009 e ancora in attesa di un posto - ma non ho mai assistito a quello che è successo a Monza». Troppe le anomalie rilevate durante il concorso per tornarsene a casa e farsene una ragione. «Siamo state convocate alle 8,30 e abbiamo atteso quattro ore l’inizio della prova, c’è stata l’estrazione della busta numero due ,ma le altre due buste sono state aperte, senza essere firmate dalle testimoni e non sono state lette le domande. Il sospetto è che ci fossero già pronte solo le fotocopie della busta numero due». Altra stranezza: i dati anagrafici consegnati non in busta chiusa e con codici a barre numerati e quindi facilmente accoppiabili con la prova. E poi il risultato ottenuto da cinque candidate: un punto per ogni domanda esatta, mezzo punto in meno per ogni errore e 0,15 in meno per ogni risposta lasciata in bianco. «Non erano domande semplici- commentano le candidate- chi ha preso trenta ha consegnato una prova perfetta anche su materie non strettamente attinenti la professione». Nessuna irregolarità per il commissario generale della Asl Matteo Stocco: «È vero che tra le promosse c’è un’ostetrica che ha già lavorato in Asl, ma con un contratto concluso. Francamente non ci aspettavamo questi numeri per due posti di ostetrica all’interno dei consultori. Ho ricevuto le candidate escluse che hanno fatto accesso agli atti e potranno visionare le loro prove». Il concorso non è chiuso: dopo la prova pratica, martedì l’orale. In due avranno un posto a tempo indeterminato. Per le altre ci saranno altri concorsi, ma anche un futuro lavorativo diverso: «Dopo una selezione per accedere all’università e tre anni di studio impegnativo- commenta Simona, 23 anni-se va bene da lunedì farò la commessa part-time».

Ad un concorso per ostetriche a Monza indetto dall'Asl solamente 7 candidati su 484 avrebbero raggiunto un punteggio sufficiente. Ma un gruppo di bergamasche denuncia: “Tra le ammesse, come ci aspettavamo, nomi noti. Perché, ancora oggi, alcune procedure concorsuali non vengono espletate garantendo il corretto anonimato?”. Concorso per ostetriche:“Ammessi i soliti noti. Andremo per vie legali”, scrivono un gruppo di ostetriche bergamasche su “Bergamo News” e “su “L’Eco di Bergamo”. Ad un concorso per ostetriche a Monza indetto dall'Asl solamente 7 candidati su 484 avrebbero raggiunto un punteggio sufficiente. Ma un gruppo di bergamasche denuncia presunti favoreggiamenti e poca trasparenza nella procedura concorsuale: “Siamo un gruppo di ostetriche di Bergamo, e scriviamo al vostro giornale nella speranza che la situazione della nostra categoria possa essere conosciuta da quante più persone possibile. In Italia possiamo trovare migliaia di ostetriche che dopo tre anni di fatica tra lezioni e tirocinio si ritrovano solo con la propria passione in mano e nessuna possibilità lavorativa: una media di un migliaio di queste si presenta ad ogni concorso per ostetrica presente in tutta Italia, magari dopo aver percorso ore in macchina, con una spesa notevole, e sapendo di presentarsi insieme a un altro migliaio di colleghe per un solo posto di lavoro. Oggi (11 aprile 2014), a Monza, si è svolta la prima prova di uno di questi concorsi, indetto dall'ASL Monza-Brianza...e qui arriviamo al motivo della nostra segnalazione e della rivolta di tante altre colleghe che stanno comunicando quanto avvenuto a diversi giornali di tutta la regione e si stanno organizzando per procedere, in gruppo, per vie legali. Le domande giunte per il concorso di oggi erano ben 1.077: le prime due prove sono quindi state organizzate all'interno del Palazzetto dello Sport di Desio, proprio in questa settimana, in cui si svolge un importante evento di design a Milano che ha fatto salire alle stelle i prezzi di treni e hotel. Probabilmente è proprio per questo motivo che oggi, al PalaDesio, eravamo presenti “solo” in 484. L'orario di inizio era stabilito per le 8.30: tempo di entrare tutte nel palazzetto, eseguire le procedure di riconoscimento, e intorno alle 10, sembrava tutto pronto per iniziare. Si è invece proceduto con un secondo appello di tutte le 1.077 ostetriche inizialmente iscritte al concorso, tra l'altro con chiare difficoltà di comunicazione all'interno della struttura, durato fino alle 12 circa. Ed ecco che arriviamo finalmente al momento dell'estrazione della prova e della spiegazione della modalità di prova, che prevedeva la sottrazione di punti nel caso in cui venisse data una risposta sbagliata e anche nel caso in cui non si rispondesse a una domanda. Alle 12.25, dopo il ritiro delle schede anagrafiche (eseguito in modo non propriamente trasparente) iniziamo finalmente il quiz, composto da 30 domande di grado medio-difficile. In molte usciamo dubbiose, 50 minuti dopo, sull'esito della prova, ma con la consapevolezza che passare tale prova non fosse poi così impossibile. Dopo un pomeriggio di attesa, ecco i risultati pubblicati in internet: 7 ammesse alla prova pratica, 477 escluse. Tra le ammesse, come ci aspettavamo, nomi noti, a partire dalla ragazza che da quando è stato pubblicato il bando ha iniziato a dire a chiunque che “quel bando era stato fatto per assumere lei” dopo anni di lavoro in quella stessa struttura, fino a una neolaureata la cui relatrice della tesi di laurea è nella commissione del presente concorso. Cinque di queste sette persone hanno raggiunto il massimo punteggio (30/30) due di loro hanno invece raggiunto punteggi al limite della sufficienza. Ma ben 477 ostetriche, laureate, che studiano per ogni concorso che fanno, spesso con ottimi risultati universitari e con buoni risultati in altri concorsi eseguiti, non riescono nemmeno a passare la prova scritta. Dopo aver visto tante, troppe volte altre figure invadere i nostri ambiti di competenza, e dopo questa esperienza, siamo quindi qui, con l'amaro in bocca e solo la passione per la nostra professione a darci la forza per continuare, a chiederci: perché? Come è possibile che su 484 candidati solo 7 raggiungano la sufficienza? Perché, ancora oggi, alcune procedure concorsuali non vengono espletate garantendo il corretto anonimato? Perché tra le sette ammesse una ha lavorato in quella stessa struttura per anni e diceva pubblicamente, da mesi, che quel posto era destinato a lei? Perché un'altra delle ammesse ha avuto come relatrice della tesi di laurea un'ostetrica nella commissione di questo concorso? Nella speranza che questa lettera serva a stimolare l'intervento di chi di competenza e a portare a una maggiore comprensione della situazione della nostra figura professionale, vi ringraziamo per l'attenzione e la disponibilità”.

ESAMOPOLI E CONCORSOPOLI. ABOGADOS ED AVOCAT, GLI AZZECCAGARBUGLI ITALIANI NON LI VOGLIONO.

Università: "licenza spagnola" per fare l'avvocato in Italia, 500 laureati sotto inchiesta. Il giudice istruttore di Madrid indaga sui titoli falsi che sarebbero stati concessi dall'università Rey Juan Carlos dietro pagamento di 11.000 euro, scrive Alessandro Ziniti il 20 settembre 2018 su "La Repubblica". Undicimila euro per ottenere la "validazione" della laurea in legge ottenuta in Italia, un esame per test, e l'iscrizione all'albo degli avvocati in Spagna. Quanto basta per evitare i diciotto mesi di pratica e soprattutto il difficile esame di abilitazione alla professione e potere esercitare in tutta Europa e dunque anche in Italia. Sarebbero cinquecento gli italiani che avrebbero fatto ricorso all'università pubblica spagnola Rey Juan Carlos per ottenere fraudolentemente il titolo che avrebbe aperto loro le porte della professione anche nel nostro Paese. Sulla "vendita" del titolo in diritto indaga il giudice istruttore del tribunale di Madrid che ha affidato l'inchiesta all'unità di criminalità economica e finanziaria della polizia. A sollevare il caso, nel 2016, la denuncia dell'osservatorio per la corruzione che ha raccolto diversi ricorsi contro i titoli ottenuti dai 500 italiani che avrebbero svolto tutti insieme la presunta prova nel maggio di due anni fa. L'ipotesi di reato è frode nella validazione del titolo di diritto. I 500 laureati in legge italiani avrebbero avuto indicato questo percorso "facile" da una società italiana che avrebbe proposto loro questo percorso di " convalida ed integrazione" per ottenere la cosiddetta "licenza spagnola" riconosciuta in tutta Europa. Già negli anni scorsi l'università Rey Juan carlos era stata al centro di alcuni scandali per titoli falsi concessi ad alcuni uomini politici spagnoli che erano poi stati costretti a dimettersi.

Francesco Olivo per “la Stampa” il 21.09.2018. Sabato 28 maggio 2016: appuntamento alla stazione centrale di Madrid, Atocha. Almeno otto pullman aspettano la comitiva di italiani. Alcuni preferiscono proseguire con mezzi propri. Sembrano turisti, ma la meta non è il Prado. La comitiva si dirige all' Università Rey Juan Carlos. Dopo poche ore si può tornare indietro con il risultato ottenuto: i 500 sono diventati avvocati, anzi «abogados», perché per essere riconosciuti ufficialmente in Italia serviranno tre anni. Costo stimato dell'operazione: 11 mila euro. Caro per una gita, molto meno se nel pacchetto è compreso saltare l'esame di Stato in Italia, dove allo scritto passa, in media, solo il 30 per cento degli iscritti. La pratica è sempre più diffusa ed è legale, ma la procura di Madrid sta indagando sui rapporti tra le agenzie che gestiscono questi migranti del diritto e le università spagnole che assegnano i titoli. Il caso dei 500 italiani è stato aperto dopo la denuncia raccolta dell'Osservatorio spagnolo contro la corruzione. Il fenomeno ovviamente non si limita a quel sabato di primavera di due anni fa, ma va esteso e di molto, visto che sono migliaia ogni anno i connazionali che per evitare l'esame di Stato accedono alla professione andando in Spagna, a volte solo virtualmente. Le cifre non sono ufficiali, ma una consigliera dell'Ordine di Roma, l'avvocato Livia Rossi, ogni volta in cui assiste al giuramento dei nuovi fa una sua statistica «giovedì scorso su 29 persone, 19 erano passati per la Spagna». Piccoli dati, ma molto significativi, «gli "abogados" aumentano sempre di più», dice Rossi, nonostante che dal 2011 sia stato messo qualche paletto al turismo dei titoli. Prima della riforma spagnola, infatti, occorreva praticamente soltanto una laurea in Giurisprudenza per diventare «abogado». Oggi invece il percorso iberico prevede un master da frequentare e una prova finale. Ed è qui che, secondo l'Osservatorio contro la corruzione, nascono i dubbi: ci sono agenzie e studi di avvocati, spesso italiani, che organizzano queste gite, garantendo il disbrigo delle pratiche con successo finale assicurato («0% di bocciati», scrive uno dei portali più seguiti). «C' è chi guadagna molto e chi ottiene troppo senza sforzi» dice al telefono il coordinatore dell'Osservatorio Miguel Lorente. Alcune di queste agenzie arrivano al punto di promettere, che per diventare avvocato in Spagna non c'è nemmeno bisogno di uscire di casa, se non per la prova finale, «molto più semplice della nostra», ricorda l'avvocato Rossi che sottolinea il fatto che «questa pratica ha come conseguenza l'aumento complessivo degli iscritti, che sono già oltre 25 mila soltanto a Roma». Gli ordini professionali italiani hanno provato a fermare questa pratica, impedendo talvolta le iscrizioni all'albo degli «abogados», ma la Corte europea di giustizia e poi il garante della concorrenza hanno costretto a rettificare: chi è avvocato in una nazione dell'Ue deve essere riconosciuto nelle altre. In ogni caso gli ordini sono certi da anni che ci sia qualcosa che non va: «Nel 2010 provammo a fare una verifica, risultò che molte di queste persone non sapevano neppure dire "ciao" in spagnolo, eppure la lingua sarebbe uno dei requisiti», conclude Rossi. La denuncia dell'Osservatorio contro la corruzione era stata archiviata due anni fa, ma un giudice ha aperto il caso. Negli ultimi mesi l'Università Rey Juan Carlos I di Madrid è stata al centro dello scandalo dei master agevolati (quando non regalati) ai politici spagnoli che ha portato alle dimissioni della presidente della Regione di Madrid, Cristina Cifuentes e alla ministra della Sanità, Carmen Montón e potrebbe travolgere presto anche il leader del Partito popolare, Pablo Casado. «Sono storie che danneggiano enormemente il mondo universitario - accusa Lorente - speriamo che questa indagine faccia chiarezza, la cultura dello sforzo deve tornare di moda».

Io, che ho raccontato la casta, vi spiego la differenza dalle élite, scrive il 19 settembre 2018 Sergio Rizzo su "La Repubblica". Serve una classe dirigente onesta, capace e consapevole del proprio ruolo di tutela dell’interesse pubblico. Con meccanismi di selezione trasparenti e credibili. Non serve l’ondata di epurazioni e nomine eseguite dal nuovo Governo seguendo il medesimo metodo della cooptazione acritica che ha innescato la mediocrazia. Il manifesto della rivoluzione sovranista è la seguente frase attribuita a Matteo Salvini: “Non esistono destra e sinistra, esiste il popolo contro le élite”. Dice molto, al proposito, il curriculum del perito elettronico Simone Valente, sottosegretario grillino alla Presidenza incaricato di gestire il dossier Olimpiadi, che si definisce “dipendente pubblico” (in quanto parlamentare?). Eccolo: uno stage alla Virgin active, un secondo stage alla scuola calcio della Juve, tre mesi da venditore a Decathlon. Valente contro il sindaco milanese Giuseppe Sala, già dirigente della Pirelli, direttore generale di Telecom Italia, direttore generale del Comune di Milano, amministratore delegato dell’Expo 2015. L’immagine plastica del popolo (Valente) contro le élite (Sala). La tesi che i Paesi sviluppati non soltanto possano ormai fare a meno delle “élite intellettualoidi” (formula coniata da Luigi Di Maio), ma che le stesse élite vadano necessariamente spazzate via in quanto nemiche del popolo e amiche dello spread, ormai dilaga ovunque. Anche se qui la guerra si serve di un’arma ancor più micidiale. L’idea che si va affermando è che le élite si identifichino con ciò che viene ormai comunemente definita la casta. Ovvero, quella consorteria politica ingorda, autoreferenziale e incapace di risolvere i problemi della società, ripiegata sui propri interessi personali e di bottega e concentrata sulla difesa di inaccettabili privilegi. Che è cosa, però, ben diversa dalle vere élite, le quali dovrebbero coincidere con l’intera classe dirigente. Burocrati, imprenditori, professionisti, manager, medici, artisti, politici: indipendentemente dalle colorazioni, ciascun Paese democratico ha le proprie élite. E la storia dimostra che la crescita e lo sviluppo di ogni società civile è direttamente proporzionale alla loro qualità. Per questo ci sono nazioni, come la Francia, che hanno sempre dedicato risorse importantissime alla formazione delle classi dirigenti. Anche durante le rivoluzioni, quando una élite sostituiva quella precedente, rivelandosi spesso più efficiente. L’Europa ha dato il meglio di sé nei momenti in cui le oggi tanto vituperate élite erano formate da veri statisti, peggiorando poi in modo radicale quando il loro posto è stato occupato da personaggi via via sempre più modesti. Un processo lungo ma inesorabile, rivelato dai politologi Andrea Mattozzi e Antonio Merlo, che nel 2007 hanno sviluppato la teoria della mediocrazia: il meccanismo che ha determinato il degrado delle nostre classi dirigenti politiche, dove il processo di selezione meritocratica è stato sempre più rapidamente soppiantato dalla cooptazione. Al posto dei capaci, i fedeli. Nella politica, nella burocrazia, nelle aziende pubbliche e private, nelle banche, perfino nelle istituzioni in teoria più impermeabili, come le autorità indipendenti. Fermando l’ascensore del merito, si è fermato anche l’ascensore sociale e il ricambio di sangue. Il risultato è stato il calo verticale delle competenze in tutti i gangli cruciali, dall’amministrazione alle professioni. Gran parte dei problemi del nostro Paese sono strettamente legati al fallimento delle élite. Ma per tentare di risolverli in modo strutturale non c’è che una strada: ricostruire una classe dirigente, onesta, capace e consapevole del proprio ruolo nella tutela dell’interesse pubblico. Con meccanismi di selezione trasparenti e credibili. La missione spetta ora a chi occupa la stanza dei bottoni e fa parte, volente o nolente, proprio di una élite. Anche se questa è diversa da tutte le altre: una élite che ha l’obiettivo di distruggere il concetto stesso di élite. L’argomento dunque non è all’ordine del giorno della maggioranza gialloverde, né è previsto dal contratto di governo. Emerge invece una preoccupante avversione ideologica per la scienza, dimostrata in modo plateale dal caso vaccini. Con la verità della Rete che sovrasta quella della competenza, dello studio faticoso e della preparazione. Coerentemente, stiamo assistendo a un ulteriore impoverimento della qualità di chi è investito del compito di decidere. Abbiamo avuto un primo assaggio con la formazione del governo, dove accanto a residui della seconda Repubblica e figure improvvisate non manca un sottosegretario agli Esteri convinto che l’uomo non sia mai andato sulla Luna. Quindi un secondo assaggio con l’ondata di epurazioni e nomine eseguite seguendo il medesimo metodo della cooptazione acritica che ha innescato la mediocrazia. Esattamente come la politica italiana ha sempre fatto, con rare eccezioni. Senza verificare qualità e attitudini, ma solo appartenenza e fedeltà. E sorvoliamo, per carità di patria, sul curriculum.

Gli «abogados» vanno in pressing sulla Giustizia, scrive Alessandro Galimberti il 13 giugno 2017 su "Sole 24 Ore". I 332 abogados italiani raggiunti dal decreto ministeriale del 12 maggio di «rigetto del riconoscimento del titolo di avvocato conseguito in Spagna» hanno invitato il ministero a revocare la circolare e a chiarire che «la Spagna non ha mai messo in dubbio il percorso» di formazione di questi professionisti legalmente stabiliti (e iscritti) in Italia. La diffida è del 24 maggio scorso, «ma finora non abbiamo ricevuto risposta. Il danno d’immagine che stiamo subendo è incalcolabile - dice l’abogado Giuseppe Lipari, che già assiste i colleghi nei numerosi ricorsi al Tar aperti in Italia - pertanto chiederemo un incontro col ministro Andrea Orlando». La vicenda degli abogados, che pure a livello europeo hanno una disciplina e una giurisprudenza chiarissime e univoche (tra le ultime, sentenza 19 settembre 2016, causa C-506/04; sentenza 19 settembre 2016, causa C-193/05) sconta le complicazioni della regolamentazione spagnola, modificata a più riprese dal 2011 al 2015, passando per una serie di decisioni giurisdizionali controverse. Tuttavia, spiegano gli abodagos italiani, le autorità iberiche competenti hanno da tempo risolto la questione degli stranieri, confermando la piena legittimità delle iscrizioni ottenute prima del 2015. In sostanza fino all’ottobre 2011 per il riconoscimento del titolo era sufficiente la sola laurea, ma dopo la “stretta” imposta dalla Ue c’era stato un vuoto di norme attuative durato due anni, durante i quali era stato riconosciuto il titolo ai soli spagnoli ma non agli stranieri. La discriminatorietà di questa decisione è stata definitivamente sanata dal Consiglio Generale dell’Avvocatura e dal Tribunale superiore di giustizia di Madrid il 29 giugno di due anni fa, che hanno in sostanza definitivamente dichiarato la regolarità delle iscrizioni a tutto aprile 2015. Un’ulteriore complicazione è sorta quando il ministero italiano ha chiesto, nei mesi scorsi, un controllo sugli elenchi agli omologhi di Madrid, sbagliando però destinatario (la competenza spettava al ministero dell’Istruzione); il responso a titolo personale del funzionario, che pure sottolineava la propria incompetenza (rimettendo la questione ai collegi territoriali degli abogados) è stata utilizzata - tra gli altri indizi - dal ministero per ritenere illegittima l’iscrizione degli abogados, disattendendo anche lo stesso responso Imi (internal market). Da qui il decreto di via Arenula del 12 maggio scorso di revoca dell’iscrizione di 332 abogados. Decreto che ignorava, tra l’altro, il ricorso pendente al Tar Lazio (11808/16) sull’incompetenza dell’autorità spagnola che aveva qualificato come illegittime le iscrizioni.

A Roma ecco la carica dei duecento. Gli aspiranti «abogados» in crisi tra trolley e dizionari in castigliano. Molti hanno superato i 40 anni e si presentano con moglie e figli. Il codice resta nella borsa, interessa solo passare il test, scrive Patricia Tagliaferri, Domenica 1/10/2017 su "Il Giornale". Ad osservarli, in attesa nel cortile di un anonimo palazzo del quartiere San Giovanni, a Roma, non sembrerebbe proprio che tra loro possa nascondersi un qualche futuro principe del foro. Dizionario di spagnolo sotto braccio, trolley al seguito, carta di identità e penna biro in mano, sono arrivati da tutta Italia e aspettano di essere chiamati per sostenere i test che gli consentiranno, alla fine di un percorso tutto in discesa, di diventare abogado. È la via spagnola, quella che consente di aggirare lo scoglio, per molti laureati insormontabile, dell'esame di Stato italiano, dove la media nazionale degli ammessi all'orale è inferiore al 50 per cento. C'è chi l'ha provato due o tre volte, poi ha detto basta e si è lasciato sedurre dalla moltitudine di offerte proposte dal web per realizzare il sogno di indossare la toga in tempi certi e non troppo lunghi, semplicemente diventando avvocato in Spagna senza muoversi dal proprio pc. Al resto pensano le leggi comunitarie che consentono l'esercizio della professione in uno stato diverso da quello dove si è conseguita la qualifica professionale. Dopo tre anni da abogado appoggiati ad un legale iscritto, si diventa avvocati a pieno titolo. Tanto vale provarci, quindi, anche a costo di perdersi nel sottobosco di agenzie che da quando nel 2011 la normativa spagnola si è adeguata a quella europea, che prevede si debba fare un master e sostenere un esame finale per il riconoscimento della laurea preso in uno stato membro Ue, hanno fiutato il business e cominciato a proporre pacchetti tutto compreso, dal disbrigo delle pratiche ai voli charter per trasportare gli abogados ad iscriversi negli albi spagnoli, fino anche alla segnalazione delle risposte giuste dei test, probabilmente per chi sceglie il pacchetto deluxe. Il tutto in un pericoloso equilibrio tra il lecito e l'illecito che fa comodo a molti e fa girare un bel po' di denaro. Sono circa 200 gli aspiranti legali radunati davanti al centro studi Maniero. Non sembrano affatto tutti giovani neolaureati, tutt'altro. Alcuni sono arrivati con moglie e figli al seguito, moltissimi gli over 40 che per qualche motivo hanno bisogno di un titolo, non certo per esercitare a quell'età. È uno spaccato di umanità varia alla ricerca di una scorciatoia che renda possibile ciò che per vie ordinarie appare inarrivabile. «Mi auguro che abbiano un minimo di coscienza, capiranno che se siamo qui altrove non c'è andata bene», confida una giovane. Qualcuno tenta l'avventura in compagnia, molti si sono conosciuti in chat e si ritrovano qui a condividere ansie e timori. «È tutto un grande business», lamenta un candidato. «Tu con quale agenzie sei?», chiedono. E giù lamentele e dubbi sull'effettiva efficacia del percorso intrapreso. Qualcuno deve fare l'esame di deontologia e statuto generale dell'avvocatura spagnola per integrare la laurea, qualcun altro il master. Tutto in spagnolo, su codici e leggi di un altro paese. Ma che importa, quello che conta è l'agognata abilitazione e la speranza di non farsi fregare dalle agenzie e dalle università spagnole che sull'italica arte di arrangiarsi hanno costruito floridi traffici. Tra gli aspiranti abogados si aggirano gli agenti. Incoraggiano i loro clienti, danno consigli: «Avete cominciato a fare i test sulla piattaforma? Avete raggiunto almeno il 40 per cento di risposte esatte?». Uno batte cassa: «Sono venuto a fare l'esattore», dice. «Li vuoi subito o all'uscita?», gli risponde una ragazza. L'appello continua, qualcuno non è stato ancora chiamato. «Calma, c'è posto per tutti», vengono tranquillizzati quelli in attesa.

Esamopoli e Concorsopoli

L’Italia degli esami di Stato e dei concorsi pubblici truccati

Antonio Giangrande: “Dopo tanti anni, come volevasi dimostrare, in Italia, pur con la ragione, non si riesce a cavare un ragno dal buco, anzi sì è cornuti e mazziati e ti dicono, in aggiunta, subisci e taci. Gli aspiranti avvocati fuggono in Spagna o in Romania per abilitarsi. Questo per difendersi dai boiardi della lobby forense. Poi ci sono, tra gli altri, i concorsi truccati in magistratura e per diventare dirigente scolastico (preside). Inoltre, paradosso tutto italiano, i ricercatori universitari ingiustamente bocciati al passaggio di ruolo sono costretti ad insegnare”.

«Siamo un paese di bocciati e di scartati agli esami di Stato ed ai concorsi pubblici, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali. Il fatto che io sputtani il sistema, rendendo pubbliche le malefatte dei boiardi di caste e lobbies, fa sì che per ritorsione da decenni non mi abilitano all’avvocatura, non correggendo i miei compiti. Inoltre i magistrati mi denunciano per diffamazione continuamente, senza mai conseguirne condanna». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale, che sul tema ha scritto dei libri, e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici. «Esemplare è la mia storia identica a milioni di altre italiche storie. Da anni mi rivolgo alle istituzioni competenti ed ai Parlamentari italiani ed europei con funzioni di vigilanza ed inchiesta. Non parliamo poi delle denunce insabbiate dai magistrati. Al primo tapino che si rivolse a me, chiedendomi aiuto e non avendo potere di intervento, premonendo il futuro, gli dissi che con questa gente e le istituzioni che li coprono non avrebbe cavato un ragno dal buco: “sarai cornuto e mazziato”, gli dissi. Quindi cari bocciati e scartati Italia, fatevene una ragione. Con questi italioti mai nulla cambierà».

Abogados "spagnoli" e Avocat "rumeni" solo di nome, ma a tutti gli effetti avvocati con nazionalità italiana. Un fenomeno poco rassicurante per l’accesso alla professione forense che di  fatto secondo i boiardi nostrani è una scorciatoia per eludere l’esame di abilitazione nazionale. Se le leggi e le prassi in Italia fossero fatte nell’interesse di tutti, questi costosi oneri non cadrebbero sulle spalle dei cittadini meno protetti e sulle loro famiglie. Per qualcuno di  fatto una scorciatoia che elude l’esame di abilitazione nazionale che non si riesce a superare mentre per altri è un diritto di ciascun cittadino europeo. Fatto sta che sempre più giovani buttano la spugna già al secondo tentativo e scelgono la via facile dell’abilitazione professionale all’estero, dove non c’è alcun esame.

Diventare avvocati senza sostenere l'esame di abilitazione professionale: è la via che scelgono molti laureati italiani che «emigrano» in Spagna e Romania il tempo necessario per conquistare il titolo e tornare a esercitare la professione forense in Italia, scrive “Il Giornale di Sicilia”. A rivelarlo sono i dati diffusi dal Consiglio nazionale forense, che da tempo sta conducendo una battaglia contro questo fenomeno, arrivata sino a un ricorso alla Corte di giustizia delle Comunità europee. Il caso nasce dalla Direttiva europea 98, recepita dall' Italia nel 2001 che consente agli avvocati «comunitari» di svolgere l'attività forense in uno Stato europeo diverso da quello nel quale gli stessi hanno conseguito il titolo professionale. L'obiettivo è quello di promuovere la libera circolazione degli avvocati europei che sono chiamati «stabiliti» nei Paesi ospitanti. Ma la direttiva è di fatto  diventata, lamenta il Cnf, «lo strumento utilizzato da parte di tanti aspiranti avvocati italiani per eludere la disciplina interna ed, in particolare, per sottrarsi all'esame necessario per poter acquisire la necessaria abilitazione all'esercizio della professione forense in Italia». Una rilevazione effettuata presso tutti i Consigli dell' Ordine degli avvocati ha accertato che ben il 92% degli avvocati iscritti nell'elenco degli avvocati stabiliti sia di nazionalità italiana. Tra questi l'83% ha conseguito il titolo in Spagna e il 4% in Romania.In numeri assoluti, su un totale di avvocati stabiliti pari a 3759, 3452 sono di nazionalità italiana. Gli Ordini forensi che contano il maggior numero di avvocati «stabiliti» di nazionalità italiana, iscritti nell'elenco speciale, sono Roma (1058), Milano (314), Latina (129) Foggia (126).

Naturalmente, il fine della legge europea è quello di favorire la libera circolazione delle professionalità entro i confini dell’Unione, e permettere loro di svolgere il proprio lavoro in tutti gli Stati aderenti. Si tratta, nello specifico, della direttiva 98/5/CE, che l’Italia ha adottato con il decreto legislativo 2 febbraio 2001 n. 96. Anche la professione forense, infatti, come tutti gli altri elenchi presenti in Italia, si è dotata di un registro speciale per l’inserimento dei legali formati in altri Stati europei.

Come evidente, però, sorgono diverse perplessità sugli effetti della norma, come denota il segretario Cnf Andrea Mascherin: “È evidente che queste pratiche falsano la corretta concorrenza tra avvocati nei Paesi Ue, ma soprattutto mettono a rischio i diritti dei cittadini che si affidano a questi professionisti per la loro tutela”. Questo, finirebbe per tradursi in differenze di non poco conto tra chi si sobbarca dell’intero iter italiano e chi, invece, preferisce percorrere la via straniera, più breve e semplice: “I giovani aspiranti avvocati italiani che seguono la corretta procedura dell’esame di abilitazione sono svantaggiati rispetto a coloro che ottengono il riconoscimento di un titolo acquisito all’estero con scorciatoie e furbizie”.

Ci si potrebbe scandalizzare, però, se l’iter italiano fosse legale.

“Nessuno parla più di “diritto libero” e basta il fatto che quella fosse la teoria ufficiale nazista per rendere non più spendibili tali concetti - afferma Mauro Mellini - Ma che cos’è la teoria dell’“abuso del diritto”? Io non ho la possibilità di andarlo a proclamare nella sede di qualche Arcivescovado, nemmeno ora (e forse proprio ora) che c’è un Papa gesuiticamente tollerante e progressista. Ma non esito ad affermare che questa storia dell’abuso del diritto dovrebbe essere definita la “teoria nazista del diritto libero all’italiana”. Il diritto è il diritto, sia quello civile, sia, soprattutto, quello penale “nullum crimen, nulla poenia sine praevia lege penali”. Se vogliamo parlare di diritto dobbiamo risalire alla norma, stabilire la sua certezza e ad essa attenerci e con essa misurare il lecito e l’illecito. Siamo un Paese civile! Anzi, siamo “la culla del diritto”, mica una società barbara di cui parlava Calamandrei. Continuiamo ad affermare che il “diritto libero” è la legge del più forte, del potere senza regole. Benissimo. Però, italianamente, “senza esagerare”. E cioè? Beh, senza abusare dei diritti. Così siamo al riparo da questa falsa “libertà” che è negazione del principio di legalità, così come si predica in Italia. Diritto, dunque e certezza di esso. Che peraltro, sembra lo dica ora anche la Cassazione, non esclude però che del diritto prestabilito, certo, finemente interpretato, si possa abusare… Che significa? Significa che respinto come barbaro e nazista il “diritto libero”, si afferma, oltre al “libero convincimento” dei giudici nell’accertamento dei fatti e, magari, nell’interpretazione delle norme esistenti (fino a crearne qualcuna alquanto inesistente) “correggendo”, però il sistema con la “libera individuazione dell’abuso”. L’abuso, infatti, una volta che se ne ammetta l’esistenza e la rilevanza, non può essere classificato e regolato, neppure per reprimerlo. Libertà dunque (per i magistrati) di stabilire l’abuso, ferma restando la fede inconcussa nella certezza del diritto. Che a questa conclusione dovesse pervenire la magistratura italiana era prevedibile si dovesse arrivare. Ma, come al solito, il peggio di ogni abuso (anche, dunque, di quello di liberamente di richiederne e rilevarne l’esistenza!) è rappresentato dalla corrività con la quale, poi, tutti cercano di trarne profitto. Apprendo che il Consiglio Nazionale Forense, impegnato contro le iscrizioni “spagnole” ed, ora, anche “rumene” negli albi degli avvocati, con successivo trasferimento in Italia (un sistema consentito, sembra, delle norme comunitarie, e dal fatto che in Spagna ed in Romania i laureati in giurisprudenza si iscrivono all’albo degli avvocati senza apposti esami) pare abbia impugnato avanti alla Corte Suprema qualcosa come quattrocento iscrizioni di avvocati “made in Spagna” o in Romania. Per risolvere una questione particolare (forse risolvibile assai meglio altrimenti) proprio gli Avvocati, che del principio di legalità dovrebbero essere gli interessati custodi, fanno ricorso a questa teoria nazista all’italiana del ”libero abuso del diritto certo”. E’ cosa su cui riflettere. Amaramente.”

Parliamo in questa sede degli elaborati.

Quanto succede prima sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma forense del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Nella sessione 2012 a Lecce sono in tutto 102 gli aspiranti «avvocati copioni». I loro nomi sono contenuti nell’avviso di proroga delle indagini preliminari emesso dal gip Simona Panzera, notificato agli indagati nei giorni di febbraio 2014. La richiesta di proroga, che comporterà altri sei mesi di verifiche e accertamenti, è stata formulata dal procuratore capo Cataldo Motta, che ha tenuto per sè il fascicolo. Il reato contestato è la violazione dell’articolo 1 del regio decreto numero 7 del 1925, che regola la disciplina dei diritti d’autore. L’inchiesta riguarda coloro che hanno sostenuto la prova scritta dell’esame di Stato nel dicembre 2012. Gli elaborati sono stati poi corretti dalla Corte d’Appello di Catania, dove però gli esaminatori non hanno potuto fare a meno di notare alcune «anomalie».

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

E poi. Scuola, concorso per dirigente truccato: 25 avvisi di garanzia a Napoli, scrive Leandro Del Gaudio “Il Mattino”. Concorso per presidi: blitz nell'ufficio regionale scolastico. La procura di Napoli indaga sull'ultimo concorso per preside in Campania. Associazione per delinquere, abuso d'ufficio e falso, la Procura punta a fare chiarezza sulla gestione del concorso per dirigenti scolastici, notificando in queste ore decreti di perquisizione, ordini di esibizione e alcuni avvisi di garanzia. Indagine delegata alla Guardia di finanza di Torre Annunziata, sono in corso accertamenti e acquisizioni di documenti, sotto i riflettori l'ufficio regionale scolastico. Sono venticinque gli indagati, otto dei quali sono docenti vincitori di concorso dopo l'ultima prova scritta (all'inizio di febbraio) per l'accesso a un posto di dirigente scolastico. Gli altri indagati sono commissari di esame, un ex dirigente dell'ufficio regionale scolastico e sindacalisti. La guardia di finanza di torre annunziata ha anche trovato compiti scritto già fatti in una sede del sindacato. Dalle indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Alfonso D'Avino e dal sostituto Ida Frongillo, è emerso che gli indagati avevano creato un meccanismo per favorire alcuni candidati al concorso. In particolare, sarebbe stata pilotata la nomina di alcuni membri della commissione esaminatrice, grazie ai quali i candidati erano riusciti a conoscere con largo anticipo i quesiti della prova preselettiva. Inoltre - secondo l'accusa - si era riusciti a eludere l'anonimato delle prove scritte facendo pervenire ai componenti collusi della commissione giudicatrice gli incipit e le frasi finali dei candidati da favorire. Il materiale concorsuale di sei candidati è stato sequestrato.

Concorso per preside tra accuse e sospetti. Un bel giallo tra i presunti brogli coinvolto un foggiano. Secondo la legge doveva essere fuori dal concorso, invece non solo l'ha superato ma si ritrova a un passo dalla nomina. Denunce, dimissioni e sospetti di brogli: c'è un piccolo giallo nella procedura per il concorso da presidi (236 posti in Puglia) sulla quale da qualche indaga la procura della Repubblica. Uno degli 867 candidati ammessi alla prova scritta del maxi concorso per dirigenti scolastici, un professore «comandato» presso gli uffici della direzione regionale di Foggia, sarebbe stato pizzicato durante il primo giorno di prova con alcuni foglietti in un vocabolario. Tale episodio sarebbe avvenuto nella scuola «Elena di Savoia» in via Caldarola, al rione Japigia, uno degli istituti di Bari in cui si sono tenute le prove scritte, il 14 e 15 dicembre scorso. E a conferma che qualcosa non sia andato per il verso giusto, ci sono anche le dimissioni - avvenute pochi giorni fa - dei segretari delle due sottocommissioni, arrivate proprio adesso a concorso ormai ultimato (sono attese le prove orali). A denunciare tutto il docente Gerardo Troiano.

Una pioggia di ricorsi amministrativi s'è abbattuta sull'ultimo concorso per l'Abilitazione scientifica nazionale 2012-2013 per professori ordinari e associati che prelude poi a quella didattica con la chiamata e l'assunzione in ruolo, scrive Giovanni Valentini su “La Republica”. È una montagna di carta bollata che minaccia ora di provocare una valanga di annullamenti o di revisioni, sconvolgendo la vita già travagliata dei nostri atenei. Nell'ambito della controversa riforma Gelmini, il ministero della Pubblica istruzione aveva disposto una nuova procedura di abilitazione, introducendo la meritocrazia come principale criterio di valutazione. Questa avrebbe dovuto fondarsi su elementi trasparenti e oggettivi, definiti "bibliometrici", forniti dalla produzione scientifica di ciascun candidato nei rispettivi curricula: cioè monografie, articoli o citazioni pubblicati da riviste specializzate. Ma successivamente sono stati inseriti criteri aggiuntivi, del tutto discrezionali, in forza dei quali le commissioni di valutazione hanno ribaltato le graduatorie, suscitando anche alcune interrogazioni parlamentari.

Si tratta di un settore concorsuale “non bibliometrico”, perciò la commissione, come in tutti i settori non bibliometrici, si è proposta di valutare la «qualità della produzione scientifica (…) sulla base dell’originalità, del rigore metodologico e del carattere innovativo della stessa» e ha ritenuto di poter «prendere in considerazione, sulla base di un motivato giudizio di eccellenza della produzione scientifica, anche candidati che non posseggano tutti i requisiti (bibliometrici)». Questo comporta la necessità di leggere le pubblicazioni scientifiche dei candidati (di rileggerle, o almeno riconsiderarle, se già conosciute). I concorrenti per la seconda fascia erano 425 e quelli per la prima 115 e, poiché alcuni sostenevano ambedue le abilitazioni, il totale effettivo era pari a 490, per un totale di circa 6.600 (seimilaseicento) pubblicazioni: monografie, articoli, saggi, tutti da valutare analiticamente a norma di regolamento.

Seguiamo l’iter di questa commissione scrive G. Avezzu. Nominata a fine dicembre 2012, la commissione si riunisce una prima volta a fine gennaio 2013, per fissare i criteri. Poniamo che i commissari comincino a leggere le pubblicazioni e a valutarle quello stesso giorno. Consegneranno i loro verbali al MIUR a fine novembre, esattamente dieci mesi dopo: in tutto 303 giorni, 233 se togliamo 48 fra domeniche e altre festività nazionali e 44 mezze giornate del sabato. In 233 giorni significa leggere 28 pubblicazioni (anche monografie) al giorno. E comunque in 303 giorni significherebbe leggerne 21 al giorno. Questo dal primo all’ultimo giorno, e nel contempo: fare lezione, ricevere gli studenti, tenere gli appelli d’esame e di laurea, fare ricerca – living and partly living. In realtà, se scorriamo i verbali vediamo che già ai primi di aprile la commissione è in grado di «(discutere) ampiamente dei curricula, dei profili e della produzione scientifica dei candidati all’abilitazione nazionale (di) II fascia» in due riunioni consecutive per complessive 15 ore, e che a metà maggio passerà a discutere i candidati alla I fascia. Dobbiamo dedurre che nei mesi di febbraio e di marzo, più qualche giorno di gennaio e di aprile, la commissione abbia letto i 5.100 (cinquemilacento) lavori dei candidati alla II fascia – anche per riscontrare l’eccellenza, ove presente, pur in assenza dei requisiti cosiddetti bibliometrici (vedi sopra). E questo è un tour de force eccezionale anche per un accademico italiano: 85 (ottantacinque) pubblicazioni il giorno, comprese le domeniche, Pasqua, Pasquetta e Festa del Papà. Ammettiamo pure che un “eccellente” accademico conosca i quattro quinti della produzione del suo settore: restano 17 (diciassette) pubblicazioni il giorno, da leggere e valutare nel rispetto dei valori in campo e con la presunzione di fare un buon servizio all’Università italiana.

E pure scatta il paradosso. Bocciati, ma costretti a rimanere in cattedra ad insegnare, scrive Silvano Introvaia su “La Repubblica”. Ecco il singolare destino di migliaia di ricercatori universitari italiani alle prese con l'Abilitazione scientifica nazionale: la patente introdotta dalla riforma Gelmini, necessaria, in futuro, per partecipare ai concorsi per docente di prima - l'ex professore ordinario - e seconda  -  il professore associato - fascia. Ricercatori italiani, sfruttati e maltrattati? Stando ai loro racconti, sembra proprio di sì. Ma il tutto si svolge nel più assoluto riserbo, visto che nessuno se la sente di denunciare apertamente, se vuole continuare ad avere qualche chance all'interno del proprio ateneo. Noi siamo riusciti a raccogliere qualche testimonianza, ovviamente anonima.

«Dopo tanti anni, come volevasi dimostrare, in Italia, pur con la ragione, non si riesce a cavare un ragno dal buco, anzi sì è cornuti e mazziati e ti dicono, in aggiunta, subisci e taci», chiosa in chiusura Antonio Giangrande.

ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE. DERIVA CONCORSUALE.

I risultati fin qui pubblicati mostrano come siano stati abilitati mediamente intorno al 43% dei candidati sia alla prima sia alla seconda fascia. I risultati variano in maniera significativa da un settore concorsuale all’altro con percentuali di area che vanno - ad esempio - dal 53% dell’area 03 al 28,2% dell’area 14. Vi sono quindi settori le cui percentuali di abilitati superano il 70% come in 02/B1, e altri le cui percentuali sono di poco superiori al 20% in 14/C1. Il numero dei candidati è stato estremamente alto. A conferma del "clima da ultima spiaggia" che limiti al turnover, riduzione dei finanziamenti e delle opportunità di carriera, azzeramento delle prospettive per i tanti ricercatori più giovani, o ancora precari, hanno prodotto. Questo alto numero, frutto di un contesto drammatico, ha rappresentato uno degli elementi di distorsione sistemica e strutturale dell’intera procedura. I primi dati rendono evidente come la gran parte delle commissioni non abbia inteso l’abilitazione scientifica nazionale come una verifica dei requisiti di qualificazione scientifica dei potenziali candidati a professore di I e II fascia, ma una vera e (im)propria pre-selezione comparativa. Scelta tanto più erronea poiché le abilitazioni - che costituiscono i requisiti per la partecipazione ai concorsi e alle procedure di reclutamento negli atenei - delineano l’estensione, composizione e articolazione delle diverse discipline scientifiche nel medio futuro. Allo stesso modo appare evidente come nella maggioranza dei casi - non in tutti settori - i non strutturati siano stati largamente penalizzati, anche a parità di livelli di produzione scientifica come mostrato dagli indicatori (le cosiddette mediane). Tutto ciò lascia pensare che le commissioni abbiano in molti casi valutato, facendosi influenzare, o comunque tenendo conto, che allo stato attuale è per gli atenei estremamente difficile reclutare come professori di II fascia studiosi non già strutturati presso gli atenei italiani o comunque un numero significativo di studiosi. (Fonte: FlcCgil 23-01-2014).

ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE. RISULTATI A RILENTO.

Dal 30 novembre 2013, data ultima di chiusura dei lavori delle Commissioni dopo 6, ben 6, proroghe, non siamo neanche a metà dell’opera. 184 le commissioni; 91 i risultati finora noti. Dall’ultimo post che ho scritto su questo stesso argomento, datato 8 gennaio sono usciti altri 19 risultati: 12 giorni per 19 risultati … Non è difficile calcolare, procedendo a questi ritmi, quando la novella avrà fine. Procedendo con questi ritmi serviranno ancora due mesi pieni: 58 giorni, se non erro. La fine di marzo. Intanto il numero delle commissioni che stanno riaprendo i lavori in autotutela, per mettere al riparo i propri lavori da eventuale contenzioso, sta crescendo. Pochi giorni fa erano solo due. Alla data del 22 gennaio 2014 sono dieci, più del 10% delle commissioni i cui esiti sono stati finora pubblicati. (Fonte: M. C. Monaco, filelleni.wordpress.com 20-01-2014. Roars 22-01-2014).

UN ESEMPIO DEL LAVORO DI UNA COMMISSIONE.

Si tratta di un settore concorsuale “non bibliometrico”, perciò la commissione, come in tutti i settori non bibliometrici, si è proposta di valutare la «qualità della produzione scientifica (…) sulla base dell’originalità, del rigore metodologico e del carattere innovativo della stessa» e ha ritenuto di poter «prendere in considerazione, sulla base di un motivato giudizio di eccellenza della produzione scientifica, anche candidati che non posseggano tutti i requisiti (bibliometrici)». Questo comporta la necessità di leggere le pubblicazioni scientifiche dei candidati (di rileggerle, o almeno riconsiderarle, se già conosciute). I concorrenti per la seconda fascia erano 425 e quelli per la prima 115 e, poiché alcuni sostenevano ambedue le abilitazioni, il totale effettivo era pari a 490, per un totale di circa 6.600 (seimilaseicento) pubblicazioni: monografie, articoli, saggi, tutti da valutare analiticamente a norma di regolamento.

Seguiamo l’iter di questa commissione. Nominata a fine dicembre 2012, la commissione si riunisce una prima volta a fine gennaio 2013, per fissare i criteri. Poniamo che i commissari comincino a leggere le pubblicazioni e a valutarle quello stesso giorno. Consegneranno i loro verbali al MIUR a fine novembre, esattamente dieci mesi dopo: in tutto 303 giorni, 233 se togliamo 48 fra domeniche e altre festività nazionali e 44 mezze giornate del sabato. In 233 giorni significa leggere 28 pubblicazioni (anche monografie) al giorno. E comunque in 303 giorni significherebbe leggerne 21 al giorno. Questo dal primo all’ultimo giorno, e nel contempo: fare lezione, ricevere gli studenti, tenere gli appelli d’esame e di laurea, fare ricerca – living and partly living. In realtà, se scorriamo i verbali vediamo che già ai primi di aprile la commissione è in grado di «(discutere) ampiamente dei curricula, dei profili e della produzione scientifica dei candidati all’abilitazione nazionale (di) II fascia» in due riunioni consecutive per complessive 15 ore, e che a metà maggio passerà a discutere i candidati alla I fascia. Dobbiamo dedurre che nei mesi di febbraio e di marzo, più qualche giorno di gennaio e di aprile, la commissione abbia letto i 5.100 (cinquemilacento) lavori dei candidati alla II fascia – anche per riscontrare l’eccellenza, ove presente, pur in assenza dei requisiti cosiddetti bibliometrici (vedi sopra). E questo è un tour de force eccezionale anche per un accademico italiano: 85 (ottantacinque) pubblicazioni il giorno, comprese le domeniche, Pasqua, Pasquetta e Festa del Papà. Ammettiamo pure che un “eccellente” accademico conosca i quattro quinti della produzione del suo settore: restano 17 (diciassette) pubblicazioni il giorno, da leggere e valutare nel rispetto dei valori in campo e con la presunzione di fare un buon servizio all’Università italiana. (Fonte: G. Avezzu, Roars 11-01-2014).

Università, il paradosso di migliaia di ricercatori bocciati all'abilitazione ma costretti a insegnare. Università, bocciati all'abilitazione ma costretti a insegnare. Il paradosso delle migliaia di ricercatori che di fatto garantiscono la didattica negli atenei ma non hanno ottenuto la "patente" introdotta dalla riforma Gelmini, necessaria per i concorsi per i docenti. Ecco alcune testimonianze, scrive Salvo Intravaia su “La Repubblica”. Bocciati, ma costretti a rimanere in cattedra ad insegnare. Ecco il singolare destino di migliaia di ricercatori universitari italiani alle prese con l'Abilitazione scientifica nazionale: la patente introdotta dalla riforma Gelmini, necessaria, in futuro, per partecipare ai concorsi per docente di prima - l'ex professore ordinario - e seconda  -  il professore associato - fascia. Ricercatori italiani, sfruttati e maltrattati? Stando ai loro racconti, sembra proprio di sì. Ma il tutto si svolge nel più assoluto riserbo, visto che nessuno se la sente di denunciare apertamente, se vuole continuare ad avere qualche chance all'interno del proprio ateneo. Noi siamo riusciti a raccogliere qualche testimonianza, ovviamente anonima. E la storia è sempre la stessa. Giuseppe (nome, ma soltanto quello, di fantasia) da anni è "costretto" a sobbarcarsi l'insegnamento di una o addirittura due materie all'università perché gli atenei italiani non hanno sufficienti professori ordinari e associati per coprire l'intero ventaglio degli insegnamenti che impartiscono. "Per preparare le lezioni e garantire un servizio all'altezza della situazione sono costretto a trascurare la ricerca scientifica per cui l'università mi ha assunto", spiega. Ma quando poi c'è in ballo l'abilitazione scientifica nazionale la maggior parte dei candidati viene bocciata in malo modo. "Con le mie pubblicazioni non sono riuscito a rientrare nelle mediane fissate dal ministero", aggiunge. Giuseppe e tanti altri non sono abbastanza bravi nella ricerca scientifica da essere promossi e vengono "trombati" nella selezione per l'Abilitazione scientifica nazionale, ma vengono mantenuti ad insegnare ugualmente le materie che hanno sempre garantito ai propri atenei, anche senza quell'abilitazione che certifica le competenze proprio per professore associato, la figura preposta all'insegnamento. Ma com'è possibile? Non sono in grado di insegnare, quindi? E allora perché continuano a farlo? Tra i tanti paradossi, l'Italia vive anche quello che vedrebbe circa metà degli studenti universitari nelle mani di "professori" non idonei all'insegnamento. I nostri figli studiano con "professori" non all'altezza della situazione? E' quello che una ricercatrice meridionale, Maria (anche questo nome di fantasia) ha cercato di fare capire ai suoi colleghi associati. Dopo essere stata silurata al concorso per l'Asn, ha preso carta e penna e ha scritto loro poche e semplici parole: "Non essendo idonea all'insegnamento, cosa devo fare: continuare ad insegnare la mia materia, oppure abbandonare la cattedra e rientrare in laboratorio per la ricerca?". La risposta è stata chiara: "In fondo cosa cambia, non eri idonea prima e non lo sei neppure adesso. Puoi continuare ad insegnare". Scorrendo le lunghissime liste delle abilitazioni scientifiche nazionali pubblicate dal ministero si scoprono tantissime Marie e Giuseppe. A. A. insegna Sociologia del territorio per i servizi sociali all'università di Chieti-Pescara. Ma non ce l'ha fatta ad acciuffare l'abilitazione. G. B. è nelle stesse condizioni a Cagliari: insegna Geometria I nell'ateneo sardo, ma non ha superato l'ostacolo dell'abilitazione. A Pavia, A. C. insegna addirittura due materie: Diritto commerciale  e Diritto dei mercati finanziari. Stesso destino anche per A. T. docente di Microbiologia generale ed Enologia a Pisa ma che non ce l'ha fatta ad ottenere l'abilitazione nazionale. "Le pubblicazioni selezionate, così come la produzione scientifica complessiva, appaiono - recita il giudizio della commissione - di livello accettabile. Tuttavia, il contributo della candidata alle pubblicazioni selezionate appare molto moderato. La continuità della produzione scientifica selezionata e complessiva indica un notevole rallentamento negli ultimi anni. Gli altri titoli presentati sono di buon livello, ma non tali da controbilanciare le precedenti valutazioni. All'unanimità, non appare giustificata l'abilitazione scientifica nazionale della candidata per il ruolo di professore di II fascia". E i numeri confermano che senza il contributo all'insegnamento dei ricercatori l'università si bloccherebbe. Secondo la banca dati del ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, il corpo docente di ruolo è composto da poco meno di 55mila tra ordinari, associati e ricercatori. I professori abilitati all'insegnamento - di prima e seconda fascia - sono circa 30mila, ma gli insegnamenti che si impartiscono in tutti gli atenei nostrani sono quasi 77mila. Ogni prof dovrebbe quindi sobbarcarsi il peso dell'insegnamento di due o tre materie all'anno. Ma, di fatto, buona parte della didattica è delegata ai ricercatori ai quali viene chiesto di aderire "volontariamente". Il popolo degli addetti alla ricerca è il più numeroso: oltre 24mila ricercatori a tempo indeterminato e 1.800 a tempo determinato. I quali, gratuitamente, si accollano da anni l'insegnamento di una o due materie. In alcuni casi, i ricercatori reggono interi corsi di laurea. Ma la riforma Gelmini si è praticamente scordata di loro: dovranno partecipare all'abilitazione scientifica nazionale come qualsiasi soggetto che voglia intraprendere la carriera universitaria per ottenere il lasciapassare per il successivo concorso. Intanto, con o senza abilitazione, continuano a insegnare.

Negata senza motivazioni l'idoneità allo storico Scirè. Nel 2012, il bando per insegnare storia a Catania lo vinse una architetta, scrive Giuseppe Giustolisi  su il Fatto Quotidiano del 15 febbraio 2014. La vicenda di Giambattista Scirè, 38enne ricercatore universitario di Storia contemporanea, è la fotografia di come è trattato il merito in questo Paese. Se ne era occupato il Fatto Quotidiano un anno e mezzo fa, a proposito di un concorso di Storia, bandito dall’Università di Catania. Scirè aveva le carte in regola per vincerlo, ma arrivò secondo e l’insegnamento andò a una laureata in Architettura con master in Progettazione urbana. Fu la stessa commissione ad ammettere che quella laurea era “eccentrica” rispetto all’oggetto del bando. In attesa del Tar, che dovrebbe pronunciarsi a fine marzo, il ricercatore siciliano intanto è stato bocciato al bando per l’abilitazione all’insegnamento universitario di seconda fascia. E se a qualcuno venisse il dubbio che Scirè così bravo non è, sarebbero gli stessi commissari a smentirlo, visto che nei giudizi lo riempiono di lodi. Allora? Tutta colpa di non precisati requisiti aggiuntivi, che a Scirè mancano. Candidato di valore, 38 pubblicazioni dal 2001, articoli pubblicati in riviste prestigiose, saggi stampati da grossi editori, però Scirè è privo di requisiti aggiuntivi che nel bando nazionale del 2011 sono previsti ma non specificati e sono stati inseriti un anno dopo in un verbale della commissione. “Si tratta di requisiti discrezionali”, dice al Fatto il senatore Pd Paolo Corsini, autore di un’interrogazione parlamentare sulla commissione di Storia contemporanea e che già un anno fa si era occupato del caso Scirè. Scrive Corsini: “Questi requisiti non dipendono affatto dalla capacità e dalla qualità di ricerca del singolo candidato, ma dall’aver partecipato al comitato di redazione di una rivista ritenuta scientifica o a qualsiasi convegno, purché all’estero”. Corsini non fa nomi ma è un addetto ai lavori, fa proprio il professore di Storia moderna all’Università di Parma. E tra le anomalie si segnala il caso di venti candidati che hanno superato una sola mediana (il bando ne prevede almeno due), otto abilitati con una sola monografia all’attivo (mentre Scirè ne ha sei di livello), un altro ancora con una monografia e requisiti aggiuntivi inesistenti (vantava la partecipazione al comitato di una rivista della quale in realtà non aveva mai fatto parte) e il caso, ancora più eclatante, di una candidata promossa con tre giudizi negativi, uno possibilista e uno solo positivo. Non sono pochi i giudizi possibilisti che non fanno capire con chiarezza se sono positivi o negativi. “Un’abilitazione possibile”. “L’abilitazione ci può stare”. Queste le espressioni che ricorrono nei giudizi dei commissari. Nel caso di Scirè, un commissario, Guido Formigoni, arriva a scrivere: “Produzione significativa e corposa, ma non ha nessuno dei requisiti aggiuntivi, per questo l’eccezione da realizzare per l’abilitazione sarebbe cospicua”. Mentre Corsini si accingeva a presentare l’interrogazione, alcune settimane fa la commissione tornava a riunirsi in autotutela (dietro autorizzazione del ministero per l’Università) per sanare alcuni vizi, parte dei quali coincidono con quelli denunciati da Corsini, conferma lo stesso senatore al Fatto. Scirè adesso è disilluso. Oltre a dovere fare i conti con le ritorsioni, deve far di conto perché un altro ricorso al Tar costa parecchi soldi e un assegnista di ricerca non può attendere i tempi della giustizia. “Non mi resta che rivolgermi alla Procura della Repubblica”, dice Scirè. L’alternativa è andare via dall’Italia. E Scirè ha pensato anche a questo.

Unisalento, concorsi abilitazione il 41% dei docenti associati non diventa ordinario, scrive di Maria Claudia MINERVA su “Il Quotidiano di Puglia”. «Il candidato presenta una monografia, cinque contributi in volume, tre articoli in riviste. La valutazione delle pubblicazioni è buona per quanto attiene alla coerenza con le tematiche del settore concorsuale, scarsa per qualità della produzione scientifica.  Pertanto, la commissione, con giudizio unanime, ritiene non raggiunta la piena maturità del candidato e quindi, allo stato, lo ritiene non idoneo al conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di prima fascia per il settore concorsuale...». Che detto con meno diplomazia equivale a «bocciato». Recitano più o meno così i giudizi delle Commissioni scelte dal ministero delle Pubblica Istruzione, Università e Ricerca per valutare se concedere l’abilitazione ai candidati che ambiscono ai posti di associato o ordinario in tutti gli atenei italiani. Ebbene, i risultati - la cui pubblicazione per settori è cominciata il 30 novembre scorso ma non si è ancora conclusa - non sono molto soddisfacenti. Basti pensare che più del 40 per cento - il trend è nazionale - non è riuscito a superare la prova. Come a dire che nelle università la metà dei professori non potrebbe svolgere attività didattica perché sprovvisto del titolo che abilita all’insegnamento. Ma tant’è. Luci ed ombre non mancano neppure all’Unisalento, dove il treno per l’abilitazione scientifica nazionale - la nuova modalità di reclutamento dei docenti introdotta dalla Gelmini per uscire dalla vecchia logica dei concorsi di una volta che avevano visto andare in cattedra anche professori che non meritavano - rischia di lasciare a terra il 35% per cento di candidati che hanno partecipato al concorso sperando di conquistare lo status di “associato” o “ordinario”, per poi essere assunti nei posti che, da qui ai prossimi quattro anni, potrebbero rendersi disponibili (punti organico permettendo). Un lustro meno un anno, tanto dura, infatti, l’abilitazione scientifica, vale a dire: se, nell’arco di tempo indicato, un professore abilitato non riesce a conquistare una cattedra perde il titolo e deve abilitarsi di nuovo. Al momento sono stati valutati 133 settori scientifici su un totale di 184, sono invece 180 le commissioni scelte per assicurare la trasparenza e la fine dei baronati. Due, come si è detto, le abilitazioni per le quali si poteva concorrere: quella di prima fascia per gli associati che aspirano a diventare ordinari, e quella di seconda fascia, per i ricercatori che aspirano a diventare associati. Nell’ateneo salentino su un’anagrafe di ricercatori ferma a 317 unità, sono stati 173 (56%) a presentarsi per l’abilitazione scientifica. Di questi, 88 (49%) sono stati promossi, 49 (27%), invece, non ce l’hanno fatta; mentre 42 (23%) sono ancora in attesa di conoscere il verdetto. Alla fascia per l’abilitazione di professore ordinario - su un’anagrafe di 193 - hanno partecipato 120 (62%), di questi 46 (38%) sono stati promossi, 49 (41%) sono stati bocciati, altri 25 aspettano la pubblicazione della “pagella”. Complessivamente, all’Università del Salento la percentuale - sui 133 settori valutati - dei ricercatori che si sono abilitati per la seconda fascia (associato) è stata del 62%, mentre quella degli ordinari si attesta al 44%. A guardare le valutazioni - pubblicate sul sito ministeriale - i risultati non sono poi così lusinghieri e le bocciature sonore si contano nel Salento come nel resto d’Italia. Il rischio è che si metta in discussione la validità degli insegnamenti tenuti fino ad oggi da quei docenti risultati non idonei. Questa volta potrebbero essere gli studenti a puntare il dito contro gli insegnanti clamorosamente bocciati, tra i quali anche docenti con un curriculum da fare impallidire. Hai voglia a dire che le commissioni sono state ingiuste, che i respinti sono sempre i migliori, di fatto, nero su bianco, resta il giudizio inequivocabile «non idoneo». Esattamente come quando un maturando non viene ammesso all’esame di Stato e deve ripetere l’anno. Conta questo e gli effetti che può produrre, soprattutto sulle famiglie al momento in cui sono chiamate a scegliere in quale ateneo far studiare i propri figli. Sebbene, poi, come ha scritto Loriano Zurli, ordinario di Filologia latina all’Università di Perugia, bisognerebbe «comparare la produzione scientifica di almeno tre quinti dei commissari con quelle di certi candidati davvero eccellenti, bocciati benché sicuramente meritevoli di conseguire l’abilitazione nazionale».

DISOCCUPATO PERCHE’ SBIRRO.

Fare il poliziotto, sogno infranto: gli idonei ai concorsi denunciano lo Stato, scrive Paola Adragna su “La Repubblica”. Una raffica di ricorsi contro le nuove selezioni per le forze dell'ordine. A fare appello al Tar i giovani che rischiano di restare disoccupati ed esclusi nonostante abbiano già superato gli esami. Tradito. Così si sente Simone. Ha fatto il concorso per entrare in Polizia nel 2010 ma è stato scartato per qualche centesimo di punto: i posti a disposizione non erano abbastanza. Ora, alla vigilia delle nuove selezioni bandite dalle Forze dell'ordine, la sua unica possibilità sarebbe ripetere la prova. Così Simone e centinaia di ragazzi come lui, hanno optato per le vie legali: denunciare lo Stato. Perché, accusano, esiste una legge che impone lo scorrimento degli idonei non vincitori nelle graduatorie dei concorsi pubblici. Insomma, devono entrare prima loro. Il decreto D'Alia, diventato legge nell'ottobre 2013, prolunga la validità delle graduatorie dei concorsi nella pubblica amministrazione fino al 31 dicembre 2016 e impone di assumere tutti i vincitori e gli idonei delle graduatorie ancora valide prima di bandire nuovi concorsi. "Ma le forze dell'ordine sembrano ignorarlo: nemmeno un mese dopo la promulgazione della legge, la Polizia penitenziaria ha bandito un nuovo concorso. Avevo appena ricominciato a sperare. Credevo finalmente di poter giocare la mia possibilità. E invece sono ancora fuori", dice Chiara 24 anni. Chiara studia per gli ultimi esami della laurea magistrale in Psicologia e la divisa da guardia carceraria non è stato il suo sogno da bambina. "Ma lo è diventato da grande, quando ho capito che, lavorando per la sicurezza del mio Paese, potevo coltivare anche la passione per la criminologia. Sono idonea non vincitrice con un punteggio di 9,6 su 10. Come me altri 50 ragazzi. E il nuovo concorso è per 260 posti. Perché noi no?". E Andrea, 28 anni e idoneo in due diversi concorsi da allievo carabiniere, sottolinea: "Siamo una risorsa pronta a essere utilizzata. Potremmo iniziare direttamente con la scuola di formazione appena si liberano dei posti, senza le spese di una nuova selezione. Per noi e per lo Stato". Così man mano che le forze dell'ordine hanno messo a concorso nuove assunzioni, e mentre il Movimento 5 Stelle cerca di far approvare in commissione Affari costituzionali alla Camera un emendamento per garantire lo scorrimento delle graduatorie, i ragazzi hanno fatto ricorso. Prima il gruppo della Polizia penitenziaria, che ha appena notificato il procedimento al ministero della Giustizia, poi sarà il turno dei ragazzi dei Carabinieri e della Guardia di finanza. Tra di loro anche i non vincitori dell'ultimo concorso per allievo maresciallo: una selezione su cui sta indagando la procura di Bari. Restano in attesa i poliziotti, pronti a rivolgersi al Tar non appena uscirà un nuovo bando. Nel comparto sicurezza e difesa il precariato ha assunto proporzioni drammatiche. "Il problema", spiega l'avvocato Giorgio Carta, esperto di diritto militare che segue i casi di ricorso  "nasce con l'abolizione della leva obbligatoria e l'introduzione della figura del Volontario in ferma prefissata (Vfp). Un vero precario di Stato, sottopagato, ma con mansioni da effettivo e obbligato a non dire mai di no". Un requisito fondamentale per accedere ai concorsi per le carriere iniziali nelle forze di polizia è infatti quello di aver fatto almeno un anno nell'Esercito da Vfp. "Poi esiste la possibilità che il contratto da Vfp venga rinnovato",  prosegue l'avvocato  "e in questo modo si continua ad alimentare un bacino di precari servitori dello Stato, magari utilizzati nelle missioni in Iraq o in Afghanistan, e che dopo sei o sette anni di lavoro difficilmente troveranno spazio da effettivi, né all'interno dell'Esercito stesso, né nelle forze di polizia. Comunque non tutti". E se si ha la bravura, e la fortuna, di vincere un concorso, se non si viene chiamati subito a far parte del corpo per cui si è affrontata la selezione, una delle ipotesi è di diventare un Vfp4. Si tratta delle cosiddette 'seconde aliquote': ragazzi che, per la loro posizione in graduatoria, verranno assunti solo dopo aver prestato servizio nell'esercito come Volontari in ferma quadriennale (Vfp4). E anche loro, oltre agli idonei, stanno facendo ricorso. Nonostante la speranza di un futuro nel corpo di polizia per cui sono vincitori, la situazione dei Vfp4 non è delle migliori: "Prendiamo stipendi più bassi, nessuna tredicesima, i contributi ci vengono pagati per poco più della metà degli anni di lavoro e, nei casi peggiori, la causa di servizio non viene riconosciuta. Vale a dire: se mi faccio un turno e, alla fine dei 4 anni, non supero le visite di mantenimento, quelle che permettono il passaggio dall'Esercito alla Polizia, resto disoccupato a meno di 30 anni", sospira Matteo cacciando via anche solo l'idea che qualcosa di simile accada. Lui ha 28 anni e ha ancora un anno da soldato davanti agli occhi. Si è sposato due anni fa, vorrebbe una famiglia, ma aspetta ad avere bambini: "Oltre al fatto che ho sempre il terrore di perdere il lavoro, non so ancora quale sarà la mia destinazione finale, la città dove potrò stabilirmi. Come posso mettere al mondo dei figli senza nessuna certezza?". Solo nella Polizia sono un migliaio i ragazzi come Matteo, in servizio interforze all'Esercito. Altri 500 hanno da poco finito i loro quattro anni: hanno vinto il concorso nel 2006 ma sono stati convocati solo nel 2008, dopo due anni di silenzio e disoccupazione. Di loro, sedici non sono stati confermati. Una percentuale esigua, certo, ma che incarna uno spauracchio per gli altri mille. La speranza per loro, e per la lunga lista di idonei nelle graduatorie dal 2008 a oggi, arriva da un post Facebook del ministro Angelino Alfano: "Sbloccato il turnover delle forze dell'ordine, che subirà una deroga del 55%. Abbiamo ottenuto un risultato importante sulle nuove assunzioni in vista di Expo 2015". Per essere pronti in tempo i nuovi agenti dovrebbero iniziare la formazione ad aprile: "Non dovrebbe esserci tempo per un nuovo bando, quindi lo scorrimento sembra obbligato. Prima quello delle seconde aliquote, che hanno la precedenza perché già vincitori, poi degli idonei. I ragazzi lo invocano a gran voce. Ma non ci facciamo illusioni", spiega Vittorio Costantini, segretario nazionale Siulp. "Bisogna tagliare le spese, ma il problema sicurezza, non solo in vista dell'Expo, va affrontato in maniera seria. Basta ai provvedimenti tampone, ci vuole dialogo con gli operatori del settore e riforme strutturali. Siamo in sottorganico: abbiamo 15 mila uomini in meno. E poi perché se servono poliziotti, lo Stato forma soldati? Questi ragazzi arrivano nei nostri reparti più vecchi e 'usuratì da un contesto lavorativo totalmente differente". "Si continua a dire che spendiamo troppo per la sicurezza, ma non è vero", afferma Vincenzo Chianese, segretario nazionale Uil Polizia: "Abbiamo circa 200mila agenti tra polizia e carabinieri per 60 milioni di abitanti. Cifre simili a quelle della Francia e della Spagna. I costi si possono e si devono ridurre, ma non a spese dell'arruolamento. Se solo si riconducessero polizia e carabinieri allo stesso ministero, centralizzando acquisti, presidi territoriali e sale operative, si potrebbero destinare 35, 40mila unità dagli uffici alle pattuglie: un risparmio di soldi per un servizio migliore". L'applicazione del decreto D'Alia non sembra così immediata. Nonostante il ministro della Funzione pubblica, interpellato alla Camera dal deputato Pd Emanuele Fiano il 15 ottobre 2013, avesse assicurato che la norma era in vigore anche per il comparto Difesa e Sicurezza. Sentito da noi, D'Alia ha precisato che "Questa è una legge generale che non può derogare a quelle speciali, come la disciplina sul reclutamento delle forze di polizia, che prevede un sistema di programmazione quinquennale nel quale i posti disponibili sono messi annualmente a concorso". Ma l'avvocato Carta non ci sta: "Il decreto si deve applicare. Esiste una circolare del novembre 2013 che elenca le categorie che sono escluse dall'applicazione della norma, come la sanità o la scuola, e le forze dell'ordine non vengono mai menzionate. Anzi le amministrazioni centrali, come i ministeri da cui dipendono Polizia, Carabinieri e gli altri, sono sottoposte alla legge". La decisione finale spetta quindi al Tribunale amministrativo regionale, ma anche nel caso in cui dovesse dare ragione ai ragazzi, lo scorrimento non sarebbe indolore: con quale ordine dovrebbe essere assunto il personale? Come spiega l'avvocato Carta esistono due possibilità: la prima è quella di assumere prima le seconde aliquote, sospendendo la ferma quadriennale, e poi gli idonei. La seconda è quella di incorporare prima gli idonei. "Entrambe le soluzioni però presentano delle problematiche: nel primo caso l'Esercito si troverebbe improvvisamente privato di personale. Nel secondo, più facile da applicare dal punto di vista pratico, si commetterebbe un'ingiustizia nei confronti dei ragazzi vincitori che vedrebbero assunti prima di loro ragazzi solo idonei". E resta sempre il nodo di chi merita una chance per realizzare il sogno di un lavoro nelle forze dell'ordine, che si vedrebbe chiudere le porte in faccia se non venissero più banditi concorsi. "A tutti deve essere data una possibilità, ma noi arriviamo rotti", si lamenta Giovanni, anche lui in prestito all'Esercito. "E io entrerò in polizia che sarò troppo vecchio per far parte dei Nocs, l'unità speciale anti terrorismo, il motivo per cui ho scelto questo lavoro". Eppure questi giovani non si abbattono e continuano a inseguire i propri sogni. Hanno studiato, la vita militare non è un ripiego. Non hanno dovuto scegliere tra la zappa e la beretta, come 40 anni fa. Avevano un ventaglio di opzioni e hanno scelto di servire lo Stato. E di fargli causa se non gli viene permesso.

Settemila carabinieri senza lavoro. Beffati con un decreto gli ausiliari. Con l'abolizione della leva obbligatoria e l'introduzione del militare professionista, la figura è stata cancellata per decreto nel 2005. Tutti si sono ritrovati per strada. Ma quando hanno tentato di fare un concorso non hanno potuto usufruire dei posti riservati ai volontari della Forze armate. Molti hanno cercato di avviare un'attività in proprio: ma il loro passato si è rivelato un ostacolo che ha finito per isolarli. Perfino dall'Inps che non riconosce loro i versamenti pensionistici, scrive Fabio Tonacci su “La Repubblica”. Sembra che quella divisa, smessa prima di quanto loro speravano, alla fine salti fuori nei momenti meno opportuni. Durante un colloquio di lavoro in Sicilia, per esempio, dove essere stati carabinieri ausiliari a quanto pare in certe zone è diventato una nota di demerito, un asterisco rosso sul curriculum. "Facisti u sbirro?", si è sentito dire più di una volta Vincenzo La Barbera, 36 anni di cui tre passati in servizio come ausiliario, tra il 1998 e il 2003, "no grazie, "guardie" non ne vogliamo". Oppure mentre passeggi in metropolitana a Roma, e ti accorgi che quel tipo dalla faccia sporca che ti sta fissando in realtà lo conosci bene perché lo hai arrestato un paio d'anni prima. "Ebbi davvero paura sapendo di non avere più una divisa addosso, di non fare più parte dell'Arma", racconta Orazio Rando. E si percepisce lo sforzo che fa ad ammetterlo, lui che da ausiliario era in piazza Alimonda durante il G8 di Genova, lui che disarmò la mano del collega Placanica che aveva appena ucciso Carlo Giuliani. "Poi nel 2003 mi hanno congedato, nonostante fossi stato dichiarato idoneo per diventare effettivo. E mi sono sentito spogliato del sogno della mia vita". Nelle condizioni di Vincenzo e di Orazio, precari nel lavoro e nelle speranze, senza tutele e con un passato da carabinieri che paradossalmente è diventato un peso, oggi sono almeno in 7 mila: ex carabinieri ausiliari, uomini che scelsero di appartenere a un corpo che da un giorno all'altro è stato cancellato con una legge. Una storia che lo Stato italiano ha voluto chiudere in fretta. Troppo in fretta. 88 anni di storia. La figura nacque con un regio decreto nel 1917. Fino a quando c'è stato il servizio di leva obbligatorio, si poteva scegliere di svolgere la ferma obbligatoria nell'Arma dopo aver frequentato un corso di istruzione di tre mesi e mezzo presso le Legioni Allievi. Si diventava ausiliario, si entrava subito in servizio nelle Stazioni, nelle Compagnie e dei Battaglioni mobili, e si era pagati come effettivi: circa 980 mila lire al mese, a differenza dei normali militari di leva che, dopo aver frequentato per un mese il Car (Centro addestramento reclute), percepivano una paga di centomila lire. "Forse in questo eravamo dei privilegiati",  ammette Simone Donazio, portavoce nazionale dei carabinieri ausiliari che si sono costituiti in comitato ed hanno aperto un sito,  "ma è anche vero che noi battevamo le strade con compiti di controllo dell'ordine pubblico o di polizia giudiziaria. Rischiavamo la pelle". Al massimo lo status di ausiliario poteva durare tre anni e la speranza di tutti era di superare un concorso e diventare carabiniere effettivo. Nel 2005 tutto cambia. Ma nel 2005 cambiò tutto. La legge che ha sospeso il servizio di leva, la 226/2004, ha introdotto definitivamente la figura del militare professionista e volontario. E in base a quella legge sono stati chiusi i corsi per diventare carabinieri ausiliari. Il giuramento del 28 gennaio 2005 alla scuola di Benevento fu l'ultimo. In quel momento c'erano circa 7 mila ausiliari ritenuti idonei, che avevano fatto uno, due, anche tre anni di servizio, senza riuscire a entrare definitivamente nell'Arma. Non erano i soli ausiliari delle forze dell'ordine: negli anni Settanta la figura era stata introdotta in Polizia, negli anni Ottanta nella Finanza. Ed esistevano pure nei Vigili del Fuoco. Ma i più antichi, quelli con una storia più sostanziosa nelle tradizioni e nei numeri, erano loro, i carabinieri. Volontari o obbligati? È allora, nel 2005, che si accorgono che quella divisa in realtà non valeva più niente, era inutile per trovare un lavoro. Vincenzo La Barbera lo ha capito appena ha partecipato a un concorso pubblico bandito dal Comune di Palermo per alcuni posti di sorveglianti di scuole. "Nella graduatoria finale fui superato dagli ex detenuti", ricorda, "perché godevano di una tutela particolare: quel concorso era dedicato in parte al loro reinserimento in società, mentre io non avevo diritto a nessun punto in più per il servizio che avevo svolto nei carabinieri". E questo perché gli ausiliari non sono equiparati ai volontari delle Forze armate, dunque non rientrano in quel 20-30 per cento di posti nei concorsi pubblici, riservati ad essi. Volontari a tutti gli effetti. "Nemmeno possiamo usufruire del programma Sild del ministero della Difesa per il ricollocamento nel mondo del lavoro dei volontari congedati senza demerito", spiega ancora Donazio  "eppure siamo volontari a tutti gli effetti, lo dice la legge". Quella legge in realtà è un decreto legislativo del 12 maggio 1995, il numero 198, nel quale effettivamente al comma 4 si parla del reclutamento dei Carabinieri e si definisce quello degli ausiliari "arruolamento volontario". Nonostante ciò, oggi non viene riconosciuto loro nemmeno il diritto ad avere una corsia preferenziale per la nomina di Guardia giurata, tradizionale valvola di sfogo lavorativa per i volontari congedati senza demerito. Oggi precari. Dunque, la maggior parte degli ex ausiliari oggi si arrabattano. Qualche fortunato ha trovato un impiego a tempo indeterminato. Ma il sito del comitato nazionale organizzato da Donazio è pieno di storie di precarietà, di amarezze, di paradossi. Come quello di Salvatore, che ha dovuto chiudere la sua rosticceria in un paesino del corleonese ed emigrare in Germania: non aveva clienti, nessuno andava da lui. Troppo ingombrante in quelle zone il suo passato di "guardia" senza più divisa. Ed era un ex ausiliario disoccupato anche Alex Maggio, il 32 enne che a fine agosto ha ucciso a colpi di pistola una gioielliera di Saronno. "Non trovava lavoro", dice chi lo conosce, "e il vizio delle slot machine lo stava divorando". La beffa dell'Inps. Ma le beffe non sono finite. Perché gli anni di servizio in strada, al G8 di Genova, ad arrestare mafiosi nelle province più profonde e pericolose della Calabria e della Campania, non valgono per la pensione. Nel 2010 alcuni ausiliari in congedo fecero domanda all'Inps di accredito dei contributi versati all'Inpdap ai fini pensionistici. Ma con una lettera, l'ente pensionistico ha risposto così: "La domanda non può essere accolta perché trattasi di servizio volontario, quindi retribuito. Recarsi presso un patronato e costituire la posizione assicurativa". Dunque per l'Inps sono militari volontari, ma quando vanno a fare un concorso no. "Contiamo meno di un obiettore di coscienza", chiosa Donazio, "non abbiamo nessuna agevolazione. Eppure lo Stato ha speso soldi per formarci". Di reintegro nell'Arma, neanche a parlarne. Nonostante il comandante generale, Leonardo Gallitelli, in Senato a luglio avesse sottolineato la mancanza in organico di 10mila unità, a 35 anni gli ex ausiliari sono considerati dal ministero della Difesa e dalla normativa di riferimento "anagraficamente anziani". Dimenticati da quello Stato che hanno servito.

"Ho provato a fare di tutto, sono come un appestato", scrive Giuseppina Avola su “La Repubblica”. "In Sicilia se sei stato uno sbirro è difficile trovare lavoro. Provate a fare domanda nel settore dell'edilizia, vi rideranno in faccia. In un settore come quello, dove gli appalti sono assegnati quasi sempre senza rispettare la legge, chi quella legge ha servito, come me, è visto come un portatore di rogne". Andrea Aloi è un ex carabiniere ausiliario siciliano. Ha 37 anni e da 15, da quando ha dismesso la divisa, conduce una vita precaria. "Ho fatto il rappresentante, il muratore, l'elettricista... tutto al nero. Non sono riuscito a trovare niente di meglio". Quello che lui definisce il suo personale "girone dantesco" comincia nel 1999.

Cosa è successo in quell'anno?

"È stato quando mi hanno fatto congedare dall'Arma. Nel 1997, durante il mio ultimo anno di scuola, mi arrivò la cartolina con la comunicazione: potevo arruolarmi. Servire la mia patria era un sogno che avevo fin da quando ero bambino, una vocazione. Così presentai la domanda e l'anno dopo ero un carabiniere ausiliario del 216esimo corso. Al termine dei dodici mesi, però, è arrivato il congedo e da allora è iniziato il mio calvario".

Ha provato a proseguire la carriera, partecipando a concorsi?

"Se dico di aver partecipato a 100 concorsi, dico una bugia: sono pure pochi. L'ultimo nel 2005 per diventare ufficiale di Marina. Ma niente, mi passano tutti davanti. È come se fossi appestato. Quell'anno nell'Arma non mi è servito a nulla: nessuna agevolazione per accedere ai concorsi e, addirittura, l'Inps non mi ha neanche riconosciuto i contributi".

Eppure quando ha prestato servizio da carabiniere ausiliario veniva pagato molto di più di un normale militare di leva.

"Sì, è vero. I militari di leva prendevano 100 mila lire al mese, io 900. Ma non l'ho fatto per soldi. La mia è stata una scelta dettata dalla passione. Se oggi mi dicessero "ti arruoliamo gratis", direi senza dubbio di sì. Solo che ormai a 37 anni per lo Stato italiano sono troppo vecchio".

E nel frattempo come si è mantenuto?

"Ho fatto tutti i lavori più umili per non pesare sulla mia famiglia. Mai un contratto però. In Sicilia se non hai un padrino politico non ti prendono neanche per pulire i bagni. Figurarsi appena sentivano che ero stato uno sbirro. Ho fatto l'elettricista e mi pagavano 10 euro al giorno. 10 euro. L'unico lavoro stabile, in nero, in una gioielleria a Catania. Ho lavorato lì per 8 anni. Poi qualche mese fa ho partecipato a una trasmissione radiofonica per raccontare la mia storia di carabiniere ausiliario abbandonato dallo Stato. Dopo qualche giorno mi hanno licenziato".

Cosa si aspetta dallo Stato?

"Niente. Ho passato la vita a inseguire un sogno e ho scoperto che in Italia, inseguendo i propri sogni, si rimane a piedi. Lo Stato italiano ha calpestato i miei desideri e le mie aspettative. L'unica soluzione sarebbe fare i bagagli e andare via.

Qui la meritocrazia non esiste".

"Ho disarmato Placanica, per gli altri sono guardia", scrive Francesca Bottenghi su “La Repubblica”. Orazio Rando è il carabiniere ausiliario che ha disarmato Mario Placanica, l'uomo che ha sparato a Carlo Giuliani durante il G8 di Genova nel 2001. Ora, a oltre dieci anni di distanza, Orazio di anni ne ha trentadue, vive a Messina con moglie e figli e non indossa più la divisa. Non per sua volontà, però. Nel 2003, infatti, dopo tre anni di servizio e per tre millesimi di punto, è stato congedato. E se per lo Stato è troppo anziano per essere reinserito, per molti rimane "u sbirru".

Perché "u sbirru"?

"Perché per tutti sono, e rimarrò sempre, un carabiniere. Anche se me l'hanno fatto fare solo per tre anni. Una volta mi hanno rovinato la macchina. Un'altra mi sono ritrovato due viti nelle ruote. Un giorno, invece, ero in metropolitana a Roma quando ho visto uno degli uomini che avevo arrestato. Anche lui mi ha riconosciuto e lì ho avuto davvero paura. L'Arma mi ha deluso, ma quando uno diventa carabiniere lo rimane per sempre. L'anno scorso mi sono addirittura iscritto all'Associazione nazionale. Una scelta da pensionati forse, ma è l'unica cosa che mi fa sentire vicino alla divisa".

Come si è guadagnato da vivere dal congedo a oggi?

"Fino all'anno scorso ho lavorato come agente immobiliare, da libero professionista e con partita Iva. Poi sono passato alle assicurazioni. Ma non riesco ad avere una stabilità".

Come mai a suo tempo scelse di fare la leva nel corpo dei carabinieri?

"Avevo sempre sognato di diventarlo. Mi ricordo che quando ero bambino accompagnavo mio padre dal barbiere e chiedevo di farmi 'il taglio da carabiniere'".

Al termine dei tre mesi e mezzo di corso dove è stato assegnato?

"La mia destinazione era Palermo, più precisamente il XII battaglione carabinieri della Sicilia. Si trattava di un battaglione mobile e io facevo parte di un plotone specializzato in ordine pubblico. Per questo motivo, nel 2001, sono stato sia al G7 di Napoli sia al G8 di Genova".

Voi ausiliari eravate dei privilegiati, rispetto ai militari di leva, perché guadagnavate di più. E' così?

"Noi venivamo impiegati come carabinieri a tutti gli effetti. Eravamo delle persone a rischio. Un delinquente vede la divisa, non bada alla differenza tra un ausiliario e un effettivo. Per questo, e per la nostra preparazione, non eravamo paragonabili a militari di leva".

Nel 2003 è stato congedato. Con quale motivazione?

"La graduatoria per diventare effettivi partiva da 22,5 punti. Io ne avevo 22,2. Sono stato congedato il primo luglio, nonostante la mia valutazione fosse eccellente e nonostante avessi eseguito degli arresti in servizio. Poi ho provato a entrare in Marina e nell'Esercito, ma gli anni che ho dedicato alla divisa, da ausiliario, non sono serviti. Allora ho chiesto di essere assunto in qualche servizio di security. Anche qui, però, mi hanno risposto che il mio passato non contava. Pochi giorni fa, finalmente, si è mosso qualcosa: sono stato contattato da un istituto di vigilanza. Spero che questa sia la volta buona".

CONCORSI TRUCCATI PURE IN GERMANIA.

Dopo giorni di smentite, lunedì 20 gennaio 2014, l’Adac, il potente Automobil Club tedesco (con oltre 19 milioni di iscritti il più grande d’Europa) ha ammesso di aver falsificato non solo i numeri del concorso di quest’anno per l’elezione dell’auto più amata dai tedeschi (che ancora una volta era risultata la Volkswagen Golf), ma anche dei concorsi precedenti, scrive Elmar Burchia su “Il Corriere della Sera”.  A rivelare la vicenda era stata la Süddeutsche Zeitung, martedì scorso, poco prima dell’assegnazione degli ambiti premi. La prima testa a cadere è stata quella del responsabile della comunicazione. Ma la bufera che ha travolto l’ente tedesco non è ancora finita. Inizialmente l’Adac aveva rispedito al mittente ogni accusa di manipolazione, bollato come «assurdità» e «scandalo giornalistico» ogni insinuazione riportata dai media. Ora, Michael Ramstetter, responsabile della comunicazione e direttore di Motorwelt (la rivista da 16 milioni di lettori che l’Automobil Club di Monaco di Baviera invia gratuitamente agli iscritti), è stato costretto a dimettersi da tutte le sue funzioni. Si è scusato ed ha ammesso che i voti ottenuti dalla Golf come auto dell’anno da parte dei lettori erano stati «gonfiati». Nel concorso «Gelber Engel» ( che non ha nulla a che vedere con il «Car Of the Year»), infatti, sarebbero arrivati solo 3.409 voti alla Golf, non 34.299 come comunicato ufficialmente a dicembre, aveva raccontato la Süddeutsche Zeitung. Il numero dei voti espressi nella categoria dell’«auto più amata dai tedeschi» sono stati «gonfiati» e «abbelliti» per anni, ha confermato anche Karl Obermair, a capo di Adac. Le scuse di Ramstetter - che si è assunto «tutta la responsabilità» - sono arrivate quattro giorni dopo la sfarzosa cerimonia di premiazione che si è tenuta giovedì nell’ex residenza reale di Monaco. Il danno all’immagine e alla credibilità è enorme. Nessun ente ha mai goduto di tanta fiducia tra i tedeschi come l’Adac, scrive lo Spiegel. L’intera vicenda - aggiunge la rivista - è una questione di potere «e di cosa accade quando un ente si sente troppo potente». L’Automobil Club tedesco, infatti, si è trasformato negli anni in un vero e proprio colosso: gestisce di tutto, dalle assicurazioni ai tour operator fino al noleggio auto. Domenica, i responsabili a Monaco di Baviera hanno cercato di contenere lo tsunami spiegando che l’errore ha riguardato «solo» il numero assoluto di voti assegnati alla vettura premiata, mentre la classifica riguardante tutte le auto in concorso è rimasta invariata. Seccata da tanto clamore, la casa automobilistica più grande d’Europa, Volkswagen, che si è vista tirata in ballo. Un portavoce si è limitato a dire che Adac deve fare assoluta chiarezza, puntualizzando però che «naturalmente bisogna dare loro anche la possibilità di spiegare i fatti». «Continuiamo ad essere convinti che la Golf è l’auto più amata dai tedeschi», sottolineano da Wolfsburg. Alcuni esperti del settore automobilistico ora mettono in dubbio anche i test e le statistiche fatti in questi anni dall’Adac, come quelli sulla sicurezza dei tunnel o i crash test. Anche dalla politica si alzano le prime voci col ministro dei Trasporti tedesco, Alexander Dobrindt, che invita l’ente a «mettere tutte le carte in tavola».

I FURBETTI DELLE BORSE DI STUDIO.

Università, i "furbetti delle borse di studio" sono ovunque. In un anno più di mille i casi registrati. I controlli intensificati dagli Atenei italiani hanno portato alla scoperta di numerosi studenti che hanno dichiarato un reddito più basso per ottenere agevolazioni e privilegi, scrive Luca Pierattini su “La Repubblica”.  I "furbetti delle borse di studio" sono in mezza Italia. Oltre al caso clamoroso di Roma, dove il 62% degli studenti controllati nei tre atenei capitolini - Roma Tre, Tor Vergata e La Sapienza - ha dichiarato un reddito più basso, sono numerose le segnalazioni effettuate dalle università italiane, seppur in maniera meno eclatante. Gli studenti che dichiarano meno del dovuto lo fanno per ottenere borse di studio, alloggi o anche solo per avere agevolazioni per trasporti pubblici o mense in diverse università. Un danno non solo per gli atenei, che elargiscono servizi gratuiti a chi non ne avrebbe diritto, ma soprattutto per gli studenti che avrebbero davvero diritto a tali agevolazioni e che invece finiscono per essere esclusi. Secondo la legge, chi ha dichiarato il falso rischia una denuncia per falsa autocertificazione e truffa. Le università stanno correndo ai ripari e hanno stretto accordi con la Guardia di finanza, con l'Inps (è il caso di Roma) o con l'Agenzia delle entrate per incrociare le informazioni delle banche dati del Fisco con quella anagrafica e confrontare la situazione patrimoniale degli studenti. Un ulteriore strumento di contrasto contro le false autocertificazioni è stata l'introduzione, qualche anno fa, della certificazione del reddito con l'Iseeu, l'indicatore della situazione economica pensato specificatamente per l'università. Un calcolo rilasciato da organismi riconosciuti come i Caf. In alcuni casi è servito, in altri meno. Ecco una sintetica mappa del fenomeno che va da nord a sud senza eccezioni.

Palermo. L'università di Palermo ha firmato un protocollo con la Guardia di finanza per arginare l'evasione tra gli studenti, ma i controlli, effettuati a campione, hanno scovato gli ultimi casi nel 2008. L'Ateneo tre anni fa ha aperto un Ufficio controlli riservato agli studenti che si dichiarano lavoratori autonomi, che sono circa il 10% del totale. Le verifiche sono a tappeto e il lavoro di questa task force contro l'evasione ha permesso di recuperare 400mila euro solo nel 2012.

Torino. A Torino il controllo delle autocertificazioni avviene nel 100% dei casi, almeno così dicono dall'Azienda regionale del diritto allo studio. Sui 12 mila domande per le borse di studio sono stati recuperati 700mila euro dovuti alla compilazione 'errata' dei moduli.

Genova. A Genova sono 290 le borse di studio revocate nel 2012: l'accertamento ha consentito di recuperare 300mila euro, la cifra necessaria per finanziare le agevolazioni per le matricole del 2013. I controlli nell'Ateneo vengono effettuati in collaborazione con l'Agenzia dell'entrate.

Padova. Nel 2012 un'inchiesta della Guardia di finanza di Padova aveva scoperto che su circa 400 controlli, uno su quattro risultava irregolare. Sui circa cento 'infedeli', diciotto avevano addirittura effettuato trasferimenti di capitali all'estero (per un totale di oltre 700mila euro), nonostante avessero dichiarato un reddito delle fasce più basse.

Emilia Romagna. In Emilia Romagna, l'Azienda regionale per il diritto allo studio ha trovato irregolarità nelle autocertificazioni di uno studente su cinque. Non casi eclatanti, ma omissioni nell'ordine di diecimila euro. Nel 2013 sono state ritirate 180 borse di studio (circa l'1% del totale delle domande) negli atenei di Bologna, Parma, Modena-Reggio Emilia e Ferrara.

Toscana. Nelle università toscane - Firenze, Pisa e Siena - sono state registrate più di 400 dichiarazioni irregolari su un campione di oltre 5400 controlli.

Bari. Un'isola felice sembra essere Bari, dove non si segnalano casi sospetti. Anche qui l'università ha stretto un accordo con la Guardia di finanza, ma, a causa del taglio ai finanziamenti pubblici, possono essere effettuati solo controlli a campione. Ciò significa che potrebbero esserci degli evasori, ma, allo stato attuale, non sono stati individuati.

L'aumento dei controlli ha senz'altro disincentivato le false dichiarazioni sul patrimonio. L'estensione del malcostume rimane comunque una costante in tutta la penisola, anche se il caso di Roma, che ha destato grande scalpore per le sue dimensioni, sembra essere un fatto isolato.

PARLIAMO DEL CONCORSO DELLA GUARDIA DI FINANZA.

Bustarelle al concorso da finanziere Test d’esame venduti a 18 mila euro. Fabio Faggiano ha patteggiato tre anni e quattro mesi per corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio. Un anno e quattro mesi a Mario Galici. Tre rinvii a giudizio, scrive Giulio De Santis il 27 novembre 2017 su “Il Corriere della Sera”. Diciottomila euro ricevuti in cambio del contenuto delle prove del concorso per il reclutamento di allievo maresciallo della Guardia di finanza. A passare i test di ammissione in anticipo è stato Fabio Faggiano, 38 anni, in servizio presso il centro reclutamento di Roma-Lido di Ostia, che ha patteggiato una condanna a tre anni e quattro mesi di reclusione con l’accusa di corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio. Oltre al finanziere è stato condannato anche Mario Galici, difeso dall’avvocato Alessandra Martuscelli, al quale al termine del rito abbreviato il gup ha inflitto un anno e quattro mesi per aver consegnato una bustarella di tremila euro con l’obiettivo di facilitare l’esame dei figli. Il giudice ha poi disposto il rinvio a giudizio di altri tre finanzieri. Sotto processo finisce Armando Rossi, 50enne, considerato il collettore delle mazzette. Sul banco degli imputati siederà anche Giovanni Lucarelli, coinvolto per aver svelato i test ma senza intascare mazzette. Accanto ai colleghi prenderà posto Gaetano Pierri, a cui è contestato il pagamento di una tangente per aiutare il figlio. Il primo episodio riguarda il test del concorso del 2013, dove Faggiano intascò una bustarella per tutelare un ragazzo. Modalità replicata l’anno successivo per garantire il figlio di Pierri. Nel dibattimento si esaminerà anche il concorso 2013/2014 per l’arruolamento di 297 allievi marescialli, dove sarebbero stati favoriti 25 candidati senza però prendere denaro.

"Concorso nella Finanza? Devi pagare tremila euro". Sette indagati per le selezioni per diventare maresciallo: promettevano di far superare il test. Coinvolto anche un ufficiale, scrive Gabriella De Matteis su “La Repubblica”.

Hanno promesso un risultato certo al concorso per entrare nella Guardia di finanza. Hanno chiesto e preteso soldi, ma il caso non è passato inosservato e la procura di Bari ha aperto una inchiesta. Un fascicolo delicato e complesso che conta sette indagati. Tra loro c’è un ufficiale delle fiamme gialle in servizio a Roma, ex militari e cittadini che hanno pagato sperando di poter superare il concorso per diventare maresciallo della guardia di finanza. L’inchiesta è stata assegnata al sostituto procuratore Luciana Silvestris che, nei giorni scorsi, ha ordinato alcune perquisizioni che sono state condotte a Roma. L’indagine è partita da una segnalazione e per il momento segue una ipotesi ben precisa. Il concorso per entrare a far parte della Guardia di finanza prevede diverse prove, dalla prima che si basa su test a risposta multipla al colloquio con lo psicologo, passando per una più articolata prova scritta alle visite mediche. Secondo l’accusa, riportata nero su bianco nel fascicolo del magistrato, l’ufficiale della Guardia di finanza e gli ex militari avrebbero chiesto una somma di denaro, garantendo il superamento del primo step della selezione e cioè i test a risposta multipla (prove che per il concorso per 297 posti di allievi marescialli si sono svolte a Bari, tra aprile ed il maggio scorso, nella caserma della Guardia di finanza a Palese). La procura ipotizza l’esistenza di un vero e proprio tariffario. Per il superamento dei quiz e quindi l’ammissione alla prova scritta la somma pattuita era di tremila euro. Le indagini sono condotte dalla stessa Guardia di finanza che a Roma dove è in servizio uno degli indagati, nelle scorse settimane, ha eseguito alcune perquisizioni. I militari delle fiamme gialle che hanno dato così esecuzione ad un decreto firmato dal pubblico ministero Silvestris (che fa parte del pool che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione) hanno cercato prove del passaggio di denaro, del pagamento della somma di denaro così come pattuito. Nelle perquisizione sarebbe stato acquisito materiale, definito “interessante”. L’inchiesta è nella fase iniziale. Tra gli indagati ci sono sia coloro che hanno promesso un buon esito al concorso, che chi invece ha pagato, sperando di superare la prova. Il pubblico ministero Silvestris ha disposto altri accertamenti. Si tratta di capire se davvero chi ha garantito un posto come maresciallo alla Guardia di finanza fosse in grado di assicurare un buon risultato o abbia invece millantato e soprattutto l’obiettivo è capire se, oltre a quelli al centro dell’indagine, vi siano altri casi. Sono migliaia, infatti, i giovani che ogni anno partecipano ai concorsi per entrare nelle forze di polizia. Quando le indagini saranno concluse, il magistrato Silvestris deciderà se e quale parte dell’inchiesta rimarrà a Bari. Quasi sicuramente dal momento che alcuni dei reati sono stati commessi a Roma non si esclude che gli atti del fascicolo, per competenza, saranno trasferiti alla procura di Roma.

ALLA DOGANA IL CONCORSO E’ COL TRUCCO.

Agenzia dogane: gli indagati per truffa in concorso tutti promossi. Soltanto chi denuncia viene escluso dalle graduatorie. Domani il Consiglio di Stato è chiamato a decidere sul concorso arcitruccato del 2015, dove ai candidati venivano date le tracce in Gazzette "infarcite". Dopo la chiusura indagini si scopre che chi ha sollevato lo scandalo è stato escluso dalle graduatorie (pur avendo un punteggio altissimo) mentre gli indagati hanno fatto carriera. I vertici dell'Agenzia usavano il sistema Serpico a fini privati per verifiche a carico di familiari, colf e affittuari, scrive Thomas Mackinson il 25 giugno 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Un bestseller così neppure sotto l’ombrellone. Ci sono i candidati che passano un concorso senza neppure aprire un libro, perché si presentano con Gazzette e Regolamenti europei “infarciti” delle tracce d’esame dispensate dagli stessi che l’hanno bandito. E non vengono mica cacciati o retrocessi bensì promossi, diversamente da chi li ha denunciati. Dalle annotazioni della polizia giudiziaria agli atti dell’inchiesta della Procura di Roma si scopre anche che non una ma tutte e 18 le tracce che dovevano andare a sorteggio erano nel pc del segretario e del direttore dell’Agenzia delle Dogane sicuramente già otto giorni prima della prova. E di come il segretario particolare fosse sovente “distratto” dal consultare il sistema Serpico a fini privati per verifiche a carico di familiari, colf e affittuari del proprio direttore. Di sicuro è denso di sorprese l’ultimo capitolo di quello che qualcuno ha già titolato “Romanzo doganale”, la storia che gira attorno alla selezione che si è svolta nel 2014 per nominare 69 dirigenti in una delle tre agenzie fiscali italiane, l’Agenzia delle dogane, appunto. La direzione attuale, che pure conosce le 4mila pagine dell’inchiesta penale depositate anche al Consiglio di Stato, zeppe d’elementi invalidanti, ha deciso di non annullare il concorso in autotutela e chiede all’Avvocatura dello Stato di resistere a ricorsi e alle istanze di revocazione. Così, sarà domani proprio il Consiglio di Stato a decidere su uno dei concorsi più farlocchi d’Italia. Ecco la sua storia, comprese le ultime perle.

Il primo capitolo. La procedura di selezione fu indetta (anche) per regolarizzare il personale dirigente assunto senza concorso, come sentenziato dalla Corte Costituzionale nel 2015. Nacque sotto i peggiori auspici: già il 22 luglio 2015, vale a dire appena dieci giorni dopo gli scritti, fioccavano interrogazioni parlamentari per chiedere lumi su sospette irregolarità, rafforzate dal fatto che le due tracce del concorso fossero identiche ad un corso di formazione e ad una circolare del commissario interno della commissione, il dottor Alberto Libeccio. Prima ancora degli orali, alcuni concorrenti aveva già fatto ricorso. L’amministrazione doganale resiste, il Tar dà loro ragione e annulla tutto, rilevando come dalle carte emergesse che era stato violato il principio della correzione collegiale: in pratica un solo commissario, proprio il commissario interno, aveva corretto i compiti. Il Tar affermava già allora che l’Agenzia delle Dogane non “aveva dato prova di affidabilità”. Ma era solo l’antipasto. Le Dogane, nonostante già avesse la certezza che alcuni avevano copiato, come si evince dagli atti del Tar, fanno ricorso al Consiglio di Stato che conferma la sentenza, ma parzialmente: bisogna ricorreggere tutti i compiti dei non idonei. Fino al 21 settembre 2016, quando arriva la Procura di Roma.

Arriva la Procura. I carabinieri di via Inselci, inviati dal procuratore Mario Palazzi, perquisiscono la direzione generale delle Dogane e dei monopoli a partire dalla segreteria del direttore generale. Le accuse? Quella principale di avere contraffatto Gazzette Ufficiali e Regolamenti europei al fine di inserire all’interno le prove già svolte da recapitare a chi doveva vincere quel concorso. I Carabinieri ricostruiscono, sulla base delle prove acquisite, la vicenda e consegnano al magistrato varie relazioni. Dai sequestri informatici è risultato che nei computer del segretario particolare del dg Giuseppe Pelaggi, Paolo Raimondi, ben prima che le prove di esame si svolgessero vi erano tutte, ma proprio tutte, le tracce (e relativi svolgimenti) che i commissari hanno affermato d’aver tenuto segrete (anche agli altri commissari) fino al giorno degli esami; vanificando di fatto l’estrazione a sorteggio della traccia. Su pc e chiavette sono stati trovati anche i quiz delle prove preselettive con le relative risposte. Il 28 novembre 2017vengono avvisati gli indagati della conclusione delle indagini. Hanno ruoli e nomi di peso. Le accuse sono gravi. Le prove schiaccianti, come dimostrano in particolare le annotazioni dei carabinieri di marzo e di novembre 2017. Tra gli indagati, tutti i commissari come quel commissario interno, direttore di livello Generale a capo delle Regioni Campania e Calabria delle Dogane e dei Monopoli, Alberto Libeccio e Enrico Maria Puja, presidente della commissione, già Direttore Generale per la vigilanza sulle Autorità portuali, le infrastrutture portuali ed il trasporto marittimo e per vie d’acqua interne viene promosso a Direttore Generale per le Infrastrutture ed il Trasporto Ferroviario. Ma il concorso non viene annullato. Tra le mura di via Carucci inizia a farsi largo il sospetto che la direzione attuale, sotto la guida di Giovanni Kessler, non voglia tagliare i ponti col passato. Nel frattempo, infatti, sono proseguiti favoritismi verso alcuni indagati e discriminazioni contro altri e contro i ricorrenti più esposti.

Promozioni e rappresaglie. A fine 2017 l’Agenzia delle Dogane avvia una prova selettiva per la promozione di 372 “sviluppi economici” sull’intero territorio nazionale per passare dalla fascia retributiva F5 alla F6. Basta scorrere i nomi per trovare una sfilza di indagati promossi. Edoardo Mazzilli, capo dell’Ufficio investigazione centrale dell’Antifrode delle Dogane. Giovanni Mosca a capo dell’Ufficio Aeo che rilascia il certificato di affidabilità alle aziende che hanno rapporti con le Dogane. Marco Falconieri, all’epoca all’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato. Francesco Natale, Ernesto Carbone, Giuseppe Sabatino, Saverio Marrari. Manca tra i promossi il nome di Lucio Pascale, il candidato che aveva iniziato a denunciare i sistemi di attribuzione degli incarichi dirigenziali già dal 2015 e che si è autodenunciato (anche se lui non aveva portato i testi contraffatti all’esame) rendendo di pubblico dominio i brogli effettuati nel concorso. Anche Pascale aveva partecipato alla procedura interna per le progressioni ma sebbene fosse classificato tra le prime posizioni (93esimo su 700) è stato escluso dalle graduatorie a maggio. La motivazione? Era coinvolto nel procedimento penale legato al concorso. Come gli altri indagati che però sono stati promossi tutti, ma proprio tutti; quasi che il peso di una indagine a proprio carico valesse solo per chi ha denunciato i fatti illeciti. Lo stesso Pascale ha poi denunciato di essere stato vittima di altre ritorsioni e di ben quattro procedimenti disciplinari, nonostante la legge Anticorruzione esplicitamente preveda la sua tutela in qualità di denunciante. Non è l’unico caso. Dagli atti dell’inchiesta si scopre, ad esempio, come un altro dipendente, uno dei funzionari sia stato oggetto di una mail spedita dal proprio direttore interregionale al suo dirigente nella quale afferma per iscritto che sia persona “non affidabile” e non degna di fiducia per avere fatto ricorso per il concorso. Ed è la stessa che subisce discriminazioni ed un procedimento disciplinare per aver parlato con la trasmissione Report. Sembra che chi denuncia non debba essere più considerata persona di fiducia per l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e la minaccia è chiara nella mail: se non ci si adegua chi viola il principio “se ne assumerà anche le conseguenze”. Mentre gli indagati mantengono le loro posizioni di privilegio nell’amministrazione e nemmeno vengono rimossi dagli incarichi come prevederebbe la legge, i denuncianti subiscono procedimenti disciplinari e altre ritorsioni.

Usare Serpico e trovare la colf. Dall’indagine risulta anche altro. Fuori concorso, diciamo. Il segretario Raimondi è indagato perché “con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, abusivamente si introduceva con plurimi accessi nel sistema informatico di interesse pubblico denominato Ser.Pi.Co, protetto da misure di sicurezza, con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti la funzione, al fine di reperire informazioni di interesse privato”. Quali? In un’annotazione dei carabinieri di marzo 2017 si dà conto del materiale reperito nel suo pc. Emergono consultazioni “relative ad adempimenti fiscali della famiglia Peleggi, altri relativi alla sfera privata di quest’ultimo come la gestione del condominio, contratti di locazione”. Dal 2011 al 2015 spuntano file di interrogazioni abusive, tra le quali visure di immobili privati, verifiche del possesso del permesso di soggiorno degli inquilini bulgari affittuari di un’immobile di proprietà del direttore, nonché della domestica filippina. Per queste cose, il riscontro di regolarità pare essere stato certosino.

Agenzia delle dogane: storia di un concorso controverso. Selezione per 69 dirigenti nella quale, secondo i carabinieri, vennero piazzati foglietti con le risposte nella Gazzetta ufficiale. Il Consiglio di Stato al direttore: "La commissione è ancora in carica?" Scrive Stefano Caviglia il 21 febbraio 2018 su "Panorama". Più che un concorso sembra un romanzo, il cui titolo sarebbe oltretutto alquanto suggestivo: “Romanzo doganale”. La storia è quella della selezione bandita nel 2013 e svoltasi nel 2014 per nominare 69 dirigenti in una delle tre agenzie fiscali italiane, l’Agenzia delle dogane, appunto. Le prime irregolarità vennero fuori nel 2015, quando il Tar del Lazio accolse il ricorso di alcuni concorrenti bocciati, in quanto ben 525 compiti su 727 non erano stati esaminati in modo collegiale dai tre membri della commissione, come prevede la legge, bensì da uno solo di loro. I ricorrenti, per la verità, contestavano anche la scelta delle tracce d’esame, sostenendo che contenevano particolarità tali da far sospettare di esser state scelte per favorire alcuni e lasciare al palo gli altri. Ma su quel punto il Tribunale amministrativo regionale diede loro torto, limitandosi a imporre una nuova correzione collegiale dei compiti sottoposti a suo tempo al valutatore solitario. "Il Tribunale spiegò che più in là di questo non si poteva andare" racconta a Panorama.it il difensore dei ricorrenti, l’avvocato amministrativista, Carmine Medici "perché la presunta volontà della commissione di favorire alcuni candidati a scapito di altri doveva essere sostenuta con indizi precisi e consistenti". Proprio quegli elementi furono forniti nella svolta fondamentale del "romanzo doganale", la mattina del 21 settembre del 2016, quando i carabinieri del Nucleo investigativo si presentarono negli uffici dell’Agenzia per la perquisizione richiesta dalla Procura di Roma. Venne fuori allora, fra l’altro, che le risposte giuste della prova di concorso erano state incollate all’interno delle copie della Gazzetta ufficiale utilizzate da diversi candidati (la versione digitale dei testi appositamente composti pochi giorni prima del concorso fu trovata in alcuni computer). E non si parla solo delle tracce effettivamente assegnate, ma anche di quelle non estratte a sorte, segno di un’organizzazione che non lasciava niente al caso. A mettere sulla buona strada gli inquirenti era stata la denuncia di Lucio Pascale, un funzionario dell’Agenzia anch’egli partecipante al concorso, che dichiarò di aver fatto lui stesso, insieme a un collega, il lavoro di taglia e incolla delle risposte. Aveva deciso di raccontare tutto perché la commissione lo aveva escluso per altri comportamenti scorretti segnalati dai vigilanti della Guardia di Finanza durante la prova d’esame. Se non fosse stato per questo “incidente diplomatico” ben difficilmente la storia sarebbe saltata fuori e il clamoroso illecito (sebbene ancora solo presunto) sarebbe rimasto del tutto sconosciuto. Da quel giorno la Procura di Roma è andata avanti con le indagini, chiuse nel novembre del 2017. Non ci sono ancora richieste di rinvio a giudizio, ma la relazione dei carabinieri attribuisce molto peso ai riscontri effettuati, sulla base dei quali i tre membri della commissione sono stati iscritti nel registro degli indagati. Si vedrà che cosa ne verrà fuori sul piano penale, ma è su quello amministrativo che si registrano gli aspetti paradossali della vicenda. L’emergere di fatti tanto gravi ha spinto i ricorrenti del 2015 a chiedere nuovamente, stavolta al Consiglio di Stato, l’annullamento completo del concorso. In teoria dovrebbero avere discrete possibilità di spuntarla, ma prima di decidere i giudici vogliono giustamente sapere quale sia la situazione sul campo, ossia all’Agenzia delle dogane. E quindi pongono al direttore Giovanni Kessler una domanda che può sembrare surreale ma fa capire bene certe prassi della nostra pubblica amministrazione (specie quella fiscale, dove la malapianta delle nomine irregolari di dirigenti cresce da anni e nel 2015 ha provocato la piaga, non ancora sanata, degli oltre mille dirigenti bocciati dalla Corte costituzionale): i tre membri della commissione che ha combinato tutti questi pasticci sono ancora in carica? L’altro elemento che la scia perplessi è che la stessa ordinanza concede al suddetto direttore ben tre mesi di tempo per rispondere a quel semplice quesito, da cui dipende fra l’altro la sorte di un concorso tenutosi ormai quattro anni fa per nominare 69 dirigenti che si presume siano piuttosto importanti per il suo funzionamento, anche considerando che un successivo concorso per altri 49 dirigenti è stato annullato (quindi a mancare all’appello sono 118 posizioni, coperte nel frattempo con incarichi assegnati in modo più o meno discrezionale). Ma nel linguaggio criptico della nostra burocrazia anche questo ha una possibile spiegazione. Poiché non sembra proprio che finora la commissione sia stata sciolta e i tre suoi componenti dichiarati decaduti, c’è chi ipotizza che attraverso tale sua sibillina domanda (e il lungo termine concesso per la risposta) il Consiglio di Stato voglia proprio suggerire all’Agenzia delle dogane quel passo che non si è ancora decisa a compiere.

Per 69 posti si presentano in 20mila, ma il concorso è truccato: blitz dei carabinieri, scrive il 21 settembre 2016 “L’Unione Sarda”. Al concorso per accedere a 69 posizioni dirigenziali si erano presentati in 20mila. Era il 2013. Ma, dopo l'assegnazione dei posti, scattarono numerose denunce da parte degli esclusi, convinti che ci fossero state irregolarità. Il concorso era stato quindi sospeso dal Tar. Oggi, a Roma, presso gli Uffici dell'Agenzia delle Dogane, si sono presentati i carabinieri, su mandato della Procura, per acquisire documenti e registri e fare piena luce sulla vicenda. Le ipotesi di reato sono quelle di abuso d'ufficio e truffa. Secondo l'accusa, almeno tre partecipanti, d'accordo con un commissario connivente, avrebbero copiato, grazie a dispense tenute nascoste.

Perquisita l’Agenzia delle Dogane: Si indaga su un concorso truccato. Gli investigatori mercoledì hanno setacciato nove uffici e un’abitazione per una procedura di selezione del luglio 2013 per 69 posti di dirigenti di seconda fascia. Secondo la procura tre candidati avrebbero già avuto la traccia del tema, scrive "Il Corriere della Sera" il 21 settembre 2016. Gazzette ufficiali taroccate e contenenti temi precompilati utilizzate al concorso del luglio 2013 per 69 posti di dirigenti di seconda fascia all’Agenzia delle Dogane. È quanto accertato dalla procura di Roma che oggi, con i carabinieri del nucleo Investigativo, ha fatto eseguire perquisizioni in nove uffici dell’ente pubblico ed una presso un’abitazione. Secondo quanto verificato dal pm Mario Palazzi, titolare dell’inchiesta, sarebbero stati almeno tre i candidati (un migliaio quelli ammessi al concorso) ad utilizzare le tracce precompilate, tramite la consultazione, ammessa per la prova d’esame, delle Gazzette ufficiali. Solo tre o più aspiranti coinvolti? I temi da loro consegnati sono identici alle tracce possedute. Ora gli accertamenti puntano a verificare se altri aspiranti dirigenti abbiano fatto lo stesso. Almeno sette gli indagati, tra esponenti dell’Agenzia delle Dogane, candidati ed un membro della commissione di esame che, ufficialmente, non si sarebbe accorto di alcun illecito. Palazzi ipotizza nei confronti degli iscritti, a seconda delle posizioni, i reati di tentato abuso d’ufficio e la violazione di una legge del 1925, numero 475, che punisce chi commette illeciti durante i concorsi pubblici. Tra gli uffici perquisiti quello del capo della segreteria del direttore generale dell’Agenzia delle Dogane. Il concorso fu sospeso dal Tar. Le indagini hanno preso le mosse dalla scoperta di una corrispondenza via mail con scambio dei temi. Un contributo determinante è stato fornito agli inquirenti anche da un ex dirigente dell’Agenzia delle Dogane. Il caso del concorso, sospeso dal Tar del Lazio per un vizio di procedura (violazione della collegialità), fu oggetto anche di una interrogazione parlamentare presentata da Carla Ruocco (M5S).

Concorso truccato per l’Agenzia delle Dogane, perquisizione in corso al ministero delle Finanze. Il tema era stato consegnato ad alcuni partecipanti al concorso 2013 per diventare dirigenti di seconda fascia. Tre per ora gli indagati, scrive Edoardo Rizzo il 21/09/2016 su "La Stampa". Perquisizione in corso al ministero delle Finanze, in nove uffici dei funzionari dogane e del capo segreteria delle dogane, e anche in un’abitazione privata. Il blitz dei carabinieri del nucleo investigativo di Roma, su ordine della Procura, è scattato per un’indagine su un concorso truccato per diventare dirigenti di seconda fascia delle dogane. Il concorso dell’Agenzia delle Dogane risale al 2013, e si sospetta che qualcuno, dall’interno degli uffici del ministero, abbia consegnato lo svolgimento del tema ad alcuni concorrenti. Il testo è stato scoperto all’interno della Gazzetta Ufficiale, unico volume ammesso dentro l’aula dove si svolgeva l’esame scritto. A metà del testo unico doganale era stata incollata la copia del tema. A questa copia corrispondevano alcuni elaborati presentati da alcuni concorrenti. L’ipotesi di reato è tentativo di abuso d’ufficio, e in più reato specifico del 1925 numero 475 per chi copia durante un concorso pubblico. Il concorso, peraltro, era stato già bloccato dal Tar, probabilmente dopo la segnalazione di alcuni concorrenti bocciati.  Il pm è il sostituto procuratore Mario Palazzi, mentre i carabinieri sono guidati dal comandante del nucleo investigativo dei carabinieri di Roma, Lorenzo D’Aloia. Al momento sono sette gli indagati, tra cui il capo segretaria delle dogane e tre partecipanti al concorso che hanno copiato. Ulteriori sviluppi matureranno dagli esiti della perquisizione.  

Agenzia delle Dogane: concorsi truccati. Parla a Report il testimone chiave. «Sulla gazzetta ufficiale le tracce dei temi». Perquisizione in corso dei carabinieri, scrive Giovanna Boursier il 21 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Stamattina la Procura di Roma ha mandato i carabinieri del nucleo investigativo a perquisire 9 uffici della direzione finanziaria dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, oltre all’abitazione di un dirigente. Si cercano carte legate a un concorso pubblico del luglio 2013, già bloccato da una sentenza del Tar. Le indagini del Pubblico Ministero Mario Palazzi e coordinate dal procuratore aggiunto Paolo Ielo sono in corso da alcuni mesi, e riguardano il concorso per 69 posti da dirigente (su migliaia di iscritti), che sarebbe stato truccato per farne passare alcuni già operativi dentro l’Agenzia. Alcuni funzionari avrebbero camuffato una Gazzetta Ufficiale, ammessa per consultazione durante la prova scritta, consegnandola ai candidati “prescelti” prima dell’esame. Il tema infatti risulta scritto su copie contraffatte della gazzetta, al posto delle pagine normali, in questo modo era facile copiarlo in sede d’esame. Le ipotesi di reato, per il momento, vanno dal tentativo di abuso d'ufficio, alla violazione di una legge del 1925 che punisce chi copia durante i concorsi pubblici. I nomi degli indagati non sono al momento noti, ma ci sarebbe almeno uno dei membri della Commissione esaminatrice, Alberto Libeccio, che tra l’altro pochi mesi prima del concorso aveva tenuto un corso di formazione proprio su una delle tracce poi uscite all’esame, e il capo segreteria del Direttore generale Giuseppe Peleggi, Paolo Raimondi. Un’ex dirigente dell’agenzia delle dogane dichiara a Report che sarebbe stato proprio Raimondi, evidentemente con altri, a falsificare la Gazzetta. Da quanto ci risulta anche un Regolamento Europeo conteneva pagine contraffatte con uno dei temi poi usciti al concorso. Una truffa ben organizzata, soprattutto se si pensa che viene dall’interno di una Pubblica amministrazione dipendente dal Ministero delle Finanze. Furto all’Agenzia delle entrate di Napoli. Coincidenza, la scorsa notte nell’ufficio territoriale dell’Agenzia delle entrate di Napoli, in via Montedonzelli, quartiere Vomero c’è stato un misterioso furto. I ladri si sono introdotti al primo piano dove si trovano le stanze del front office e si sono portati via un numero consistente di memorie del computer e hanno messo a soqquadro l’ufficio. Violata anche la stanza del direttore dell’Ufficio provinciale del Catasto che si trova nello stesso edificio.

Dogane, tempesta sul concorso, scrive Monica Zornetta su “L’Espresso”. L'ente pubblico lancia un bando per 69 dirigenti, ma poi si scopre che un membro della commissione aveva preparato sui temi dell'esame un gruppo di suoi fedelissimi, escludendo tutti gli altri. E scoppia la polemica. L'Agenzia delle Dogane è un ente di Stato che dipende dal Dipartimento delle Finanze e che nel 2011 ha bandito un concorso per 69 posti da dirigente, tutt'ora in corso di svolgimento, dove il 30 per cento dei posti è riservato a personale già in organico all'Agenzia. La nomina degli otto componenti della commissione giudicatrice avviene il 2 maggio 2012. Due mesi e mezzo dopo uno dei giudicanti, l'alto funzionario Alberto Libeccio, 55 anni, già direttore interregionale dell'Agenzia delle Dogane di Campania e Calabria, inizia un corso di formazione sui procedimenti disciplinari riservato ad alcuni funzionari selezionati. In base alla legge, considerato il potenziale conflitto di interessi cui sarebbe potuto incorrere, il funzionario avrebbe dovuto astenersi: o dalle docenze o dall'incarico di membro della commissione in previsione delle sue lezioni. Eppure non l'ha fatto. Peccato. Perché così facendo avrebbe evitato che la gran parte dei candidati non dipendenti doganali, non campani, non organici alla sua direzione e senza tessera della Uilpa-Pubblica amministrazione in tasca, scorgesse, in questa mancata astensione, una vera e propria violazione della legge. E pensare che il concorso era partito senza troppi intoppi: 8500 le domande presentate, un migliaio i candidati che avevano superato la prova preselettiva nel dicembre 2012, dopo quattro rinvii e a un anno esatto dall'emissione del bando. Le stranezze però, o se si preferisce, le 'coincidenze', hanno cominciato a manifestarsi apertamente in occasione delle due prove scritte: il 9 e il 10 luglio di quest'anno. Le due tracce sorteggiate, infatti, riprendevano pari pari argomenti già studiati o già noti ad alcuni: la prima, "Le sospensioni cautelari dal servizio e il problema della restitutio in integrum retributiva" descriveva proprio quanto enunciato al punto 7 dell'articolata lezione tenuta da Libeccio nell'estate 2012 al corso di formazione. Ad incarico di commissario giudicante già accettato. Il medesimo argomento, peraltro, era stato puntigliosamente approfondito anche dalla UilPa. La seconda traccia, somministrata ai concorrenti il 10 luglio, verteva sul "bunkeraggio delle navi", ossia sulle modalità di gestione dei servizi e delle procedure in un ufficio delle dogane in caso di imbarco di prodotti petroliferi privi di documentazione. Anche qui i soliti maligni hanno voluto vederci lo zampino di Libeccio, considerato che nel giugno 2012, in qualità di direttore interregionale delle Dogane della Campania, aveva affrontato un caso del tutto analogo nel porto di Napoli. La medesima vicenda era divenuta oggetto anche di due circolari interne - la numero 4 e la numero 5 del 2012 - emanate proprio dalla Direzione Interregionale della Campania: in esse il direttore Libeccio dava specifiche disposizioni ai suoi circa la trattazione della problematica del bunkeraggio" adoperando quella stessa terminologia che successivamente sarebbe andata a comporre la seconda traccia del concorso. E' quindi facile immaginare che al momento delle prove scritte qualche aspirante dirigente interno all'Agenzia conoscesse piuttosto bene l'argomento della traccia, così da risultare avvantaggiato nello svolgimento delle prove rispetto agli altri candidati. Si tratta solo di casualità? Sarà. Tuttavia sono in molti a non esserne convinti. Per capirlo basta dare un'occhiata alle 176 pagine del forum di Mininterno.net dove diverse centinaia di interventi si susseguono con un denominatore comune: la delusione per la gestione secondo loro non trasparente di un concorso che dovrebbe selezionare i futuri manager di questo ente strategico per la tutela dell'economia nazionale. Nel luglio scorso, pochi giorni dopo le prove scritte, c'è stato chi ha informato governo e Parlamento su tali temi specifici e tra le righe di una interrogazione (3-00219) ha chiesto lumi al ministero dell'Economia e delle Finanze. Ma l'atto, che ha come prima firmataria l'onorevole napoletana Carla Ruocco (M5S), nonostante un sollecito presentato il 20 agosto, ad oggi non ha avuto risposta. «Della questione si sta occupando l'amministrazione centrale del personale. Io non ho niente da dire, tranne che sono tranquillo. Come sempre, d'altro canto», risponde alle accuse il dottor Libeccio. Il sottosegretario Alberto Giorgetti, che al ministero dell'Economia e delle Finanze ha la delega alle Dogane, interpellato telefonicamente per avere ragguagli sui tempi della replica all'interrogazione della Ruocco e sul conflitto di interessi del super dirigente/commissario d'esame, ha fornito una sola imbarazzata risposta: «Verificheremo questa cosa».

CHI SA, PARLI? ALLORA CONFESSINO TUTTI!!

I candidati ad un concorso pubblico che non svelano il nome di chi gli ha fornito, in anticipo, le informazioni sui titoli dei temi della prova per l’esame di ammissione, rischiano la condanna per favoreggiamento. E’ quanto afferma la Suprema Corte di Cassazione che, con la sentenza 18.943/2012, ha confermato la condanna nei confronti di una signora di Trapani che partecipava a un concorso per 72 posti di lavoro come infermieri professionali presso l’ospedale cittadino. La donna era stata trovata in possesso di tutte le tracce per i temi della prova di ammissione, ma non aveva voluto svelare il nome di chi gliele avesse fornito in anticipo. In primo grado il Tribunale di Trapani, il 13 luglio 2009, aveva condannato la donna, sentenza confermata anche dalla Corte d’appello di Palermo il 25 ottobre 2011. La candidata “omertosa” si era difesa, innanzi ai supremi giudici, sostenendo che, in realtà quelli che lei aveva in mano erano solo “gli argomenti maggiormente a rischio di concorso” e che, pertanto, “mancherebbe la prova” del favoreggiamento. La Cassazione tuttavia ha sottolineato “l’esatta corrispondenza di tutti i titoli dei temi anticipati dall’imputata” con quelli effettivamente usciti. Ma non solo. I supremi giudici le hanno anche rimproverato la sua “consapevole condotta omissiva nella catena di causalità che ha impedito l’accertamento della fonte delle informazioni illecite”. La donna è stata anche condannata a versare mille euro alla Cassa delle Ammende.

E spunta pure un esame truccato da giornalista professionista, scrive “Tuscia Web” ed “Oggi Notizie”. Viviana Tartaglini potrebbe aver truccato l’esame da giornalista professionista. Sarebbe questo, secondo il Messaggero, il nuovo risvolto nell’inchiesta della Procura di Viterbo per tentata estorsione che coinvolge il direttore del giornale locale l’Opinione Paolo Gianlorenzo e la collega Viviana Tartaglini. Una notizia finita sulla prima pagina del quotidiano nazionale. Secondo quanto riportato dal giornale, Viviana Tartaglini avrebbe saputo in anticipo la traccia dell’esame professionale e si sarebbe fatta scrivere l’articolo da un collaboratore. Per la giornalista spunta così una nuova ipotesi di reato che, se verificata, aggraverebbe la sua posizione. Ieri, infatti, gli agenti della polizia giudiziaria, su mandato della Procura di Viterbo, avrebbero bussato alla porte dell’Ordine nazionale dei giornalisti a Roma, sequestrando la prova scritta dell’esame di Stato per l’iscrizione all’albo dei professionisti sostenuta nel gennaio del 2011 dalla giornalista. “Il sospetto – secondo quanto riporta il Messaggero – è che la giornalista fosse in possesso del titolo della traccia da svolgere  durante la prova professionale già nei giorni precedenti e che la mattina del 18 gennaio si sia limitata a copiare quanto per lei era già stato scritto da altri. E ieri, durante il sequestro, sarebbe arrivata la conferma”. Due le modalità per accedere alla prova: o tramite corso universitario presso facoltà o scuole di giornalismo accreditate dall’Ordine. Oppure facendosi assumere da una redazione come praticante e, passati diciotto mesi, presentare la domanda. Poi l’esame di stato che tra l’altro consiste nella redazione di un articolo durante la prova. Per la Tartaglini le cose sarebbero andate diversamente. “A quanto pare – si legge nel Messaggero  - la Tartaglini, a pochi giorni dall’esame invia una mail a un giornalista con cui lo incarica di redigere un articolo di sessanta righe su un evento sportivo, tema motociclismo”. Un particolare che sarebbe finito negli atti del fascicolo aperto dal pm Massimiliano Siddi, dopo la denuncia di alcuni soci della cooperativa editrice dell’Opinione. Tutto è ora al vaglio degli inquirenti che dovranno dimostrare la nuova ipotesi di reato a carico della Tartaglini.

Bene allora TUTTI DENTRO, CAZZO!

Non bastava lo scandalo del concorso notarile annullato per porre dei dubbi sulla regolarità degli esami di Stato riguardanti l’iscrizione ad un Ordine professionale, scrive “Fuori le Mura”. Nuovi illeciti infatti sembra siano stati compiuti nel corso dell’esame per avvocati, svoltosi a Roma all’hotel Ergife. Nei tre giorni di test scritti, aventi come argomenti diritto civile, diritto privato e l’analisi di un atto giudiziario, un avvocato esterno alla commissione designata sarebbe riuscito a spacciarsi per uno dei commissari, presentandosi con false generalità. Scopo di questa manfrina è stato quello di aiutare qualche suo adepto per permettergli di superare egregiamente i test. L’avvocato, Saverio F., è riuscito a mantenere nascosta la sua reale identità per i primi due dì. Ma qualcosa non è andato secondo i piani nel corso della terza prova, probabilmente tradito da qualche atteggiamento controverso. Stando alla ricostruzione dei pm, una volta scoperto, il legale dapprima si sarebbe opposto alla consegna del proprio documento d’identità, poi avrebbe finto un malore e infine si sarebbe arreso ammettendo il misfatto. Su di lui pendono le accuse di sostituzione di persona e falso. Motivi per i quali è iscritto sul registro degli indagati. Tuttavia, per comprendere come siano andate realmente le cose e soprattutto come sia stato possibile che Saverio F. abbia potuto spacciarsi quale membro della commissione senza essere riconosciuto da nessuno, è altamente probabile che la procura di Roma chiami a testimoniare il presidente della seduta, Mario Sanino, nei prossimi giorni. Interrogatorio che servirà in primo luogo a capire se l’avvocato si sia realmente insinuato all’insaputa di tutti, con un travestimento da fare invidia ad Arsenio Lupin. Secondo poi, per cercare di identificare con un nome e un cognome gli studenti protetti da Saverio F., sulla base dei movimenti sospetti lasciati trasparire da questi durante l’esame. La storia del falso commissario non è comunque l’unica uscita dalle mura dell’hotel. Come rivela infatti il quotidiano Il Messaggero ci sarebbero stati altri episodi sospetti capaci di far vacillare la regolarità delle prove. Vicende aventi come protagonisti i candidati. Uno di questi avrebbe risposto alle domande sotto dettatura, avvalendosi dell’utilizzo di un orologio microfonato per mezzo del quale sarebbe riuscito a comunicare con una persona esterna all’aula. Un altro invece, dopo aver chiesto e ricevuto il permesso di andare in bagno, si sarebbe cambiato d’abito, passando dalla cravatta alla divisa di vigile del fuoco, e sarebbe uscito dalla struttura per farsi passare dei fogli con le risposte dei quesiti. Ricevute le soluzioni sarebbe di nuovo tornato in bagno  per rimettersi la giacca e poi rientrare in aula a completare l’esame. Questi casi sono al vaglio degli inquirenti, i quali saranno chiamati non soltanto a dare responsi concreti circa la presunta irregolarità del concorso, ma anche a fornire pene adeguate, persino a ricorrere all’annullamento dei test se necessario, pur di ridare credibilità ad un sistema, quello dell’esame di Stato, che nel credo popolare finisce sempre più col coincidere con una farsa predefinita piuttosto che con una selezione volta a premiare i più meritevoli.

Ma questo è niente.

Sotto inchiesta metà delle università italiane, scrive di Gian Marco Chiocci e Luca Rocca su “Il Giornale”. Concorsi farsa, parentopoli, baronati, esami venduti, test fantasma, appalti, sesso per un trenta senza lode. Ecco tutte le inchieste avviate sulle università da parte di procure, giudici contabili, tribunali amministrativi. Nonché istruttorie «interne» avviate dagli stessi atenei, rivelazioni degli studenti anti-baroni. Una trentina di fascicoli aperti su un totale di 66 atenei in Italia. Vuol dire che praticamente la metà delle università in un modo o nell'altro è coinvolta in uno scandalo.

La maxi-truffa alla Ue. L'ultimo scandalo esplode all'Università della Calabria, a Cosenza, denunciata come persona giuridica nell'inchiesta su una truffa gigantesca ai danni dell'Unione Europea. Coinvolti e indagati anche due docenti.

Test farsa ed esami comprati. Indagate 17 persone a giurisprudenza a Catanzaro: un funzionario per aver falsificato i libretti degli esami e 16 ex studenti che hanno pagato per superare l'esame. A medicina inchiesta sui test d'ammissione, con domande suggerite prima ai concorrenti.

Sotto indagine a Bergamo 81 persone accusate di aver fotocopiato, a fine di lucro, dispense protette da diritto d'autore.

La procura pugliese s'imbatte in alcuni studenti, molti stranieri, concussi da solerti funzionari. Fra i 500 e i 3mila euro per passare l'esame. Arresti domiciliari a Bari per sei persone fra prof e dipendenti. Si è indagato sui test d'ammissione alla facoltà di medicina e chirurgia di Bari, Ancona e Chieti. Reati ipotizzati? Truffa e concorso in corruzione. I candidati ricevevano le risposte prima, sui telefonini. Il prof vince copiando. Sempre a Bari un professore si aggiudica un concorso da associato presentando un libro copiato da un testo francese. Indagato lui e 5 componenti della commissione.

Concorso davvero sexy. Scorciatoia a «luci rosse» all'ateneo di Torino per accedere alla scuola di medicina legale. Una delle candidate confessa di non aver superato la prova solo perché aveva troncato la relazione con il 77enne presidente della commissione.

Professore di lingue dell'Unibas (Matera) è stato arrestato perché chiedeva sesso alle studentesse che in cambio superavano l'esame. Con lui indagati altri due docenti.

Appalti e malaffare. Il quotidiano la Repubblica svela il malaffare a Messina: concorsi truccati, compravendita di esami, gare truccate. Il rettore viene prima sospeso e poi rinviato a giudizio per abuso d'ufficio, minacce e tentata concussione, insieme ad altri 22 tra docenti e personale amministrativo. Un professore, Cucinotta, denuncia concorsi truccati per favorire figli di docenti e magistrati. A Messina si è indagato sui soldi dati a un artista per ritrarre l'antico terremoto. E la moglie di un prof sarebbe finita sotto inchiesta per un'indagine sulle forniture all'università.

Parentopoli alla romana. La procura di Roma ha molti fronti aperti sulla Sapienza e sul Policlinico, dagli appalti (forniture di lenzuola e camici ad esempio) ai concorsi pilotati. Sotto inchiesta per abuso d'ufficio era finito l'ex rettore per l'assegnazione di tre incarichi di ricercatore alle due figlie e ad uno dei generi. Indagini anche sul parcheggio da 8,8 milioni di euro.

Sostanze cancerogene. A Catania sotto sequestro la facoltà di farmacia perché contaminata dalla presenza di sostanze pericolose in percentuali elevatissime scaricate nei lavandini. Nove persone nel mirino.

Un rosso doc. Buco di 240 milioni di euro a Siena anche a causa di segretarie in soprannumero, 135 bibliotecari, in 7 al sito Internet, 4 all'ufficio stampa, 8 alle relazione esterne. C'è l'ordinario con la figlia ricercatrice nella stessa facoltà; c'è il docente e i due figli che hanno vinto un dottorato nella stessa disciplina; c'è il prof in pensione che ha passato il testimone alla figlia. E che dire dell'ex rettore che insegna anatomia patologica e il figlio è diventato ricercatore di oculistica: sul concorso è stata aperta un'inchiesta.

Io pago, tu mi promuovi. La procura di Napoli indaga per corruzione e falso per esami venduti al Federico II. Al «Barone day», ideato dagli studenti, è emerso che ci sarebbero 105 casi di «legami di sangue» fra docenti, 32 solo ad economia, molti a medicina.

L'albero genealogico. È lunghissimo l'elenco di cognomi che si ripetono al policlinico Gemelli di Roma. Il professore che nello stesso istituto lavora accanto al figlio; il dottore che presiede il corso di laurea dove la moglie è docente; il papà che dirige la scuola di specializzazione della materia di cui è titolare la figlia, eccetera.

A Udine un professore ha 12 parenti in una sola facoltà, altrove c'è chi ne racimola «solo» quattro.

A Palermo sono 230 i docenti legati da vincoli di parentela: 58 a medicina, 23 ad agraria, 21 a giurisprudenza. Il figlio del rettore di Firenze e la figlia del prorettore conquistano due cattedre a medicina vincendo due concorsi per due insegnamenti che prima d'allora non esistevano. Indaga la magistratura.

Parentopoli lucana (denunciata dai sindacati) di professori e impiegati amministrativi. Circa 50 i casi. Dieci unioni coniugali, 18 i fratelli, e poi figli, cognati e conviventi.

A Tor Vergata il rettore tiene famiglia: ordinario di biochimica ha in facoltà figlio e due nipoti. Poi c'è un preside con il figlio ordinario nello stesso dipartimento.

A Bologna sotto inchiesta decine di professori e la preside di medicina. Il rettore «denunciato» in un'interrogazione parlamentare perché il figlio è professore di economia, la nuora associata, la cognata insegna psicologia.

È di Padova, figlio di un barone, il medico sotto inchiesta per essersi fatto pagare un cesareo nella città di Sant'Antonio quando, in realtà, era a Shanghai. Sospeso.

Le poltrone del Magnifico. Rettore stakanovista, quello di Chieti. Presidente del Consiglio superiore di sanità, presidente del Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca, presidente della Commissione per l'aggiornamento delle linee guida della legge 40/2004 sulla procreazione assistita, presidente del coordinamento delle università abruzzesi, presidente della Fondazione universitaria d'Annunzio e quant'altro. La procura vuole vederci chiaro.

Sviste umane. L'inchiesta sulla selezione dei docenti al Sum (Istituto Scienze Umane) ha visto indagati sei professori nel filone tra Firenze e Napoli.

«È come un supermarket». Parliamo di Lecce, in questo caso l'indagine interna avviata dal rettore per valutare la legittimità dei cosiddetti «esami accorpati» nella facoltà di scienze sociali. Alcuni studenti hanno denunciato «la svendita di esami come al supermercato».

Ricercopoli a buon mercato. Peculato e truffa i reati ipotizzati per il responsabile di gastroenterologia, arrestato e poi rimesso in libertà. Per la procura di Perugia avrebbe utilizzato fondi pubblici per realizzare falsi lavori scientifici pubblicati su prestigiose riviste internazionali. Farmaci troppo generici.

Bufera sul dipartimento di anatomia a Torino. Nei guai un accademico di spicco del pool di farmacologia che avrebbe falsificato uno studio sui farmaci generici. Da qui un secondo filone d'indagine per disastro colposo. Altre inchieste per irregolarità nei concorsi (indagato un primario) per raccomandazioni a giovani laureati.

Primario condannato. Ospedale Careggi di Firenze: un prof ha favorito una collega per un posto, ed è stato condannato a 9 mesi di reclusione per abuso d'ufficio insieme alla dottoressa, diventata sua compagna.

L'autogol della prof. Nel 2006 arriva un esposto in procura dove una prof ipotizza reati commessi all'università della Basilicata. Due anni dopo, però, finisce lei in carcere per peculato e concussione. Sospesa, urla al complotto, alla fine viene reintegrata.

Il bando da rifare. Interrogazioni parlamentari e inchieste sul posto per cardiochirurgo all'ospedale Goretti di Latina. Nell'inchiesta nomi eccellenti.

Stesso sangue del rettore. A Salerno, al concorso, si presenta solo il figlio del Magnifico quando i partecipanti dovevano essere sei. I commissari ammettono che il giovane non aveva fatto nessuna pubblicazione, ma affermano che però aveva svolto delle ottime ricerche.

Di padre in figlio. In quel di Foggia il Rettore assume il figlio come docente il giorno prima di lasciare l'incarico. Col figlio c'è l'altra figlia, dirigente, come prima sua madre, del personale tecnico amministrativo. Impiegati in Ateneo anche una nipote, una nuora e il marito della figlia.

Dieci domande poste da “Università.it” a Nino Luca, autore del libro-denuncia “Parentopoli”. Concorsi ad personam, figli, nipoti e amanti in cattedra, selezioni truccate: il libro-denuncia Parentopoli svela magagne e retroscena del “baronesimo delle università”. Nino Luca, giornalista e autore di Parentopoli, risponde a dieci domande sui fenomeni e le modalità di questo anti-meritocratico malcostume, spiegandoci che certe università ricordano “dei bar a conduzione familiare”. E sottolineandone la differenza: “i bar sono privati e le università pubbliche: cioè ci sono dentro i nostri soldi”.

Come e quando è nata l’idea di questo libro?

«“Parentopoli” è nato da una risposta assurda di un padre-professore di Messina che per giustificare la vincita in solitaria del concorso del figlio al telefono mi disse: “I figli dei docenti sono più bravi perché hanno tutta una forma mentis che si crea nell’ambito familiare tipico di noi professori”. Non l’avesse mai detta quella frase: si è aperto il dibattito online. Non vi dico e non vi conto di che tenore. Quel professore si chiama Nicotina. “Nicotina? Nomen omen!”. “A quando la forma in cellae? E la forma dementis?”. E così in pochi giorni ho ricevuto circa 600 email con la gente incavolata che mi preannunciava i nuovi concorsi truccati e quelli truccati in passato. E tra le email anche quella della Marsilio che mi proponeva di raccoglierle in un libro. E così è stato.»

In che modo sono state condotte le ricerche?

«Ho parlato al telefono con molti professori che mi venivano indicati come Baroni. Così li ho intervistati. Molte delle loro risposte sembrano barzellette. Per questo ho voluto mantenere una forte ironia per tutto il libro. Così la lettura lascia ancora più increduli: si ride e ci si arrabbia. Poi ho verificato le segnalazioni su internet: è semplice. Basta incrociare i dati del sito del ministero della pubblica istruzione e il gioco è fatto. Chiunque da casa può scoprire un concorso truccato. Si cercano le pubblicazioni con i nomi dei partecipanti e nel 90% dei casi spuntano legami con i membri della commissione o scambi di favore. La lettura dei verbali dei concorsi poi è decisiva. Loro stessi riportano le prove della “commensalità” con chi devono giudicare e autocertificano il primo reato: falso in atto pubblico.»

Qual è il caso più grave tra quelli riportati?

«Il più grave? Non saprei tra quali scegliere. Secondo voi è più grave il caso del professore che ha con sé in università quattro figli su cinque oppure i casi di coloro che hanno le cliniche private convenzionate con le università dove insegnano? O ancora il prof che assume come dermatologo il figlio dentista? O il rettore che guida da 25 anni l’università cambiando tutte le volte lo statuto per poter essere rieletto? O ancora i professori che presiedono le commissioni che promuovono rispettivamente ciascuno il figlio dell’altro?»

E quello più bizzarro?

«In “Parentopoli” ci sono centinaia di casi. Dunque il più bizzarro? Forse quello in cui a Messina il figlio di un professore non ha saputo rispondere ad una domanda elementare: “Che cosa è una carie?”. La mancata risposta ha fatto saltare tutto il concorso e ha fatto svelare gli altarini.»

La “parentopoli” universitaria è un fenomeno presente solo in Italia?

«Non ho avuto modo di studiare attentamente il fenomeno all’estero. Qualcuno dei lettori mi ha indicato la Francia. Ma di certo non è ai nostri livelli. E comunque all’estero ci sono dei criteri meritocratici nelle selezioni dei docenti e di responsabilità per le università. Nel senso che gli atenei devono portare risultati altrimenti addio finanziamenti.»

In misura maggiore al nord o al sud?

«Al sud e al nord. Al centro e nelle isole. In questo caso l’Italia è una e unita. Al sud ci sono intere famiglie ma anche al nord non si scherza. Ad esempio a Pavia nel dipartimento di Matematica il 40% sono parenti. Ad esempio, prendendo in considerazione solo i Magnifici rettori, se mettessimo una bandierina (alla maniera di Emilio Fede durante le elezioni) nelle città dove governano gli atenei rettori con almeno un parente, ecco avremmo un maggior numero di bandiere al centro nord più che al sud: Torino, Verona, Milano, Brescia, Bologna, Urbino, Firenze, Roma, ecc… »

In che misura la “parentopoli” del mondo accademico ricalca quella di altri ambiti lavorativi?

«In molti casi certe università ricordano dei bar a conduzione familiare. La differenza è che i bar sono privati e le università pubbliche: cioè ci sono dentro i nostri soldi. Come si fa ad accettare che vengano utilizzati i nostri quattrini per sistemare figli, nipoti, generi ed amanti dei professori?»

Crede possibile una vera riforma strutturale nel reclutamento universitario italiano?

«Certo. Come avviene negli altri paesi. Il dubbio è come e quando riuscirci. Nel senso che si possono inserire dall’alto tutte le regole che si vogliono ma se non avviene una sensibilizzazione etica non ci saranno molti risultati. E per quello che auspico che siano gli studenti a farsi carico della vigilanza e della denuncia. L’università è soprattutto degli studenti. Sogno un’Onda etica. Se loro volessero potrebbero incidere molto nel cambiamento dell’università italiana.»

Quali sono, a suo giudizio, le misure urgenti da adottare per salvare l’università italiana dalla logica clientelare?

«Per prima cosa divieto per legge, e non per codice etico di ogni singolo ateneo, di assunzione di parenti almeno nello stesso dipartimento. Si taglierebbe così la concentrazione in pochi corridoi e in poche stanze di potere in mano a poche persone o famiglie che impediscono che vengano premiati i più bravi. Poi aprirei un osservatorio nazionale, che sia veramente terzo, che vigili sui concorsi e blocchi immediatamente quelli palesemente irregolari. Ma questo già al momento della domanda. Cioè che dica: ” No questo concorso non va avanti perché un candidato ha un suo professore in commissione”. Costerebbe poco e darebbe subito dei risultati. Come ho controllato io può farlo anche il ministero no?»

Cosa consiglierebbe a chi volesse intraprendere la carriera universitaria senza avere”santi in paradiso”?

«La preghiera!»

“L’Italia che raglia” Riporta qui una serie di libri-inchiesta che analizzano e descrivono i problemi del sistema universitario italiano:

1. L’ università truccata. Un libro di Roberto Perotti. L’università italiana sta morendo di nepotismo, scarsa selezione nel vagliare il corpo docente, mancanza di incentivi alla produzione scientifica, incapacità di individuare prospettive da seguire da parte di chi ha il compito di governarne l’evoluzione. L’università italiana non è produttiva né equa, non facilitando la mobilità sociale. Praticamente ogni ministro ha legato il proprio nome a una rivoluzione dell’università, suscitando dibattiti infiniti su ogni comma di legge. Ma un osservatore esterno che guardasse ai risultati invece che ai mille rivoli delle normative non si accorgerebbe di nulla. Ciò che serve è una cosa sola: abbandonare l’illusione di poter controllare tutto dal centro e introdurre invece un sistema di incentivi e disincentivi efficaci. Questo saggio è la fotografia impietosa di una catastrofe educativa che pesa sul futuro dell’Italia. Ma anche la coraggiosa proposta di alcune riforme semplici e radicali, per rompere definitivamente con decenni di palliativi. Un sistema dove sia nell’interesse stesso degli individui cercare di fare buona ricerca e buona didattica ed evitare comportamenti clientelari. Un sistema in cui ogni ateneo possa fare quello che vuole, ma dove chi sbaglia sia chiamato a pagare. Un sistema che elimini la straordinaria iniquità attuale, in cui le tasse di tutti finanziano l’università gratuita dei più abbienti.

2. I ricercatori non crescono sugli alberi. Un libro di Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi. Le nuove leve non riescono a entrare nel mondo della ricerca, l’università è dominata dalle baronie, i concorsi sono truccati, i ricercatori sono pagati poco: casi isolati o problemi strutturali? È possibile riformare il sistema della ricerca e dell’università? Queste le domande cui questo libro risponde, descrivendo lo stato dell’università e della ricerca in Italia: dalla forma barocca dei bandi per i posti da ricercatore alle carriere basate sull’anzianità e il conseguente invecchiamento dei docenti universitari, fino alla proverbiale inamovibilità di chi dirige la ricerca. Si passano in rassegna i punti su cui politiche responsabili dovrebbero intervenire per iniziare un percorso verso un sistema meritocratico invocato a gran voce da tutti, ma da nessuno realmente messo in pratica. Cambiare le cose non sarà facile perché sono tanti i piccoli interessi che gravano sulla ricerca e sull’università. Eppure la situazione è talmente degenerata da rendere un intervento necessario e improrogabile.

3. Candido o del porcile dell’università italiana. Storia vera di un cervello senza padrino. Un libro di Ernesto Parlachiaro. C’è un luogo, in Italia, nel quale il valore e il merito professionale contano meno di nulla: questo luogo è l’Università, specialmente le facoltà umanistiche. In Italia “è più facile che un asino passi per la cruna di un ago, che un nuovo Kant possa diventare, senza un padrino, dottore di ricerca in filosofia”: un paradosso che è tutto il senso di questo racconto. Benché scritto sotto la forma leggiadra di una favola volterriana, “Candido” è infatti tratto da una vicenda reale e denuncia con spietata lucidità la corruzione che regna sovrana nel reclutamento di ricercatori e docenti dell’Università italiana.

4. Processo all’università. Cronache dagli atenei italiani tra inefficienze e malcostume. Un libro di Cristina Zagaria. Un lucido e documentato atto d’accusa contro l’università di “Cosa Nostra”. Intercettazioni telefoniche, confessioni, conversazioni rubate con microspie e denunce raccontano il volto malato degli atenei italiani da Palermo a Milano. Questo libro vuole capire cosa sta succedendo, senza finti pudori. È un immaginario processo all’università, dall’ultima riforma Moratti ai primi passi del governo Prodi. Storie vere, con nomi e cognomi di singoli atenei, professori e studenti. Storie, però, che al di là della cronaca, diventano esempi generali e offrono uno sguardo senza censure su un’università in cui esiste un “galateo” delle buone regole per truccare i concorsi; un’università nella quale, in una logica tribaIe, si accavallano e si sovrappongono leggi di “territorio” “di sangue”, “di fedeltà” e dove comunque vince quasi sempre il potere. Una rigorosa ricostruzione che propone ai lettori la fotografia di un’università irrimediabilmente malata, smascherando debolezze e inefficienze di politici e istituzioni.

5. Parentopoli. Quando l’università è affare di famiglia. Un libro di Luca Nino. “I nostri figli sono più bravi perché hanno la forma mentis tipica di noi professori”. È normale, per questo docente, che il figlio abbia vinto il concorso universitario. È una questione di geni, di educazione, di ambiente. Una “selezione naturale”. Da questa storia pubblicata sul sito di Corriere.it è nato un libro-inchiesta, scritto grazie alle centinaia di e-mail spedite da tutta Italia. Il web s’è scatenato: proteste, denunce, nomi e cognomi, testimonianze di innumerevoli concorsi truccati. Ecco svelata l’Università italiana divenuta ormai “Affare di Famiglia”. Come al bar, nelle botteghe, nelle aziende, anche nei dipartimenti universitari, più membri di una stessa famiglia lavorano fianco a fianco. E i Magnifici Rettori? Sono tra i primi ad assumere figli, mogli, nipoti e portaborse. Chi paga? Noi, ovviamente. Il professore con quattro figli in ateneo. Il rettore che comanda da 25 anni. La famiglia con otto docenti. Il candidato più bocciato. Ecco i racconti dei casi limite e gli sforzi della giustizia per riportare la legalità nelle cattedre. Ecco le loro storie incredibili in un viaggio attraverso interviste ai protagonisti e improbabili giustificazioni. Da Torino a Palermo, passando per Milano, Bologna, Modena, Firenze, Roma, Messina e tante altre città italiane. Infine, gli intrecci familiari nelle dinastie accademiche di Napoli e la sanità campana. Il tutto accompagnato dall’urlo di rabbia e di vergogna che emerge dalle lettere dei cervelli costretti ad andarsene.

6. Un paese di baroni. Truffe, favori, abusi di potere. Logge segrete e criminalità organizzata. Come funziona l’università italiana. Un libro di Davide Carlucci ed Antonio Castaldo. Questo libro racconta l’università dei privilegi e anche l’università di chi lavora seriamente tutti i giorni e per pochi soldi. Le storie e le testimonianze di chi si è ribellato contro i concorsi truccati rivelano un sistema fortissimo, basato molto sull’obbedienza e molto meno sul merito: esistono delle vere e proprie gerarchie nazionali per ogni disciplina, chi occupa il vertice comanda su tutti. Un sistema tanto chiacchierato, e oggetto di generale indignazione, ma che fino a oggi tutti hanno accettato. Importante era non fare i nomi. Funziona così l’università. Stipendi d’oro assegnati con un criterio gerontocratico (basta qualche anno di anzianità per guadagnare più del 90 per cento dei professori americani). L’impegno spesso è risibile (il “tempo pieno” di un professore ordinario è 3 ore e 39 minuti al giorno, mentre i ricercatori spesso si dedicano totalmente alla didattica), i più furbi arrotondano bene con le consulenze. E poi le lobby: “bianche”, “rosse” e “nere” (senza dimenticare Comunione e liberazione e l’Opus Dei). Chi non sta alle regole, è fuori. Studenti, dottorandi e ricercatori, magari dopo una vita di studio, esperienze all’estero e pubblicazioni in riviste autorevoli, aspettano il loro turno. Ma non è detto che ce la facciano. Anzi. Nascono blog e siti internet che danno voce alla loro frustrazione: per difendere l’università pubblica e la voglia di un futuro più onesto e più giusto.

7. I baroni. Come e perchè sono fuggito dall’università italiana. Un libro di Nicola Gardini. Nicola è un giovane studioso. Ha una laurea italiana e un dottorato americano. Tutto ciò che desidera è concentrarsi sulle sue ricerche, condividerle con altri studiosi, trasmettere ai più giovani ciò che ha imparato dai suoi maestri. Ma in Italia non è possibile. Perché l’università italiana è sempre meno il luogo della ricerca, dell’insegnamento, della trasmissione del sapere. Nell’università italiana non governano il merito e la competenza. Nell’università italiana governano i “Baroni”: uomini di potere abituati a gestire l’Accademia come un giocattolo personale, a premiare la fedeltà anziché la libertà, a preferire un mediocre candidato “locale” a un ottimo candidato “esterno”. In barba all’interesse degli studenti e anche all’interesse generale. Questo libro è un documento unico. È una denuncia e una confessione. Ma soprattutto è una storia vera: il racconto paradossale e a tratti kafkiano di dieci anni passati a barcamenarsi tra concorsi veri o fasulli, promesse fatte e non mantenute, vessazioni inutili, cose non dette o cose mandate a dire. Dove tutto conta tranne ciò che dovrebbe contare: l’originalità della ricerca, la dedizione all’insegnamento. Il lieto fine è purtroppo amaro. Perché Nicola diventa professore a Oxford, dove vince un concorso pur non avendo conoscenze. E l’Italia perde l’ennesimo “cervello”, l’ennesimo studioso regalato a un paese che non ha speso nulla per formarlo ma che ne sa mettere a frutto doti e lavoro come la nostra Università non sa più fare.

8. L’ università per tutti. Riforme e crisi del sistema universitario italiano. Un libro di Andrea Graziosi. Le università italiane sono assenti dai posti alti nelle graduatorie internazionali, sono carrozzoni giganteschi, spesso sull’orlo del fallimento, culturalmente provinciali ed emarginate. Come si è precipitati in questa situazione e che cosa si può fare per uscirne? La lucida e stringente analisi di Graziosi ripercorre cinquant’anni di riforme e mutamenti che hanno trasformato la vecchia università di élite in una grande e indistinta università di massa, che era indubbiamente necessaria alla moderna società italiana, ma che si è gettata alle spalle ogni esigenza di eccellenza e di ricerca. Interessi corporativi e buone intenzioni si sono spesso saldati nel risultato perverso di produrre un degrado progressivo della formazione universitaria. A questa situazione, sostiene l’autore, è urgente porre rimedio con una serie di cambiamenti che mirino a separare fortemente le funzioni dello studio universitario, distaccandone l’istruzione professionale, differenziando gli atenei, e incentivando e sostenendo le eccellenze.

9. Gioventù sprecata. Perché in Italia non si riesce a diventare grandi. Un libro di Marco Iezzi e Tonia Mastrobuoni. Ma chi ha detto: “Mandiamo i bamboccioni fuori casa!” (il ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa) lo sapeva che per l’attuale ‘generazione mille euro’ comprare casa è un miraggio, ottenere un prestito o tramutare un’idea geniale in un’impresa una missione impossibile, approfittare della flessibilità per costruirsi una carriera in ascesa una pia illusione? Che non c’è verso di sfuggire per anni alla trappola del precariato, con prospettive di pensioni da fame? Come si spiega che condividano lo stesso, amaro destino due generazioni che dovrebbero essere distanti fra loro, i ventenni e i quarantenni? Allora è il mammismo italiano, e tutti gli altri luoghi comuni che ne conseguono, la causa di tutto o il nostro paese che fa acqua? Il volume indaga nella prima parte come e perché si è arrivati a queste condizioni e quali sono le conseguenze anche nei comportamenti, nei desideri e nelle aspettative di tante donne e uomini. Nella seconda parte raccoglie le storie di alcune "mosche bianche" – Chloè Cipolletta, Emma Dante, Frida Giannini, Michel Martene, Valeria Parrella e Filippo Preziosi, le eccezioni che confermano la regola – e quelle di alcuni cervelli in fuga esiliati: Paola Antonelli, Ugo Bot, Antonio Giordano, Roberto Isolani, Enrico Moretti e Luca Santarelli. In ultimo, le opinioni sui giovani di sei grandi vecchi: Gae Aulenti, Andrea Camilleri, Dario Fo, Margherita Hack, Dacia Maraini e Mario Monicelli.

10. Malata e denigrata. L’università italiana a confronto con l’Europa. Un libro di Marino Regini. Una buona diagnosi è il primo passo per ogni buona cura. Ecco da cosa nasce questa snella e al contempo dettagliata inchiesta sulle gravi carenze di funzionamento e di risultati del nostro sistema universitario rispetto ai più avanzati in Europa. L’analisi, infatti, riguarda le cinque grandi aree di criticità divenute leit-motiv delle polemiche recenti: la proliferazione dei corsi di laurea, l’insoddisfacente “produttività” degli atenei, la disattenzione verso il mondo del lavoro, il predominio dei “baroni”, gli sprechi e le inefficienze nella spesa. Dal confronto, si scopre così che molte anomalie imputate al nostro sistema universitario non sono in realtà tali, mentre altre carenze dipendono indubbiamente da vizi antichi del ceto accademico italiano. Ma anche per queste, assai utile appare guardare a ciò che accade in altri paesi più simili al nostro: molti degli argomenti utilizzati nelle polemiche recenti non sono infatti assenti altrove. La differenza cruciale è nell’atteggiamento dell’opinione pubblica e dei media e nel comportamento dei governi. Dominati, nei paesi vicini, da una forte e diffusa preoccupazione per la perdita di competitività e dalla determinazione a investire in modo selettivo ingenti risorse per porvi rimedio. Il contrario di quanto avvenuto in Italia, dove carenze e lacune diventano pretesto per un’ulteriore diminuzione dei già scarsi investimenti nella ricerca e nella produzione di capitale umano.

11. Il laboratorio. Un libro di Renzo Tomatis. «Volete sapere una cosa? Viviamo ancora nel Medioevo». Semmai, da quelle strutture feudali, sembra scomparsa la Cavalleria. Il diario di un giovane medico destinato alla fama professionale, spinge ad una comparazione tra i laboratori americani e l’istituto di ricerca italiano. Quando questo libro fu scritto e pubblicato, a metà degli anni Sessanta, suscitò interesse, scalpore e un certo scandalo. Erano gli anni iniziali del centro-sinistra, un dollaro valeva attorno a seicento lire, s’accendevano le polemiche sulla «fuga dei cervelli» oltreoceano, molti speravano e quasi credevano che si aprisse per l’Italia un’era di modernità, forse un po’ più giusta, come un’uscita da uno strano, prolungato, feudalesimo. E una delle più persistenti strutture feudali questo libro descriveva: nel diario di un giovane medico destinato alla fama professionale, negli Stati Uniti per un periodo di ricerca, il laboratorio americano – dove lavorava – e l’istituto di ricerca italiano – dove periodicamente ritornava per mantenere i legami – si contrapponevano come due sistemi; si offrivano alla comparazione parallela. Piccolo nido della ricerca specializzata, il primo: e talvolta, forse spesso, luogo di aspra competizione. Complessa piramide burocratica, l’istituto italiano, volta alla perpetuazione di una gerarchia e di un potere personale, incardinato in altri poteri personali e gerarchici, ma abitato da persone gentili, facondi umanisti, brillanti conversatori. Nella nota di oggi al Laboratorio (dal titolo Trent’anni dopo), l’autore dice che più che la denuncia colpisce la mitezza; ma resta la forza comparativa, non tanto tra Italia e America: tra Italia e Italia, anni Sessanta e oggi. Ebbene, come dice Kurt Vonnegut nel Grande tiratore: «Volete sapere una cosa? Viviamo ancora nel Medioevo». Semmai, da quelle strutture feudali, sembra scomparsa la Cavalleria.

Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana, scrive Francesco Specchia su “Libero Quotidiano”.

«...Punto! Due punti!! Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in abbondandum». Al di là del merito e della torpida sostanza giuridica, ho letto le motivazioni dell’ormai mitica sentenza Mediaset. E, grammaticalmente, la prim’immagine evocatami (ci perdoni il presidente della sezione feriale di Cassazione, ma essendo appassionato del teatro di Scarpetta, comprenderà) è stata quella della dettatura della lettera di Totò a Peppino, gli altrettanto mitici fratelli Capone. Dunque. M’immaginavo il presidente Antonio Esposito, il quale, accalorato, la toga stropicciata, il succoso accento napoletano, si alza e osservando verso l’alto il punto di un immaginario sestante, detta ai consiglieri De Marzo Giuseppe e Aprile Ercole mollemente assettati roba: «Veniamo noi con questa mia addirvi...». E questo è il prologo immaginato. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183, la parte più dadaista: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio? Possibile che in natura vi siano tante attrazioni del relativo da sembrare un trenino erotico?  La prosa della Cassazione è frullo, velocissimo, di anacoluti. E qui m’immagino i consiglieri De Marzo e Aprile che si fermano un attimo, riprendono il fiato; si girano appena ad osservare il presidente Esposito che sembra dire: «Hai aperto la parente? Chiudila...»;  e poi si rimettono, in apnea, testa bassa, a vergare: «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, da quel fango ribollente di parole, perle tautologiche tipo «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..»: roba che, letterariamente, in passato poteva   comportare anche una rottura degli schemi e dei generi, come insegnavano Italo Calvino, Céline o Ambrose Bierce (privilegiati qui rispetto ai pandettisti Calamandrei, Rocco, o a Pisapia padre...).  Per non dire, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, del vorticoso intreccio dei «siffatto contesto normativo», degli «allorquando», degli «in buona sostanza», che rendono -come dire?- un tantino accidentata la lettura. Prendete la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Uno dice: per forza non capisci un tubo, è linguaggio giuridico. Il problema è che io ho fatto giurisprudenza, specializzato nel diritto processuale. Alla serie di termini linguistici accostati in modo più o meno ordinato o anche in modo caotico e senza un percorso strutturale, dovrei esserci abituato. Ripeto: non entro nel merito della sentenza. Eppure qui, per vapore sintattico, mi tornano sempre in mente Totò e Peppino. Il fatto è che, quasi tutti i giudici non sanno  -o non vogliono scrivere - in una forma comprensibile. Montesquieu,  nel libro diciannovesimo dell’Esprit des lois,  ammoniva: «Le leggi non devono essere sottili: sono fatte per individui di mediocre intelligenza; non sono espressione dell’arte della logica, ma del semplice buon senso di un padre di famiglia». Le leggi dovrebbero essere capite anche dalla cuoca di Lenin, o dalla casalinga di Voghera. Eppure con la scusa del «gergo» si compiono le peggiori nefandezze grammaticali. Scrive il docente Stefano Spele nel suo saggio  Semplificazione del linguaggio amministrativo: «La scarsa attitudine a scrivere in modo chiaro è stata favorita, anche dai meccanismi di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nelle quali ha largamente dominato il principio non scritto che è meglio non assumersi nessuna responsabilità. Oscurare il linguaggio serve ad oscurare le responsabilità». Vero. Spesso è la responsabilità dei magistrati. Non è questo il caso, naturalmente, caro dottor Esposito. Chiusa la parente.

Vede finalmente la luce un’opera monumentale che colma una lacuna nel mondo della linguistica. È un progetto che ha visto impegnato un team composto dai maggiori esperti del settore e grazie al quale potrà essere tradotto un documento rimasto fino a oggi non decifrato: la sentenza Berlusconi, scrive Giuseppe Pollicelli su “Libero Quotidiano”. La soddisfazione di uno degli studiosi: “È stata durissima ma ce l’abbiamo fatta, ora mi potrò rilassare dedicandomi all’etrusco e al rongorongo”. Di seguito, in esclusiva per i lettori di LiberoVeleno, alcuni dei lemmi resgistrati dal vocabolario Espositese-Italiano.

Ammariuca. Da pronunciarsi ponendo l’accento sulla lettera u, questo sostantivo dall’etimologia sconosciuta non trova riscontri al di fuori dell’espositese: indica infatti un’assoluta idiosincrasia nei confronti della lingua italiana e un’insormontabile difficoltà nel parlarla.

Chiavicazzone. Epiteto ingiurioso che in espositese si rivolge a chi commetta un’ingenuità o una leggerezza. Quando ha trovato sul Mattino le sue considerazioni sulla condanna al Cavaliere, Antonio Esposito ha esclamato a gran voce: “Songo ’nu chiavicazzone!”.

Ditalende. Sostantivo femminile che si usa solo al plurale. Le ditalende sono le preoccupazioni e i grattacapi che possono derivare a un individuo dalle condotte discutibili del parentado. Un figlio magistrato che organizzi cene a lume di candela con un’imputata assai nota alle cronache può essere cagione di ditalende.

Fracuzzella. Indica un particolare stato d’animo, simile alla rabbia e alla stizza, che coglie taluni ogni volta che s’imbattono nella persona o anche solo nel nome di Silvio Berlusconi. Se il giudice Antonio Esposito pronuncia la frase “Tengo ’na fracuzzella tanta”, vuol dire che è meglio girargli al largo.

Manzaccio. Aggettivo che si adopera a proposito di un individuo infido, sleale, subdolo. Quando nomina il cronista del Mattino con cui ha intrattenuto la famosa conversazione telefonica, Antonio Esposito non manca mai di dire che “Chillo là nun è solo malamente, è ’nu vero manzaccio!”

Scianfroglia. Con questo vocabolo ci si riferisce alla speciale capacità, sviluppata e affinata soprattutto dagli abitanti di Sarno e dei paesi limitrofi, di distinguere con sicurezza l’uno dall’altro tutti i numerosissimi membri della famiglia del giudice Esposito, compresi i cugini di quarto grado.

Tangolicchiare. Prodursi in piccoli e ripetuti sorrisini allorché si viene a conoscenza di una notizia che prelude all’esito fausto di una determinata vicenda. Si tangolicchia, per esempio, se si apprende che la Procura generale della Cassazione può impiegare fino a un anno per ascoltare una tua telefonata compromettente della durata di pochi minuti.

Voccallocca. Atteggiamento disinvolto, non di rado sconfinante nell’istrionismo e nella sfacciataggine, che si assume durante una festa o una cena tra amici e che induce a parlar male pubblicamente di Silvio Berlusconi auspicandone la condanna nei processi penali.

Non solo errori grammaticali. La Cassazione boccia le sentenze scritte a mano.

Sono illeggibili, segno di ridotta attenzione nei confronti di chi è condannato. Invito ad usare il computer, scrive Bruno Ventavoli su “La Stampa”. Giudici, buttate la penna. Se scrivete sentenze, fatelo al computer. La tirata d’orecchie arriva dalla Cassazione, che invita i magistrati italiani ad abbandonare nostalgie e vezzi da amanuensi. Non perché il Palazzaccio voglia d’un tratto buttare al macero secoli d’arte calligrafica. Ma semplicemente perché molte sentenze, vergate a mano, risultano incomprensibili. Giubilano, pare di sentirle, le praticanti che negli studi legali devono stendere atti per poche decine d’euro, e inciampano in scarabocchi, s’impuntano su una «f» che somiglia a una «l», rischiando l’isteria. E gioiscono tutti quelli che nella vita quotidiana hanno a che fare o per mestiere o per casualità con fogli rigati d’inchiostro da mani che non sanno maneggiare penne. Le ricette d’un medico, è noto, sembrano scarabocchi psicopatici. I compiti in classe degli studenti con le dita atrofizzate dai telefonini, per i poveri docenti alla Pennac, paiono tsunami di geroglifici. La singolare sentenza (numero 49568/09) parte dalla Corte d’Appello di Napoli, dove due rapinatori hanno cercato di farsi annullare una condanna aggrappandosi a una penna. Ci vogliono condannare - hanno detto - ma è nostro diritto saper perché. E dato che il verdetto è buttato giù peggio che da una gallina, i motivi ci restano ignoti. Il caso è arrivato in Cassazione. I giudici hanno scorso il documento incolpato. E qualcosa di faticoso l’hanno sicuramente trovato. Perché alla fine hanno emesso una nota di biasimo, riconoscendo che il testo era «caratterizzata da un ormai obsoleto ricorso alla scrittura a mano, non vietato ma certamente segno di attenzione ridotta da parte del magistrato amanuense alla manifestazione formale della funzione giurisdizionale». A rincarare la dose: «gli stilemi personalissimi e frettolosi pongono in secondo piano le esigenze del lettore e in particolare di chi, avendo riportato condanna, pretende di conoscerne agilmente le ragioni». Insomma, scrivere sentenze a mano non è vietato. Ma digitarle su un computer è meglio, perché appena eruttate dalla stampante sono immediatamente comprensibili. E’ un segno di civiltà, fin dai primordi del diritto. Chi incise i cuneiformi nella diorite di Hammurabi, si preoccupò di rendere ogni segnetto chiarissimo, meglio d’un bassorilievo divino. Essendoci di mezzo la legge del taglione, ogni tacchetta poco chiara, poteva costare una mano o una testa. Scrivere a mano, codice penale a parte, è da secoli un’arte sopraffina. Che suscita talvolta meraviglia, talaltre pensieri devianti e cocciute ribellioni, perché la mano che scorre lenta sul foglio parla sempre con il cuore, con l’anima, con la mente. Gli orientali, sulla calligrafia, hanno costruito un sistema di potere e di perfezione poetico-artistica. Bartleby, lo scrivano di Melville, a forza di ricopiare, imparò a ribellarsi sussurrando un mite «preferirei di no», come fosse una virgola venuta male nell’ordine americano. I copisti del nostro medioevo, dopo aver sudato quattro tonache a miscelare inchiostri e appuntire piume d’uccelli, si divertivano poi a nascondere nei colofoni dei nobili testi sms pruriginosi, tipo «Dentur pro penna scriptori pulchra puella» - la penna dello scrittore si merita una fanciulla carina - che suonano scaltri e beffardi quanto l’appello dei due rapinatori napoletani. Per la storia della Giurisprudenza, comunque, gli sgorbi legali non bastano a farla franca. La Cassazione ha respinto la richiesta dei due rapinatori: «La lettura del testo non è impedita da grafia ostile al punto da precluderne la comprensione la quale, seppur non propriamente agevole, risulta possibile al di là di ogni ragionevole dubbio». Meglio, però, passare al computer. Meno zen, più ineccepibile.

LE TOGHE IGNORANTI.

Le toghe ignoranti, scritto da Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Appunti nascosti nel reggiseno. O in una cartucciera... Errori di grammatica. Sfondoni di sintassi. Scarsa conoscenza del codice penale. "L'espresso" ha letto i temi dei candidati che domani dovranno governare la giustizia. In pochi si salvano da un disastro generale. La dottoressa F., giovane magistrato di freschissima nomina, ha da poco messo in pratica l'antico insegnamento contadino del non darsi la zappa sui piedi. E anche quello poliziesco del non spararsi nelle parti intime. La dottoressa F. ha infatti partecipato agli scritti del concorso per magistrato ordinario nel novembre 2008. Ha poi chiesto l'annullamento dello stesso concorso al Tar del Lazio per le presunte irregolarità di cui era stata testimone. Ha quindi saputo di aver passato gli scritti. Ha superato gli orali nella primavera 2010. Ha immediatamente dimenticato le irregolarità di cui era stata testimone. E ha dichiarato al Tar la "sopravvenuta carenza di interesse" chiedendo ai giudici, nel maggio 2010, di annullare la richiesta di annullamento. Pochi giorni fa, il 9 agosto, il Tar ha finalmente archiviato la bomba a orologeria del ricorso che l'audace candidata aveva piazzato sulla testa dei commissari d'esame. Niente male come inizio carriera. La sentenza è arrivata in tempo per vedere il nome del nuovo magistrato nell'elenco dei 253 vincitori, pubblicato dal ministero della Giustizia il giorno di Ferragosto. L'eccessiva attenzione a certe parti del corpo è invece costata l'esclusione ad altri laureati. Lo scrive Maurizio Fumo, presidente della commissione d'esame e consigliere della Corte di Cassazione, che in un verbale riservato prende atto "purtroppo, dell'atteggiamento obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima". Si trattava evidentemente di un vicequestore donna. Piuttosto che reggiseni e reggicalze, alcuni maschi hanno trovato ovviamente più consono indossare cartucciere da cacciatore dove nascondere i pizzini. Bernardo Provenzano ha fatto scuola ovunque. La generazione dei furbetti è entrata nelle aule di giustizia. I furbetti della toga: ragazzi e ragazze, più e meno giovani, che si sono formati studiando tra leggi ad personam e discussioni sul processo breve, tra le invenzioni del ministro Angelino Alfano e le comparsate tv dell'avvocato del premier, Niccolò Ghedini. Una generazione al passo con i tempi, tanto da averne già gustato il succo: l'importante è andare avanti. Chissenefrega come. Così hanno rubato il posto ai migliori rimasti esclusi. Almeno questo denunciano le decine di ricorsi presentati al Tar del Lazio. Qualcosa però tutti questi ragazzi, promossi e bocciati, incontrati negli ultimi giorni, hanno già assimilato: hanno paura di parlare. Nemmeno quando si tratta dei loro diritti costituzionali. Niente nome e cognome, per carità. Potrebbe danneggiare il futuro. La legge bavaglio per loro è già una pratica. Anche per molti di quei 253 che dopo un periodo di tirocinio come uditori, diventeranno giudici, pubblici ministeri, gip, gup. E, quando sarà il loro momento, presidenti di Tribunale, procuratori della Repubblica, membri del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale. "L'espresso" ha letto i tre temi scritti da ciascuno dei magistrati appena nominati dal ministero. E ha analizzato i 235 verbali della commissione d'esame (vedi servizio a pag. 35). Non mancano gli errori di ortografia. Pagine bianche e righe nere che assomigliano a singolari segni di riconoscimento (vietatissimi). Fogli pasticciati e scritti sui margini come fossero fumetti. Ma anche i documenti della commissione non scherzano. Voti allegati senza timbri ministeriali. Fogli volanti inseriti in mezzo ai verbali di valutazione. Correzioni e cancellature senza firme di convalida. La legge è stagionata, la 1860 del 15 ottobre 1925. Ma su questi punti è chiara. Articolo 18: "Le cancellature o correzioni, che occorressero, devono essere approvate una per una dal presidente e dal segretario, con annotazione a margine o in fine". Non ci sono prove che i commissari nominati tra magistrati, professori universitari e avvocati siano stati scorretti. Ma un po' troppo pasticcioni sì. Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". La questione che ha spinto quasi tutti i ricorsi è anche la presunta impreparazione della commissione nella compilazione dei verbali. Impreparazione che, secondo i ricorrenti, potrebbe avere viziato l'esame già dagli scritti, organizzati tra il 19 e il 21 novembre 2008 in due padiglioni della Fiera di Milano a Rho. Questo è il resoconto del presidente dei commissari: "Va innanzitutto ricordato che lo scrivente è stato individuato quale presidente della commissione esaminatrice", scrive di se stesso Maurizio Fumo in un verbale riservato inviato al ministro e al Csm, "solo pochi giorni prima dell'inizio dei lavori, a seguito della rinunzia del presidente nominato". Contrariamente a quanto stabilito dalla commissione in carica per il precedente concorso, "si è ritenuto di non ammettere testi contenenti note di dottrina e giurisprudenza anche se le relative pagine fossero state spillate o fatte spillare". Le operazioni di identificazione dei candidati (con tesserini questa volta senza foto) e di controllo dei testi con i codici durano due giorni, il 17 e il 18 novembre: "Sono affluiti circa 5.600 candidati. La media dei testi che ciascuno ha inteso introdurre può individuarsi in 5 o 6 per candidato. Per un totale, quindi, di 28.000-33.600 volumi". E qui cominciano i pasticci. Perché la regola in Italia, anche nel concorso per magistrati, è sempre flessibile: "Il problema della spillatura, nonostante l'annunzio pubblicato sul sito ministeriale, si è riproposto". I candidati che mostrano ai 250 sorveglianti i testi commentati e spillati "vengono invitati a strappare le pagine contenenti note di dottrina o giurisprudenza... oppure a rinunciare al codice stesso". I partecipanti che accettano la soluzione "hanno ottenuto la ammissione dei codici così purgati": che però "continuavano a recare sulla copertina la dicitura "codice commentato"". La mattina del 19 novembre la commissione si riunisce per scegliere le tre tracce di diritto amministrativo: "Subito dopo l'individuazione delle tre tracce, il professor Fabio Santangeli ha rappresentato di doversi allontanare per tornare a Catania... Né d'altronde il Santangeli poteva essere trattenuto d'autorità", ammette Fumo: "A tal punto la commissione ha ritenuto, all'unanimità, necessario eliminare le tre tracce e procedere all'individuazione di tre nuove tracce della medesima materia". Passano le ore. "Non pochi candidati", in attesa fin dalle 8, è sempre scritto nel verbale, "hanno lamentato di essere investiti da flussi violenti di aria fredda". Alle 12,45 la prova scritta non è ancora cominciata. Ormai sono evidenti sui banchi i testi con la dicitura "codice commentato". E i più rispettosi delle regole non la prendono bene. Scoppia la lite. Volano libri, qualche sedia, al grido di vergogna, vergogna: "La commissione, colta in un primo tempo di sorpresa per la violenza, la volgarità e la natura apertamente minacciosa che aveva assunto la protesta, ha comunque mantenuto la calma... solo, dopo più di un'ora e grazie all'atteggiamento fermo ma prudente della polizia penitenziaria, è stato possibile instaurare una qualche forma di dialogo... Altri inoltre chiedevano e ottenevano di verbalizzare dichiarazioni". Quel verbale, controfirmato da otto candidati, secondo i testimoni contiene nomi di persone sorprese con testi irregolari e ora promossi magistrati. Ma è impossibile verificare. Finora il Csm ha impedito l'accesso al documento. E il Tar Lazio non ha ancora depositato una decisione presa nel merito il 28 aprile scorso. "Nei giorni successivi le prove si svolgevano in maniera abbastanza regolare", conclude il presidente Fumo: "Si rendeva necessario tuttavia istituire un apposito banco delle espulsioni... In quanto il numero delle persone trovate in possesso di materiale non consentito (appunti, codici con annotazioni, testi giuridici mascherati con copertine di codici, telefonini e persino un orologio con database) era molto elevato".

La legge è uguale per tutti? No! I concorsi pubblici evidenziano il merito? No!

Ed allora…? Ed allora, niente. Questi italiani sono troppo coglioni per cambiare le cose. Per loro meglio adeguarsi che lottare.

"Quando si cerca di indicare la luna la politica ti porta a cercare il dito..." rivisitazione personale di un noto proverbio che trovo alquanto educativo. Ho sempre ammirato il modo in cui la politica e le stesse istituzioni riescono a distrarre l'attenzione degli italiani dai veri problemi del paese per focalizzarla, invece, sui piccoli scandali di bunga bunga, case a Montecarlo etc. etc.... In tal modo, e solo così si riesce, ahimè, ad evitare un'insurrezione di massa...distrarre la gente per la sopravvivenza della casta! Scusate signori ma io non ci stò. Ed allora ricominciamo a portare a galla gli scandali istituzionali più seri, sperando di riaccendere il sentimento nazionale. Cominciamo dai concorsi pubblici; quello di magistratura.

ANNO 1992. Si diffuse la notizia che anche i concorsi per diventare magistrati venissero truccati col beneplacito del Ministero di Grazia e Giustizia e degli apparati di vigilanza: "Verbali sottoscritti da gente che non c'era, fascicoli spariti, elaborati inidonei quando non lo erano affatto". Ci vollero tredici anni per venire a sapere tramite un articolo del Corriere della Sera del 2005 che i gravi fatti del 1992 non avevano trovato alcuna soluzione nelle aule di giustizia.

ANNO 2002. Un magistrato di Cassazione con funzioni di sostituto P.G. presso la Corte d'Appello di Napoli, membro di commissione, cercò di favorire la figlia di un ex componente del Csm sostituendo durante la  notte la prova giudicata negativa ma venendo "tradita" dall'incorruttibile fotocopiatrice utilizzata che, ripartendo al mattino successivo, iniziò a "vomitare" fiumi di pagine contraffatte dalla commissaria-giudice.

ANNO 2008. Il caso della Fiera di Milano-Rho in occasione del concorso Nazionale per uditore Giudiziario. Fra i 5600 partecipanti per 500 posti si scopre che c'è che può tranquillamente introdurre telefonini, appunti, codici irregolari ed addirittura libri di testo. SI consideri che in queste prove la selezione del materiale avviene nei giorni antecedenti le prove con un rigore che dovrebbe essere assoluto! Decine di candidati in piedi che iniziano ad urlare "vergogna!"

Morale della favola? Poco dopo è lo stesso C.S.M. (organo di autogoverno della magistratura) a richiedere con voto a maggioranza l'archiviazione del caso!!! La Procura di Milano (cui si erano rivolti alcuni candidati inferociti) archiviò il tutto senza disporre alcuna indagine! Si apprese in seguito che la 9° commissione richiese al C.S.M. l'apertura di un fascicolo con l'obbiettivo di "avere cognizione oggettiva dello svolgimento delle prove concorsuali e assumere le opportune iniziative in difesa del prestigio e credibilità della magistratura la cui prima garanzia è riposta nell'assoluta affidabilità della procedura di selezione"...ARCHIVIATO IL 19 DICEMBRE!

Potremmo andare avanti così per ore...

E poi, ancora con gli accademici professori universitari.

La Procura di Bari, con un fascicolo aperto nel 2008, indaga 22 docenti e 11 città italiane per manipolazione illecita di dieci concorsi in tutta Italia, dal 2006 al 2011. Una vera lobby di docenti organizzata e ramificata in tutto il Paese. Ma non è tutto. Emergono, infatti, particolari che potrebbero aggravare la posizione degli indagati. Perché, oltre ai concorsi truccati, i docenti avrebbero esercitato pressioni “anti-riforma” sull’allora Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, allo scopo di ostacolare la tanto contestata riforma universitaria, poi approvata nel dicembre 2010. Tramite intercettazioni telefoniche, la Guardia di Finanza avrebbe smascherato una rete nazionale tra colleghi docenti, unanimemente decisi a convincere il Governo di rivedere la riforma. Il testo di riforma contestato dai docenti, include, tra i tanti provvedimenti, nuove procedure di valutazione e di inserimento per professori di prima e seconda fascia e ricercatori, introducendo criteri di sorteggio e l’adozione di un codice per evitare incompatibilità e conflitti di interesse per parentele all’interno dello stesso ateneo. Il che potrebbe spiegare, laddove le indagini si rivelassero attendibili, la ragione di volere impedire, all’epoca dei fatti, l’approvazione della riforma. Dunque una lobby anti codice etico, pro familismo e parentopoli universitaria. Intanto dopo l’avviso di garanzia ricevuto lo scorso anno, sui docenti gravano reati di associazione a delinquere finalizzata a corruzione, abuso d’ufficio e falso ideologico.

Accordi, scambi di favori, sodalizi e patti di fedeltà: così, secondo la procura di Bari, sono stati pilotati dal 2006 i concorsi pubblici per docenti di prima e seconda fascia di diritto costituzionale, ecclesiastico e diritto pubblico applicato in alcune università italiane, scrive “Blitz Quotidiano”. A decidere in anticipo quelli che dovevano essere i risultati delle prove per conquistare le cattedre di ordinario e associato sarebbe stata un’associazione per delinquere composta da professori universitari. Per questo nell’inchiesta dei pm baresi Renato Nitti e Francesca Romana Pirrelli si ipotizza il reato di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, al falso e all’abuso d’ufficio. Ventidue i docenti di 11 facoltà italiane indagati per aver manipolato ”l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche bandite” attraverso una rete criminale che la Guardia di finanza di Bari ritiene di aver individuato dopo due anni di indagini. Proprio per cercare ulteriori riscontri sull’esistenza del gruppo criminale, militari del nucleo di polizia tributaria hanno compiuto perquisizioni in uffici universitari e studi professionali dei docenti delle università di Milano, Bari, Roma, Napoli, Bologna, Firenze, Piacenza, Macerata, Messina, Reggio Calabria e Teramo. Nel capoluogo lombardo hanno subito perquisizioni Giuseppe Ferrari, ordinario di diritto pubblico e comparato dell’Università Bocconi, e i professori Giuseppe Casuscelli e Enrico Vitali, entrambi docenti di diritto canonico ed ecclesiastico all’Università statale. Quattro i prof indagati a Bari: Aldo Loiodice, docente di diritto costituzionale alla facoltà di giurisprudenza; Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Roberta Santoro docente aggregato della facoltà di Scienze politiche e Maria Luisa Lo Giacco, ricercatrice di diritto ecclesiastico. L’indagine è stata avviata nel 2008 ed avrebbe quasi subito svelato l’esistenza di alcuni concorsi pubblici truccati attraverso un meccanismo di accordi e scambi di favori. Come aveva già evidenziato un’altra indagine, sempre della procura di Bari, che nel giugno 2004 portò all’arresto di cinque docenti di cardiologia. Sei anni dopo gli arresti e otto anni dopo l’avvio dell’indagine, la procura ha chiesto il rinvio a giudizio degli indagati, accusati di aver gestito un sistema criminale dei concorsi nazionali per ordinario, associato e ricercatore di cardiologia nelle facoltà di Bari, Firenze e Pisa. Per il lungo periodo trascorso, alcuni reati sono già caduti in prescrizione e tutti gli altri saranno prescritti tra non molto tempo.

Questi, signori, sono i veri scandali, queste le "porcate" che devono destare l'opinione pubblica. Qua non si parla dell'appaltino (sempre importante) truccato...qua si parla della formazione dei principali poteri dello Stato. Qua si parla di soggetti che domani saranno chiamati a spiegare al cittadino cosa sia la giustizia! E' interesse di tutti, spero, sapere di andare in Tribunale e trovarsi di fronte all'autorità di un giudice che serenamente ha superato un concorso pubblico.

Ancor più scandaloso che nessuno ne risponda! Qualcosa è successo, qualcuno ha fatto il furbetto, eppure nessuno viene indagato, processato o condannato! Tutto bene, tutto normale, tanto l'importante è guardare il dito...

Vogliamo presentare un breve excursus dal 1992 ad oggi dei casi più salienti, per vedere cosa è stato fatto e se realmente qualcosa è cambiato, scrive “Avvocati senza Frontiere”. Con il primo articolo del 2007 apparso sul tema un nostro anziano avvocato si domandava di quale credibilità potesse ancora godere la magistratura italiana se gli stessi concorsi per entrare a farne parte continuavano ad apparire poco trasparenti, come denunciato nei decenni precedenti da molteplici candidati, senza che si sia mai fatta piena luce sui diversi episodi di brogli e corruzione emersi in ogni parte d’Italia.

Correva l’anno 1992, quando trapelò per la prima volta che anche i concorsi per magistrati venivano truccati col beneplacito del Ministero di Giustizia e degli apparati di vigilanza: “Verbali sottoscritti da gente che non c’era, fascicoli spariti, elaborati giudicati “idonei” quando non lo erano affatto“. Passarono poi ben 13 lunghi anni prima di venire a sapere tramite un articolo di denuncia del Corriere della Sera, pubblicato nel 2005, che i gravi fatti del 1992 non avevano ancora trovato alcuna soluzione nelle aule di giustizia amministrativa italiana né tantomeno sanzione penale.

Nel 2005, nonostante l’autorevole denuncia di Silvio Pieri, ex Procuratore Generale del Piemonte, e le diverse interrogazioni parlamentari sul tema, la scandalosa vicenda del concorso truccato del 1992, risultava finita nel porto delle nebbie, così come ogni altra successiva denuncia del genere. Vale la pena qui ricordare il suggestivo episodio della fotocopiatrice integerrima che smascherò il broglio di una componente della commissione esaminatrice della sessione del marzo 2002 e al contempo magistrato di Cassazione con funzioni di sostituto P.G. presso la Corte d’ Appello di Napoli, la quale cercò di favorire la figlia di un ex componente del Csm, della corrente di Unicost, sostituendo clandestinamente durante la notte la prova giudicata negativa della sua protetta, ma venendo tradita dall’eccesso di zelo dell’incorruttibile copiatrice, utilizzata nottetempo dall’alto magistrato, che ripartendo al mattino misticamente vomitava fiumi di copie delle pagine contraffatte dalla giudice Dr.ssa Clotilde Renna.

Negli anni successivi, neppure l’agguerrito Ministro Alfano, al pari del Guardasigilli di centro-sinistra Mastella, provava a scalfire l’impenetrabile muro di gomma eretto dalla casta e dalle massomafie che la proteggono, sui criteri e le procedure che governano l’accesso alla magistratura. L’argomento, evidentemente troppo scottante anche per i falsi neoliberisti e i rampanti filoberlusconiani che sulla corruzione giudiziaria hanno prosperato, costruendo la loro fortuna economica e politica, continua così ad essere un tabù di cui nessuno si occupa.

Correva l’anno 2008, quando scoppia il nuovo caso della Fiera di Milano-Rho, in occasione dell’ennesimo Concorso Nazionale per Uditore Giudiziario truccato. Tra i 5600 aspiranti magistrati per soli 500 posti si scopre che c’è chi si può permettere di introdurre impunemente telefonini, appunti, codici “irregolari“, rispetto alle norme dettate dal concorso e addirittura libri di testo, tanto da scatenare un vero e proprio putiferio. Mentre decine di candidati urlavano in piedi “vergogna!“, un altro gruppo esprimeva il proprio sdegno chiedendo di annullare la prova.

Ma “more solito” tutto vien presto messo a tacere e il livello di preparazione e di moralità dei giudici italiani e la conseguente disponibilità a “non lasciarsi ammorbidire dal potere“, restano quelli che tutti abbiamo avanti agli occhi ogni giorno nelle aule d’udienza: aperto favoreggiamento dei più forti, nepotismo, corporativismo, prepotenza e arroganza mischiate spesso ad aperta ignoranza ed assenza di rispetto nei confronti di avvocati e soggetti più deboli. (C’è persino chi scrive durante la prova riscuotere con la “q”, chi confonde la Corte dell’Aja con la «Corte dell’Aiax», o un maturo Presidente di sezione di Corte d’Appello civile a Milano che alle soglie della pensione non conosceva neppure la differenza tra un reclamo in corso di causa ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c. proposto al collegio da uno ex art. 669 septies c.p.c. proposto allo stesso giudice di merito).

La casta corrotta al pari della classe politica si protegge per autoriprodursi. Ma la cosa che più fa scalpore nel caso del concorso di Rho è il fatto che, messi a parte i dissidi tra il Guardasigilli Alfano e il C.S.M., è lo stesso organo di autogoverno della magistratura a richiedere con voto a maggioranza la frettolosa archiviazione del caso. Tutto normale anche per il Ministero di Giustizia, nonostante le molteplici denunce inquietanti di tanti candidati che segnalavano con dovizia di particolari come durante la prova milanese fossero saltate tutte le regole del gioco e che rampolli figli di noti magistrati avessero potuto fruire del tutto indisturbati di materiale vietato. Circostanza veramente anomala tenuto conto che il concorso per magistrati è ritenuto l’esame più controllato nel nostro Paese. I testi a disposizione dei candidati prima di venire ammessi e introdotti in aula vengono preventivamente verificati e timbrati da un’apposita commissione esaminatrice. Un cancelliere di Tribunale controlla siano realmente dei codici, che non vi siano nascosti appunti o fogli volanti e che siano conformi al bando. I nuovi brogli di Milano-Rho non potevano quindi venire liquidati, ancora una volta, laconicamente e senza alcuna indagine, per coprire le solite spinte corporative e gli oscuri interessi di chi controlla e manipola nell’ombra l’accesso in magistratura, prediligendo le logore logiche di nepotismo e di clientelismo, da cui si alimentano solo le massomafie, il malaffare e non di certo la legalità. Le molteplici proteste dei candidati della prova svoltasi alla Fiera di Milano-Rho per cui dovette persino intervenire la Polizia Penitenziaria per proteggere la commissione esaminatrice cieca, sorda e complice, non sono quindi ancora una volta servite a nulla.

La complicità della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano. Una cinquantina di candidati si recò in Procura a Milano per denunciare la gravità dei fatti di cui erano stati diretti testimoni, percependo che la Commissione intendesse mettere tutto a tacere per favorire i soliti raccomandati. Ma il procedimento, come di rito, viene frettolosamente archiviato, nonostante la quantità delle denunzie e la convergenza delle testimonianze, tutte acclaranti gravi irregolarità. Ciò, peraltro, senza disporre alcuna accurata necessaria indagine, seppure l’indignazione avesse inondato i siti web, estendendosi agli stessi consiglieri togati del Movimento per la giustizia e Magistratura Democratica che chiedevano un’inchiesta del Csm sulle innumerevoli irregolarità denunciate dai candidati.

Dai media si apprende della richiesta di apertura di un fascicolo da parte della 9° Commissione di Palazzo dei Marescialli con l’obiettivo di “avere cognizione oggettiva dello svolgimento delle prove concorsuali e assumere le opportune iniziative in difesa del prestigio e credibilità della magistratura la cui prima garanzia è riposta nell’assoluta affidabilità della procedura di selezione“. Ma, come denunciato, il 19 dicembre il C.S.M. definiva con una frettolosa archiviazione, eludendo ogni accertamento sullo svolgimento delle prove scritte del concorso indetto con D.M. 27/2/2008, svoltesi a Milano nei giorni 19/21 novembre 2008. La pratica era stata aperta da “I Giovani Magistrati”, all’indomani delle inquietanti notizie fornite da stampa e televisione, in ordine alle modalità di espletamento del concorso. Dal sito movimentoperlagiustizia.it si apprende che nel corso della discussione plenaria, i consiglieri del Movimento per la giustizia chiesero invano il ritorno della pratica in Commissione per l’espletamento di ulteriore attività istruttoria, già inutilmente da loro richiesta anche in sede di Commissione, non condividendo la circostanza che la Commissione avesse voluto frettolosamente portare all’attenzione del plenum del C.S.M. una delibera monca, articolata sulla base di un’attività istruttoria carente, costituita essenzialmente dall’acquisizione delle sole relazioni del presidente della commissione di concorso (17, 20, 22 nov. e 1.12.08) e del direttore generale direzione magistrati del Ministero (25.11 e 9.12), nonché dalle audizioni dei commissari di concorso e di altri funzionari del Ministero di giustizia e della Procura Generale di Milano. “Nessun cenno nella delibera in esame del contenuto delle 19 missive, pervenute alla 9° Commissione anche via e-mail, delle quali più della metà regolarmente sottoscritte da candidati che segnalavano disfunzioni gravi o meno gravi riguardanti soprattutto il ritardo verificatosi il 19 novembre nella dettatura della traccia di diritto amministrativo e la presenza in loco di testi non consentiti”. Per saperne di più, in relazione alla dinamica degli eventi, i tre consiglieri dissidenti aggiungono di avere inutilmente richiesto l’audizione di alcuni dei candidati firmatari degli esposti. Nessun cenno nella delibera del C.S.M. del contenuto della risposta del Ministro della Giustizia all’interrogazione parlamentare che, peraltro, si era sviluppata nel senso di una presa di distanza dall’operato della commissione di concorso. Il sito dei giovani magistrati del Movimento per la giustizia denuncia poi di avere sostenuto con forza che non vi fosse alcuna urgenza di definire, in tempi così brevi, una pratica dai risvolti talmente delicati, con una delibera che, agli occhi dell’opinione pubblica, avrebbe corso il rischio di essere additata (come in effetti, poi, accaduto) “come una risposta corporativa e sostanzialmente “a tutela” dell’operato della commissione di concorso“. Per di più, in una situazione in cui era in corso di indagini preliminari il procedimento aperto presso la Procura di Milano (iscritto a mod. 45), a seguito delle citate denunce pervenute dai candidati. Del resto, diversi sono gli aspetti inquietanti mai chiariti dal C.S.M. e dalla Procura di Milano, le cui archiviazioni hanno proceduto di pari passo per mettere tutto a tacere. Secondo quanto affermato nella relazione del Presidente Fumo sarebbero stati “schermati” i settori riservati ai candidati onde evitare comunicazioni telefoniche. Questo assunto, come si legge nel sito dei giovani magistrati, è stato smentito dal Direttore generale del Ministero, dott. Di Amato, che ha ammesso la mancanza di schermatura elettronica nei padiglioni ove si svolgeva il concorso, riscontrata peraltro dal sequestro di apparecchi telefonici che risultavano funzionanti all’interno dei locali. È appena il caso di rilevare che, come si legge nella relazione ministeriale, la “possibilità di una schermatura elettronica non ipotizzabile per la sede di Roma” era stata una delle ragioni che avevano condotto l’autorità competente alla scelta di Milano quale sede esclusiva di concorso. Quanto all’identificazione di circa 5.600 candidati con tesserini privi di fotografia e alla carenza di controlli anche dei testi e dei codici all’ingresso delle sale di esame (almeno 28.000 volumi), inutilmente proseguono i giovani magistrati di avere fatto richiesta di acquisizione di notizie più in dettaglio sui controllori (250 persone per ogni turno dislocate su 26 postazioni). Del pari, inutilmente hanno fatto richiesta di notizie sui 23 funzionari di segreteria e sui 750 addetti alla vigilanza durante le prove, che avrebbero potuto portare ad accertare le ragioni della discrasia tra l’enorme numero di addetti al controllo e gli insufficienti effetti del controllo medesimo. Accertamenti che avrebbero dovuto quindi trovare ingresso quantomeno in sede penale, onde poter escludere che l’indifferenza della commissione alle clamorose proteste dei candidati abbia inteso favorire i soliti raccomandati e che la prova invero “non fosse solo la solita farsa“.

Quanto allo svolgimento delle prove non ha poi convinto la scelta di non sorteggiare le materie nei diversi giorni di esame. “È vero che non vi era obbligo di legge in tal senso, ma è pur vero che ragioni di opportunità e trasparenza avrebbero dovuto indurre la commissione di concorso a procedere al sorteggio, così come le stesse ragioni inducono da anni il CSM a sorteggiare l’individuazione dei commissari di concorso”. Ma soprattutto, ciò che non ha convinto i giovani magistrati è stato l’indisturbato allontanamento del commissario, prof. Fabio Santangeli (poi dimessosi il 25.11), il giorno 19, che è stato la principale causa dell’abnorme ritardo nella dettatura della traccia di “diritto amministrativo”, avvenuta alle h.14. Parimenti, non hanno per niente convinto in particolare le giustificazioni fornite sul punto dal Presidente della Commissione, secondo il quale non sarebbe stato in alcun modo possibile trattenere nella sala il professore, senza chiarire la ragione perché non fosse stata approfondita sin dal primo momento la disponibilità di tempo del professore, evitando che partecipasse all’elaborazione dei testi. Cosa che poi provocava la ripetizione dell’operazione di individuazione /elaborazione delle tre tracce da sorteggiare, con l’ulteriore conseguenza della dettatura di una traccia ambigua, che ha causato ulteriori problemi di ordine pubblico, a causa delle diverse letture possibili. L’esistenza di queste accertate disfunzioni ed il mancato chiarimento di aspetti essenziali ai fini di un regolare e sereno svolgimento delle prove di esame avrebbero consigliato, secondo gli esponenti del Movimento per la giustizia, maggiore cautela nell’adozione di una delibera di archiviazione da parte del CSM. In definitiva, non si è compreso che solo una adeguata istruttoria avrebbe dissipato tutti i dubbi e reso trasparente l’operato della Commissione. Il nostro voto contrario, conclude il sito dei magistrati dissidenti, è determinato esclusivamente dall’esigenza di accertamento della verità. Esso non significa e non può significare “condanna”, ma rappresenta una decisa presa di distanza da una logica di “tutela” preventiva ed incondizionata in favore di tutti i protagonisti istituzionali della vicenda, troppo frettolosamente ritenuti attendibili, pur in difetto di quel “contraddittorio” con le voci dissonanti dei candidati, come da noi richiesto e ribadito. “Il voto contrario non significa quindi che si ritiene sussistere i presupposti per l’annullamento del concorso in via di autotutela, ma testimonia il nostro disaccordo su una risposta istituzionale del tipo “tout va très bien madame la marquise!“. Ne deriva che ”Madama la Marchesa” dovrebbe trovare del tutto preoccupante e scandaloso che anche l’ennesima indagine sui concorsi truccati in magistratura condotta dalla Procura di Milano sia stata frettolosamente archiviata in breve tempo, trascurando i molteplici riscontri probatori, che avrebbero dovuto indurre il P.M. a svolgere più accurate indagini, il quale senza neppure ascoltare le persone informate sui fatti e i candidati parti lese, prendeva invece per “oro colato” la relazione presidenziale e le sole fonti istituzionali. E’ quindi lecito dubitare che gli inquirenti al pari dei politici e dei membri del C.S.M. abbiano agito seguendo quel profondo senso di giustizia che dovrebbe animare coloro a cui è affidata la sorte della legalità.

E comunque, nella puntata di Report del 15 maggio 2011 sono stati svelati tutti i segreti che ci sono dietro ai concorsi per diventare notai, primari di ospedale o professori universitari. Forse abbiamo scoperto le modalità con cui vengono truccati alcuni concorsi ma che in Italia funzionasse così lo sapevano già tutti, non era certo un segreto che il figlio di un operaio potesse diventare notaio..neanche se molto meritevole. Interessantissima comunque l’indagine presentata da Milena Gabanelli, forse non abbiamo scoperto l’acqua calda ma il fatto che quello che succede venga raccontato apertamente in televisione è come una piccola ricompensa per chi queste cose le ha subite. L’argomento “raccomandati” è di moda nel nostro paese e lo dimostra anche il successo del film al cinema: C’è chi dice no.. Purtroppo la “raccomandazione” non serve solo per posti di lavoro molto ambiti come quelli trattati da Report, anche per lavori molto più umili occorre bussare la porta giusta o essere parenti di qualche personaggio di rilievo..  E’ inutile girarci molto intorno, l’Italia è proprio questa, programmi come Report possono però dare un piccolo aiuto a sensibilizzare la nostra mentalità sbagliata.

In questa curiosa Italia dove la legge è uguale per tutti ma per qualcuno è più uguale, dove le norme devono essere «interpretate» prima di venire «applicate, e dove la lotteria del ricorso al Tar è sinonimo di certezza del diritto, si riesce regolarmente ad aggirare perfino uno dei pilastri fondamentali del vivere civile sancito dalla Costituzione, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Più chiaro di così, l'articolo 97 della Carta non potrebbe essere: «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge». Negli anni, però, la nostra creatività ha scovato mille modi per far prevalere su questo sacrosanto principio parentele, amicizie e legami d'altro genere. Il caso classico è quello delle assunzioni per chiamata diretta nelle società controllate dallo Stato, dalle Regioni e dagli enti locali. Ricordate lo scandalo delle municipalizzate romane, rimpinzate di raccomandati da politici e sindacalisti? Qualche anno fa si è poi scoperto che il Consiglio regionale della Campania aveva centinaia di dipendenti in pianta stabile senza avere mai indetto un concorso pubblico dal 1971, quando la Regione era nata. Assunti da società pubbliche, erano stati distaccati presso gli uffici consiliari e poi «stabilizzati» con qualche leggina regionale. Ma non stupitevi: la pratica della «stabilizzazione» per legge, spesso votata di notte pochi giorni prima delle elezioni, è diventata ormai una regola comune in quasi tutte le Regioni.  Ma c'è un mezzo ancora più odioso per evitare l'obbligo del concorso. È il concorso stesso. Non passa giorno senza che arrivi la segnalazione di qualche presunto abuso nelle valutazioni, di regole studiate ad hoc per favorire questo o quel candidato, di esclusioni paradossali dalle selezioni pubbliche, di commissioni d'esame costruite in modo sospetto. Addirittura di ricorsi al Tar che inspiegabilmente si bloccano, mentre ricorsi gemelli procedono speditamente fino a spalancare a chi li ha presentati, di solito giovanotti dal nome eccellente, la strada di una prova d'appello spesso risolutiva. Certi concorsi pubblici assomigliano moltissimo a certi appalti pubblici nei quali si sa già in partenza chi sarà il vincitore. Le cronache sono sempre più piene di casi sconcertanti. Come quello del famoso chirurgo Mario Lanzetta, un luminare della ricostruzione della mano, al quale per nove anni è stata negata la cattedra di ortopedia, nonostante cinque sentenze a lui favorevoli. Oppure quello del cardiochirurgo diventato professore dopo aver superato l'esame davanti a una commissione composta da due igienisti e tre dentisti: ma era figlio del rettore di una grande università nella quale già insegnavano moglie e figlia. O ancora quello di un certo ateneo meridionale dove l'autorità Anticorruzione allora guidata dall'ex prefetto Achille Serra aveva scoperto che «frequenti rapporti di parentela, affinità o coniugio legano nel 50 per cento dei casi il corpo docente con personalità del mondo politico, forense o accademico». E non succede soltanto nelle università. Giuseppe Oddo ha raccontato martedì sul Sole 24 ore di un concorso per dirigenti della Regione Lombardia «mai apparso in Gazzetta ufficiale», vinto da 31 persone: molte delle quali, guarda caso, appartenenti al movimento di Comunione e liberazione «il cui esponente più noto», ha sottolineato il giornalista, «è il presidente della Regione Roberto Formigoni»: fra di loro anche il nipote di un vescovo e il biografo del fondatore di Cl don Alberto Giussani. Un concorso poi dichiarato illegittimo tanto dal Tar quanto dal Consiglio di Stato, ma grazie a un cavillo quei 31 restano al loro posto. Per non parlare delle autorità indipendenti, oggi una delle poche occasioni che si offrono ai nostri giovani di entrare a far parte di una classe dirigente «tecnica» di livello europeo. Basta dare uno sguardo agli elenchi di chi ci lavora. Si scopriranno innumerevoli coincidenze con illustri cognomi. Naturalmente hanno tutti superato un concorso. Magari anche molto selettivo, ne siamo assolutamente convinti. Peccato che talvolta ci sia una discrezionalità forse eccessiva (e difficilmente controllabile) nel giudizio di certi requisiti. Facciamo un esempio? Per essere ammessi a un recente concorso bandito da un'authority si assegnavano fino a 14 punti su un massimo di 50 per le esperienze post laurea. In che modo? Quattro punti per le esperienze ritenute «sufficienti», otto per quelle «buone», dodici per le «ottime» e quattordici per le «eccellenti». Ma perché un'esperienza dovesse essere considerata soltanto «sufficiente», piuttosto che «eccellente», non era specificato. Nello stesso concorso venivano attribuiti al massimo quattro punti su 50 per la conoscenza delle lingue. Così da non penalizzare chi non sapeva una parola d'inglese o spagnolo? Boh...C'è un posto di lavoro, ma che tu non potrai mai avere anche se studi e fai sacrifici per migliorare la tua preparazione perché è già prenotato da chi ha qualche santo in paradiso: è il messaggio più odioso che si possa mandare ai giovani. Toglie loro anche le residue possibilità di sperare, oggi che la speranza è così poca. È ora di dire basta ai concorsi truccati, falsati, pilotati. Un Paese che ha la meritocrazia nella Costituzione, ma poi non assicura ai suoi figli parità di condizioni, che Paese è?

Magistratura, avvocatura, notariato. La truffa dei concorsi. Considerazioni di Paolo Franceschetti a margine dell’esame da avvocato.

1. Il problema dei concorsi nel mondo del diritto. 2. Considerazioni. 3. Le ragioni dell’attuale sistema di illegalità.

1. Il problema dei concorsi nel mondo del diritto. Esce oggi il risultato della Corte di appello di Roma relativo all’esame da avvocato. I risultati sono sempre i soliti: meno del 20 per cento di promossi. Normalmente, tra le persone, sono passati i più mediocri, mentre i migliori non riescono a passare (questo osservando il risultato tra circa una settantina di miei allievi, ove riscontro questo curioso trend nel rapporto preparazione/superamento esame). Qualche tempo fa l’ineffabile Fatto Quotidiano (il giornale che non perde occasione per incensare il peggio del peggio del sistema che abbiamo – lodi all’Unione Europea, lodi ai magistrati più delinquenti, e ultimamente anche lodi alla massoneria con inviti ad iscriversi rivolti alla magistratura nel suo complesso – ; il giornale che riduce tutti i problemi italiani a due soli: la mafia e Berlusconi) ha pubblicato un articolo lodando la politica del Ministero della Giustizia in fatto di concorsi. Infatti di recente sono stati annullati due concorsi per l’accesso alla magistratura del Consiglio di Stato e del Tribunale amministrativo regionale (cosiddetto TAR) per irregolarità; è stato annullato un concorso notarile per palesi irregolarità. E’ il segno, secondo il quotidiano, che si tenta di fare pulizia in questo campo. In realtà è il segno che si sta facendo pulizia, sì, ma in senso completamente diverso. Spieghiamoci meglio. Fino a qualche tempo fa il concorso in magistratura e quello notarile erano considerati “puliti”. Circolava voce tra i candidati che queste prove fossero infatti tra le più pulite nel mondo dell’amministrazione pubblica. All’esame da avvocato, al contrario, le porcherie dell’amministrazione sono state effettuate sempre a cielo aperto. Il famoso caso di Catanzaro del 2001 fu la prova provata, lampante, eclatante, delle irregolarità di massa effettuate all’esame: la magistratura infatti – a seguito di una denuncia di tre candidati, che segnalarono il fatto che la commissione aveva dettato le soluzioni delle tre prove a tutti – aprì un’inchiesta che coinvolse tutte le migliaia di candidati presenti all’esame, oltre ai membri della commissione, ma il risultato fu che venne tutto messo nel dimenticatoio e archiviato. Le irregolarità sono continuate; e il sud continua a sfornare percentuali altissime di vincitori, a fronte della bassa percentuale dei candidati del nord, ove regolarmente vengono trombati i migliori e fatti passare i peggiori. Al concorso in magistratura, invece, le cose erano sempre andate diversamente. In realtà in questi anni anche il mito della pulizia di questo concorso è stato sfatato in modo palese. E’ dal 2003 infatti che le irregolarità al concorso in magistratura sono sempre più eclatanti. In quell’anno scoppiò il famoso caso Clotilde Renna, ovverosia il caso di un magistrato di Cassazione sorpreso a truccare un elaborato; successivamente la commissione avallò il comportamento del magistrato sostanzialmente ammettendo le irregolarità, ma non venne preso alcun provvedimento. Negli anni successivi c’è stato poi lo sfascio totale del concorso, con i candidati che portavano in aula testi non ammessi, le persone sorprese a copiare che non venivano espulse, ecc... Anche il concorso notarile sta seguendo, a quanto pare, il trend degli altri concorsi, mostrando apertamente le irregolarità commesse. Il motivo per cui è stato sospeso il concorso di recente, infatti, non è un motivo banale e secondario, ma un motivo gravissimo, che dimostra platealmente una precisa volontà di non seguire le procedure da parte della maggioranza dei commissari (precisamente furono assegnate – contrariamente a quanto dice la legge – delle tracce che erano già state assegnate pubblicamente in una scuola notarile romana).

2. Considerazioni. Che anche i concorsi per magistratura e notariato fossero truccati, in realtà, è sempre stato noto a chi lavora nell’ambiente. Ricordo perfettamente, ad esempio, che anni fa un magistrato della Corte Costituzionale, scambiandomi per un massone a causa dell’incarico importante che rivestivo (incarico da cui mi buttarono fuori dopo pochi giorni), mi propose di fare il concorso al TAR anche se non ne avevo i titoli, che tanto “ci avrebbero pensato loro”. Così come ricordo che un mio conoscente con cui facevo ogni settimana il viaggio Napoli-Roma, figlio di una importantissima famiglia romana, vinse il concorso notarile pur avendo sbagliato la soluzione e pur non riuscendo a cogliere la differenza tra usufruttuario di un bene e amministratore di un bene (secondo lui erano la stessa cosa perché l’usufruttuario ha anche l’amministrazione del bene), e superò anche l’esame da avvocato pur non avendo con sé i codici durante le tre prove, tranne quello di procedura penale (perché secondo lui il diritto civile e penale li conosceva, quindi il codice non gli serviva, e il codice di procedura penale invece lo aveva portato a tutte e tre le prove perché – cito testualmente – “può sempre servire”). La differenza dei concorsi in magistratura e notarile rispetto all’esame da avvocato era che le irregolarità erano molto più raffinate e nascoste rispetto a quelle dell’esame da avvocato (che sono sempre state commesse a cielo aperto) ed erano evincibili dai dati e si riusciva a captarle solo se si aveva una conoscenza approfondita del sistema. La gran differenza rispetto agli anni scorsi è unicamente che, da dieci anni a questa parte, il sistema ha deciso di rendere note a tutti le irregolarità. Oggi tutti le hanno potute constatare e raccontare. Resta da chiedersi il perché. Il sistema ha sempre nascosto le notizie che non voleva fossero conosciute, dando all’esterno l’immagine che sceglieva di avere. E’ ovvio allora che le irregolarità di questi ultimi concorsi, e l’accentuazione di quelle effettuate all’esame da avvocato, sono volute. Sono infatti troppo evidenti, e troppo stupide, per poter essere casuali. Far entrare dei candidati che portavano con sé testi non ammessi, sì che tutti attorno potessero constatare il fatto, e per giunta espellere in alcuni casi le persone che protestavano proteggendo colui che stava commettendo il reato, nonché ammettere pubblicamente le irregolarità, come fece in TV la commissione del concorso in magistratura nel 2003, assegnare a 5000 candidati delle tracce palesemente illegittime, significa perseguire una precisa volontà di esternare a tutti i candidati la situazione. Significa dire a tutte le migliaia di candidati: vedete? Noi commettiamo irregolarità! Questi concorsi sono truccati. Sappiatelo. E significa esternare tutto ciò in modo sfacciato, sicuri dell’impunità. Allora, lungi dal vedere in ciò un segno positivo del sistema, occorre vedere un segno di altro tipo. Occorre cioè domandarsi: perché il sistema ha deciso di uscire allo scoperto, rendendo palesi certe irregolarità? Il motivo a mio parere è sociale e psicologico.

3. Le ragioni dell’attuale sistema di illegalità. Il motivo è da ricercare nel trend dell’attuale situazione politica. Tutti abbiamo notato che in questi anni c’è un decadimento della politica. Si sono abbassati i contenuti della lotta, e i personaggi che dominano la scena sono privi di spessore e cultura. La politica insomma è diventata un caos. L’istruzione, dalle scuole elementari all’università, peggiora la qualità dei servizi sfornando gente sempre più ignorante. Nell’ambito della giustizia si è fatta la stessa cosa. Perché il sistema attuale possa funzionare, dobbiamo avere leggi pessime e farraginose, magistrati ignoranti e demotivati, e avvocati dello stesso livello. Non a caso lo sfascio a cielo aperto del sistema giustizia comincia dal 2001, anno in cui viene nominato come Ministro della Giustizia un ingegnere. La nomina di un ingegnere come Ministro della Giustizia non è casuale. Apparentemente può sembrare un’anomalia come tante nel nostro panorama politico. Un’anomalia grave, ma in fondo simile a quella di tanti altri ministeri, ove si avvicendano alla sanità persone che di medicina non capiscono nulla, all’istruzione persone incolte, ecc. Ma in realtà la scelta non è affatto casuale. Ogni ministro, e ogni ruolo che ricopre, infatti, serve anche a dare un segnale politico e a trasmettere messaggi simbolici che possono essere colti solo da chi è “iniziato” a tale linguaggio. Era quello il segnale politico che doveva essere distrutto il sistema in modo sistematico. Nel 2001 abbiamo lo scandalo di Catanzaro. Nel 2003 lo scandalo Renna. In una discesa allo sfascio che ormai non conosce più ostacoli. Le ragioni? Demotivare i migliori. Far andare avanti prevalentemente i raccomandati, gli stupidi, quelli che il sistema non lo capiscono veramente. Gli altri, quelli che capiscono, scelgono di lavorare altrove. Abbandonano. Si demotivano. Perché non possono continuare a lavorare in un sistema dove vengono premiati i peggiori e in cui le irregolarità sono all’ordine del giorno, sotto gli occhi di tutti, e vengono commesse sia nelle piccole cose che nelle grandi. Il 2001, insomma, è l’anno cruciale per il sistema giudiziario. La nomina di Castelli all’esecutivo è l’ordine – dato in termini simbolici – di dare il via alla danza dell’irregolarità conclamata. Le ragioni delle scelte ministeriali in tema di esame da avvocato e concorsi, insomma, è la stessa che sta alla base di tutte le altre scelte politiche. Sfasciare. Demotivare. Ordo ab chao, il motto massonico.

La vicenda dei compiti non corretti nel concorso del 1992. «NON INSABBIATE LO SCANDALO DEL CONCORSO». L'ex pg del Piemonte: colpiti anche i magistrati onesti. TORINO. Così, il giorno dopo le rivelazioni de «La Stampa» sul concorso per uditori giudiziari, parla l'ex procuratore generale del Piemonte, Silvio Pieri. L'alto magistrato non usa mezzi termini: «Quanto è accaduto è gravissimo. Ho avuto modo di verificare l'intera documentazione raccolta dall'avvocato Berardi. Ho fotocopiato tutti gli atti, uno per uno. Credo che, a un certo punto, questa situazione si potesse risolvere subito, con decisione, con la necessaria trasparenza. Ma il ministero ha pervicacemente rifiutato, sino all'ultimo istante, di affrontare in modo  diretto quanto era accaduto, quanto era sotto gli occhi di tutti. Con il risultato di mettere a pregiudizio le posizioni anche di quei magistrati che svolsero, in allora, i temi in modo corretto. Ma non credo assolutamente che si possano ulteriormente ignorare i verbali sottoscritti da gente che non c'era, la storia dei fascicoli spariti, degli elaborati giudicati "idonei" quando non lo erano affatto». Non solo. Contro il muro di gomma opposto dal ministero di Grazia e Giustizia (a proposito del concorso per uditori giudiziari del 20, 21, 22 maggio 1992, ora sotto accusa per aver trasformato in «idonei» decine di candidati autori di prove molto discutibili) erano già rimbalzate, nel corso degli anni, ben 13 interpellanze parlamentari, firmate quasi tutte da Nicky Vendola di Rifondazione Comunista, ma anche da esponenti di An e di altri partiti. Morale: nessun risultato. Acqua fresca. I vari governi «prendevano atto», e tutto ricadeva nel silenzio. Adesso, in attesa dei risultato del ricorso presto in discussione al Consiglio di Stato per ottenerne l'annullamento, emergono nuovi e sconcertanti aspetti di quelle prove d'esame, che hanno poi regolarmente trasformato in magistrati 275 candidati su 2244. I «promossi» di allora rischiano il posto, anche se le sentenze e le decisioni emesse in questi anni non perderanno la loro validità. L'avvocato penalista Pierpaolo Berardi è riuscito - dopo un'estenuante ed epica battaglia con il ministero - ad avere visione dei temi giudicati «idonei». «Uno choc -racconta ora, nel suo studio, nel centro di Asti - perchè le irregolarità erano così palesi da rasentare il ridicolo». I temi sono contrassegnati da numeri, in modo da non rivelare l'identità del candidato alla commissione. Dunque, tra i promossi, il 624 non conclude il tema; il 1050 utilizza solo settori del protocollo, lasciandone una parte in bianco, così come il 525 e l'848, che usa una facciata sì e una no; il 1053 fa di più: cambia più volte la calligrafia; il 791 è un tipo strano. Un tema lo scrive tutto in stampatello, il secondo e il terzo in corsivo; il 210 ha un singolare rapporto con le C. In alcune compare un vezzoso, insistito, ben sottolineato, «ricciolino». In molte altre C, però, niente. Ancora: il 1440 «copia interi brani, e i temi sembrano, anzi sono, l'esatta fotocopia di testi giuridici»; il 2006 cambia la grafia, come se un vento tempestoso soffiasse sulle linee verticali delle T, delle P, delle Q. Ogni tanto piegano a destra, ogni tanto a sinistra, ogni tanto ritornano al centro. Abbastanza da far impazzire un grafologo. «...Sistemi, anche rozzi, solo per farsi "riconoscere". Ma sono solo un esempio. C'è anche il 1457, che scrive in un modo assolutamente illeggibile. Come hanno fatto altri», spiega l'avvocato, che spera «di avere, prima o poi, giustizia», non solo dal Consiglio di Stato, ma anche dal gip di Perugia, che dovrà decidere proprio in questi giorni sulla sparizione dall'archivio del ministero dei tre temi del candidato, attuale magistrato, Francesco Filocamo, e sui misteriosi verbali di quella commissione, le cui firme conclusive, all'altezza dello spazio riservato al segretario, portano talvolta questa curiosa dizione: «Apposta per errore». Appunto, errori su errori. «Ho avuto molte prove di solidarietà, in queste ore. Decine di telefonate. Professori universitari, avvocati da tutta Italia. E soprattutto numerosi magistrati. Mi hanno detto di continuare questa battaglia, di non farmi intimidire da nessuno, che è giusta, che difende la professionalità e l'integrità morale dei magistrati, la maggioranza, che il concorso lo hanno vinto con onestà, dopo anni di studi e sacrifici. No, non me lo aspettavo», dice l'avvocato. Nel corso dell'interminabile iter, il Tar impose tra l'altro che le prove di Berardi fossero riesaminate. «Ma i miei temi finirono sotto gli occhi della stessa commissione che mi aveva già dichiarato inidoneo. Il buon senso avrebbe voluto che fossero nominati altri, nuovi, esaminatori. Come avrebbero potuto, i primi, sconfessare il loro primo giudizio? Lo confermarono. E stop. Solo un magistrato, Giovanni Bellagamba, si dimise con una lettera. Spiegando che quella procedura non era corretta nei miei confronti». Il dossier raccolto dall'avvocato di Asti sarà oggetto di nuove interpellanze parlamentari. Con la speranza che non vadano a morire, come le altre, perdute nel porto delle nebbie. Tratto da "La Stampa", 10 settembre 2004.

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali, che cominceranno fra un mese, vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Il che sta scatenando una serie di ricorsi che, insieme con l'inchiesta penale aperta dopo la scoperta dello scandalo della fotocopiatrice di cui il Corriere ha già scritto e con la denuncia di un giudice indignato che ha chiesto a Ciampi l'annullamento della prova, rischiano di far saltare tutto. Sia chiaro: alla larga da ogni tentazione anti-meridionalista. Moltissime delle vittime di questa «anomalia», come provano le email furibonde inviate ai siti Internet specializzati quali www.sarannomagistrati.it, sono giovani laureati meridionali certi d'avere subito un sopruso. Meridionali (e napoletani «sfortunati») sono molti dei firmatari degli esposti al Tar. E ancora meridionale è l'avvocato Giovanni Pellegrino, già senatore della sinistra, al quale sono state affidate una cinquantina di denunce. Un esempio solo: in tutta la Sardegna coloro che hanno superato sia la «preselezione informatica» sia gli scritti, sono stati 6. Uno ogni 266 mila abitanti dell'isola. Contro una media nazionale (alzata dall'impennata partenopea: uno ogni 43 mila) di un promosso ogni 137 mila che senza la Campania sale a uno ogni 187 mila. Tutti tonti, i bocciati? Mah... Forse vale la pena di ripartire dall'inizio. E cioè dalla mattina del 24 settembre 2002 in cui i laureati in giurisprudenza che sognano di entrare in magistratura partendo dal ruolo di uditore giudiziario vengono convocati alla selezione preliminare, un test su una scelta di alcune decine di quiz presi dai 15.743 pubblicati dalla Gazzetta Ufficiale. Le sedi d'esame sono quattro: Torino (tutti i candidati del Nord, tranne l'Emilia), Roma (tutti quelli del Centro, più l'Emilia-Romagna, la Campania e Reggio Calabria), Bari (tutti quelli della Puglia, della Basilicata e di Catanzaro) e Palermo (tutti i siciliani). I convocati sono 25.204, dei quali 1.236 di Roma e del Lazio, 1.008 del  distretto di Corte d'Appello di Napoli (tutta la Campania, meno Salerno), 414 di quello di Milano e della Lombardia occidentale (Bergamo, Mantova e Cremona stanno con Brescia). Alla preselezione, in realtà, si presentano in 10.153. Dei quali circa un quinto (1.952, più gli emiliani dirottati alla sede d'esame di Roma) delle regioni settentrionali. Una quota molto bassa, rispetto alla popolazione che, Emilia-Romagna compresa, rappresenta il 44% della popolazione italiana. Prova provata che la toga non gode, al Nord, del fascino che esercita sui giovani del centro ma soprattutto del Sud della penisola. Una disaffezione grave. Accentuata, diciamo così, tra i membri della commissione esaminatrice, presieduta da Michele Cantillo, a lungo presidente della commissione tributaria di Salerno e poi di una sezione della Cassazione. Commissione che vedeva la presenza di 11 giudici (6 delle regioni settentrionali tra i quali Francesco Saverio Borrelli) del Centro-Nord, in rappresentanza del 66% per cento della popolazione italiana, e 13 del Sud, dei quali 7 di Napoli o Salerno, in rappresentanza del restante 34%. Ma ancora più anomala era la composizione della fetta accademica della commissione: su 8 professori, infatti, uno veniva da Teramo e tutti gli altri dagli atenei del defunto Regno delle Due Sicilie, con una preponderanza straripante di docenti napoletani: cinque su otto. Tutto regolare, per carità. Tutto regolare. Ma non è questo un metodo geniale per portar acqua al mulino di quei razzisti nostrani che ragliano di una «giustizia terrona»? Non sarebbe stata più saggia, moralmente e politicamente, una scelta meno squilibrata? Certo è che il cammino del concorso è stato fin dall'inizio accidentato. In plateale contrasto con le regole più ovvie previste per un concorso che doveva assumere 350 persone nel ruolo e nel settore più delicati della pubblica amministrazione, per esempio, i fogli consegnati per la prova scritta agli esaminandi non erano firmati dal presidente o da un suo incaricato ma solo timbrati. E furono distribuiti così disordinatamente che moltissimi sono stati portati a casa dai candidati (e se fu possibile portarli fuori è ipotizzabile che qualcuno avesse potuto anche portarli dentro, magari già compilati) per finire come prova delle irregolarità nei fascicoli delle denunce alla magistratura. Alla diffidenza seminata tra i giovani con questo andazzo un po' arruffone per una prova così delicata, fu aggiunta una scheda elettronica con i quiz, tipo la nuova patente di guida, non sorteggiata ma nominale: a Mario Rossi i quiz destinati a Mario Rossi, a Luigi Bianchi i quiz destinati a Luigi Bianchi, con tanto di fototessera dell'aspirante uditore. Viva la fiducia, ma non sarebbe stato meglio evitare anche il sospetto che il raccomandato Tizio Caio avesse avuto i suoi 90 quiz accuratamente scelti tra i più facili? Non bastassero le polemiche, ecco arrivare infine lo scandalo fatto esplodere dalla «fotocopiatrice legalitaria e giustizialista». Ricordate? Una delle toghe della commissione, la napoletana Clotilde Renna, chiese ai colleghi come fosse andata una sua protetta. Ricostruzione del giornale online Diritto e giustizia edito dalla Giuffrè: «I colleghi mostrano il risultato: respinta, c'erano alcune lacune che non consentivano un giudizio favorevole. "Ma come - chiede il magistrato-commissario - è una ragazza molto brava". "Sarà - rispondono - ma la prova non va bene". Il giudizio era già stato verbalizzato, non c'era più niente da fare». A quel punto la donna, decisa comunque ad averla vinta, si introdusse di notte nella sala dov'erano custoditi i compiti, aprì la busta con l'esercizio della raccomandata, infilò un nuovo foglio con alcune correzioni che avrebbero permesso alla sua coccola di fare ricorso al Tar contro la bocciatura. Non contenta, per dimostrare quanto aveva fatto a chi le aveva chiesto un occhio di riguardo per la pulzella, tentò di fare una copia del falso. Al che la fotocopiatrice si ribellò e, grazie all'errore d'impostazione nella programmazione delle copie, cominciò a sfornarne per ore e ore, a centinaia e centinaia. Col risultato di smascherare l'imbroglio e di far scattare la denuncia, l'inchiesta, la rimozione di Clotilde Renna dalla commissione. «Se irregolarità vi è stata, e questo sarà oggetto di accertamento», avrebbe dichiarato la donna poco prima di essere sospesa, «tengo a precisare che la serenità della commissione non può essere in alcun modo messa in discussione e così i lavori da essa compiuti». Grazie, ex-giudicessa: se ce lo garantisce lei! Macché: per niente rassicurati dalla serenità della visitatrice notturna, i giovani laureati non ammessi agli orali hanno preso a tempestare Internet di domande. Come faceva la Renna a chiedere notizie di un nome, qualunque fosse, se i temi devono per legge restare anonimi fino al momento in cui tutti (tutti) sono già stati corretti? E come potevano i colleghi della commissione risponderle che la sua protetta era stata trombata se anche per loro ogni compito doveva essere anonimo? E chi diede alla magistrata nottambula le chiavi della stanza dove stavano gli scritti? E come fece la falsaria a individuare la busta giusta se questa doveva essere priva di segni di identificazione? Insomma: siamo sicuri che noi cittadini stiamo assumendo come magistrati tutte persone perbene e non anche qualche furbetto che ha mischiato le carte per indossare la toga? Il ministero e il Csm hanno niente da dire? Ma non è finita. Alla lista dei dubbi, infatti, se n'è aggiunto un ultimo. Messo chiaro e netto in questi giorni in un esposto a Carlo Azeglio Ciampi, Roberto Castelli e Virginio Rognoni dal giudice onorario Carlo Michele Mancuso. Il quale, forte di un cognome siciliano che da solo spazza via ogni ipotesi di polemica anti-meridionalista o bossiana, non solo si richiama a tutte le perplessità già riassunte («pare certo che la correzione degli scritti non è avvenuta in modo collegiale» e senza «alcuna garanzia di eguaglianza, imparzialità e legalità nei confronti di tutti») ma chiede di annullare il concorso anche per lo strabiliante trionfo dei candidati campani: «E' difficile pensare a una percentuale così alta di candidati appartenenti a un solo distretto giudiziario». Mancuso parla espressamente di «provato favoritismo». Altri, più benevoli, citano la mitica tradizione giuridica napoletana. Oppure la preparazione fornita dalle grandi scuole partenopee quali quella di Rocco Galli, così famosa e così frequentata che i corsi ormai si tengono solo a Roma in ampie sale da centinaia di posti quali il cinema «Nazionale» o il teatro «Sistina». O ancora la preponderanza tra gli aspiranti giudici di giovani meridionali, preponderanza che fatalmente porterebbe ai risultati di oggi. Tutto vero. I numeri, però, danno da pensare: è mai possibile che gli ammessi agli orali dei distretti di Napoli e Salerno (un 25° dei candidati, inizialmente) siano 132 e cioè il doppio di tutte le regioni del Nord che messe insieme (tolta l'Emilia Romagna) arrivano stentatamente a 74? Possibile che i ragazzi laziali passati ai preliminari e agli scritti siano stati il 3,7% e quelli campani (tolta Salerno) addirittura il 12%? Possibile che la Campania abbia poco più degli abitanti della Sicilia ma il quadruplo (132 contro 36) dei quasi-giudici e tre volte la popolazione della Sardegna ma 22 volte più geni del diritto? Per non parlare del rapporto con alcune regioni settentrionali come il Veneto e il Friuli, che insieme fanno più abitanti della Campania ma si ritrovano con una dote di futuri magistrati otto volte più bassa: 17 contro 132. Tutti mona? Domanda: c'entra qualcosa, in queste eccentriche coincidenze, un pizzico  di campanilismo, familismo, favoritismo? A meno che non sia una domanda impertinente...  Gian Antonio Stella (La Stampa 10 09 04 - tratto dal Corriere della Sera)

"Durante la prova scritta una commissaria, magistrato di Cassazione, avrebbe favorito una candidata, correggendo il suo compito «Indagate sul concorso truccato dei giudici» Il Tar chiede al Guardasigilli di far luce su presunte irregolarità degli esami"di Massino Martinelli (Da Il Messagero, 7 ottobre 2004). Il ministero della Giustizia dovrà avviare una ispezione sulla regolarità del concorso per magistrato, tuttora in svolgimento. A sollecitare l'attività dell'Ispettorato è stato il Tar del Lazio, dopo che alcuni candidati esclusi dalla prova orale avevano avanzato dubbi sulla trasparenza dei criteri per la correzione dei compiti. A provocare la polemica è stata la scoperta, lo scorso luglio, del tentativo di una commissaria d'esame, consigliere di Cassazione, di correggere il compito di una candidata sua amica. Il magistrato è stata indagata e sospesa dalle funzioni e dallo stipendio, ma adesso molti dei 25 mila candidati chiedono di ripetere le prove. Il Tribunale amministrativo del Lazio, prima di pronunciarsi sul ricorso di alcuni esclusi, chiede "accertamenti" al Guardasigilli «Concorso dei magistrati, il ministro indaghi». La candidata favorita da una commissaria, interviene il Tar: serve un'ispezione. Adesso nessuno potrà far finta di niente, nei corridoi del ministero della Giustizia. La patata bollente del concorso truccato per entrare in magistratura dovrà essere presa in mano, sbucciata e servita ben aperta a chi deve decidere se quei 25mila ragazzi che sognavano la toga dovranno ricominciare tutto daccapo oppure no. Con una decisione che ha pochi precedenti, il Tar del Lazio ha infatti "invitato" il ministero della Giustizia ad avviare una ispezione formale sull'accaduto. E' come se un controllato chiedesse al controllore di darsi una mossa per scoprire chi, e perché, e come, ha commesso una grave irregolarità. Eppure, su questa vicenda che vede come protagonista un (ormai ex) alto magistrato di Salerno, il consigliere di Cassazione Clotilde Renna, si sono già mossi in tanti. La Procura di Roma l'ha indagata per falso e abuso in atti d'ufficio; il Csm l'ha sospesa in via cautelare dalle funzioni e dallo stipendio. Ma il ministero, niente. «Evidentemente, temono che una ispezione formale possa rallentare il concorso, o peggio, bloccarlo - sussurra un alto funzionario del ministero che chiede l'anonimato - E di questi tempi, sarebbe davvero negativo rinunciare ai nuovi magistrati». Eppure, il Tar del Lazio, questa ispezione la chiede ufficialmente. Anzi la "ordina", come si legge nell'ordinanza del 25 settembre scorso. E assegna anche un termine al Capo dell'Ispettorato: 45 giorni. Al termine dei quali dovrà essere depositata una relazione che risponda ad una serie di quesiti indicati nell'ordinanza. La storia è nota. Il sostituto procuratore generale di Salerno, Clotilde Renna, da trent'anni in magistratura, già componente della commissione d'esame di quel concorso, è accusata di aver sostituito alcune parti di un compito scritto che era già stato corretto e giudicato insufficiente. L'aggiunta, che tecnicamente gli inquirenti chiamano "falso per addizione" sarebbe servita ad una giovane candidata, per ricorrere contro l'esclusione. Il pm incaricato degli accertamenti, Pietro Giordano, ha già convocato l'alto magistrato per contestargli i reati; e la Renna sarebbe pronta a presentarsi la prossima settimana, assistita dal professor Alfonso Stile. Le indagini della Procura hanno ricostruito tutti i passaggi della vicenda, a cominciare dalla curiosa circostanza che portò alla scoperta del fattaccio: la Renna avrebbe fatto alcune fotocopie del compito corretto e la macchina si sarebbe inceppata per esaurimento della carta; la mattina dopo, una volta ricaricata, avrebbe ricominciato a sfornare copie del compito riveduto e corretto, tra lo stupore degli altri commissari d'esame. E' stata identificata anche la candidata che avrebbe goduto del falso compito: si tratta di una ragazza che l'alto magistrato conosce e alla quale è legata da un legame affettivo. Questa verifica ha permesso di escludere l'ipotesi della corruzione: se effettivamente la commissaria si adoperò per sostituire il compito della giovane candidata, questo non avvenne dietro pagamento di denaro. Ma il Tar del Lazio, che non ha poteri investigativi ma deve basare le sue decisioni sugli accertamenti svolti da altri, ha deciso di chiedere al Csm il fascicolo sul caso Renna e di mobilitare il ministero per conoscere una serie di circostanze ancora dubbie. Ad esempio: l'alto magistrato continuò a correggere compiti anche dopo l'episodio della fotocopiatrice? E come faceva a sapere qual'era il compito della sua protetta se gli elaborati erano contrassegnati solo da un numero e la lista dei candidati con il numero di riferimento doveva essere segreta a tutti? E ancora, come sono state formalizzate le dimissioni della dottoressa Renna dalla commissione d'esame, visto qualcuno parla di una lettera di dimissioni con la data lasciata in bianco? Insomma, il Tar del Lazio vuole sapere se qualcuno, in seno alla Commissione, abbia cercato di tenere tutto nascosto anche dopo la scoperta del fattaccio. Intanto, i cinquanta candidati che, con l'assistenza del professor Giovanni Pellegrino, si sono rivolti al Tar, aspettano fiduciosi. Chiedono che i compiti siano corretti di nuovo da una commissione al disopra di ogni sospetto. E sembra che il Tar abbia intenzione di accontentarli.

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE.

LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

"Nella mia vita ho fatto un sacco di raccomandazioni, assolutamente sì. Anche alla Regione, in una terra come la Sicilia dove vive una quantità infinita di gente che non campa e ti chiede aiuti di tutti i tipi. Non c’è nulla di male”. Lo dice Gianfranco Miccichè, sottosegretario alla Funzione Pubblica, a La Zanzara su Radio 24. “Quando ho potuto farle – dice Miccichè – l’ho fatto. Una volta mi ha fatto impressione Galan che mi ha detto che nelle tre legislature che aveva fatto alla Regione Veneto nessuno gli aveva chiesto una raccomandazione, e io mi sono impressionato perchè da noi te lo chiedono ogni secondo”. “E poi la raccomandazione – spiega Miccichè – non significa assumere un amico senza merito. Spesso vuol dire aiutare una persona in difficoltà che ritiene di aver subito un torto. Io ho raccomandato quando era possibile solo gente disperata. Non è una questione culturale, chi lo dice è un razzista”. Miccichè elogia la raccomandazione: semplifica tutto. Il quasi-ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione, Gianfranco Miccichè, ha riferito ai giornalisti che l’assediavano – essendo uscito dai “titoli” dei giornali per più di due settimane, era nata qualche preoccupazione – di avere raccomandato molte persone e non c’è alcun motivo per dolersi di questa attività. “Segnalare” calorosamente un amico alla persona giusta non è un peccato mortale né un anacronismo. Anzi.

Non ha tessuto l’elogio della raccomandazione, ma è come se l’avesse fatto, scrive “Sicilia Informazioni”. Appena tornato a vele spiegate nel grande giro, grazie alla nomina a sottosegretario voluta da Silvio Berlusconi, tre mesi or sono Miccichè confessò di avere utilizzato “incentivi” diciamo così non proprio ortodossi per sopravvivere, facendo uso di stupefacenti, lasciando di stucco coloro che non sono abituati agli outing così audaci. La sua franchezza, dunque, è diventata proverbiale. Avendo scelto di dedicarsi alla semplificazione per mestiere, Miccichè ha indicato la strada maestra per sburocratizzare la pubblica amministrazione, magari senza averne piena consapevolezza. È questa la sensazione. La raccomandazione consente di cancellare il farraginoso iter dei concorsi pubblici, le defatiganti gare, aste, bandi, laboriose selezioni di candidati e così via. In un colpo solo, insomma, la metà del lavoro della pubblica amministrazione verrebbe cancellato, facendo guadagnare tempo prezioso a migliaia di burocrati. Da che mondo è mondo, le scoperte che fanno la storia dell’umanità, sono casuali. Anche la Penicillina, per esempio, è stata scoperta per caso, tanto per dire. Si può avere sotto gli occhi o nei pensieri qualcosa o un’idea, e non accorgersi di possedere un inestimabile tesoro da regalare all’umanità. E’ il caso della raccomandazione e di Gianfranco Miccichè? Sinceramente non lo sappiamo. Ma qualche considerazione possiamo spenderla a favore della sua esternazione. Il quasi ministro ha raccomandato più volte ed a più riprese nel corso della sua lunga carriera politica, magari sentendosi in colpa o credendo di trasgredire la stantia morale prevalente, mentre in effetti dava un contributo essenziale alla semplificazione. Ora si tratta di compiere il passo più importante, sdoganare la raccomandazione, cancellare la morale bavosa che la vieta e introdurre la consuetudine nella pubblica amministrazione. In una prima fase ci si può accontentare di raccomandare senza doversene vergognare, in una fase successiva, si può introdurre qualche comma nella normativa vigente. Step by step, insomma. L’elogio della raccomandazione abbatte un autentico tabù della società politica, è un autentico atto rivoluzionario. A differenza dell’uso di droghe, confessato da Miccichè, infatti, il quasi ministro non “si giudica” severamente, confidando nell’etica della responsabilità. Egli sostiene, infatti, che assumersi l’onere di una scelta regala vantaggi maggiori di concorsi e selezioni, evitando che alcuno trucchi le carte o utilizzi procedure che non premiano il merito. Se qualcuno è bravo, lo si capisce abbastanza presto, insomma. Quando si raccomanda qualcuno si risponde della bontà della scelta. Se hai raccomandato un cretino o un disonesto, un incompetente, paghi il fio, se hai sostenuto la candidatura di una persona per bene dotata delle conoscenze idonee per fare quel che deve, ne trai lustro. Tutto alla luce del sole. Se la realtà non fosse dura e arcigna, si sarebbe portati a dargli ragione su tutta la linea. Gianfranco Miccichè è il raccomandato più influente, dopo Angelino Alfano, di Silvio Berlusconi. Avendone combinato di tutti i colori – scissione compresa – possiamo in tutta onestà affermare che l’ex premier ne abbia tratto lustro? Di più: le raccomandazioni di Gianfranco Miccichè non sono state per niente fortunate: dalla Fondazione Federico II di Palermo alle assemblee legislative, ed alla direzione di enti pubblici i “raccomandati” del quasi ministro, non hanno brillato per nulla. Anzi, in qualche caso, sono stati una frana, e sono finiti dritti in galera. Questo dettaglio non inficia la validità della raccomandazione come strumento della semplificazione, ma qualche perplessità la fa sorgere.

Anche perché a volte qualcosa suona strano. Il presidente della sezione feriale che giudicherà Berlusconi è Antonio Esposito. Una famiglia di magistrati la sua: il figlio Ferdinado è il procuratore aggiunto di Milano, il fratello Vitaliano fino all'aprile 2012 è stato Procuratore Generale della Corte di Cassazione. Ferdinando ha frequentato in passato Nicole Minetti, imputata nel processo Ruby-bis. Frequentazione che gli ha creato qualche imbarazzo perchè è proprio la Procura di Milano ad accusare l'ex consigliera regionale del Pdl di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Vitaliano è il Pg finito nelle intercettazioni della Procura di Palermo dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia. Al telefono con Nicola Mancino, oggi imputato per falsa testimonianza, che lo chiama "guagliò"), si dice "a disposizione" dell'ex ministro che coinvolgerà il Quirinale (Napolitano e il consigliere D'Ambrosio) e il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso in una serie di telefonate allo scopo di ottenere (senza riuscirci) l'avocazione o il "coordinamento" delle indagini di Palermo. E nella Magistratura vi sono molte famiglie che adducono che la funzione giudiziaria è roba loro. Anche Luigi De Magistris ha una famiglia di Magistrati. Lo stesso Francesco Saverio Borrelli è tra familiari magistrati. Che strano!!! Qui non si parla più di Raccomandazione. Arriviamo addirittura alla biologia. Si diventa magistrati non più per discendenza o lignaggio, ma per DNA. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE, MA NON PER TUTTI.

Un decreto cautelare emesso dopo sole 24 ore dal deposito, di sabato, da chi non era legittimato ed in favore di un azienda in odor di mafia.

Arriva al capolinea l'inchiesta sull'aggiudicazione provvisoria alla Cogea dell'appalto dei servizi di igiene urbana del comune di Casarano, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ed ecco che viene ufficialmente formalizzata l'iscrizione nel registro degli indagati del presidente del Tar di Lecce Antonio Cavallari. Il suo nome compare nell'avviso di conclusione delle indagini preliminari notificato nelle scorse ore, a firma del procuratore capo Cataldo Motta, insieme a quelli dell'avvocato Luigi Quinto, 38 anni, di Lecce, e di Enzo Giannuzzi, 67 anni, di Nardò, direttore della segreteria della prima sezione giurisdizionale del Tar. L'ipotesi di reato che viene contestata loro è quella di concorso in abuso d'ufficio. La vicenda ormai nota, è balzata nel settembre dello scorso anno agli onori delle cronache quando iniziarono a trapelare le prime indiscrezioni su un'inchiesta che vedeva coinvolto il numero uno del Tar di Lecce, al quale i carabinieri del Nucleo investigativo avevano sequestrato il computer. Oggetto del contendere un decreto cautelare emesso il 3 marzo 2012 con il quale il presidente Cavallari aveva accolto il ricorso presentato dalla Cogea che appena il giorno prima si era vista revocare dal comune di Casarano l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto dei servizi di igiene urbana. Una decisione-lampo, presa dopo sole 24 ore dal deposito del ricorso, che secondo la Procura sarebbe stata priva dei requisiti di «estrema gravità ed urgenza». Un disegno ordito, quindi, con il solo scopo di «procurare intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale alla Cogea Srl».

Dopo la tegola giudiziaria che si è abbattuta sul Presidente del Tar di Lecce Antonio Cavallari, indagato per abuso d’ufficio, l’Avvocato Pietro Quinto non nasconde a TRnews la propria perplessità, dopo tutto, per una vicenda che si collega ad un appalto per la raccolta dei rifiuti urbani a Casarano. I fatti risalgono allo scorso marzo: la Cogea vince l’appalto, ma l’aggiudicazione provvisoria viene revocata dalla locale amministrazione comunale retta dal Commissario prefettizio, Erminia Ocello, sulla scorta di una segnalazione. Nel documento si ipotizzerebbe un presunto collegamento fra l’azienda in questione e Gianluigi Rosafio, imprenditore di Taurisano, già condannato per traffico illecito di rifiuti con l’aggravante mafiosa, genero di Giuseppe Scarlino, detto Pippi Calamita, boss del Sud Salento condannato all’ergastolo. L’azienda non ci sta e assistita dall’Avvocato Pietro Quinto, fa ricorso al Tar, chiedendo un decreto d’urgenza. “I tempi sono stretti – ricorda Quinto – l’informativa arriva alla vigilia dell’avvio del servizio e l’azienda che teme un danno economico, chiede un decreto d’urgenza”. Ed ecco che, in assenza del giudice della terza sezione, la situazione la prende in mano il Presidente in persona, Cavallari appunto, che emette un provvedimento con cui accogliendo  l’istanza presentata dall’azienda di fatto sospende la revoca del Comune di Casarano e dà il via libera al servizio che partirà di lì a poche ore. “E’ stato fatto tutto alla luce del sole”, sottolinea ancora l’Avv. Quinto. Ma intanto i carabinieri, al cui vaglio ci sono documenti e pc sequestrati dall’ufficio di Cavallari, vogliono andare a fondo. In effetti tutta la vicenda si è consumata in sole 48 ore. C’è però un altro risvolto. Dopo la pronuncia di Cavallari, la Prefettura emise una vera e propria interdittiva nei confronti della Cogea, interdittiva recepita dal Commissario Ocello che stilò un nuovo atto di revoca del bando. Intanto, la Cassazione aveva annullato con rinvio l’aggravante mafiosa nei confronti di Rosafio, chiedendo la celebrazione di un nuovo processo. Ora si attende la decisione del Consiglio di Stato che si pronuncerà solo dopo decisione del giudice penale.

Misure di questo tipo hanno l’obiettivo di evitare infiltrazioni della malavita nel tessuto produttivo. La visita dei militari del Nucleo investigativo del Reparto operativo del Comando provinciale risale ai primi giorni del marzo 2012. All’attenzione della Procura sarebbe finito il decreto cautelare emesso il 3 marzo (era un sabato) con il quale il presidente Antonio Cavallari ha accolto l’istanza presentata dalla società Cogea, la srl che si era visto revocare l’aggiudicazione provvisoria del servizio di raccolta dei rifiuti urbani di Casarano sulla scorta di un’infor mativa antimafia per via di presunti collegamenti con Gianluigi Rosafio, l’imprenditore di Taurisano condannato per traffico illecito di rifiuti e marito della figlia del boss ergastolano Giuseppe Scarlino, detto Pippi Calamita. La determinazione del responsabile del settore servizi tecnici del comune di Casar ano, che aveva revocato l’aggiudicazione dell’appalto alla Cogea, era stata adottata il 2 marzo. Il giorno dopo il decreto cautelare del presidente del Tar Cavallari veniva depositato in segreteria. Più precisamente, l’interdittiva antimafia traeva origine nel fatto che il direttore tecnico di Cogea fosse lo stesso di «Geotec Ambiente», società a sua volta colpita da interdittiva per la presenza, fra i dipendenti, di Gianluigi Rosafio. L’unica volta che l’indagine è uscita allo scoperto è stato quando i carabinieri sono andati negli uffici del Tar, in via Rubichi a due passi da piazza Sant’Oronzo, per «prendere» le carte. L’episodio, peraltro, era stato vagamente richiamato dallo stesso presidente Antonio Cavallari in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale amministrativo regionale. Erano trascorsi appena sette giorni dalla decisione e dal blitz. Un’uscita , quella del presidente del Tar, che era stata sepolta da una montagna di smentite. E il Procuratore era al lavoro, a testa bassa.

Cavallari non è nuovo ad essere soggetto di accuse.

"Ilva, il presidente del Tar di Lecce cognato dell'avvocato dell'azienda". I ricorsi del colosso sempre accolti. Esposto di Legambiente al Csm, bufera su Antonio Cavallari. "E' incompatibile". "Accuse infondate, il legale si occupa di cause di lavoro", scrive  Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Il primo a lanciare la pietra era stato il presidente dell'Arpa pugliese, Giorgio Assennato. "L'Ilva  -  aveva detto  -  non si è mai voluta sedere a un tavolo con noi. Sono rimasti sull'Aventino e hanno continuato a fare ricorsi su ricorsi al Tar di Lecce, sempre vinti... Sono sicuro che anche la Procura di Taranto perderebbe se fosse il Tar di Lecce a decidere sui suoi atti". Subito dopo erano intervenute le associazioni ambientaliste, segnalando come in questi anni molte decisioni di natura sanitaria prese da Comune e Asl fossero state sempre cassate dal Tar. Ora il caso arriverà davanti al Consiglio superiore della Magistratura. Perché? Il presidente del Tar di Lecce, Antonio Cavallari, è il cognato (hanno sposato due sorelle) di uno degli avvocati esterni dell'Ilva, Enrico Claudio Schiavone. "Una situazione  -  spiegano dal direttivo nazionale di Legambiente  -  che secondo noi è doveroso segnalare al Csm perché il Consiglio valuti eventuali situazioni di incompatibilità o anche soltanto di opportunità. La situazione è così delicata, che richiede il massimo della trasparenza a tutti i livelli. Anche quello della magistratura amministrativa". I due protagonisti però rimandano al mittente tutte le accuse. "Da un punto di vista tecnico, non siamo nemmeno affini. E soprattutto l'avvocato Schiavone non difende l'Ilva davanti al Tar". Schiavone è infatti un lavorista, è lui a difendere il siderurgico (in qualità di consulente esterno) nella maggior parte delle cause contro i lavoratori: "Questo della parentela  -  dice  -  è un dettaglio insignificante". Il Tar era finito nell'occhio del ciclone per aver accolto una serie di ricorsi dell'Ilva: dal referendum chiesto dai cittadini per decidere sulla chiusura dello stabilimento a una serie di ricorsi di natura sanitaria. A febbraio il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, aveva ordinato la fermata degli impianti per effettuare una serie di lavori per ridurre inquinamento e impatto ambientale. Ma il Tar aveva sospeso il provvedimento sostenendo che non esisteva un'emergenza sanitaria tale da giustificare "l'esercizio del potere di ordinanza attribuito al sindaco". Qualche mese dopo sarebbe arrivata la decisione del gip, Patrizia Todisco, di sequestrare l'impianto proprio per l'emergenza sanitaria. "Ma se c'è qualche responsabile in questa vicenda  -  dice Cavallari  -  è chi doveva controllare e non lo ha fatto. Noi in 23 anni abbiamo avuto appena 36 ricorsi dell'Ilva e molti sono stati respinti, come per esempio quelli su alcune prescrizioni dell'Aia". Assennato però faceva riferimento a un provvedimento dell'Arpa che, già nel 2010, imponeva all'Ilva di abbassare le emissioni di benzoapirene, l'inquinante segnalato come pericolosissimo oggi dai periti della procura. I tarantini potevano risparmiare due anni di veleno. Ma anche in questo caso, il provvedimento fu cassato. "Ma era incoerente  -  spiega il giudice amministrativo  -  si chiedeva all'Ilva di applicare determinate prescrizioni in materia di emissioni sulla base di parametri stabiliti in tempi successivi. Se si stabiliscono dei limiti alle emissioni, e poi quei limiti vengono abbassati, noi dobbiamo basarci sui parametri in vigore nel momento in cui si contesta il superamento di quei limiti". Cavallari, tra l'altro, in questi giorni è al centro di un'altra inchiesta giudiziaria. È indagato per abuso di ufficio con l'accusa di aver riassegnato un appalto a un'azienda che era stata esclusa per mafia. Firmò lui il provvedimento nonostante toccasse a un'altra sezione. "Ma era un provvedimento d'urgenza e la collega non c'era: agimmo in accordo. Sono serenissimo" conclude il giudice amministrativo.

Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

PARLIAMO DELLA POLIZIA LOCALE. CONCORSI PUBBLICI PER VIGILI URBANI.

«Concorso per un posto di vigile urbano truccato, 3 anni a Cancian». Il pubblico ministero di Pordenone ha anche chiesto 2 anni e 4 mesi per D’Angelo e Zucchiatti e 2 anni e 2 mesi per Lipizer e Furlan, scrive “Il Messaggero Veneto”. Si avvia alle battute finali il processo sul caso del concorso per un posto di vigile urbano a Porcia, indetto nel giugno del 2011. Secondo l’accusa, le tracce d’esame sarebbero state comunicate in anticipo a due candidati, finiti a processo con i loro “suggeritori”. In cinque attendono ora la sentenza di primo grado del procedimento che li vede imputati per rivelazione di segreto d’ufficio. Il pm Pier Umberto Vallerin, al termine della sua requisitoria, ha chiesto al tribunale collegiale (presidente Eugenio Pergola, a latere Rodolfo Piccin e Andrea Scorsolini) tre anni di reclusione per l’ex comandante della polizia municipale di Sacile Luigino Cancian, ora a Maniago, difeso dai legali di fiducia Remo Anzovino e Paolo Dell’Agnolo. Quanto a Francesco D’Angelo, agente della municipale di Pordenone in pensione (difeso dall’avvocato Antonio Pedicini) e a Leonardo Zucchiatti, comandante dei vigili urbani di San Daniele (avvocato Bruno Simeoni), la richiesta del pm è stata di 2 anni e 4 mesi ciascuno. Per i due candidati al concorso di Porcia Alessandro Furlan di Oderzo (difeso da Francesca Cardin) e Stefano Lipizer di Moruzzo (avvocato Stefano Comand) la pena richiesta dall’accusa è di poco inferiore: 2 anni e 2 mesi. Il pm Vallerin ha chiesto di valutare la sua posizione in merito all’ipotesi di reato di falsa testimonianza. Per gli imputati ancora rivestiti di pubblica funzione, il sostituto procuratore ha chiesto anche l’interdizione dai pubblici uffici per due anni. Vallerin ha serbato per il finale il colpo di scena, chiedendo la trasmissione degli atti alla Procura per valutare la posizione del comandante dei vigili urbani di Pordenone Arrigo Buranel, in relazione all’ipotesi di reato di falsa testimonianza. Nella sua requisitoria il pm ha asserito che ci sarebbero forti discrepanze e contraddizioni fra le dichiarazioni rese in aula da Buranel e quelle captate da alcune intercettazioni telefoniche. Fra gli elementi messi in evidenza nelle arringhe delle difese, che si concluderanno il 10 novembre, è stato evidenziato dall’avvocato Pedicini che, a giudicare dalle graduatorie «alla fine abbiano vinto quel concorso di polizia i più bravi» e che tutto si sia svolto «nella piena regolarità», mentre l’avvocato Simeoni ha rimarcato come dalle conversazioni telefoniche fra Zucchiatti e Cancian non emerga l’esistenza di alcun «sodalizio criminale per contraffare il concorso», bensì un normale rapporto di confronto fra due comandanti su tanti argomenti, attinenti tematiche di lavoro. Le arringhe delle difese, cominciate ieri pomeriggio, si concluderanno il 10 novembre 2015. Repliche e sentenza, invece, sono state fissate per il 15 dicembre 2015.

CONCORSO DEI VIGILI TRUCCATO PER ELIMINARE LE DONNE "SAPIENTONE CHE HANNO STUDIATO", scrive Cristina Antonutti su “Leggo”. Il processo sul concorso truccato per un posto di vigile urbano a Porcia rischia di chiudersi con un colpo di scena. Il pm Pier Umberto Vallerin ha chiesto condanne per complessivi 12 anni di reclusione per l’ipotesi di rivelazione di atti d’ufficio a favore di due candidati vigili e ha ritenuto non credibile la testimonianza del comandante della municipale di Pordenone, Arrigo Buranel, per il quale ha chiesto la trasmissione degli atti alla Procura affinché ne valuti la posizione. Dure le conclusioni della pubblica accusa: «Se questa è l’impostazione di un concorso pubblico - ha detto - c’è da mettersi le mani nei capelli». E in questo senso ha fatto riferimento a un’intercettazione del 17 maggio tra Buranel e Luigino Cancian, ex comandante della municipale di Sacile, adesso in servizio a Maniago. I due parlavano dei test. Il pm ha citato frasi come «ho preparato 40 domande, dobbiamo tartassarli bene, altrimenti ci troviamo con le femmine» oppure «dobbiamo farle fuori sennò ci ritroviamo con tutte le sapientone che hanno studiato». Frasi per le quali la parte civile ha parlato di «comportamenti in sfregio alla funzione di pubblico ufficiale per avere vigili maschi».

“Dobbiamo evitare le femmine”, frase shock del comandante dei vigili per il concorso. Le frasi tra il comandante della municipale di Pordenone e l’ex comandante della municipale di Sacile rese pubbliche nell'ambito del processo sul presunto concorso truccato per un posto di vigile urbano a Porcia, scrive Fan Page. "Ho preparato 40 domande, dobbiamo tartassarli bene, altrimenti ci troviamo con le femmine", e ancora: "dobbiamo farle fuori sennò ci ritroviamo con tutte le sapientone che hanno studiato". Sono alcuni dei dialoghi intercettati tra il comandante della municipale di Pordenone e l’ex comandante della municipale di Sacile, resi pubblici nell'ambito del processo sul presunto concorso truccato per un posto di vigile urbano a Porcia, in provincia di Pordenone, indetto nel giugno del 2011. A rivelare il dialogo che risalirebbe al 17 maggio scorso, come spiega Il Gazzettino, è stato il pm Pier Umberto Vallerin nella sua requisitoria nel processo sul concorso truccato a Porcia. Secondo il pubblico ministero, proprio le frasi tra i due, che parlavano dei test per il concorso, renderebbe non credibile la testimonianza in aula del comandante della polizia locale di Pordenone. "Se questa è l’impostazione di un concorso pubblico c’è da mettersi le mani nei capelli" ha concluso infatti l'accusa, annunciando con un colpo di scena la richiesta della trasmissione degli atti alla Procura affinché valuti la posizione del comandante. Il Pm ipotizza nei confronti dell'uomo il reato di falsa testimonianza perché ci sarebbero forti discrepanze e contraddizioni fra le dichiarazioni rese in aula e quelle captate dalle intercettazioni telefoniche. Per le stesse frasi la parte civile ha parlato di "comportamenti in sfregio alla funzione di pubblico ufficiale per avere vigili maschi". Nella sua requisitoria il pm ha ribadito che le tracce d’esame sarebbero state comunicate in anticipo a due candidati al concorso per vigile, finiti poi a processo con i loro presunti suggeritori. Per questo ha chiesto condanne per complessivi 12 anni di reclusione con le ipotesi di rivelazione di atti d’ufficio.

Ed ancora. Gli aspiranti vigili ammettono: concorso truccato, scrive La Provincia di Como il 6 maggio 2008. Alcuni dei partecipanti dell prova per un posto da agente di polizia locale hanno confessato: Conoscevamo i temi in anticipo. Sale a sette il numero degli indagati. Oltre ai componenti della commissione. Gli aspiranti vigili devono aver pensa to che di pasticci ne erano stati fatti a sufficienza. Prima il blitz della procura. Poi l'annullamento deciso da Palazzo Cernezzi (ma in realtà mai formalmente diventato operativo, visto che gli atti sono tuttora sotto sequestro) del concorso. Insomma, di motivi per evitare pericolosi dribbling nel tentativo di inventarsi una storiella di comodo da regalare agli inquirenti e salvare il salvabile ce n'erano a sufficienza. E sarà forse per questo motivo che molti di loro, una volta seduti negli uffici della procura, formalmente convocati come persone informate sui fatti, hanno scelto (volendo utilizzare un'immagine poliziesca abusata e arcaica) di "vuotare il sacco": «Sì, è vero. Le tracce del tema le abbiamo sapute in anticipo). Insomma, il sospetto che qualcuno - da dentro il palazzo - possa aver favorito determinati concorrenti suggerendo anteprima gli argomenti che sarebbero stati trattati dal concorso per l'assunzione di un agente di polizia locale, sembra a questo punto provato. O, almeno, questo vien da pensare dopo la sfilata di testimoni che, negli ultimi mesi, ha tenuto impegnati gli inquirenti incaricati di verificare se fossero vere le accuse ipotizzate in un esposto - recapitato a fine novembre in procura - in cui venivano ventilate asserite irregolarità. Le chiacchiere sul concorso pubblico erano iniziate a circolare dopo lo strano balletto della graduatoria dei concorrenti. Prima che quella definitiva fosse affissa all'albo, ne erano state esposte almeno altre due, poi precipitosamente ritirate. Chiacchiere che la presenza in graduatoria di una figlia del commissario capo dei vigili di Como, Gregorio Nardone (piazzatasi "soltanto" all'ottavo posto), aveva contribuito - si dovrà ora vedere se a torto o a ragione - a far girare. Nell'ambito dell'inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore Daniela Meliota, nel registro degli indagati erano finiti tutti i rappresentanti della commissione chiamata a scegliere il nome del futuro vigile da assumere: il comandante della polizia locale Vincenzo Graziani, il capo di gabinetto del Comune di Como Tullio Saccenti, sua sorella Sandra - vigilessa e assistente del comandante Graziani - e una delegata della Regione Lombardia. Tutti formalmente indagati di aver rivelato in anticipo ai partecipanti i temi che sarebbero stati trattati nelle tracce della seconda prova scritta. In realtà alcuni concorrenti hanno ammesso che conoscevano le prove oggetto dell'esame solo dopo essere caduti in contraddizione, rivelando l'oggetto di tutte e tre i temi proposti, quando nel corso dell'esame i commissari si erano limitati a leggere soltanto la traccia estratta a sorte. il semplice fatto di conoscere anche le altre prove sarebbe la prova di una fuga di notizie che, in gergo giuridico, potrebbe tradursi nel reato di abuso. E mentre nel registro degli indagati finiscono anche tre agenti di polizia locale accusati di favoreggiamento, per non aver detto la verità nel corso delle loro deposizioni in procura, resta ora da capire chi ha materialmente rivelato le tracce. Sotto questo profilo nulla di rilevante sarebbe emerso dall'analisi dei tre computer fatti sequestrare a suo tempo dal pm Meliota. L'esperto informatico della procura non ha trovato né un appunto, né una mail in uscita, né un contatto che possa aiutare gli in inquirenti a scovare il responsabile della fuga i notizie. Insomma, trovate le prove del cosa mancherebbe ancora il chi. Paolo Moretti aveva indetto un concorso per l'assunzione di un vigile. La graduatoria era stata affissa all'albo del Comune due volte, ma immediatamente ritirata. Poi, dopo l'avvio dell'inchiesta della procura il concorso è stato congelato dalla giunta. Gli indagati nell'ambito dell'inchiesta coordinata dai sostituto procuratore Daniela Meliota sono sette: il comandante della polizia locale Vincenzo Graziani, il capo di gabinetto del Comune di Como Tullio Saccenti, sua sorella Sandra - vigilessa e assistente del comandante Graziani - e una delegata della Regione Lombardia. "Tutti indagati di aver rivelato in anticipo ai partecipanti i temi che sarebbero stati trattati nelle tracce della seconda prova scritta. A loro si aggiungono tre vigili con l'accusa di favoreggiamento Alcuni concorrenti hanno ammesso che conoscevano le prove d’esame.

Arresti eccellenti ad Acquaviva per concorso truccato, scrive Onofrio Bruno. Arresti eccellenti ad Acquaviva delle Fonti, in provincia di Bari, per il concorso per l’assunzione di quattro vigili urbani, espletato dal 2000 al 2003, che secondo i carabinieri fu truccato Arresti eccellenti ad Acquaviva delle Fonti, in provincia di Bari, per il concorso per l’assunzione di quattro vigili urbani, espletato dal 2000 al 2003, che secondo i carabinieri fu truccato e pilotato. Dirigenti e dipendenti della pubblica amministrazione di Acquaviva, in tutto cinque, sono stati arrestati stamattina e posti agli arresti domiciliari. Si tratta del comandante del corpo dei vigili urbani, del segretario comunale, del dirigente affari generali, di un funzionario e di un vigile urbano. Tre persone risultano indagate. Le indagini sono state avviate da circa un anno e sono culminate negli scorsi mesi nel sequestro di documentazioni e dei files dei computer di alcuni uffici comunali da parte dei carabinieri della compagnia di Gioia del Colle.

Eccezionalmente si parla di un concorso pubblico di interesse locale. E’ sintomatico del fatto che la figura del Vigile Urbano è identificativa della legalità. Per il resto, in ambito locale, se si trucca tale concorso pubblico, va da sè che truccare il concorso per altre figure funzionali è un gioco da ragazzi.

Il far passare il sottoscritto per mitomane o pazzo non è il solo mezzo di ritorsione. Da 20 anni impediscono al sottoscritto di abilitarsi all’avvocatura, in quanto i suoi elaborati al concorso forense non sono letti, e il Tar di Lecce proibisce la presentazione del ricorso contro i falsi giudizi. Per tutti questi fatti è stata coinvolta la Corte Europea dei Diritti Umani. Avvocati e magistrati del distretto della Corte d’Appello di Lecce (Taranto, Lecce e Brindisi) si sono coalizzati contro di me, avendo, unicamente io, in modo isolato, da presidente provinciale di una associazione di praticanti ed avvocati denunciato gli abusi e l’evasione fiscale e contributiva a danno dei praticanti e avendo mosso critiche mediatiche al sistema concorsuale di abilitazione forense, che tutti sanno essere truccato e che ha permesso ai commissari d’esame di diventare avvocati. La contestazione si è concretizzata in denunce penali contro i commissari d’esame, tra i quali tutti i magistrati e gli avvocati più noti del distretto. Un dato di fatto è che l’avv. Antonio De Giorgi, già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce e presidente di Commissione d’esame di Lecce, da me denunciato, è diventato ispettore ministeriale e Presidente della Commissione centrale ministeriale del concorso forense, pur essendoci eccezioni d’incompatibilità ai sensi della riforma, che inibisce la presenza in commissione d’esame dei consiglieri dell’Ordine. I magistrati di Taranto, inoltre per inibire ogni reazione a chi non è conforme al sistema giudiziario, mi hanno denunciato per diffamazione a mezzo stampa presso la procura di Potenza perché la Gazzetta del Sud Africa ha pubblicato un articolo contenente le motivazioni del Sostituto Procuratore di Taranto, Alessio Coccioli, allegate alla sua richiesta di archiviazione di una mia denuncia. Richiesta poi accolta e denuncia archiviata. Le motivazioni rilevavano che per il PM era normale che l’ufficio protocollo del comune di Manduria non rilasciasse ricevuta, come era normale che a vincere il concorso a comandante dei vigili urbani di Manduria, fosse un avvocato di Manduria che, con nomina dei politici locali di turno, aveva indetto e regolato la procedura concorsuale come responsabile pro tempore dell’ufficio del personale. Da tener conto che in graduatoria il vincitore precedeva il sottoscritto. Ciò è dovuto anche al fatto che il sottoscritto ha presentato denunce, rimaste lettera morta, contro quella parte politica quando era al potere, sia ad Avetrana con sindaco Luigi Conte, sia a Manduria con sindaco Gregorio Pecoraro, e contro gli avvocati che beneficiavano degli incarichi e contro le forze dell’ordine e i magistrati che ne hanno coperto gli abusi. Il centro sinistra di Manduria nominò dirigente dell’ufficio del personale del Comune di Manduria, il manduriano avv. Vincenzo Dinoi, che da dirigente dell’ufficio del personale della giunta Pecoraro, indisse, regolò (e vi partecipò, vincendolo) il concorso di Comandante dei Vigili Urbani di Manduria. Al concorso il sottoscritto si piazzò dietro al vincitore. Commissari erano: il questore; il commissario prefettizio, Paola Galeone, in quel periodo Sindaco pro tempore di Manduria al posto di Pecoraro; il comandante VVUU di Brindisi. Successivamente all’incarico di comandante dei vigili urbani l’avv. Vincenzo Dinoi è diventato Vice Segretario Comunale di Manduria. Comune di Manduria a cui si è contestato con denuncia anche l’omesso rilascio ai cittadini, da parte dell’ufficio protocollo, della ricevuta degli atti presentati allo sportello. Cosa questa che inficiava la certezza della consegna degli atti e foriera di manomissioni dei procedimenti amministrativi.

Questo a Manduria. E se non bastasse, proviamo a vedere cosa succede altrove: Roma. Vigili, concorso truccato, quattro indagati per falso. Inchiesta della procura sulla prova dell’anno 2012. Indagati quattro funzionari della polizia municipale. Esposto del Comune, scrive Federica Angeli su “La Repubblica”. Un concorso pubblico a cui hanno partecipato migliaia di aspiranti vigili urbani probabilmente da rifare. Per falso documentale la procura di Roma ha infatti iscritto nel registro degli indagati quattro funzionari della polizia municipale per aver sostanzialmente documentato il falso e poter far diventare presidente della Commissione giudicante l'ex comandante del corpo della Municipale Angelo Giuliani. I quattro indagati, che saranno sentiti nei prossimi giorni erano anche loro membri della commissione. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha dato mandato agli uffici di predisporre gli atti necessari alla revoca della Commissione esaminatrice. La vicenda risale a un anno fa. Poco dopo l’uscita dagli uffici di via della Consolazione del comandante Angelo Giuliani, travolto da una serie di scandali all’interno del corpo della Municipale, tra cui la vicenda delle mazzette estorte da un gruppo di vigili agli imprenditori Bernabei legate a un condono oltre a episodi di corruzione, era imminente un mega concorso per assunzioni di vigili urbani. Un concorso a cui si presentarono migliaia di aspiranti poliziotti preparati ad affrontare la miriade di problemi legati al traffico, alla gestione del centro storico e agli abusi edilizi di Roma Capitale. Ma qualcosa non andò come doveva e ad accorgersene pare sia stato proprio il sindaco Gianni Alemanno che ha presentato un esposto in Procura sull’anomalia. I pubblici ministeri Laura Condemi e Ilaria Calò — gli stessi magistrati che hanno arrestato due funzionari dell’Ufficio Contravvenzioni di via Ostiense, tra cui un dirigente dei vigili urbani accusati di aver distrutto multe e relativi ricorsi di cittadini e personaggi istituzionali — hanno affidato le indagini ai carabinieri del nucleo operativo di via In Selci. Così è iniziata l’inchiesta. La magagna pare sia stata trovata dagli inquirenti proprio in alcuni documenti che i quattro membri della Commissione del concorso hanno presentato al Campidoglio. Ovvero la candidatura dell’ex comandante della Municipale Angelo Giuliani che, tecnicamente, pare non potesse fare il presidente per quel concorso. Falsi documentali sono stati preparati e presentati proprio per consentire a Giuliani, che al momento non è iscritto nel registro degli indagati, di poter presiedere quel concorso. Perché fosse così importante che il capo uscente dei vigili urbani presenziasse a quel concorso ancora non è chiaro. Come non è chiaro per quale motivo i quattro vigili ora indagati per falso documentale abbiano dovuto modificare carte e documenti se in realtà tutto era svolto alla luce del sole. "Senza entrare nel merito della correttezza dei lavori della Commissione - si legge in una nota del Campidoglio -, l'esistenza di questa indagine per falso ideologico mina alla base la serenità del futuro operare della Commissione da un lato e degli esaminandi dall'altro. Al fine di assicurare i presupposti di trasparenza e correttezza nell'azione dell'amministrazione capitolina, quindi, il sindaco ha disposto la revoca della Commissione dando contestualmente mandato agli uffici di provvedere alla nomina di una nuova Commissione per salvaguardare il concorso per istruttore di polizia municipale''.

Dovevano dedicarsi al concorso per l’assunzione di circa 300 vigili urbani, scrivono Fabio Rossi e Sara Menafra su “Il Messaggero”. E invece, si concedevano vacanze e trasferte, proprio nei giorni di riunione della commissione d’esame. Per questo motivo, sul registro degli indagati della procura di Roma sono finiti i nomi di tutti i membri della commissione d’esame, a cominciare dall’ex comandante Angelo Giuliani. Sono tutti accusati di falso ideologico, per aver falsificato i verbali della commissione. La pm Laura Condemi ha convocato a piazzale Clodio alcuni testimoni. E questi hanno confermato l’ipotesi contenuta in una denuncia arrivata nei giorni scorsi in procura. In un caso accertato, i commissari, a cominciare dal presidente Giuliani, hanno firmato un verbale in cui sostenevano di essersi riuniti per correggere le prove scritte dei circa tremila aspiranti che hanno partecipato alla prima prova scritta. E invece, molti di loro si trovavano fuori Roma e la riunione non si è mai svolta. Più in generale, l’inchiesta della procura passerà al setaccio tutte le procedure di valutazione che sarebbero procedute a rilento, senza alcuna programmazione circa i tempi di correzione dei compiti e senza l’istituzione di sottocommissioni, finalizzate a dividere al meglio i carichi di lavoro. L’indagine rischia di far tremare tutto il vertice della polizia municipale cittadina. Oltre a Giuliani, sono stati iscritti al registro degli indagati Donatella Scafati, una dei tre vicecomandanti attualmente in carica, con delega alla Direzione del coordinamento operativo e alla pianificazione dei servizi operativi e Maurizio Sozi, comandante del quinto gruppo. Insieme a due segretarie, pure loro membri a tutti gli effetti della commissione: Gloria Conte ed Alessandra Ascione. Il concorso in questione è quello per la selezione di trecento istruttori vigili urbani. Dopo averlo programmato nel 2010, il sindaco Gianni Alemanno ha spinto molto nell’ultimo anno, perché le selezioni si svolgessero in tempi celeri. Nell’autunno 2012, quando i giornali parlavano insistentemente del racket delle licenze commerciali, annunciò che il rinnovamento sarebbe passato anche attraverso l’entrata di «nuove risorse» a partire da «300 nuovi vigili entro il 2013». Effettivamente, la prova scritta si è svolta nei primi mesi del 2013: tremila partecipanti per quelle poche centinaia di posti. Ma ai vincitori sarebbe stata assicurata un’assunzione a tempo indeterminato. Merce rara, di questi tempi. Le prime voci hanno iniziato a circolare quando passati due mesi dalla prova, ancora non c’era alcuna notizia del risultato. E’ così che anche i funzionari comunali hanno capito che qualcosa non andava. Il primo episodio accertato è quello del verbale fasullo. Ma le testimonianze raccolte a piazzale Clodio su cui stanno lavorando i carabinieri del Nucleo investigativo di via Inselci, parlano di una selezione praticamente bloccata. In cui, passati mesi dalla prima selezione, sarebbero state corrette sì e no due o tre prove al giorno. Ma senza nessuna distribuzione formale dei carichi di lavoro e quindi con il rischio di una totale arbitrarietà sui punteggi assegnati ai partecipanti. La Scafati e Sozi sono stati pure loro convocati in procura. E avrebbero fatto alcune ammissioni, ma la notizia dell’indagine in corso era stata tenuta riservata fino a quando al Comune di Roma è arrivata una prima notifica dell’esistenza del fascicolo d’indagine. Per il momento, la stessa amministrazione comunale ha deciso di congelare il concorso. La commissione è stata tutta sospesa e le prove d’esame messe sotto chiave. Ma a questo punto è possibile che l’intero esame debba essere annullato per ripartire da capo, con il rischio di un lungo caos a botte di ricorsi amministrativi.

Se dal 2003 era un’ipotesi, ora c'è una sentenza del Tribunale, scrive Antonello Norscia su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Che sicuramente potrà esser, e sarà impugnata, ma che comunque costituisce un primo punto fermo per l’inchiesta sui veleni della Polizia Municipale di Andria, ed, in particolare, sul concorso esterno (per l’assunzione) e quello interno (per l’avanzamento di carriera) dei vigili urbani risalenti ai primi anni 2000. Quei concorsi furono una farsa. A validare l’impianto accusatorio del pubblico ministero Giuseppe Maralfa la sentenza del Tribunale di Trani (collegio Cesarea Carone, Francesco Messina, Lorenzo Gadaleta) che ha condannato 11 dei 32 imputati, molti dei quali “chiave” proprio in relazione all’espletamento dei concorsi. Pene che oscillano da 8 anni ad 8 mesi di reclusione per l’ex assessore alla Polizia Municipale Vito Malcangi, l’ex comandante del corpo Francesco Paccione, presidente della commissione esaminatrice poi passato al comando dei vigili di San Ferdinando, il componente della commissione d’esame e comandante della Polizia municipale di Martina Franca Antonio Cito, il maresciallo Domenico Ruotolo, i funzionari comunali Concetta Guicciardini ed Agostino Balducci (furono tutti arrestati alla vigilia di Pasqua 2003), il sottotenente Francesco Sellitri, la vigilessa Giuliana Mastropasqua (entrambi furono interdetti per 2 mesi dall’allora gip tranese Antonio Lovecchio), il maresciallo Myriam Mancini, le candidate vigili Maria Assunta Buonpensiero e Martha Lucila Lian Suarez Martha. Ha, dunque, resistito al vaglio dibattimentale l’ipotesi accusatoria del pm Maralfa che aveva coordinato l’elefantiaca ma certosina inchiesta della Polizia di Andria. Il Tribunale ha inferto dure condanne (sebbene l’indulto porti uno sconto di 3 anni) a chi avrebbe mosso i fili della diffusa raccomandopoli, scagionando, invece, chi da quelle magagne avrebbe tratto presunti benefici: in pratica sono stati assolti molti dei vigili candidati. L'articolato dispositivo conta anche alcune assoluzioni, a vario titolo, per i condannati. Per diversi imputati, e non solo per chi è stato dichiarato colpevole, è scattata la prescrizione. Tra le prescrizioni l’abuso d’ufficio; col tribunale che ha ritenuto fondata anche l’ipotesi di associazione per delinquere. In merito alle rispettive presunte responsabilità, con la richiesta di rinvio a giudizio il pm Maralfa contestò, a seconda dei casi, anche i reati di falso ideologico, peculato, truffa, violenza privata, rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, calunnia e favoreggiamento. La sentenza porterà alcune conseguenze anche sulle graduatorie dei concorsi. L'inchiesta sulla Polizia Municipale non fu soltanto l’indagine sui concorsi per l’avanzamento di carriera e per l’assunzione di 13 nuove unità ma anche su altri presunti atti illeciti che avrebbero segnato una vera e propria stagione dei veleni all’interno del corpo. Per l’accusa, Paccione, avrebbe “instaurato un regime” e chi si fosse dissociato sarebbe stato vessato. E poi i “concorsi farsa per spartirsi la torta” - così li definirono gli inquirenti - dove più che la bravura sarebbe contata la spinta e lo spessore del “padrino”. «Un’elezione più che un concorso» - si disse sin dall’avvio dell’indagine - per cui s'ipotizzò che per l’avanzamento di carriera e l’assunzione di nuove unità ci fosse stata una regia che avrebbe deciso molti dei vincitori ancor prima dell’esito delle prove. E così - secondo quanto sostenuto dal pm - per diversi candidati gli esami sarebbero stati una formalità, a prescindere dai meriti. Il concorso esterno era importante anche per chi non si classificava ai primi posti: i forestieri, infatti, avvicinandosi a casa dopo qualche tempo, avrebbero lasciato il posto libero a chi seguiva in graduatoria. Tra gli imputati anche il comandante della stazione dei Carabinieri di Andria Salvatore Garbetta, assolto per prescrizione, che avrebbe raccomandato la figlia, assolta con formula piena. «Sono soddisfatto per il lavoro svolto; un particolare plauso va alla Polizia di Andria ed in particolare all’ispettore Michele Sergio» - ha dichiarato il pm Maralfa appena conclusasi l’udienza.

Abuso d’ufficio e falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici, soppressione, distruzione e occultamento di atti e tentata truffa aggravata: sono le accuse per le quali il giudice per le udienze preliminari del Tribunale di Bari, Antonio Lovecchio, ha rinviato a giudizio otto persone, dipendenti e funzionari del Comune di Acquaviva delle Fonti, scrive Pasquale di Benedetto su “Notizie on line”. Furono coinvolte in una inchiesta condotta dalla Procura e dai carabinieri della Compagnia di Gioia del Colle. Le indagini portarono nel marzo 2004 all’emissione di 5 ordinanze di custodia cautelare agli arresti domiciliari e a 4 avvisi di garanzia. Sotto accusa il concorso per l’assunzione di quattro vigili urbani (poi diventati dieci per effetto dello scorrimento della graduatoria e dei vuoti di organico appositamente creati), bandito dall’Ente nel 2000 quando era retto da un commissario. Tutto partì da alcuni esposti anonimi. L’udienza era prevista per il 5 giugno quando davanti alla 1° Sezione penale del Tribunale. A quella data compariranno Antonio Orofino, 65 anni, segretario generale che presiedeva la commissione d’esame, il comandante della Pm Giovanni Centrone, 40, il dirigente dell’Ufficio Affari Generali, Maria Saveria Colamonico, 56, l’istruttore amministrativo, Anna Maria Labate, 52, il maresciallo dei vigili urbani e istruttore Franco Finizio, 62, e il figlio Umberto, 36, anche lui nella Pm, Donato Savino, 53, e Maria Assunta D’Ambrosio, 41. Il nono imputato Rosa Maria Padovano, 44 anni, è stata ammessa al processo con rito abbreviato che comincerà il 12 giugno. Secondo l’accusa i componenti della commissione, oltre a non rispettare alcune procedure (mancanza di timbri e firme), si adoperarono per modificare i voti, sostituire le pagine delle prove d’esame per migliorare il risultato di 7 concorrenti su un totale di 112 partecipanti. Alcuni documenti sarebbero stati distrutti e i verbali falsificati in modo grossolano per facilitare figli, parenti e amici. Furono anche manipolati i files di alcuni computer del Comune. Addirittura un verbale di multa ad una automobilista sarebbe stato distrutto per le minacce di quest’ultima di rivelare le irregolarità del concorso. Alcune anomalie dei documenti furono riscontrate dalle perizie dei Ris di Roma.

Tre anni e mezzo di attesa, richieste di archiviazione, imputazioni coatte, impugnazioni davanti alla Cassazione, un'unica inchiesta che s'è fatta uno spezzatino di ben cinque differenti fascicoli, ma alla fine il concorso truccato per un posto da agente nella polizia locale di Como finirà davanti al giudice, scrive Paolo Moretti su “La Provincia di Como”. Il 20 aprile 2011 il comandante dei vigili urbani di Como, Vincenzo Graziani, il capo di gabinetto del Comune, Tullio Saccenti, sua sorella Alessandra e la funzionaria della Regione Lombardia, Antonella Rosati, dovranno comparire nell'aula delle udienze preliminari per rispondere dell'accusa di falso ideologico. A luglio, invece, sarà la volta di Bruno Polimeni, accusato di violazione del segreto d'ufficio, presentarsi davanti al giudice delle udienze preliminari. Un reato, quello contestato al segretario dell'assessore alla Sicurezza Francesco Scopelliti (finito a processo per false dichiarazioni a pubblico ministero), che sarebbe stato commesso in concorso con Tullio Saccenti la cui posizione è però stata stralciata per una proposta di patteggiamento poi ritirata. I fatti risalgono al novembre 2007 quando, alla vigilia della prova scritta del concorso per un vigile urbano da assumere alle dipendenze di Palazzo Cernezzi, i segretissimi temi delle tracce della prova stessa vengono diffusi ad alcuni concorrenti, ovvero gli iscritti a un corso di preparazione organizzato da una delle sigle sindacali del corpo di polizia locale. Si scopre che a diffondere le tracce è stato Polimeni, il quale le avrebbe sapute da Tullio Saccenti, componente della commissione d'esame. Oltre al capo di gabinetto di Palazzo Cernezzi gli altri esaminatori erano Graziani, Antonella Rosati e la sorella dello stesso Saccenti, segretaria della commissione: sono tutti finiti nei guai a causa di un errore nella correzione delle prove di esame. Un'interpretazione sbagliata del regolamento ha infatti costretto il comandante dei vigili a rivalutare le prove e a ricorreggere alcune di esse. Gli altri componenti hanno acconsentito che Graziani rimettesse mano sugli elaborati delle prove scritte, firmando successivamente il verbale che attestava la loro presenza fisica alla correzione stessa. Così facendo hanno commesso il reato di falso, per aver «offeso l'interesse collettivo alla veridicità degli atti pubblici nonché la finalità probatoria cui l'atto deve adempiere». Parole scritte nero su bianco da un giudice delle indagini preliminari al quale la procura aveva chiesto di archiviare le accuse per tutti quanti, e che invece ha ordinato l'imputazione coatta perché convinta dell'esistenza del reato. La parola - su questo episodio - ora passa al gup Alessandro Bianchi. Mentre per Polimeni si dovrà attendere luglio. A fatica, ma l'ora della verità sul grande pasticcio, tre anni e mezzo dopo, sembra finalmente avvicinarsi.

Avrebbero aiutato due esaminandi a sostenere gli esami per vigile urbano: sono i due comandanti della polizia locale di due comuni friulani e un dipendente di una delle due strutture arrestati dai Carabinieri di Pordenone, scrive Maurizio Pertegato su “Pordenone Oggi”. Si tratta di Luigino Cancian e Leonardo Zucchiatti, rispettivamente comandante della polizia municipale di Sacile e comandante della Polizia municipale di San Daniele del Friuli (Udine), e di Francesco D'Angelo, in servizio nella sede di Pordenone. Nella stessa inchiesta risultano indagati due candidati, L.S. 28 enne di Udine e F.A. 39enne di Oderzo, messi a conoscenza delle prove da sostenere. L'arresto è l'epilogo di mesi di indagini, durante le quali gli inquirenti hanno accertato evidenti favoritismi nello svolgimento delle prove per un posto di agente della polizia locale, promosso dal Comune di Porcia nel marzo scorso. Nei fatti, secondo i militari dell'Arma, il comandante della polizia locale di Sacile, Zucchiatti, nella veste di componente della commissione esaminatrice, avrebbe rivelato le tracce delle prove scritte e orali a Cancian e D'Angelo, 'padrini' di due candidati che sono stati identificati e denunciati. "Il concorso - è stato spiegato nella Caserma dei Carabinieri, dal colonnello Walter Rossaro, comandante del Reparto operativo provinciale, nel corso di una conferenza stampa, - prevedeva l'assunzione indifferentemente nei Comuni di Porcia, Caneva e Brugnera. Soprattutto, però, la graduatoria finale avrebbe potuto essere utilizzata da altri enti locali del comparto unico del pubblico impiego regionale per la copertura di posti vacanti nelle proprie dotazioni organiche e in questo senso si stavano muovendo diversi Comuni per fronteggiare le carenze di personale delle proprie polizie locali". Al concorso hanno partecipato 137 concorrenti provenienti dal Friuli Venezia Giulia e dal Veneto, ne sono stati ammessi 13 alla prova orale e i vincitori sono stati 11. L'esito dello stesso rimane, per ora, sospeso. "Il perno centrale dell'indagine - ha aggiunto il comandante Rossaro - è risultato Luigino Cancian che, grazie alla sua posizione nell'ambito della commissione esaminatrice del concorso, avrebbe raccolto le raccomandazioni e fornito di volta in volta le tracce delle prove scritte e orali ai 2 candidati indagati attraverso gli "sponsor" degli stessi, il comandante della Polizia municipale di San Daniele del Friuli e il sottufficiale della Polizia municipale di Pordenone, zio di uno dei due candidati". "L'attività di Cancian - ha concluso - da noi documentata e ripresa nei 2 mesi d'indagine, ha consentito a L.S. di superare l'esame collocandosi utilmente in graduatoria, mentre F.A., nonostante tutti gli interventi sostenitori messi in atto durante l'ultima prova orale, non è riuscito a superare l'esame per gravi lacune nella preparazione, sia pure fosse a conoscenza delle domande".  

Assunti in nove, il giorno dopo aver superato l’ultima prova. Nove fra parenti di alcuni amministratori pubblici, o molto vicini a dirigenti di Enti, ed ex candidati alle amministrative di Avezzano. Tutti chiamati a indossare le divise da vigile urbano, racconta Roberto Raschiatore su “Il Centro”. Questo quanto denunciato in una sessantina di esposti depositati in Procura o in una serie di scritti comparsi su Facebook e su alcuni siti web. Da qui l’inchiesta aperta dal procuratore Vincenzo Barbieri sul concorso per agenti di polizia municipale che si è svolto nel Comune di Ovindoli. In pratica, tutti coloro che non hanno superato le prove – i concorrenti erano 65 – si sono ribellati. Truffa aggravata ai danni dello Stato, abuso d’ufficio e falso sono le ipotesi di reato contenute nel fascicolo della Procura. Accuse presunte e tutte da verificare. Anche per questo i carabinieri della polizia giudiziaria hanno acquisito una serie di documenti negli uffici del Comune di Ovindoli e nella sede della Provincia all’Aquila. Si sta indagando anche sulla commissione chiamata a esaminare i candidati. Al momento non ci sono avvisi di garanzia. Il concorso in questione si è svolto nella sala del Magnola Palace Hotel. Il 20 dicembre dell’anno scorso con un quiz a risposta multipla (40 domande). Il 27 dicembre, poi, la prova orale. In base alle denunce, ci sarebbe stata una serie di irregolarità, con un fotocopiatrice inceppata durante la prova (secondo alcuni concorrenti il fatto ha causato anomali ritardi). L’altra anomalia sarebbe legata alla data delle assunzioni, esattamente il giorno dopo avere concluso il concorso. Gli investigatori stanno cercando riscontri alle accuse mosse dagli esclusi. Ma cosa c’entra il Comune di Avezzano con quello di Ovindoli? La Procura ipotizza che dalla graduatoria della località turistica marsicana, che resterà in vigore per tre anni, potranno attingere altri Enti pubblici. Per tale motivo sempre la magistratura avezzanese ha messo sotto la lente d’ingrandimento i concorsi svolti in passato da altre amministrazioni comunali del comprensorio.

CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI. LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.

Signore Onorevole Cittadino Parlamentare,

avrei bisogno per un attimo della sua attenzione. Dedichi a me un suo momento,così come io dedico le mie giornate alle vittime di mafia e delle ingiustizie. Questa mia segnalazione non è spam, né tantomeno l’istanza di un mitomane o di un pazzo e quindi da cestinare.

Sono il dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, riconosciuta dal Ministero dell’Interno come associazione antiracket ed antiusura, e scrittore-editore dissidente, che proprio sulle varie tematiche sociali ha scritto 50 libri letti in tutto il mondo facenti parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono dal dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

Mi rivolgo a voi perché nuovi, in quanto i parlamentari delle legislature precedenti non si sono mai degnati di dare dovuto  riscontro alle mie segnalazioni di interesse pubblico. Nell’ambito della mia attività sempre io ho dato risposte ai miei interlocutori pur se a volte erano persone disperate e fuori di testa e quindi pretendenti risposte che io, senza potere, potessi dare.

Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo.

Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato." Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti.

Il sistema di abilitazione truccato riguarda tutte le professioni intellettuali: magistrati, avvocati, professori universitari, giornalisti, ecc. La domanda che ci si dovrebbe porre è: dov’è il trucco?

COMMISSIONI D’ESAME: con la riforma del 2003, (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180), dopo gli scandali e le condanne sono stati esclusi dalle commissioni d’esame i Consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, competenti per territorio, mentre i Magistrati e i Professori universitari non possono correggere gli scritti del loro Distretto. Le commissioni locali fanno gli orali e vigilano sullo scritto, mentre gli elaborati sono corretti da altre commissioni estratti a sorte. Questa riforma, di fatto, mina la credibilità delle categorie coinvolte. Le Commissioni  e le sottocommissioni hanno un diverso metro di giudizio, quindi alla fine bisogna affidarsi anche alla buona sorte per avere una commissione più benevola. Naturalmente, le Commissioni del nord continuano ad avere un atteggiamento pro lobby, limitando l’accesso all’avvocatura al 30% circa dei candidati, per paura che i futuri avvocati del sud emigrino al nord. A riguardo ci sono state interrogazioni scritte al Ministro della Giustizia da parte di deputati (n. 4-10247, presentata da Pietro Fontanini mercoledì 16 giugno 2004 nella seduta n. 478 e n. 4-01000 presentata da Silvio Crapolicchio mercoledì 20 settembre 2006 nella seduta n. 038). Dubbi sono sorti anche sul modo di abbinare le commissioni. Il deputato lucano Vincenzo Taddei (PdL) ha presentato un’interrogazione scritta al Ministro della Giustizia. Il motivo della richiesta di intervento è preciso: per ben tre anni consecutivi, nel 2005, 2006 e 2007, da quando sono entrate in vigore le modifiche sullo svolgimento dell’esame di avvocato, le prove scritte dei candidati della Corte d’Appello di Potenza stranamente sono state sempre corrette presso la Corte d’Appello di Trento con percentuali di ammessi all’orale sempre molto basse (nel 2007 circa il 18%).

LE TRACCE: sono conosciute giorni prima la sessione, tant’è che il senatore Alfredo Mantovano ha presentato una denuncia penale ed una interrogazione al Ministro della Giustizia (n. 4-03278 presentata il 15 gennaio 2008 Seduta n. 274).

INIZIO DELLE PROVE: la lettura delle tracce avviene secondo le voglie del Presidente della Corte d’Appello, che variano da città a città. Nel 2006 la lettura delle tracce a Lecce è stata effettuata alle ore 11,45 circa, anziché alle 09,00 come altre città. In questo modo i candidati hanno tempo di farsi dettare le tracce e i pareri sui palmari e cellulari, molto prima della lettura ufficiale.

IL MATERIALE CONSULTABILE: nel 2008, tra novembre e dicembre il caos. Se al concorso di magistratura succede di tutto, a quello di avvocatura è ancora peggio. Due concorsi diversi, stessa sorte. Niente male per essere un concorso per futuri magistrati ed avvocati. Niente male, poi, per un concorso organizzato dal ministero della Giustizia. Dentro le aule di tutta Italia, per il concorso di avvocati che si svolge in ogni Corte d'Appello italiana, è entrato di tutto: fotocopie, bigliettini con possibili tracce e, soprattutto, palmari e cellulari. Ma sul concorso in magistratura svolto a Milano c’è ne da parlare. Sopra i banchi i codici «commentati» vietati, con il timbro del ministero che ne autorizzava l'utilizzo. Relazione pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia e protocollata con il n. 19178/2588 del 24/11/2008, in cui il presidente denuncia l'atteggiamento «obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore della Polizia di Stato, trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima». Eppure le regole dovevano essere più rigide. Dovevano esserci più controlli. Era stato assicurato dal ministero della Giustizia. Con tanto di sanzioni e espulsioni.

IL MATERIALE CONSEGNATO: per norma si dovrebbe consegnare ogni parere in una busta, contenente anche una busta più piccola con i dati del candidato. Ma non è così. Le buste con i dati si possono aprire prima della lettura degli elaborati. A Roma, venerdì 13 marzo 2009, alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 al concorso di notaio si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Si è visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”.

CORREZIONE DEGLI ELABORATI: la legge 241/90 e il Ministero della Giustizia dettano le regole in base alle quali si deve svolgere la correzione, per dare i giudizi. Essi attengono alla rappresentanza delle categorie degli avvocati, magistrati e professori universitari, oltre all’attenzione data alla sintassi, grammatica, ortografia e sui principi di diritto del parere dato.

Cosa fondamentale, la legge regola la trasparenza dei giudizi e la Costituzione garantisce legalità, imparzialità ed efficienza.

Di fatto, le commissioni da sempre adottano una percentuale di ammissibilità, che contrasta con un concorso a numero aperto: 30% al nord, 60% al sud.

Di fatto, le commissioni sono illegittime, perché mancanti, spesso, di una componente necessaria.

Di fatto, i tre compiti non sono corretti, ma falsamente dichiarati tali, perché sono immacolati e perché non vi è stato tempo sufficiente a leggerli. (3/5 minuti per elaborato: per aprire la busta con il nome e la busta con l’elaborato, lettura del parere di 4/6 pagine, correzione degli errori, consultazione dei commissari per l’attinenza ai principi di diritto, verbalizzazione, voto e motivazione).

Di fatto, i voti dei tre elaborati sono identici e le motivazioni sono mancanti o infondate. Su tutti questi notori rilievi vi è stata interrogazione presentata dal deputato Giorgia Meloni (n. 4-01638 mercoledì 15 novembre 2006 nella seduta n.072). Oltre che quella n. 4-01126 presentata da Giampaolo Fogliardi mercoledì 24 settembre 2008, seduta n.054, e quella n. 4-07953 presentata da Augusto di Stanislao mercoledì 7 luglio 2010, seduta n.349. Illegale ed illegittimo è anche il ritardo con cui sono consegnate dalle commissioni di esame le copie degli elaborati, al fine di impedire la presentazione in termini dei ricorsi al Tar, in quanto la maggior parte di questi ricorsi sono accolti dalla giustizia amministrativa. Solo, però, se presentati in modo ordinario, in quanto le commissioni impediscono l’accesso al beneficio del gratuito patrocinio.

Di fatto, il Ministero non risponde alle interrogazioni parlamentari, né ai ricorsi dei candidati. Le denunce penali contro gli abusi e le omissioni, poi, sono gestite dai magistrati, componenti delle stesse commissioni contestate, per cui le stesse rimangono lettera morta.

Di fatto, gli ispettori in loco del Ministero della Giustizia sono componenti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, che come tali non possono far parte delle Commissioni, in quanto dalla riforma del 2003 sono stati esautorati per il loro comportamento.

Di fatto, alcuni candidati superano l’esame al primo tentativo. Chi presenta le denunce penali circostanziate e provate, invece, deve rinunciare a causa delle ritorsioni. Sulla home page di www.controtuttelemafie.it al link dossier vi sono tutti gli atti giudiziari di riferimento.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? 

Come dicevo, ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti.

Categoria di sfruttati sono i praticanti avvocati: sono gli schiavi degli studi legali, pagati una miseria, quando sono pagati, per fare i lavori burocratici necessari per preparare le cause. Ritirare i documenti nei tribunali o dai giudici di pace, chiedere atti. Le agenzie si farebbero pagare 10-15 euro, per ogni atto: ma perché spendere questi soldi quando un praticante può farlo gratis e nessuno controlla. Quella degli avvocati è una casta che non può essere scalfita dal vento delle liberalizzazioni. In teoria dovrebbero essere pagati, dagli studi, durante il praticantato. In pratica, devono pagare l’ordine forense e sperare solo di passare l’esame di Stato. Nel 2012 si sono create 500.000 nuove partite Iva segno che è il mercato che non assume più a contratto per pagare meno le persone.

“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, lo dice la Costituzione. Repubblica e lavoro sono, stando al dettato della suprema Carta, due cardini dello Stato italiano. Il verbo fonda non è casuale ed in esso echeggia il motto popolare per cui il lavoro nobilita l’uomo. Lavoro vuol dire produzione e compenso, equivale a disponibilità economica e affermazione sociale e morale. In questo senso lavorare significa, in una massima esemplificazione difficilmente contestabile, null’altro che vivere; del resto è un fatto non contestabile che più si lavora meglio si vive. Naturalmente nel rapporto tra lavoro e vita non è ininfluente la qualità del lavoro: un buon lavoro, sufficientemente retribuito e abbastanza soddisfacente concorre all’umana soddisfazione sino al punto di rendere felice l’uomo lavoratore. Ma cos’è la felicità? È il buon vivere. Vive bene chi fa ciò che ama, chi dispone di denaro a sufficienza per sopperire con decoro alle esigenze personali e familiari. Vive bene chi non subisce l’umiliazione della miseria e la pena della fame. Lavoro e buon vivere camminano di pari passo, diversamente dove non c’è lavoro o c’è crisi si fanno spazio stenti e difficoltà e la qualità della vita si abbassa. “Presa Diretta”, trasmissione di inchiesta di Rai 3, domenica 17 marzo 2013 ha acceso finalmente i riflettori sugli stenti e le difficoltà di una delle categorie professionali più vessate d’Italia: i praticanti avvocati. È praticante avvocato il laureato in giurisprudenza che, concluso il percorso di laurea, apprende i segreti della professione forense sotto la guida di un cosiddetto Dominus, compiendo un iter di preparazione all’esame di Avvocato (esame indispensabile per l’iscrizione nel magistrale albo degli avvocati). Partiamo da un presupposto indefettibile: è giusto chiarire che ogni albo, quello degli avvocati come quello dei praticanti, ha i suo costi, naturalmente a carico dell’iscritto. L’albo deve essere sostenuto dai suoi iscritti che di anno in anno pagano una “tassa” meramente finalizzata a “custodire molti nomi professionali nell’albo stesso”. La “tassa” condiziona la qualifica professionale certificata dall’iscrizione all’albo e di fatto deve essere versata, ciò malgrado il fatto che la “citazione all’interno di un albo” non assicuri di per sè alcuno spazio professionale e quindi non assicuri nessun guadagno certo. Le telecamere di “Presa Diretta” immortalano i 4mila praticanti avvocati che alla Fiera di Roma tentano il grande salto dall’albo dei praticanti a quello degli avvocati, salto di qualità per il quale è appunto indispensabile passare il famigerato esame di Stato. 4 mila solo a Roma tra migliaia di candidati sparsi per ogni Corte di Appello della penisola. Dopo la laurea, legalmente conseguita presso le Università per gli Studi del nostro Paese, i giovani laureati in giurisprudenza non sono avvocati e nemmeno praticanti. Di fatto per raggiungere il traguardo dell’avvocatura il neo laureato deve passare faticosamente per la trafila della pratica forense. Legalmente l’istituzione della pratica forense nasce con l’intento nobile di offrire ai neolaureati una piattaforma operativa funzionale all’acquisizione delle competenze professionali. La legge dice che il praticante avvocato, guidato da un avvocato di esperienza, cosiddetto Dominus, deve esercitare l’attività professionale per 18 mesi sotto forma di praticantato presso uno studio legale. I primi 6 mesi di pratica forense non possono essere retribuiti, la legge stessa vuole che siano gratis, diversamente i restanti 12 andrebbero retribuiti: l’avvocato dovrebbe pagare il praticante. Il compenso è però un fatto sconosciuto ai praticanti avvocati, e così, per una prassi radicata, nessun praticante riceve alcun compenso. In questo modo giovani divengono come “manovalanza gratuita” alla mercé degli avvocati e, pur svolgendo mansioni lavorative ampie, non ricevono alcuna retribuzione. “Presa Diretta” denuncia che dei 4 mila laureati sotto esame alla Fiera di Roma solo il 30% passerà l’esame, tutti gli altri resteranno praticanti … nel migliore dei casi lo saranno almeno per un anno ancora. Dinnanzi agli uffici dei Giudici di Pace si incontra il popolo dei praticanti più “sfruttati” d’Italia. “Presa Diretta” descrive la lunga giornata tipo dei praticanti sempre a piedi … sì a piedi! Perché senza un dignitoso compenso non c’è benzina per le quattro ruote e i chilometri si consumano con scarpe comode e faldoni tra le braccia, il tutto condito da molte speranze e tanta pazienza. Da sempre si dice che certe professioni sono “Caste”, circoli elitari chiusi in districabili intrecci di poteri familiari. Ed ecco che ritorna un vecchio grido di libertà: liberalizzazione delle professioni e abolizioni degli albi professionali. Tra i due scandali, quello dei giovani sfruttati e lo choc della rinuncia agli albi, l’abolizione delle classi professionali potrebbe essere il male minore, c’è un unico rischio: il merito potrebbe trionfare sul nome e i meritevoli potrebbero cambiare il sistema Italia. Tutto sommato però è probabilmente giunto il tempo di correre questo grande pericolo. “Presa Diretta”, nella puntata andata in onda domenica sera del 17 marzo 2013 con il titolo “Controriforma”, pur nelle sue intenzioni di criticare il Ministro Elsa Fornero e la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori con la creazione di nuovo precariato, ha scoperto, però di fatto, il vaso di Pandora rivelando anche che il medesimo lavoro svolto gratuitamente (o quasi) dai praticanti avvocati è fornito pure da agenzie e delegati. Ma chi sono queste agenzie? Si tratta di agenzie di servizio che disbrigano le pratiche burocratiche dietro compenso. Di fatto effettuano i medesimi adempimenti dei praticanti avvocati ma non lo fanno gratis, prendono 10\15 euro per ciascuna pratica … non è un caso che i praticanti siano molti e le agenzie poche, a conti fatti un praticante fa risparmiare ad un avvocato 50\60 euro ogni 5\6 pratiche adempiute. Gli uffici dei Giudici di Pace aprono i battenti alle 9:00 ma le prenotazioni per gli adempimenti partono molto prima per accaparrasi il numero 1 si può arrivare anche alle 6:00. Naturalmente le lunghe code sono animate dai praticanti e qualche volta dalle agenzie, i primi lavorano nella speranza di esercitare un giorno una professione, le seconde lavorano dietro compenso economico, ovvero lavorano, nel senso proprio del termine, per guadagnarsi il pane. Intanto Facebook pullula di praticanti avvocati disperati. Lo Stato non li vede e pare ignorare anche le 500mila nuove partite iva aperte in Italia. C’è da aggiungere, però, che gli stessi praticanti (ben pochi per dire la verità, gli altri omertosamente tacciono) che oggi gridano allo sfruttamento e alla partecipazione ad un esame di abilitazione truccato, sono quelli che domani saranno i dominus che con unghie e denti difenderanno i loro privilegi castali. Intanto in Italia cresce il numero delle partite Iva e decresce il numero dei contratti di lavoro dipendente, questi due fenomeni sono slegati? Il datore lavoro dinnanzi ad un professionista pretende che questi abbia una sua partita iva e che si faccia pagare attraverso di essa, in questo modo riduce le assunzioni con contratto dipendente, al momento più sconvenienti economicamente. La partita Iva diventa un escamotage per pagare di meno il lavoro ma toglie nel contempo garanzie al lavoratore e di fatto svilisce il disposto costituzionale che fonda sul lavoro il nostro bel Paese. Questo vale per tutti, ma non per i praticanti avvocato, che senza abilitazione non possono aprire alcuna partita iva. Saranno per sempre dei lavoratori sfruttati o malpagati ed a nero, con evasione fiscale e contributiva da parte di una categoria che si vanta di tutelare la legalità. Già, come i fratelli magistrati.

ASSISTENTI PARLAMENTARI COL TRUCCO E L’IMPORTANZA DI AVERE UN QUESTORE IN PARLAMENTO.

La denuncia viene da Roberta Lombardi, capogruppo e portavoce M5S alla Camera: «Ecco cosa succede alla Camera con due questori del Pdl e uno del Pd. Alla Camera dei Deputati ci sono persone che, pur non avendo fatto il concorso per lavorare nel pubblico impiego, hanno diritto a una strana specie di posto fisso, pagato con fondi statali, ma regolato da contratti di natura privatistica che vengono puntualmente rinnovati allo scadere di ogni legislatura. Questa prassi, iniziata nel 1993 e ormai consolidata, sopravvivendo all’avvicendarsi dei governi pdl-pd meno elle, prevede che i soldi dedicati al pagamento di queste persone provengano direttamente dal bilancio della Camera. Sulla base, infatti, dell’ultima delibera adottata venerdì 21 dicembre del 2012 dall’Ufficio di Presidenza, per il personale compreso nell’allegato A link (103 persone) “ciascun gruppo parlamentare destini almeno il 25% del contributo complessivo ad esso spettante all’erogazione degli emolumenti al personale in questione”. Quand’anche il gruppo parlamentare non dovesse assumerli, ci sarebbe una sorta di sanzione. La delibera specifica che: “nel caso in cui il gruppo non assuma una o più unità di personale ad esso spettanti, si prevede la parziale decurtazione del contributo annuale e il contestuale trasferimento del medesimo ammontare al gruppo misto, per fronteggiare gli oneri conseguenti all’assunzione del dipendente che non abbia trovato collocazione presso altro gruppo”. Quindi, se un gruppo parlamentare non assume un certo numero di queste persone “il contributo è ridotto in misura pari ad euro 65.000 su base annua per ciascun dipendente non assunto” e tali soldi finiscono al gruppo misto della Camera, il quale, in questo caso, dovrà assumere coloro che non sono stati scelti dai partiti. Queste 103 persone avranno diritto al mantenimento dello stipendio precedente. In aggiunta, ci sono altre 506 persone (i cui nomi sono contenuti nell’allegato B), per lo più assunte dai partiti negli anni passati, che avrebbero difficoltà a trovare un nuovo impiego. L’ufficio di Presidenza della Camera dei Deputati ha pensato bene, lo scorso dicembre, di deliberare che “ciascun gruppo è tenuto ad assumere almeno un dipendente inserito nell’elenco di cui all’allegato B alla presente deliberazione per ogni 5 deputati appartenenti al gruppo medesimo. A tal fine il gruppo è tenuto a destinare all’assunzione dei soggetti dell’allegato B almeno il 30% dell’ammontare complessivo annuo del contributo ad esso assegnato”. Di questi 506 nomi, almeno 126 troverebbero collocazione. Se ne deduce che il 55% del bilancio dei gruppi parlamentari viene ad essere destinato per pagare gli stipendi di queste persone fortunate, anche se i gruppi stessi non volessero usufruire delle relative prestazioni professionali. Sicuramente, tra costoro, ci sono seri professionisti con molti anni di esperienza alle spalle. Questo sistema, però, non consente di verificarne con esattezza identità (accanto ai nomi non è presente la data di nascita) e curricula (non presenti negli allegati A e B). La mancanza di informazioni indispensabili come la data di nascita, non consente di risalire con certezza a molti dei nomi noti contenuti, in particolare, nell’allegato B. Analizzando proprio alcuni di quei profili, tra i 506 spuntano nominativi “illustri” come quelli degli ex parlamentari, Giorgio Stracquadanio, Rino Piscitello, e Roberto Rao, ma anche nomi di deputati in carica come Sestino Giacomoni o addirittura un sottosegretario all’Economia ancora in carica come Gianfranco Polillo. Ciò vale a dire che se i partiti, ancora una volta graniticamente coalizzati, impediranno al Movimento di avere almeno un questore, continueranno ad esistere cittadini di serie A, che potranno lavorare per il Parlamento, a prescindere dalle loro effettive competenze, e cittadini di serie B che, pur avendone tutti i titoli, non potranno essere impiegati dai gruppi parlamentari.»

No si confonda però, l’assistente parlamentare con il collaboratore parlamentare, definito portaborse.

Così fanno la cresta sui portaborse, spiega Cristina Cucciniello su “L’Espresso”. Ogni onorevole prende 3.600 euro in più al mese per assumere un collaboratore. Ma solo un terzo di loro fa un contratto regolare: tutti gli altri pagano in nero una cifra che raramente supera i mille euro. E tengono il resto per sé. Ecco perché poi qualcuno di questi precari si stufa e nascono fenomeni come "SpiderTruman". Ce n'è uno che ha dovuto scrivere le partecipazioni di nozze per conto del suo onorevole, prossimo al matrimonio. Ce n'è un altro che ha supervisionato l'allaccio delle utenze nella casa romana del parlamentare, prima che fosse inaugurata. E ce n'è un terzo che viene spedito ogni giorno a fare la spesa, con la lista delle vivande da acquistare scritta dalla moglie del senatore. E poi c'è chi si ribella. Come il misterioso "SpiderTruman" -pseudonimo di un sedicente ex portaborse che ha raccolto centinaia di migliaia di seguaci raccontando su Facebook piccoli e grandi privilegi dei parlamentari. Tecnicamente i portaborse si chiamano "collaboratori parlamentari", da non confondersi con gli "assistenti parlamentari" che sono dipendenti della Camera e del Senato, insomma i "commessi" con la coccarda tricolore al braccio. I "collaboratori" invece sono figure indefinite, prive di un vero riconoscimento e inesistenti dal punto di vista dell'inquadramento professionale. E pertanto soggetti spesso ad abusi ed angherie. Come quelli denunciati nel 2009 da Celestina, già portaborse della parlamentare del Popolo delle Libertà, Gabriella Carlucci, che dopo anni di sfruttamento si è rivolta alla magistratura e ha vinto: la Carlucci è stata condannata a risarcire la ex collaboratrice che - pur svolgendo di fatto mansioni da dipendente – riceveva un rimborso di soli 500 euro mensili, rigorosamente in nero. E così adesso un altro portaborse ha deciso di seguire le tracce di Angelina: è uno dei collaboratori di Domenico Scilipoti, che si è appena rivolto all'Ispettorato del Lavoro, per denunciare -presentando una cospicua mole di documenti - le pessime condizioni di lavoro e il misero trattamento economico ricevuto dal suo ex capo. Ma per un paio di portaborse che si rivolgono alla magistratura, tutti gli altri tacciono. O parlano in modo riservato con Emiliano Boschetto, che si è assunto la briga di provare a risolvere i problemi quotidiani dei suoi colleghi ed è ora portavoce del Co.Co.Parl., il coordinamento dei collaboratori pralamentari. Spiega Boschetto: «Ogni deputato prende, in busta paga, 3.690 euro sotto la voce "fondo spese rapporto eletto-elettore". Questa cifra viene erogata dalla Camera indipendentemente dalla rendicontazione della spesa che il parlamentare ne fa. E' questa la voce cui teoricamente attingono i parlamentari per coprire le spese dello staff. Ma la media dei compensi dei collaboratori parlamentari è di circa mille euro mensili lordi, quindi esiste di fatto un gap fra quanto intascato dai parlamentari e la cifra realmente destinata al collaboratore. Molti oroveoli dicono di utilizzare gli altri 2.600 euro per tenere in attività le loro segreterie sul territorio, ma molto spesso non corrisponde al vero, anche perché con l'attuale legge elettorale il rapporto locale fra l'eletto e gli elettori è molto blando». Ma i problemi non sono finiti: «L'altro punto da sottolineare»,dice Boschetto, «è che quella voce in busta paga viene erogata indipendentemente dall'intercorrere o meno di regolari contratti di lavoro tra il collaboratore ed il parlamentare». In altre parole, il deputato si prende tutti i 3.600 euro, poi però non è tenuto a fare un contratto a nessuno, se non vuole. Infatti alla Camera dei Deputati - i dati del Senato non sono noti - solo un terzo dei collaboratori parlamentari ha un regolare contratto. Gli altri, tutti pagati in nero. In pratica, due terzi dei parlamentari violano le leggi sul lavoro e sono correi di evasione fiscale. Per i portaborse non avere un contratto regolare non è solo un problema economico. E' anche un ostacolo pratico, perché senza contratto non viene loro dato alcun badge di ingresso alla Camera, quindi tutte le mattine sono fatti entrare come "ospiti". Senza dire che non tutti i badge sono uguali: «C'è quello bianco, ambitissimo, che consente di entrare ovunque, anche in Transatlantico, tranne che in aula. Quello verde invece non consente l'accesso al Transatlantico e quello marrone vale solo per la sede dei gruppi parlamentari», spiega Gianmario Mariniello, collaboratore di Italo Bocchino. Insomma, anche i collaboratori sono divisi in caste tra loro. E Mariniello, il portaborse di Bocchino, è uno dei "bramini": ha un contratto in regola e un salario dignitoso. «Sono fortunato e un po' tutti nel nostro gruppo lo sono: svolgiamo mansioni in linea con le nostre competenze. Del resto, se Bocchino mi chiedesse di andare a prendere i bambini a scuola, non lo farei. Un conto è il rapporto fiduciario necessariamente esistente fra il collaboratore ed il parlamentare, altro è andare oltre i compiti che ci competono, ricevendo paghe mortificanti». Ma se questa è la situazione, perché tanti accettano di fare i portaborse? Mariniello risponde che a monte c'è «la passione politica, il desiderio di fare carriera, talvolta anche quel sotterraneo scambio sentimentale e sessuale, che ha poi consentito carriere come quella di Nicole Minetti». Più duro Emiliano Boschetto, che parla di «ricatto psicologico» e di «capestro che lega il datore di lavoro e il collaboratore: poiché la nostra non è una figura professionale né definita, né inquadrata, né spendibile su curriculum qualora si volesse cambiare lavoro, la tendenza -passati i 30 anni - è quella di accettare anche condizioni non dignitose perché non si ha scelta». Un circolo vizioso che quando va bene si concretizza in contratti precari, quando va meno bene in rimborsi spese fittizi, quando va male in cinque o sei biglietti da cento euro al mese dentro una busta. Quasi sempre con l'interesse - di entrambi, onorevole e portaborse - a dichiarare il meno possibile al fisco. Eppure cambiare la musica non sarebbe difficile né complicato: basterebbe introdurre la normativa in vigore al Parlamento Europeo, cioè l'erogazione di contributi diretti in presenza di un contratto di lavoro dichiarato e regolare. Insomma, se un parlamentare vuole un portaborse non lo assume lui direttamente, ma lo fa assumere alla sua Camera di appartenenza. Ma se passasse questa regola, gli onorevoli si vedrebbero impossibilitati a fare la cresta sui 3.600 euro che oggi prendono per i loro collaboratori. Difficile che avvenga in un ambientino come quello di Montecitorio dove, racconta Mariniello, «vedo i parlamentari che nel bar della Bouvette vanno via senza pagare la consumazione, è un malcostume generalizzato». Se si dimenticano i 60 centesimi del caffè, difficile che si ricordino di cambiare una norma che porta nelle loro tasche, ogni mese, due o tremila euro in più.

CONTRORIFORMA FORENSE CONTRO I GIOVANI. AVVOCATURA: ROBA LORO IN PARLAMENTO. ALBI ED ORDINI DI STAMPO FASCISTA REITERATI DA LIBERALI E COMUNISTI.

L’attesa è finita: la riforma forense è legge dello Stato. A distanza di ottant’anni, il Senato ha dato il via libera definitivo al testo che rifonda criteri di accesso, svolgimento e sanzioni per il mondo dell’avvocatura in Italia dopo un iter lungo tutta la legislatura. A palazzo Madama, dopo rinvii e anche una sospensione della seduta dovuta all’assenza del numero legale, c’è stata polemica sui “pianisti”, nel corso nella votazione concitata dei 67 articoli, dettati dalla voce del presidente Schifani. Alla fine, però, è passata la nuova riforma forense con ampia maggioranza (a favore anche Idv e Lega Nord) e alcuni sparuti senatori in dissenso dalla linea dei propri gruppi. Una votazione, comunque, storica per l’ordinamento di tutte le professioni legali, che attendevano – e in parte temevano – l’avvento di questo giorno. A fare le spese, sono, infatti, ancora una volta i giovani, con l’istituzionalizzazione (articolo 41) del praticantato gratuito nei primi sei mesi e la possibilità facoltativa, da parte del datore di lavoro, di elargire un compenso a partire dalla settima mensilità. Una misura molto contestata, oggetto anche della pregiudiziale di costituzionalità avanzata da alcuni parlamentari, che hanno già annunciato i ricorsi alla Consulta. Ciò nonostante, il limite ufficiale di praticantato viene stabilito a 18 mesi invece che ai 24 vigenti fino a ieri. Inserito nel testo della riforma forense anche lo spazio di svolgimento di un impiego subordinato contestuale nei mesi di tirocinio, purché non finisca per prendere il sopravvento in termini di carico orario. In contemporanea, poi, è ipoteticamente concesso di svolgere fino a due tirocini, a medesime condizioni di impegno e retribuzione, naturalmente. Passando, poi, a analizzare il nuovo esame di Stato, (articoli 46-49) vediamo come arriverà una valutazione degli elaborati più rigida e approfondita, con la Commissione che sarà chiamata a motivare per iscritto a fianco del testo le proprie annotazioni di carattere positivo o negativo. Sparisce anche la possibilità di portare in sede d’esame testi commentati: gli unici compendi leciti saranno i Codici “nudi e crudi” senza note, esempi o indicazioni di sorta. Chi sgarra, potrà incorrere in un reato specifico creato ex novo proprio in coda alla riforma forense. Ulteriore step di valutazione sarà quello per il conseguimento del patrocinio per le magistrature superiori, come Cassazione o Consiglio di Stato, sostenibile a partire dall’ottavo anno dopo l’iscrizione all’albo oppure dopo cinque di abilitazione. Sul versante specializzazioni (articolo 9) serviranno due anni dall’idoneità per l’iscrizione all’Albo, dove dovrà, peraltro, essere svolto un periodo di formazione mirata al settore prescelto. E veniamo alla parte della riforma che più interessa studi legali e professionisti in proprio. Tanto per cominciare, nella definizione dei compensi, deve assolutamente sparire qualsiasi rimando alle tariffe, specificando, poi, il totale della prestazione nel momento in cui viene richiesta. Quindi, ogni voce di spesa dovrà essere indicata per iscritto, a tutela del cliente. Obbligo di apertura di una polizza assicurativa (articolo 12) in capo al titolare dell’attività, che funga da copertura in sede di responsabilità civile per tutti i soggetti coinvolti nell’attività, e dunque anche per i tirocinanti. Cambiano le giurie per le eventuali sanzioni (art. 53) comminate dal’Ordine nazionale: saranno cinque i membri chiamati a esprimersi – con tre “panchinari” già decisi – in merito a richiami, avvertimenti, censure, sospensioni o radiazioni.

Riforma forense: under 50 penalizzati da logiche logore, vessatorie e masochistiche, scrive Marco Bona su “Altalex”. L’anno 2012 appena archiviato (un’annata pressoché da dimenticare) si è concluso con un ultimo vulnus alla mia attività di (relativamente “giovane”) avvocato: la riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente (l’ultima seduta utile!) dal Parlamento prima di cessare (finalmente!!!) di fare danni. Tra i primi commenti si è affermato che questa sarebbe una “riforma” che “attendavamo da 70 anni” (sic!) e che con questa gli avvocati avrebbero “incassato” un altro “successo” (sic!) in questi mesi di “rivincita dell’avvocatura” (sic!). Si prospetterebbe una “nuova vita dell’Avvocatura” (sic!), con “maggiori opportunità di lavoro per i giovani” (sic!). Insomma, una “buona notizia” (sic!). Gli avvocati sarebbero tornati sul “piedistallo” (sic!) e recupereranno “dignità” (sic!). Per me non è affatto così, ed a leggere i commenti entusiastici del Presidente del CNF Guido Alpa (“orgoglio” e “commozione”, sic!) e quelli positivi dell’O.U.A. sulla “nuova” (sic!) disciplina dell’ordinamento della professione forense non mi ci ritrovo proprio ed anzi avverto viva irritazione: trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non mi viene in alcun modo incontro ed anzi mi penalizza in modo significativo quale avvocato quarantenne, con studio associato inaugurato nel 2011, collaboratori e dipendenti a carico, praticanti ogni anno sottratti all’attività di studio e torchiati a causa di un esame destabile, vessato dallo Stato (tassazione a livelli micidiali, “sistema giustizia” da terzo mondo, contributi unificati disincentivanti la tutela dei cittadini, costi di gestione dello studio oltre ogni soglia immaginabile, leggi e leggine ammazza liquidazione di onorari e costi giudiziali), svenato dalla Cassa Previdenza Avvocati senza alcuna concreta prospettiva di una contro-prestazione commisurata al versato, costretto ad adempimenti burocratici di ogni sorta, defatiganti, dispendiosi a livello di tempo e pure costosi. Si è espressa smisurata soddisfazione per questa “riforma”, senza però farsi i conti con le nostre tasche, con i nostri sudati guadagni e con i nostri quotidiani sacrifici, con gli investimenti (personali ed economici) che dobbiamo fare per rivestire il nostro ruolo, con l’enorme dispendio di tempo che ci troviamo ad investire nella nostra attività, con i problemi concreti che ogni giorni affrontiamo, con i nostri concorrenti (sempre più attrezzati), con la sleale concorrenza operata da diversi colleghi (quelli che evadono il fisco, che non sanno neppure cosa sia il “modello 5”, che sfruttano la manodopera di praticanti e giovani avvocati), con il dramma di un esame d’accesso assurdo e che penalizza sia i giovani, che effettuano un tirocinio effettivo, e sia gli studi legali che li impiegano con serietà, con una serie di “riforme” estremamente penalizzanti per i cittadini che vogliano accedere alla giustizia. Altro che opportunità e “nuova vita” per la professione forense, altro che “rilancio”, altro che brillante futuro per i giovani colleghi (e pure per quelli che hanno sorpassato la soglia dei 40): questa è l’ennesima dimostrazione che viviamo in un Paese governato da vecchi (e destinato ad essere in futuro condotto dai loro portaborse), asfissiato da logiche di casta e corporative. Un Paese che non sa guardare in faccia alla realtà, che non concepisce la concorrenza, che ragiona secondo schemi trapassati, che è destinato a divenire sempre più provinciale e periferico, incompreso anche da chi eppure contribuisce a farlo sopravvivere. Ecco qui di seguito, ancorché per sommi capi, alcune delle ragioni che mi fanno detestare vivamente questa “riforma” e che mi inducono a ritenermi del tutto inadeguatamente rappresentato dall’“ordinamento forense” (CNF in testa). Preciso: non vi è alcuna particolare ideologia, alcuna preferenza politica o altro recondito motivo dietro queste mie critiche: soltanto mero pragmatismo ed elevata preoccupazione per la preservazione concreta del nostro ruolo di difensori/promotori di diritti, ciò in un’Italia dove si fanno tante parole e le si riveste adducendosi grandi concetti in realtà per difendere orticelli, poltrone e privilegi ottocenteschi.

1) Art. 1 («Disciplina dell’ordinamento forense»)

Certamente siamo tutti, almeno a parole, fervidi sostenitori dei capisaldi della professione forense ribaditi in questo primo articolo della “riforma”. Peccato, tuttavia, che vi siano sempre state e continueranno a registrarsi significative disparità di trattamento tra avvocati, ciò a seconda delle realtà locali (determinate dai consigli degli ordini) oppure dell’“eccellenza” di alcuni colleghi (tra cui anche noti parlamentari) o anche solo dell’età. Purtroppo anche per l’Avvocatura ci sono mille Italie.

2) Art. 2 («Disciplina della professione di avvocato»)

Per i “comuni mortali” l’accesso all’albo degli avvocati è stato reso ulteriormente un calvario; però la “riforma” si guarda bene dall’eliminare vecchi privilegi, quale quello concesso ai “professori universitari di ruolo, dopo cinque anni di insegnamento di materie giuridiche” che possono iscriversi senza sostenere l’esame di accesso e senza magari essersi mai spellati le mani sui fascicoli. Soprattutto, nonostante i vari proclami e sebbene alcuni commentatori esaltino il punto (chiaramente illudendosi), in concreto non viene in alcun modo garantita agli avvocati l’esclusività delle attività non giudiziali (quindi alcun risultato è stato conseguito a questo riguardo). Infatti: il testo finale della “riforma” si limita laconicamente ad affermare che “l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati”; orbene, per questa via non si sancisce chiaramente l’esclusività e, quindi, non si ha alcuna preclusione di natura normativa opponibile ai concorrenti dell’Avvocatura, sempre più numerosi ed organizzati; e poi chi farebbe rispettare questa supposta e labile “riserva” di attività? Siamo dinanzi al solito “specchietto per le allodole”: tanto fumo, poco arrosto; peraltro, non dovremmo scordarci dei diversi interventi – tra l’altro condivisibili in diritto – preclusivi di interpretazioni estensive di tale disposizione ed anzi tali da renderla costituzionalmente illegittima; in contraddizione con il principio dell’indipendenza, “È comunque consentita l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato …, aventi ad oggetto la consulenza e l’assistenza legale stragiudiziale, nell’esclusivo interesse del datore di lavoro ... Se il destinatario delle predette attività è costituito in forma di società, tali attività possono essere altresì svolte in favore dell’eventuale società controllante, controllata o collegata, ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile”; salvo è poi il super-potere concesso alle associazioni dei consumatori, i cui esponenti (spesso dei colleghi), godendo peraltro di ingenti (e spesso immeritati) sovvenzionamenti pubblici, possono permettersi di tutto (in primis attività promozionali in televisione, sulle radio, su giornali), tutto ciò a discapito di quegli avvocati che si astengono dall’operare sotto le mentite spoglie di associazioni ed enti esponenziali. In breve, rimangono dinanzi a noi, armati come prima, tutti i nostri concorrenti (società di infortunistica, “tribunali” dei pazienti, dei vacanzieri e di altri soggetti, società di recupero credito, società di supporto “tecnico” alle assicurazioni, alle banche ed alle imprese, associazioni dei consumatori variamente denominate, organismi dediti al volontariato, organismi di mediazione e conciliativi, camere di commercio, carrozzieri, ecc.), con la differenza che questa “riforma” ci priva di tutta una serie di strumenti per resistere alla concorrenza e competere sul mercato, oltre vessarci ulteriormente sotto plurimi profili. Verrebbe da osservare come occorra davvero una certa qual propensione al masochismo per elogiarla. Chiariamoci poi su un punto: è del tutto illusorio pensare che oggi, stando al quadro normativo europeo che liberalizza la maggior parte dei servizi professionali e la stessa posizione assunta dalla Corte costituzionale e dalla Cassazione nostrane nel passato, sia giuridicamente e concretamente possibile precludere ai cittadini di rivolgersi a persone e società che operano ormai da diversi decenni e arrivano a loro molto più agevolmente di noi avvocati, tra l’altro presentandosi con accordi economici decisamente più convincenti. Invece di pensare ad introdurre riserve del tutto illusorie ed inattuabili (comunque fuori da ogni realtà praticabile), i lungimiranti “riformatori” della professione forense avrebbero dovuto dotarci di tutti gli strumenti del caso per poter concorrere, per promuovere la tutela dei diritti delle persone al pari dei nostri concorrenti. Insomma: nulla avrà a mutare nella sostanza e continueremo a trovarci costretti a scendere a patti e compromessi con i nostri concorrenti, essendo pure da segnalarsi come diversi colleghi già siano stati soggiogati dagli stessi. Dunque altro che nuove opportunità di lavoro, essendoci viceversa impedito di andarle a ricercare, di promuovere adeguatamente ed attivamente i nostri servizi e le nostre qualità, di fare ricorso ai modelli contrattuali che i nostri concorrenti sono bravissimi ad impiegare. Una semplicissima domanda: in quale realtà vivono i “riformatori” dell’Avvocatura? Evidentemente qualcuno non ha ben afferrato che i privilegi del passato e quelli che si vorrebbe vedere affermati non conducono più da nessuna parte, soprattutto di questi tempi: tentare di rivitalizzarli è soltanto una battaglia di retroguardia, persa in partenza, della quale al massimo possono godere le generazioni più attempate. Ad insistere su politiche volte a preservare od istituire privilegi stiamo solo perdendo tempo prezioso, ciò a tutto vantaggio dei nostri concorrenti (peraltro spalleggiati da soggetti come, per esempio, ABI, ANIA, Confindustria, Confcommercio, Confagricoltura, Confartigianato, Confcooperative, Associazione Generale Cooperative Italiane, nonché da AGCM). Dovremmo invece organizzarci per concorrere sul mercato senza temere confronti di sorta. Ed invero, a questo riguardo, non si è neppure compreso da parte dei nostri rappresentanti come molti di noi (quelli formatisi nell’era degli studi legali fattisi autentiche realtà imprenditoriali) saremmo perfettamente in grado di concorrere, se solo fossimo dotati di tutti gli strumenti del caso. Noi delle nuove generazioni non abbiamo bisogno di privilegi (comunque inaffidabili e destinati a sicure censure), ma necessitiamo di poter giocare – fermo restando il rispetto del decoro professionale (tuttavia modernamente inteso) – la partita in corso. A non voler ragionare in termini di concorrenza favoriamo semplicemente i nostri concorrenti. Ho sopra rilevato che il comma 6 dell’art. 2 della «Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense» («Fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge per gli esercenti altre professioni regolamentate, l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati») non mi sembra norma destinata a conseguire particolari ribaltamenti di prospettiva. Il punto va ulteriormente argomentato in diritto. Questa norma è invero lungi dal potersi interpretare nel senso di garantire agli avvocati una riserva illimitata sulle attività non giudiziali. In primo luogo deve evidenziarsi la differenza corrente, a livello terminologico, tra il comma 6 (che stabilisce la “competenza” degli avvocati relativamente alla consulenza legale e di assistenza stragiudiziale, senza peraltro associare l’aggettivo “esclusiva”) ed il comma 5, ove invece le attività giudiziali sono qualificate come “esclusive” dell’avvocato. In secondo luogo – nondimeno questo è il punto più rilevante – va segnalata, in seno al comma 6, la presenza dell’inciso, decisamente ambiguo e comunque fonte di significative incertezze, per cui la “competenza” dell’avvocato relativamente all’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale opera soltanto “ove connessa all’attività giurisdizionale”. Questo inciso assume senz’altro rilievo centrale, poiché indubbiamente va interpretato nel senso di limitare, in qualche modo, la portata della predetta “competenza” assegnata dalla norma agli avvocati, dovendosi, ad inconfutabile conferma di ciò, considerare, in applicazione dell’art. 12 delle preleggi, come la disposizione in commento, introdotta con un emendamento alla Camera dei Deputati, sia nettamente diversa dalla previsione contenuta nel precedente testo (cfr. Ddl 23 novembre 2010, n. 1198-A) approvato dal Senato in prima lettura, che riservava agli avvocati in via generale l’intero settore stragiudiziale, indipendentemente dalla connessione con l’attività giurisdizionale. Quale sia poi il significato esatto e concreto da attribuirsi all’inciso in questione rimane indubbiamente un autentico mistero, ma potrebbe sostenersi funditus la necessità di un’interpretazione restrittiva, per cui sarebbero da considerarsi “connesse all’attività giurisdizionale” (dal latino iurisdictio, a sua volta derivato da ius dicere) soltanto quelle attività materialmente prodromiche all’instaurazione di un giudizio (si pensi alla “mediazione obbligatoria”, tra l’altro recentemente abrogata dalla Corte costituzionale, all’informativa sulla mediazione facoltativa, o, ancora, a sistemi conciliativi imposti legislativamente per l’avvio della fase giudiziale; si pensi altresì all’acquisizione del mandato alle liti oppure all’informativa da fornirsi al cittadino circa i rischi di un giudizio) oppure tali da incidere su un processo già in corso (come, per esempio, l’assistenza del cliente nel raggiungimento, “fuori udienza” di una transazione tale da mettere fine ad un giudizio in corso). La necessità di un’interpretazione restrittiva può trarsi dalle seguenti considerazioni: in primo luogo, occorre attribuire rilievo al passaggio dai precedenti testi in discussione in Parlamento (che preventivano un’esclusiva generalizzata) alla norma definitivamente approvata (che invece circoscrive l’operatività della “competenza”); in secondo luogo, occorre preservare un significato in capo alla presenza nella lettera della norma dell’inciso in questione, che, latamente interpretato, potrebbe risultare svuotato di ogni portata, ciò in tutta evidenza contrariamente all’intenzione del legislatore di circoscrivere la “competenza” prevista in capo agli avvocati; infine, interpretazioni estensive di tale disposizione potrebbero risultare costituzionalmente illegittime e, comunque, suscettibili di censure alla luce della normativa, innanzitutto di origine comunitaria, sulla concorrenza, censure che, stanti i numerosi precedenti giurisprudenziali legittimanti l’attività stragiudiziale da parte di soggetti diversi dagli avvocati, potrebbero trovare avvallo anche nella giurisprudenza. In definitiva: è indubbio che la norma in commento non sia in alcun modo tale da sancire chiaramente, in capo all’Avvocatura, l’esclusività relativamente a tutte le attività stragiudiziali; sicuramente sostenibile è l’interpretazione restrittiva degli effetti di questa disposizione, sicché il suo futuro, lungi dall’essere già scritto e dal risolversi per certo in favore dell’Avvocatura, sarà determinato dalle risposte che perverranno dalla giurisprudenza (verosimilmente tali da confermare le precedenti posizioni) e dalle autorità/istituzioni, nazionali e non, aventi competenza in materia di concorrenza; la sostenibilità dell’interpretazione restrittiva dovrebbe altresì legittimare - pur con tutte le cautele del caso e ferma restando l’incognita (pur parziale a fronte dai pronunciamenti già intervenuti in materia) costituita dai futuri orientamenti giurisprudenziali - la prosecuzione di attività di consulenza legale e stragiudiziale da parte dei soggetti già ritenuti dalla giurisprudenza di legittimità degni di svolgerle.

3) Art. 5 («Delega al Governo per la disciplina dell’esercizio della professione forense in forma societaria»)

In primo luogo la “riforma” rimette al Governo il potere di legiferare sul punto: eccoci nuovamente dinanzi all’ennesimo rinvio all’Esecutivo, che in questi anni, a prescindere dai suoi cangianti colori politici, ha saputo consegnarci norme frequentemente (se non sempre) deprecabili e, comunque, significativamente avverse alla nostra professione. Ad ogni modo senz’altro condivisibile, nel segno dell’indipendenza e dell’autonomia dell’Avvocatura, è che il Governo debba attenersi al seguente criterio direttivo: “prevedere che l’esercizio della professione forense in forma societaria sia consentito esclusivamente a società di persone, società di capitali o società cooperative, i cui soci siano avvocati iscritti all’albo”. Non vorremmo per certo studi legali “posseduti” da banche, assicurazioni, catene di supermercati, tour operator, società di infortunistica od altro: non tanto per una questione di concorrenza, ma perché salterebbe del tutto l’indipendenza di un numero elevatissimo di colleghi (mi riferisco in particolare agli studi legali di dimensioni ridotte), con ricadute di segno negativo sulla tutela di diritti anche fondamentali. Soprattutto si prospetterebbe il rischio della definitiva conquista del “sistema giustizia” (in primis quanto al suo accesso) da parte dei nuovi (invero neppure tanto nuovi) “regimi di potere”. Viene tuttavia da domandarsi se qualcuno tra gli esimi colleghi, che ci hanno rappresentato nell’iter di approvazione della “riforma”, si sia posto il problema della concorrenza che, ogniqualvolta cerchiamo di competere sul fronte internazionale o con studi stranieri operanti sul nostro territorio, proviene da tali studi, che invece annoverano notoriamente, ancorché non tutti, soci investitori di tutto rilievo che nulla hanno a che vedere con la professione forense. In breve, ancora una volta l’avvocatura italiana si ritrova privata di strumenti concorrenziali di significativa importanza, trascurandosi di considerare la realtà che ci circonda anche in casa. Il nostro si conferma un Paese per vecchi, non già per chi deve affrontare il futuro. Forse sarebbe stato opportuno prevedere delle regole sì rigide ma tali da riequilibrare il divario che ci separa dai concorrenti internazionali (che poi operano anche a casa nostra). Peraltro la norma sembrerebbe così precludere agli avvocati italiani di convergere con colleghi stranieri in forme societarie, annoveranti altresì (con tutte le cautele del caso sul piano delle decisioni) di investitori-soci di capitale, per la gestione di casi internazionali, prospettiva questa del tutto trascurata dai “riformatori” (evidentemente a digiuno delle questioni di case funding delle quali si discute nei consessi internazionali, fatta forse eccezione per i congressi di mera accademia che poco interessano agli avvocati). Discutendosi poi di società, sarebbe stata opportuna una qualche considerazione dei profili fiscali (eppure rilevantissimi).

4) Art. 9 («Specializzazioni»)

L’idea di creare delle forme di accreditamento per gli avvocati, i quali intendano qualificarsi come “specializzati” in un determinato settore, è senz’altro ottima. La Law Society inglese, per esempio, ha istituito da anni un sistema di questo tipo. Sennonché in Italia incontriamo sempre delle difficoltà a concretizzare per via normativa le buone idee. Innanzitutto anche per questa ipotesi si prospetta un rinvio ad un ulteriore passaggio legislativo, questa volta affidato ad un regolamento adottato dal Ministro della giustizia previo parere del CNF. Deprecabile è soprattutto che il conseguimento del titolo di specialista possa acquisirsi anche soltanto attraverso “percorsi formativi”, senza richiedersi congiuntamente una “comprovata esperienza nel settore di specializzazione” (la norma, infatti, recita che “Il titolo di specialista si può conseguire all’esito positivo di percorsi formativi almeno biennali o per comprovata esperienza nel settore di specializzazione”). L’avvocato, per qualificarsi specializzato in una materia, sì dovrebbe studiare e frequentare corsi (e dovrebbero bastare, laddove mirati su determinate materie, quelli funzionali alla formazione continua), tuttavia in primo luogo dovrebbe maturare le sue “speciali” competenze affrontando quotidianamente, a stretto contatto con i clienti, le reali problematiche di questi e del contenzioso; invece la “riforma” ci consegna la prospettiva di avvocati “artificialmente” specializzati, dotati di un distintivo conseguito a tavolino. Inoltre: siamo davvero convinti che sia sufficiente un percorso formativo “almeno biennale” (senza – N.B. –alcuna esperienza pratica specialistica) per qualificarsi, ad esempio, giuslavorista od esperto in diritto di famiglia? Che senso da un lato concedere il titolo di specialista ad un legale privo di esperienza concreta per il sol fatto di avere frequentato per due anni un corso formativo e dall’altro lato esigere che, per conseguire il medesimo titolo “per comprovata esperienza professionale maturata nel settore oggetto di specializzazione” occorra avere “maturato una anzianità di iscrizione all’albo degli avvocati, ininterrottamente e senza sospensioni, di almeno otto anni” e che si dimostri di “avere esercitato in modo assiduo, prevalente e continuativo attività professionale in uno dei settori di specializzazione negli ultimi cinque anni”? Vogliamo continuare a premiare chi può permettersi il tempo di frequentare corsi a detrimento di chi invece si spacca le ossa sul lavoro? Per quali ragioni i percorsi formativi in questione devono necessariamente essere organizzati presso le facoltà di giurisprudenza? Forse per dare lavoro alla pletora di accademici che nulla sanno della professione e delle problematiche reali, quelle cioè sulle quali si forma il vero specialista? Forse che i consigli degli ordini o le società specializzate nella formazione forense non sarebbero in grado di organizzare (attraverso professionisti di comprovata esperienza in questo o quel settore) corsi altrettanto affidabili e seri?

5) Art. 10 («Informazioni sull’esercizio della professione»)

A leggere questo articolo viene innanzitutto in evidenza come non si faccia cenno ad un’informazione importante per i nostro potenziali clienti: i compensi professionali, perlomeno a livello di criteri generali. Ciò ha dell’incredibile, se solo si considera come tutti i nostri concorrenti (società di infortunistica, società di recupero crediti, associazioni dei consumatori, ecc.) liberamente possano promuovere i trattamenti economici accordati (ivi comprese eventuali gratuità). Promuoversi parlando di danaro non sarà forse “nobile” per l’avvocato, ma è ormai una necessità per concorrere sul mercato. E non mi si venga a raccontare che la professione forense non dovrebbe ragionare in termini di mercato: questa è la realtà che viviamo e che determina la nostra stessa sopravvivenza. La “riforma”, inoltre, nulla riferisce circa la possibilità di svolgere una promozione “attiva” dei nostri servizi: mentre i nostri concorrenti possono andare anche a bussare di porta in porta, noi dovremmo rimanere reclusi nei nostri studi, essendoci peraltro precluso, per quanto consta, di organizzarci con promotori e agenti. Trattasi di una situazione che non solo ci danneggia, ma finisce per colpire anche i cittadini, sottratti agli studi legali e conquistati da altre realtà. E finisce per colpire gli avvocati “onesti”, i quali, per rispettare le regole, subiscono la concorrenza di loro colleghi attrezzatisi nei modi più disparati. Sia chiaro: permetterci di fare promozione “attiva” non significa mica concederci di andare in giro a raccontare “frottole” e distribuire false illusioni per accaparrarci clienti, essendo che siamo vincolati a precisi doveri di correttezza, buona fede, decoro professionale, verità, promozione dei diritti. Significa solo permetterci di mettere a frutto la nostra professionalità, i nostri investimenti, di promuovere (non dimentichiamolo!) la tutela di diritti. Sono davvero stanco di dover guardare alla finestra, di dover pagare per la mia attività quanto un imprenditore, senza però poter sfruttare e promuovere – pur nel rispetto di tutti i principi del caso – il frutto del mio enorme e supertassato impegno. Forse che per ragioni di un’etichetta professionale ormai vetusta dovremmo lasciare la tutela e la promozione dei diritti ad altri che non si sono fatti le ossa su codici, leggi e sentenze?

6) Art. 11 («Formazione continua»)

Sicuramente è giusto, attesa la pigrizia culturale di molti, che gli avvocati siano costretti alla formazione continua. Ciò che non si condivide della “riforma” è quanto segue: gli impegni affrontati per assolvere alla formazione continua non saranno sufficienti per accedere alle giurisdizioni superiori (paradossalmente chi avrà parecchio lavoro, un sovraccarico di impegni e tante responsabilità si troverà costretto a rinunciare a divenire cassazionista); sono previste una serie di esclusioni che suonano molto quali autentici privilegi. Infatti, “Sono esentati dall’obbligo [di formazione continua]: … gli avvocati dopo venticinque anni di iscrizione all’albo o dopo il compimento del sessantesimo anno di età; i componenti di organi con funzioni legislative e i componenti del Parlamento europeo; i docenti e i ricercatori confermati delle università in materie giuridiche”. E perché mai queste esclusioni? Per quali motivi diverrebbe non più necessario garantire ai cittadini degli avvocati aggiornati e competenti, quando questi ultimi siano “anziani”? Forse che la “riforma” è stata ispirata da avvocati di una certa qual età? Per quali recondite ragioni i vari avvocati, che siedono in Parlamento, in un consiglio regionale o in altra istituzione con funzione legislativa, dovrebbero andare esenti dagli obblighi di formazione continua, laddove decidano di continuare ad esercitare attivamente la professione nonostante l’assunzione di un gravoso incarico istituzionale (magari, come del resto verificatosi in varie occasioni, pure avvantaggiandosi di questo ruolo per promuovere la loro attività professionale)? E perché mai docenti e ricercatori confermati, qualora ritengano di avere anche il tempo per dedicarsi all’attività professionale (sottraendolo ad attività didattiche, ricevimenti studenti e ricerca), non dovrebbero sottoporsi agli oneri formativi cui soggiacciono i loro colleghi meno blasonati? Insomma, se ci sono degli obblighi da assolvere per svolgere la professione, questi dovrebbero valere per tutti, nessuno escluso. Ma lo si sa: l’Italia è il Paese in cui i privilegi imperversano, sempre a vantaggio dei soliti noti.

7) Art. 12 («Assicurazione per la responsabilità civile e assicurazione contro gli infortuni»)

Ottima e doverosa la previsione dell’obbligo ad assicurarsi, senonché non si comprende proprio per quale ragione la norma si limiti ad asserire molto genericamente che la mancata osservazione di tale dovere “costituisce illecito disciplinare” invece che fissare con estrema chiarezza la sanzione della sospensione in assenza di polizza. Non occorre certamente la sfera di cristallo per prevedere che così gli avvocati più diligenti si troveranno dinanzi alla solita discriminazione perpetrata da quei consigli dell’ordine che, come in altre occasioni (per esempio la trasmissione del modello 5), sono soliti chiudere entrambi gli occhi sul rispetto di norme di questo tipo. Si spera poi che gli organi che, rappresentano l’Avvocatura, si facciano finalmente valere con le compagnie assicuratrici per metterci a disposizione delle polizze che non siano una uguale all’altra, le cui clausole siano suscettibili, caso per caso, di un’effettiva contrattazione (non già imposte dal solito cartello assicurativo e di fatto immodificabili) e tali da coprire rischi di tutto rilievo (allo stato, per esempio, non c’è alcuna polizza che contempli la copertura per i danni contrattuali non patrimoniali lamentati dal cliente). Insomma, delle convenzioni con i soliti noti non ce ne facciamo molto, se poi ci ritroviamo con polizze “claims made” standard ed immodificabili. Confidiamo infine che i prezzi delle polizze non salgano alle stelle: già siamo sommersi da costi notevoli e ci mancherebbe pure di dover fronteggiare polizze salate, tra l’altro noto essendo che praticamente mai le assicurazioni pagano i sinistri professionali stragiudizialmente, ciò con conseguenze devastanti per noi avvocati e i cittadini.

8) Art. 13 («Conferimento dell’incarico e compenso»)

Tra i punti più dolenti in assoluto della “riforma” si colloca indubbiamente quello relativo ai compensi, ciò proprio in un momento di generalizzata sofferenza economica anche per la nostra professione. Innanzitutto desta vivo stupore, per la sua estrema genericità, la seguente norma (comma 1): «L’incarico può essere svolto a titolo gratuito». Infatti, essendosi in Italia (un Paese in cui una fetta cospicua dell’Avvocatura ha dato notevoli prove di attaccamento all’evasione fiscale), ben si potrà immaginare l’impiego futuro di questa disposizione. Non già che il lavoro pro bono per fini sociali ed a favore delle persone indigenti non sia da incentivarsi (anzi), ma proprio per i noti vizi riscontabili anche nella nostra professione sarebbe stata imprescindibile (nonché sintomo di buona fede degli ispiratori e dei redattori della norma) una dettagliata disciplina delle prestazioni rese “gratuitamente”. Ma come al solito in Italia si “riforma” per nulla in concreto riformare, e così ci troveremo dinanzi alla solita questione: nel nostro bel Paese c’è sempre una qualche scappatoia legislativa per coloro che non hanno senso civico e magari si fanno pure beffa degli onesti. “La pattuizione dei compensi è libera”, peccato che poi (art. 13, comma 4) si affermi che “Sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa”. La lettera di questa norma è invero lungi dall’essere chiara (il che, a prescindere da ogni ulteriore questione, è già di per sé una gravissima pecca del provvedimento), peraltro ponendosi in manifesta e inequivocabile contraddizione con il principio, pure affermato dalla “riforma” in seno allo stesso articolo (comma 5), per cui “è ammessa la pattuizione … a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione” (ma è mai possibile che in Italia si riescano a scrivere norme che da un rigo all’altro contrastino platealmente?). Secondo alcuni commentatori in realtà il comma 4 dell’art. 13 non sancirebbe il ritorno al divieto dei patti quota lite: “La riforma forense appena approvata consente tale patto”, ponendo tuttavia “uno specifico limite” (cioè “impedisce che l’avvocato percepisca, come compenso, una quota del bene oggetto della prestazione”). Il che, secondo questa versione, unicamente “significa che il professionista non può, attraverso la vittoria di una lite o la positiva gestione di una trattativa, diventare socio, quotista o comproprietario di un bene insieme al suo cliente”, ossia “l’avvocato può esigere il pagamento della quota lite, ma solo in danaro, senza poter obbligare il cliente a condividere il bene. In tal modo, si applica alla professione il divieto al “patto commissorio” (articolo 2744 del Codice civile)”. Nondimeno, si potrebbe di contro sostenere – e questa sembra decisamente la versione più corretta (a partire dal fatto che per «bene» si intende anche il denaro) – come così si sia ripristinato quanto sostanzialmente già era previsto dal “vecchio” terzo comma dell’art. 2233 c.c., che era stato sostituito nel 2006 dal “decreto Bersani” con la seguente formulazione: “Sono nulli [c.c. 1418], se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali”). La reintroduzione del divieto di patto quota lite, sostenuta da altri commentatori, sarebbe davvero assurda, discriminatoria (ad essere colpiti sono gli avvocati che si occupano di risarcimento e non già quelli che affrontano altre questioni), anacronistica, masochista, vessatoria per gli avvocati (e pure per i clienti), e non si capisce proprio per quale motivo dovrebbe suscitare un qualche entusiasmo o addirittura “commozione”. Sono prevalsi i soliti preconcetti contro questo tipo di pattuizione? Sicuramente sì (laddove si ritenesse corretta l’interpretazione circa gli effetti abrogativi di tale patto). Senza che nessuno tra i “riformatori” si sia in alcun modo peritato di svolgere le indagini del caso sull’impiego dei patti quota lite da parte dell’Avvocatura italiana a seguito della loro legittimazione per effetto del “Decreto Bersani” (2006), avrebbero “vinto” coloro che, tra l’altro ignorando i risultati della comparazione giuridica, continuano a spacciarci i patti quota lite per un modello rinvenibile solo al di là dell’Atlantico (quando invece sono previsti anche in Francia, tanto per fare un esempio a noi vicino, in Germania, in Olanda, in Grecia ed in Spagna, nonché in altri diversi Stati sia europei e sia extraeuropei) e tra l’altro deleterio per i cittadini e per l’accesso alla giustizia (il che non corrisponde affatto al vero, avendo questo tipo di accordi permesso la tutela, da parte degli avvocati, di migliaia di danneggiati contro banche, assicurazioni, colossi imprenditoriali, enti pubblici, ecc.). Viene altresì il sospetto che la (comunque riaperta prospettiva) della preclusione dei patti quota lite (che hanno senso soprattutto nelle materie aventi per oggetto il risarcimento dei danni) corrisponda a (o comunque sia il frutto di) una precisa scelta – ispirata da una ben determinata “politica del diritto” (senz’altro “reazionaria”) - finalizzata a disincentivare, colpendo innanzitutto gli avvocati dei danneggiati, la promozione di azioni risarcitorie contro i soliti noti (e non è un caso – si noti bene – che oltreoceano i “poteri forti” abbiano, tra le varie strategie messe a punto per detronizzare la responsabilità civile, condotto vere e proprie crociate contro i patti quota lite, fenomeno che il Presidente del CNF, stimato comparatistica, dovrebbe ben conoscere): questo modello contrattuale, infatti, non piace affatto a chi è esposto a subire cause, perché non solo incentiva gli avvocati ad affrontare le controversie ma altresì (e questo viene occultato nella retorica riformista) facilita i clienti nell’accesso alla giustizia. Ciò notato, il patto quota lite – va detto molto chiaramente – viene (rectius potrebbe essere stato!) abrogato in un momento storico contraddistinto dai seguenti fenomeni (tutti ignorati – anzi, a voler pensare male, forse invece contemplati – dai redattori della norma e dai “fan” della novella): i cittadini non hanno più particolari disponibilità economiche per affrontare cause spesso (quasi sempre) dagli esiti incerti (la giurisprudenza è vieppiù ondivaga) e che tuttavia richiedono esborsi notevoli (perizie tecniche sempre più esose, contributi unificati ormai vessatori, ecc.), tali da precludere all’avvocato di richiedere al cliente danneggiato acconti in qualche misura idonei a giustificare e sostenere il dispendio di tempo e di risorse (umane, di struttura, ecc.) per affrontare la controversia (inesorabilmente, giacché ci troviamo in Italia, destinata a durare anni); · le liquidazioni delle competenze professionali giudiziali risultano decisamente ribassate (oltre che dimezzate) in seguito all’approvazione del punitivo D.M. 20 luglio 2012, n. 140 (uno scandalo a parte!), in un contesto già connotato da una magistratura costantemente incline a liquidare agli avvocati poco a titolo di onorari e spese di causa; non si può fare affidamento alcuno su quanto liquiderà il giudice; i costi di gestione degli studi legali sono saliti alle stelle con una tassazione abnorme (aggiungendosi una cassa previdenza esosa); si ha la concorrenza da parte di soggetti vari (società infortunistiche in primis) liberi invece di stipulare accordi di questo tipo. Ciò rilevato, è peraltro inconfutabile come in questa situazione il patto quota lite, laddove correttamente e con senso della misura concepito ed applicato dall’avvocato, risulti invero gradito dai clienti, e ciò lo si è toccato con mano in questi tempi (sia personalmente e sia sentendo i colleghi) ed è pure comprovato dal favor che incontrano le società di infortunistica che per l’appunto (e commercialmente non a caso) operano proprio con tale approccio. Perché è ben accetto dai clienti? Essenzialmente per i seguenti motivi: il cliente si trova dinanzi a regole chiare e che può agevolmente comprendere; l’assistito è agevolato nell’accesso alla giustizia, in quanto si trova dinanzi ai seguenti scenari: a) non gli vengono normalmente richiesti acconti per la fase stragiudiziale e spesso anche per affrontare il giudizio (se non magari fondi spese di limitato impatto economico); b) nel caso di sconfitta il suo rischio di causa verso il proprio legale è notevolmente circoscritto (generalmente, accanto all’acconto versato, dovrà soltanto farsi carico dei costi vivi); c) può contare sul fatto che, se l’avvocato è disposto a condividere i rischi di causa, crede effettivamente nella fondatezza dei suoi diritti; d) garantisce maggiore serenità ai clienti. Per queste medesime ragioni e proprio per la situazione innanzi descritta esso è pure condiviso dagli avvocati, che, senza preconcetti (e pure eticamente), lo hanno applicato. Il patto quota lite, inoltre, permette ai legali di: accedere ad una remunerazione che ben si meritano (magari dopo anni di causa, la spendita di notevoli energie e l’assunzione di significativi rischi), senza dover dipendere dalle prebende riconosciute dalla magistratura (frequentemente avara); concorrere con tutti quei soggetti che possono liberamente stipulare contratti di questo tipo. Si è obiettato che i patti quota lite sarebbero tali da incidere negativamente sui diritti sostanziali dei cittadini. Forse che nel passato (quello antecedente il “decreto Bersani” del 2006) gli avvocati, che si accontentavano di quanto liquidato dai giudici, erano la maggioranza? Non prendiamoci in giro: “palmari” e accorgimenti simili (fatti pagare rigorosamente in nero) hanno sempre imperversato nella nostra professione (con la differenza, rispetto ai patti quota lite di cui al “decreto Bersani”, di non essere neppure oggetto di preliminari accordi scritti tra le parti). Inoltre, come osservato dal Bundesverfassungsgericht, i patti quota lite possono permettere ai cittadini di accedere alla giustizia, il che è senz’altro ancor più vero in un periodo storico in cui l’esercizio dell’attività forense costa sempre di più (soprattutto se si pagano collaboratori, tasse e aggiornamenti continui degli strumenti di lavoro), i giudici liquidano vieppiù di meno agli avvocati ed i clienti (già vessati dallo Stato con elevati contributi unificati) non hanno particolari risorse da anticipare o da rischiare nell’eventualità di risultati negativi o, comunque, non particolarmente soddisfacenti (con ul legislatore, tra l’altro, incline a tagliare ovunque sulla tutela risarcitoria degli individui). Semmai, per ovviare ai possibili abusi di questo strumento e garantire i cittadini, si sarebbe potuto e dovuto insistere con il legislatore non già per un diniego assoluto dei patti quota lite (posto che questo sia effettivamente l’intendimento della norma), bensì per una loro più dettagliata e puntuale disciplina soprattutto in relazione ai limiti massimi della quota (prevedendosi per esempio il tetto massimo del 25%, come si ha in Francia), stabilendosi altresì la commisurazione della percentuale all’entità del rischio di causa ed alla presenza/assenza di determinate clausole (ad esempio l’accettazione dell’avvocato a lavorare su base “no win no fee”). Insomma, questa “riforma” (rectius la controriforma) potrebbe privarci, senza che si sia compiuta preliminarmente alcuna indagine seria, di (giuste) prospettive di possibili guadagni in tempi di crisi, in un periodo in cui siamo già taglieggiati su tutti i fronti. Rischia di disincentivarci alla promozione di azioni risarcitorie. Scoraggerà (laddove da intendersi in senso abrogativo) i cittadini a rivolgersi a noi e nell’accesso alla giustizia, trovandosi questi di nuovo sottoposti ai metodi di pagamento tradizionali e difficilmente sostenibili (per non parlare poi della scarsa concorrenzialità che il divieto produce nel rapportarci con i nostri competitor internazionali). Incentiverà i potenziali clienti a rivolgersi a tutta una serie di altri soggetti invece legittimati a stipulare patti quota lite. Ed allora perché mai dovremmo gioire e commuoverci per questa “riforma”, che (verosimilmente) aggiunge la prospettiva di ulteriori perdite di guadagno ed allontana i cittadini dai nostri studi per consegnarli nelle mani dei nostri concorrenti che i patti quota lite li possono fare? Dovrei sentirmi rappresentato con soddisfazione dal CNF tanto entusiasta della “riforma”? Come si può affermare che questa sia una riforma che “potrà rilanciare” il nostro lavoro? Perché mai a noi avvocati sarebbe precluso il patto quota lite mentre invece per le altre professioni non lo è? Perché il CNF si compiace di questa discriminazione? Al lato pratico occorre comunque domandarsi come fronteggiare tale divieto (posto che di divieto trattasi!). Innanzitutto, quale che sia la sua interpretazione, chiara è l’irretroattività della novella disposizione (cfr. art. 11 preleggi): dunque, tutti gli accordi stipulati sino all’entrata in vigore della nuova disciplina rimangono sicuramente validi. E per i contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore del divieto? Quale futuro si prospetta? In primo luogo, potrebbe sostenersi, anche a fronte delle contrapposte letture del comma 4, come la “riforma” non risulti tale da poter abrogare in alcun modo con effetti immediati l’art. 2, comma 1, lett. a), del d.l. 4 luglio 2006, n. 223 (più noto come “decreto Bersani”, convertito dalla legge n. 248 del 4 agosto 2006), che cancellava il “divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti”. Infatti, potrebbe sostenersi come tale abrogazione (laddove effettivamente sia tale) sia stata delegata ad un provvedimento successivo del Governo, tenuto ad “accertare la vigenza attuale delle singole norme”. In particolare, l’art. 64 («Delega al Governo per il testo unico») prevede che “Il Governo è delegato ad adottare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentito il CNF, uno o più decreti legislativi contenenti un testo unico di riordino delle disposizioni vigenti in materia di professione forense, attenendosi ai seguenti princìpi e criteri direttivi: a) accertare la vigenza attuale delle singole norme, indicare quelle abrogate, anche implicitamente, per incompatibilità con successive disposizioni, e quelle che, pur non inserite nel testo unico, restano in vigore; allegare al testo unico l’elenco delle disposizioni, benché non richiamate, che sono comunque abrogate; b) procedere al coordinamento del testo delle disposizioni vigenti apportando, nei limiti di tale coordinamento, le modificazioni necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della disciplina, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo”. Questo argomento, tuttavia, mi sembra alquanto debole, ricordandosi che le leggi possono ritenersi abrogate anche “per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti” (art. 15 delle preleggi). Nondimeno, come si è innanzi illustrato, si ha, perlomeno in apparenza (ma a mio avviso sussiste in concreto), un netto contrasto tra le seguenti due affermazioni contenute nel medesimo articolo: per un verso (comma 4) si sancisce che “Sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa” (e già sul punto, come si è innanzi illustrato, si prospettano contrapposte letture); per altro verso (comma 5) si afferma che “è ammessa la pattuizione … a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione”. Orbene le ipotesi sono almeno tre: o siamo dinanzi ad un contrasto insanabile (da un lato si ammette la pattuizione per via percentuale, dall’altro lato la si nega), sicché per l’applicazione della disposizione in questione si dovrà attendere l’esercizio da parte del Governo della delega di cui all’art. 64 («Delega al Governo per il testo unico»), dovendo quest’ultimo in tale occasione “procedere al coordinamento del testo delle disposizioni vigenti apportando, nei limiti di tale coordinamento, le modificazioni necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della disciplina” (secondo questa prima impostazione dunque la norma non sarebbe immediatamente operativa); oppure la norma reca un contrasto soltanto apparente e cioè in realtà non nega qualsiasi ipotesi di patto quota lite, al contrario limitandosi ad imporre l’indicazione del “valore” assunto in considerazione per la determinazione della percentuale del compenso; o, ancora, il comma 4 va effettivamente interpretato nel senso che “l’avvocato può esigere il pagamento della quota lite, ma solo in danaro, senza poter obbligare il cliente a condividere il bene”. E’ ovvio che, se si interpretasse la norma nel terzo senso, occorrerebbe concludere per la totale inutilità della norma. Se invece la interpretassimo nel secondo senso dovremmo ritenere che il legislatore (con il beneplacito di chi ci rappresenta) abbia introdotto una norma che scioccamente complica soltanto la contrattazione con il cliente, dovendosi costruire la clausola dell’accordo in forma percentuale formulando un’ipotesi del “su quanto si prevede possa giovarsene” dell’“affare” l’assistito. Tutto ciò a meno di ritenere (altra ulteriore interpretazione) che la norma non includa affatto nella nozione di “affare” le controversie in materia risarcitoria o restitutoria, con la conseguenza però di discriminare, del tutto irragionevolmente (con violazione dell’art. 3 Cost.), tra gli avvocati, che si occupano di sinistri, e quelli che affrontano altre materie (dunque con conferma che il nostro legislatore ha inteso penalizzare ancora una volta i danneggiati ed i loro avvocati nella promozione delle controversie risarcitorie). Siffatta lettura, tuttavia, non annovera riscontri da parte del legislatore stesso (cioè non è confermata in alcun modo a livello di ratio legis). Quale che sia l’interpretazione della norma, è un fatto che ci ritroviamo dinanzi all’ennesimo “pasticcio” del nostro legislatore, cioè dinanzi a incertezze che un qualsiasi legislatore, che abbia a cuore i suoi cittadini, dovrebbe sempre scongiurare. Ed è altresì un fatto il seguente: non si avvertiva affatto la necessità di un tale sovvertimento delle regole. Mi piacerebbe proprio sapere quali siano quegli avvocati che, occupandosi di controversie risarcitorie (e non sono pochi!), avranno a godere del novello casino legislativo. Tra l’altro – last but not least – la restaurazione del divieto di patto quota lite (qualora questa sia l’interpretazione corretta della norma) dovrà comunque fare i conti con l’orientamento giurisprudenziale per cui, mitigandosi così la portata del previgente divieto, “non sussiste il patto di quota lite, vietato dal terzo comma dell’art. 2233 c.c. (nella versione “ratione temporis” applicabile, antecedente alla sostituzione operata per effetto del D.L. n. 223 del 2006, art. 2, comma 2 bis, conv., con modif., nella L. n. 248 del 2006), non solo nel caso di convenzione che preveda il pagamento al difensore, sia in caso di vittoria che di esito sfavorevole della causa, di una somma di denaro (anche se in percentuale all'importo, riconosciuto in giudizio alla parte) ma non in sostituzione, bensì in aggiunta all’onorario, a titolo di premio (cosiddetto palmario), o di compenso straordinario per l’importanza e difficoltà della prestazione professionale (da accertare in concreto - come nella fattispecie - sulla scorta di idonei riscontri probatori), ma anche quando la pattuizione del compenso al professionista - ancorché limitato agli acconti versati - sia sostanzialmente - anche se implicitamente - collegata all’importanza delle prestazioni professionali od al valore della controversia (presupposti questi, anch’essi, da verificare in concreto) e non in modo totale o prevalente all’esito della lite”. In pratica, stando a questo orientamento, il patto quota lite può sopravvivere laddove: si aggiunga ad una pattuizione che contempli il pagamento di un onorario; trovi giustificazione nell’“importanza e difficoltà della prestazione professionale. Anzi, pare proprio evidente l’ottusità del legislatore (e di chi lo plaude) che continua a redigere norme senza prestare la dovuta attenzione agli orientamenti giurisprudenziali (generalmente più ragionevoli). Ad ogni modo, considerandosi tale orientamento della Cassazione, il ritorno al “vecchio” sistema non fa altro che ingenerare nuove (anzi, risalenti) incertezze circa l’impostazione dei rapporti contrattuali con i clienti, ricordandosi come la Cassazione abbia sì confermato l’ammissibilità della pattuizione “quota lite” laddove consistente in un “compenso aggiuntivo per l’esito favorevole della causa di risarcimento danni”, specificando però che tale compenso “non deve essere tale da rappresentare una ingiustificata falcidia, a favore del difensore, dei vantaggi economici derivanti dalla vittoria della lite (v. Cass. 13 maggio 1976, n. 1701), perché a tanto osta il divieto del patto di quota lite (secondo la previgente formulazione dell'art. 45 del Codice Deontologico Forense, applicabile nel caso ratione temporis), che non può essere dissimulato dalla previsione pattizia di un palmario per l’esito favorevole della lite (v. Cass. 13 maggio 1976, n. 1701; 19 novembre 1997, n. 11485; S.U. 21 dicembre 1999, n. 919)”. In breve, il giudizio sull’esosità o meno del patto quota lite “aggiuntivo” è per intero rimesso nelle mani del Consiglio Nazionale Forense (nel suo ruolo giurisdizionale per quanto attiene i profili deontologici) e delle corti (che sappiamo non essere particolarmente sensibili nei confronti della remunerazione degli avvocati). Chi ci rappresentava nell’iter di approvazione della “riforma”, se veramente avesse tenuto alla chiarezza dei rapporti avvocato-cliente ed alla tutela della nostra remunerazione, avrebbe dovuto insistere non già per l’abrogazione (tra l’altro non particolarmente cristallina ed invece suscettibile di contrapposte letture) del patto quota lite, bensì per una disciplina più dettagliata (lo si ribadisce: in primis con la previsione di soglie massime), tale da produrre certezze e da permetterci di utilizzare tale strumento contrattuale con tutta la serenità del caso. L’articolo in questione al comma 10 stabilisce poi quanto segue: “Oltre al compenso per la prestazione professionale, all’avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso di determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale, oltre al rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell’interesse del cliente, una somma per il rimborso delle spese forfetarie, la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al comma 6, unitamente ai criteri di determinazione e documentazione delle spese vive”. Ottima previsione, senonché vi è da chiedersi perché non sia stato ristabilito sin da subito il criterio del 12,5 % (o altri veriori parametri), invece che farci attendere ulteriori mesi (essendo che il Governo ha ormai chiuso i battenti). Altro motivo, dunque, per non provare alcun entusiasmo per questa “riforma”, che non solo toglie guadagni, ma ci proroga pure l’ingiustizia subita con il taglio legislativo alla liquidazione delle spese generali. Quante lustre dovremo attendere per la riaffermazione della liquidazione delle spese generali? Infine deve osservarsi come tra i “riformatori” della professione forense non vi sia stata alcuna riflessione circa le soluzioni innovative che, per garantire ai cittadini l’accesso alla giustizia, si sono venute a sviluppare negli altri sistemi. Si pensi a quest’ultimo proposito alle polizze assicurative di assistenza legale “after-the-event” (ATE), ormai ampiamente diffuse oltremanica, promosse dalla stessa Law Society. Insomma, si continua a ragionare secondo vecchi schemi, senza prendersi spunto dalle esperienze straniere.

9) Art. 21 («Esercizio professionale effettivo, continuativo, abituale e prevalente e revisione degli albi, degli elenchi e dei registri; obbligo di iscrizione alla previdenza forense»)

In questo articolo si ribadisce tra l’altro che “L’iscrizione agli Albi comporta la contestuale iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense” e che “Non è ammessa l’iscrizione ad alcuna altra forma di previdenza se non su base volontaria e non alternativa alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense”. Ora, giusto è sicuramente che ogni avvocato debba contribuire alla Cassa innanzitutto per la quota corrispondente ai fini, per così dire, sociali della stessa (penso soprattutto alla maternità, che tuttavia si risolve in un magro sostegno per le colleghe più giovani). Tuttavia, trovo inaccettabile dover essere spremuto all’inverosimile da tale Cassa, con la prospettiva di conseguire soltanto a tardissima età un supporto alquanto modesto, incrociando le dita di non defungere prima (e con gli stess di questi tempi non è una prospettiva inverosimile). L’incidenza dei contributi previdenziali dovrebbe cioè tenere debitamente conto dei livelli di tassazione del reddito ormai raggiunti (aggravati dai crescenti ed ingenti costi di gestione della nostra attività e, più in generale, dei costi della vita) e permetterci di poter stipulare pensioni integrative, tali da consentirci di godere di un minimo di pensione ad un’età ragionevole. Ed invece ci troviamo a non poter mettere da parte alcunché e con i contributi previdenziali che aumentano nonostante tutto e malgrado si allunghi l’età per la pensione di vecchiaia: in pratica stiamo versando alla Cassa smisurate somme a fondo perduto, senza possibilità di risparmi per pensioni integrative. E ciò non va affatto bene ed è grave che non lo si voglia comprendere. Senza contare la frustrazione al pensiero di quanti colleghi manteniamo o manterremo, i quali hanno affrontato o continueranno a svolgere la professione facendo del nero una costante. Potrà obiettarsi che gli attuali livelli di contribuzione previdenziale sono dettati dalla necessità di mantenere gli attuali pensionati e quelli in procinto di esserlo e che, per limiti di reddito, non hanno fornito particolari contribuzioni. Benissimo. Giusto. Ma francamente ho anch’io diritto ad una vita un minimo dignitosa e ad un po’ di serenità per il mio futuro da pensionato (se ci arriverò). Sinceramente, quale contribuente impeccabile, ne ho le scatole piene di dovermi sobbarcare per intero le vecchie generazioni (quelle dell’epoca aurea della nostra professione, notoriamente contraddistinta da guadagni inesistenti per il fisco) oppure colleghi che avrebbero fatto meglio a fare un altro mestiere, trovandomi pure impossibilitato a sviluppare al massimo le mie possibilità di guadagno e con nuovi incombenti da affrontare. Se la Cassa non provvederà a rimediare a tale situazione di grave ingiustizia che noi più o meno giovani avvocati/contribuenti seri ci troviamo a vivere quotidianamente, occorrerà allora cominciare a riflettere su tutte le iniziative del caso, muovendosi dal seguente assunto: a ben osservare i contributi previdenziali sono finalizzati a conseguire in un futuro una contro-prestazione (contrattuale); laddove non sia ravvisabile alcuna ragionevole proporzione tra contributi e la contro-prestazione attesa (soprattutto se ci faranno andare in pensione a settanta anni con una vita media di 79,1, stima da rivedersi al ribasso qualora si soffra di ipertensione o altre patologie consimili, oppure si sia tabagisti), evidentemente si dovrà agire giudizialmente per la riduzione dei contributi. Perché dovrei pagare per una vita professionale intera per poi ricevere una misera pensione per qualche manciata di anni? Lo ribadisco: non metto in discussione il dovere di contribuire alla Cassa, ma che questa, prendendo atto della realtà economica (tassazione inclusa) in cui viviamo, dovrebbe permettermi di accantonare una qualche somma per pensioni integrative, concedermi un margine minimo per andare in pensione quando ne avrò voglia. Ne sono convinto: ormai siamo dinanzi alla violazione di diritti costituzionali fondamentali, essendo di fatto spogliati delle risorse che ci guadagniamo a fatica e della possibilità di viverci una vecchiaia decente.

10) Art. 22 («Albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori»)

Per gli avvocati sotto i quaranta anni si prospettano nuovi ostacoli per patrocinare le cause in Cassazione. Prima della riforma, a parte l’opzione costituita dall’esame disciplinato dalla legge 28 maggio 1936, n. 1003, e dal regio decreto 9 luglio 1936, n. 1482 (via molto di rado percorsa), si accedeva alle giurisdizioni superiori decorsi 12 anni di attività (già un’eternità), senza alcuna necessità di dare esami e frequentare corsi. Ora invece, decorsi otto anni di attività, per accedere alle giurisdizioni superiori è imprescindibile “lodevolmente e proficuamente” avere “frequentato la Scuola superiore dell’avvocatura, istituita e disciplinata con regolamento dal CNF” (alla quale si accederà tramite una preselezione) e, al termine del corso, avere passato un esame: “Il regolamento può prevedere specifici criteri e modalità di selezione per l’accesso e per la verifica finale di idoneità. La verifica finale di idoneità è eseguita da una commissione d’esame designata dal CNF e composta da suoi membri, avvocati, professori universitari e magistrati addetti alla Corte di cassazione”. Insomma, per chi vorrà dilettarsi in Cassazione non sarà più sufficiente rispettare gli obblighi della formazione continua e farsi le ossa per un certo qual numero di anni, ma occorrerà altresì cimentarsi con ulteriori corsi ed esami (magari su materie del tutto inconferenti con la “specializzazione” acquisita): chi sarà soggetto alla nuova disciplina dovrà quindi reperire il tempo necessario per queste nuove incombenze, rimettersi a studiare e fronteggiare commissioni di esame, come se già non fosse quotidianamente una lotta contro il tempo per portare a casa un qualche guadagno. Ma dove lo trova il tempo per studiare e dare esami (cioè per rivestire per l’ennesima volta i panni dello studente) un avvocato che sia ormai nel pieno della sua attività e magari abbia anche una famiglia e/o dei collaboratori da mantenere? E perché mai dovremmo trovarci, ormai quarantenni, nuovamente dinanzi a commissioni che ci interrogheranno con codici alla mano e con docenti universitari magari frustrati? Tutto ciò per la redazione di ricorsi che non sono molto diversi dagli appelli (ciò soprattutto dopo l’ultima riforma) ed un’udienza in occasione della quale solitamente ci vengono concessi cinque minuti scarsi per richiamarci a quanto già esposto? Tutto ciò è davvero troppo, la misura è colma. Altro che liberalizzazione delle professioni, altro che attenzione per le nuove generazioni: se continua così arriveremo ad avere tutte le carte in regola soltanto a fine carriera, spremuti come limoni, stressati ed a contare gli spiccioli. Inizio proprio ad essere convinto che il problema delle nostre generazioni sia quello di essere rappresentati da vecchi, che intendono impedirci di vedere la luce sino alla loro definitiva ed a questo punto auspicata uscita di scena. Si salvano dalle nuove forche caudine soltanto “coloro che maturino i requisiti secondo la previgente normativa entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge”. Perché tre anni? Perché non una norma irretroattiva come sarebbe giusto in un Paese “normale”? Prendiamo comunque atto che per accedere alla Cassazione ci troveremo ad affrontare, oltre gli incombenti imposti dalla formazione continua, ulteriori costi e dispendi di tempo, come se ne avessimo a disposizione a dismisura. Tra l’altro il tutto è assurdo: per patrocinare i nostri clienti dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea oppure avanti la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non si deve frequentare alcun corso o passare attraverso alcun esame; per finire dinanzi alla Cassazione occorre invece sputare l’anima. Si auspica che il CNF, nel redigere il regolamento, avrà almeno il buon cuore di distinguere tra civilisti, penalisti e amministrativisti, magari focalizzando l’esame esclusivamente sulle questioni processuali. Per esempio, che senso avrebbe per un civilista dover riprendere in mano il diritto penale (sostanziale e processuale) per accedere alle sezioni civili della Cassazione?

11) TITOLO IV - ACCESSO ALLA PROFESSIONE FORENSE

Veniamo infine alle “nuove” modalità dell’accesso alla professione forense. Una premessa si impone al riguardo: indubbiamente si affacciano alla professione giovani che per lo più sono ormai lungi dall’essere preparati per affrontare il percorso professionale; la colpa è in primis del sistema scolastico, sin dai suoi albori: in questi ultimi decenni le istituzioni lo hanno distrutto, fatto a pezzi; la colpa è pure delle università che peraltro da ultimo annoverano molti docenti privi di particolari qualità (anche inabili a stimolare un minimo di attenzione in classe), piazzati in cattedra dai loro protettori non già per meriti, ma per parentele, per conoscenze, per opportunismi e per altre variabili; ed è pure indiscutibile che, in assenza di altri particolari sbocchi, i laureati in legge, che si trovano a bussare la porta della professione forense, siano sempre di più (purtroppo non molti sono quelli mossi da specifiche vocazioni). Il problema della selezione è allora sicuramente serio ed è opportuno che l’Avvocatura se ne faccia carico, essendo vano attendersi che da un giorno all’altro l’università diventi selettiva come lo era nel passato. Sennonché con questa “riforma” non si innova alcunché, ma si inasprisce soltanto il vecchio modello a totale detrimento di: svariati valenti giovani che, con significativi sacrifici, seriamente si dedicano (rectius vorrebbero dedicarsi) alla pratica, salvo poi trovarsi dinanzi all’ingiusta tagliola che discende da esami scritti altamente aleatori (e che non premiano il merito e la pratica effettuata) oppure con tutto da rifare a causa di commissioni che all’esame orale, magari per stare nelle statistiche, se ne vengono fuori con domande assurde o prive di qualsivoglia aderenza con la pratica forense; per quegli studi legali che investono sulla formazione qualificata dei praticanti (dunque portandoli ad essere delle preziose risorse) ed ogni anno si trovano con gli stessi paralizzati e traumatizzati per mesi dagli esami (tra scritti ed orali). Non si è in alcun modo compreso - né da parte del legislatore e né di coloro che ci hanno rappresentato - che la prima selezione dovrebbe giocarsi sulle reali possibilità dell’avvocatura di garantire un qualche futuro economico ai giovani. La professione forense dovrebbe permettere l’accesso di nuovi colleghi nella misura in cui può sostenerli economicamente, cioè dar loro da sopravvivere. Continuandosi a tollerare che i giovani possano essere costretti a lavorare per tozzi di pane, non si fa altro che preservare un accesso alla professione economicamente insostenibile (anche ai fini poi previdenziali). La soluzione, dunque, sarebbe molto semplice: imporre agli avvocati dei trattamenti economici minimi da garantirsi ai praticanti e poi ai giovani avvocati (per questi ultimi per almeno per un certo numero di anni dopo l’esame, ciò nell’ipotesi di impiego “full time” da parte dello studio, ferma restando la possibilità di combinazioni tra fisso e percentuali sulle pratiche); se l’aspirante avvocato riesce a conquistarsi il “contratto”, ecco che potrà proseguire nel suo percorso, altrimenti sarà bene che si indirizzi altrove, senza trovarsi ad illudersi ed a investire in una professione sempre più povera. Il fatto è che tutta una pletora di avvocati, sfruttando i giovani e così svolgendo peraltro concorrenza sleale (rispetto a quegli studi che invece li pagano), avviano all’avvocatura una serie di aspiranti legali che la professione semplicemente non può permettersi. La soluzione invero era ed è a portata di mano: restrizione dell’accesso a coloro che effettivamente svolgano (tutto!) il tirocinio in uno studio legale, contrattualmente garantiti, dopo un periodo il più possibile minimo di prova (al massimo sei mesi), da un trattamento economico adeguato ed uniforme per tutto il territorio nazionale; obbligo di frequentazione di corsi di approfondimento (sostenuti economicamente dal CNF e dai consigli dell’ordine); esame orale centrato sulla conoscenza delle norme deontologiche e sull’esperienza maturata nel corso della pratica, senza trasformare l’accesso alla professione in un disumano concentrato di esami universitari. La “riforma” si muove invece in una direzione diametralmente opposta, ancora una volta permettendosi lo sfruttamento dei giovani e creandosi tutti i presupposti per nuovi avvocati destinati ad una vita di stenti. Non solo: si opta con piena consapevolezza per sottoporre i praticanti ad un esame palesemente vessatorio, inutilmente distruttivo, ai limiti della disumanità, tra l’altro riducendosi il praticantato vero (quello svolto presso gli studi legali) ad un mero orpello (da circoscriversi il più possibile perché altrimenti mancherebbe il tempo per studiare per il terribile esame).

11.1) Art. 41 («Contenuti e modalità di svolgimento del tirocinio»)

Correttamente si conferma che “Il tirocinio professionale consiste nell’addestramento, a contenuto teorico e pratico, del praticante avvocato finalizzato a fargli conseguire le capacità necessarie per l’esercizio della professione di avvocato e per la gestione di uno studio legale nonché a fargli apprendere e rispettare i princìpi etici e le regole deontologiche”. Il tirocinio, qualora correttamente svolto, è di fondamentale importanza: si diviene avvocati con la pratica, non già solo con le nozioni. Peraltro, si prova una certa qual nostalgia per l’epoca in cui, prima di potersi fregiare del titolo di avvocato, vi era la qualifica intermedia (post esame) del “procuratore legale”. Davvero occorre molto tempo affinché al titolo di avvocato corrisponda una certa qual sostanza tale da giustificare l’impiego del titolo verso la clientela. Sennonché la norma va chiaramente nella direzione opposta: si abbassa la durata del tirocinio a diciotto mesi; si prevedono forme alternative di tirocinio fuori dagli studi legali, potendo divenire avvocati soggetti che hanno frequentato uno studio per soli sei mesi (“In ogni caso il tirocinio deve essere svolto per almeno sei mesi presso un avvocato iscritto all’ordine o presso l’Avvocatura dello Stato”); tra queste forme alternative si ha anche “il diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali, di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, e successive modificazioni”, frequentazione valutata ai fini del compimento del tirocinio per l’accesso alla professione di avvocato per il periodo di un anno (!); verrebbe quasi da osservare come si voglia così prorogare per un ulteriore anno lo scadente modello dell’attuale insegnamento universitario. Sia chiaro: per questa via si finirà per consegnare il titolo di avvocato a soggetti che non hanno la più pallida idea di come funzioni uno studio legale, dei rischi, dei costi e delle prospettive reali di questo mestiere, di come si gestisca il rapporto (sempre più complesso) con i clienti. Inoltre si conduce così una massa di giovani laureati in giurisprudenza ad investire su una professione che manco conoscono relativamente a tutti i suoi lati positivi e, soprattutto, negativi. La “riforma” conferma poi la precedente legittimità dello sfruttamento economico dei giovani: “Il tirocinio professionale non determina di diritto l’instaurazione di rapporto di lavoro subordinato anche occasionale”: l’ennesimo privilegio corporativo è quindi ribadito a chiare lettere; persiste pertanto l’anomalia, tutta italiana, di una classe di autentici lavoratori (peraltro qualificati) – i praticanti – ai quali può negarsi legittimamente un qualsiasi trattamento economico, assicurativo e pensionistico (la CPA disconosce tra l’altro i praticanti senza patrocinio), tralasciandosi le considerazioni che ben si potrebbero svolgere, in termini generali, sul piano economico e sociale (in sintesi si ha un’ampia categoria di persone che cominciano a contribuire al welfare intorno ai trenta anni, se non oltre, e che gravano sulle famiglie e dunque sulla capacità di risparmio/acquisto delle stesse); a questi lavoratori non è garantito il rispetto dei ben noti diritti costituzionali di cui agli artt. 36, 37 e 38 Cost.; orbene, è piuttosto singolare che la classe forense, distintasi nello sviluppo della tutela dei lavoratori sotto tutti i profili e che declama ai quattro venti la nobiltà del suo ruolo e invoca concetti quali dignità degli individui e promozione dei diritti, al contempo nulla faccia in concreto per regolarizzare il trattamento economico (e non solo) dei praticanti e per costruire un sistema di criteri minimi contrattuali per la gestione dei rapporti di quest’ultimi con gli studi legali, nonostante modelli da prendere a riferimento ci sarebbero pure (ad esempio in Inghilterra esistono contratti-tipo e retribuzioni minime per gli aspiranti legali); “Negli studi legali privati, al praticante avvocato è sempre dovuto il rimborso delle spese sostenute per conto dello studio presso il quale svolge il tirocinio”: grave è che si debba affermare un principio di questo genere (ma l’Avvocatura da quali personaggi è composta????); “decorso il primo semestre, possono essere riconosciuti con apposito contratto al praticante avvocato un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio da parte del praticante avvocato”; è qui lampante la totale malafede del legislatore e dei “fan” della cosiddetta “riforma”: “possono” (!!!), non già “devono”, essere riconosciute delle indennità, il che significa che gli “avvocati-sfruttatori-di giovani praticanti” potranno proseguire ad arricchirsi sul lavoro altrui, così avviando alla professione un numero di aspiranti colleghi che il mercato forense non può in realtà sostenere, e pure falsando la concorrenza tra gli studi legali; insomma, si conferma come in Italia siano sempre avvantaggiati i comportamenti disonesti e moralmente inaccettabili.

11.2) Art. 43 («Corsi di formazione per l’accesso alla professione di avvocato»)

Il tirocinio, oltre che nella pratica svolta presso uno studio professionale, consiste altresì nella frequenza obbligatoria e con profitto, per un periodo non inferiore a diciotto mesi, di corsi di formazione di indirizzo professionale tenuti da ordini e associazioni forensi, nonché dagli altri soggetti previsti dalla legge”. La previsione di tale obbligo formativo è sicuramente condivisibile, sennonché non parimenti apprezzabili sono i seguenti criteri direttivi per il regolamento redigendo dal Ministero della Giustizia: “la durata minima dei corsi di formazione” prevede “un carico didattico non inferiore a centosessanta ore per l’intero periodo”, con tanto di “verifiche intermedie e finale del profitto” (per affrontare le quali i praticanti dovranno pur studiare): certamente chi non pagherà un euro ai praticanti (magari impiegandoli come segretari), se ne metterà in studio un numero cospicuo (tanto possono lavorare gratuitamente) e sarà indifferente alle assenze di questo o quel praticante; chi invece si comporterà correttamente (dunque limitando il numero di collaboratori a quelli che può economicamente permettersi), risulterà anche sotto questo profilo svantaggiato; ciò peraltro disincentiva gli avvocati a trattare in modo economicamente adeguato i propri collaboratori (se sono spesso via dallo studio, diviene un po’ difficile giustificarne il pagamento, no?); non solo: che senso hanno tutte queste ore di lezione extra-studio per tutti quegli avvocati che investono seriamente nella formazione dei loro praticanti? Perché mai un collaboratore al quale stiamo insegnando un mestiere dovrebbe esserci sottratto per ricevere delle istruzioni sulla redazione degli atti che magari neppure condividiamo e che possono confonderlo? Dove va a finire la continuità della didattica di cui necessitiamo per fare crescere i nostri praticanti? Avrei compreso se si fossero centrati tali corsi sulla deontologia forense, oppure per la preparazione dell’esame di Stato (esercitazioni per la redazione degli scritti); non comprendo invece il perché dobbiamo inviare ai corsi i nostri collaboratori per apprendere delle nozioni che dovremmo impartire noi quali domini (si noti bene: i predetti corsi avranno ad oggetto “l’insegnamento del linguaggio giuridico, la redazione degli atti giudiziari, la tecnica impugnatoria dei provvedimenti giurisdizionali e degli atti amministrativi, la tecnica di redazione del parere stragiudiziale e la tecnica di ricerca”; … forse che non siamo neppure più in grado di insegnare il “linguaggio giuridico”????); “le verifiche intermedie e finale del profitto … sono affidate ad una commissione composta da avvocati, magistrati e docenti universitari … Ai componenti della commissione non sono riconosciuti compensi, indennità o gettoni di presenza”: la norma ci consegna un futuro in cui avremo collaboratori prima vessati da questi esami e poi dal mostruoso esame finale, l’ultima preoccupazione dei quali sarà dedicare tutto il tempo e tutta la concentrazione del caso per le attività delle studio legale; peraltro, non oso immaginare come saranno ben disposti gli avvocati, magistrati e docenti universitari costretti ad attendere gratuitamente alle verifiche in questione; inoltre, non si comprende bene quale incidenza avranno i risultati di tali verifiche: quali saranno le conseguenze nei casi di risultati negativi? La norma, infine, tace del tutto sui costi di tali corsi di formazione.

11.3) Art. 46 («Esame di Stato»)

Esattamente come prima “L’esame di Stato si articola in tre prove scritte ed in una prova orale”, sennonché: “Le prove scritte si svolgono con il solo ausilio dei testi di legge senza commenti e citazioni giurisprudenziali” (un’autentica vessazione, peraltro del tutto anacronistica in un contesto giuridico quale quello attuale in cui su ogni norma si hanno plurimi orientamenti giurisprudenziali impossibili da memorizzare anche avendo a disposizioni più vite; sfido qualsiasi avvocato, che farà da esaminatore, a dimostrarmi la conoscenza degli orientamenti della giurisprudenza su tutte le materie civili e penali oggetto dell’esame); la prova orale annovera nella sua nuova versione ben cinque materie obbligatorie (“ordinamento e deontologia forensi, diritto civile, diritto penale, diritto processuale civile, diritto processuale penale”), oltre altre due materie a scelta (“Per la prova orale, ogni componente della commissione dispone di dieci punti di merito per ciascuna delle materie di esame”; inoltre, è necessaria la sufficienza in ogni materia: “Sono giudicati idonei i candidati che ottengono un punteggio non inferiore a trenta punti per ciascuna materia”); quanti mesi occorreranno per presentarsi all’esame orale con una preparazione accettabile? Che cosa s’intende premiare in dieci minuti per materia: la capacità memonica (oggi ampiamente coadiuvata nella pratica di tutti i giorni da ogni sorta di banca dati) o la capacità di ragionamento e la capacità di destreggiarsi nella praticaccia di tutti i giorni? Evidentemente sarà premiato chi sarà in grado di memorizzare una quantità immensa di dati. Vorrei domandare agli avvocati che provano entusiasmo per una simile tortura se sarebbero in grado di sostenere un esame siffatto. Ora, se volevano rendere l’esame impossibile ed inaccessibile ai praticanti seriamente e quotidianamente impegnati a lavorare negli studi legali, ci sono riusciti perfettamente: un capolavoro di vessazione e angheria nei confronti dei futuri praticanti, che, per prepararsi all’esame ed avere una qualche chance di passarlo, al massimo dedicheranno sei mesi alla pratica vera, cioè quel periodo di tempo di permanenza presso uno studio legale ritenuto dalla novella “riforma” imprescindibile per conseguire il certificato di compiuta pratica. Gli effetti di questo perverso sistema sono palesi ed ampiamente negativi per tutti, non solo per i futuri praticanti: si chiude la porta in faccia alla maggior parte dei giovani aspiranti avvocati (fatta ovviamente eccezione per quelli che, figli d’arte o consimili, potranno permettersi una pratica fittizia e di starsene a casa a studiare); si disincentiva noi avvocati a metterci in casa praticanti inesorabilmente destinati per un lungo periodo ad essere vessati da esamini ed esamoni, stressati, indisponibili per la maggior parte del tempo, magari obbligati a ripetere più volte le prove prima di riuscire ad acquisire il titolo. Tra l’altro si staglia il seguente bel risultato: noi avvocati – già privati dalla “riforma” di prospettive di guadagno e senza particolari strumenti per concorrere sul mercato – tra due anni, allorquando si passerà al nuovo sistema, ci troveremo pure privati di fatto di apprendisti, i quali magari andranno a sfruttare la loro laurea proprio dai nostri concorrenti. Un dato è certo: ancor più di prima l’esame indubbiamente non premierà i praticanti “effettivi” e che avranno “investito” il loro tempo in attività scarsamente retribuite; i praticanti “veri” saranno posti sullo stesso piano degli altri e risulteranno enormemente svantaggiati per il minor tempo a disposizione per la preparazione. Davvero possiamo seriamente ritenere che questa sia la via giusta per formare dei giovani avvocati in grado di affrontare, una volta acquisito il titolo, i clienti ed i problemi reali? Qui in Italia siamo proprio bravi a farci del male da soli: mentre nel resto del mondo si favorisce l’ingresso dei giovani nelle realtà lavorative (ivi comprese quelle professionali) e si cerca di svecchiare i contesti lavorativi, da noi si procede nel senso diametralmente opposto. Ed allora, in definitiva, quale “rilancio” della professione forense se gli unici a non essere colpiti in qualche modo dalla “riforma” sono gli avvocati ormai avviati verso il tramonto?

E comunque per avere cognizione sulla regolarità degli esami di Stato per l'abilitazione forense e l'accesso a qualsiasi impiego pubblico, compreso in magistratura e notariato, basta leggere e veder le inchieste video e testuali a parte su www.controtuttelemafie.it.

QUANDO A FARE LE LEGGI SONO I NONNI CORPORATIVI IN PARLAMENTO. IMPEDIMENTO ALL’ACCESSO IN AVVOCATURA CON ESAME (TRUCCATO) E AGGRAVATO, CONSEGUITO IN ITALIA E RESISTENZA CONTRO L’ABILITAZIONE ESTERA.

Non solo concorso di abilitazione notoriamente truccato ed impunito. L’Ordine degli avvocati ostacola la professione degli avvocati dei Paesi Ue: indagine Antitrust contro l’Ordine degli avvocati. La nota stampa dell'Antitrust pubblicata su molti giornali dell’11 gennaio 2012 rende pubblico un fatto risaputo che colpisce anche altri Fori.

Avvocati nel mirino dell’Antitrust. L'Autorità, presieduta da Giovanni Pitruzzella, sta indagando su dodici Ordini – Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari – perchè starebbero ostacolando «l'esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell’Unione Europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza. Le prassi degli Ordini «sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario». L'istruttoria – spiega una nota dell’Autorità per la concorrenza e il mercato – «è stata avviata alla luce di due segnalazioni, effettuate da un avvocato che aveva conseguito il titolo in Spagna e dall’Associazione Italiana Avvocati Stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l'abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario». Secondo le due denunce, «gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all’iscrizione nella sezione speciale dell’albo dedicata agli 'avvocati stabiliti, in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia dal decreto legislativo n. 96 del 2001. Il decreto consente l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d’origine. Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l’avvocato può iscriversi all’albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione». I comportamenti degli Ordini, «che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell’Unione - conclude la nota – sono peraltro oggetto di valutazione anche della Commissione Europea, che l’Autorità intende affiancare con l’utilizzo dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi».

«No, nessun tentativo di resistenza degli Ordini professionali. Qui siamo per difendere il merito. Ma attenzione: se si ritiene l'esame di Stato (per diventare avvocato) ormai inadeguato si cambi l'articolo 33 della Costituzione. Noi non ci opporremo, a patto che i corsi di laurea in giurisprudenza si trasformino in corsi di studio professionalizzanti (con annesso tirocinio durante gli anni di studio, ndr.) come avviene in Germania». Ubaldo Perfetti, vice-presidente del Consiglio Nazionale Forense chiarisce a Fabio Savelli su Corriere.it l'ultima crociata del Cnf. L'organismo di rappresentanza dell'avvocatura ha deciso di inoltrare un "rinvio pregiudiziale" alla Corte di Giustizia Ue sull'articolo 3 della ormai vecchia direttiva europea 98/5, che è volta a facilitare la libera circolazione dei professionisti nei paesi membri dell'Unione. Dice Perfetti che il Cnf (in qualità di giudice speciale delle impugnazioni sollevate in contrasto alle decisioni dei consigli "circondariali") ha deciso di sollevare la questione degli "abogados" alla Corte Ue per stabilire se si tratta di un abuso di diritto quello dei giovani praticanti che si recano oltreconfine per acquisire il titolo di avvocato senza superare l'esame di abilitazione in Italia, iscrivendosi così per tre anni nell'elenco degli "Avvocati Stabiliti" dell'Ordine fino alla perfetta equiparazione con gli avvocati di casa nostra: «Ci chiediamo se è una lesione della concorrenza nei confronti degli omologhi italiani che invece superano l'iter previsto dal nostro ordinamento per l'accesso alla professione», dice Perfetti. La questione verte tutta intorno alla possibilità da parte degli Ordini provinciali di poter fare una verifica (sostanziale, non solo formale) sui requisiti portati dai giovani avvocati spagnoli, ma di cittadinanza italiana, all'atto dell'iscrizione all'albo: «Con questo ricorso - spiega Perfetti - chiediamo alla Ue se possiamo arrogarci il diritto (discrezionale, ndr.) di chiedere a un giovane se ha mai sostenuto una causa a Madrid, oppure domandargli dove ha svolto il tirocinio. Quello che vogliamo contrastare è questa pratica fittizia di recarsi in Spagna. Che ha generato in questi anni un indotto di tutto rispetto, ma distorsivo della concorrenza», rincara Perfetti. «Nessuna preclusione nei confronti dell'avvocato residente all'estero che voglia esercitare la professione da noi, ma deve essere dimostrabile la sua buona fede. Per questo chiediamo alla corte Ue di esprimersi», aggiunge. Argomento caldo. Molto. Soprattutto se riguarda migliaia di giovani in tutta Italia. Alle prese con un esame di Stato che a Roma (ad esempio) somiglia più alle forche caudine che a un test per misurare le competenze dei futuri avvocati. Eppure al netto delle difficoltà di chi dopo gli anni di studio all'università, i successivi due di tirocinio e appunto il temutissimo esame di Stato la questione - secondo il Consiglio Nazionale Forense - è un'altra. E investe il terreno (scivoloso) del merito e della concorrenza, proprio in un ceto professionale percepito dall'opinione pubblica come tra i più attivi in Parlamento per la sua folta rappresentanza. Giudicato (e anche l'ultima riforma forense approvata sul rush finale della legislatura testimonierebbe il suo alto potere persuasivo) come una lobby tesa a difendere più che altro l'esistente. Come conferma Dario Greco, presidente di Aiga (associazione italiana giovani avvocati) che parla di una «profonda convinzione per le società multi-professionali che aprirebbero di fatto il mercato», invece bocciati dall'ultima riforma. Ma anche il rappresentante dei giovani professionisti del foro accoglie con positività il ricorso del Consiglio Nazionale Forense «se valorizza il merito e contrasta chi vuole fare il furbetto». Per capire la sottile differenza tra buona fede e dolo stavolta ci pensa l'Unione Europea.

Peccato per loro però. Abogado prima, avvocato poi? Assolutamente legittimo. Il titolo di abogado è sufficiente per diventare legale comunitario stabilito in Italia. E con tre anni di attività si diventa avvocato a tutti gli effetti, senza prova attitudinale. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28340/2011. Il caso. Un legale “italo-spagnolo”, laureato in giurisprudenza in Italia e con titolo di abogado ottenuto - sei anni dopo la laurea - in Spagna, richiede l’iscrizione nella sezione speciale degli avvocati comunitari stabili, per poter esercitare in Italia. Tale richiesta viene però respinta sia dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati che dal Consiglio nazionale forense non solo per le note differenze tra Italia e Spagna relative all’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, ma anche per il fatto che il richiedente «non aveva dimostrato il conseguimento, in Spagna, di un particolare titolo abilitante né di specifica esperienza professionale». Contro la pronuncia del Consiglio nazionale forense il legale presenta ricorso per cassazione. Investita della questione, la Suprema Corte, richiamandosi alla normativa europea e a quella italiana, ricostruiscono i possibili percorsi che consentono al «soggetto munito di titolo professionale di altro Paese membro, equivalente a quello di avvocato, di esercitare stabilmente la propria attività in Italia». E tra questi va ricompreso quello relativo al «procedimento di stabilimento e integrazione», a cui fa riferimento il legale ricorrente, e che, seguendo le procedure previste, permette di superare anche la prova attitudinale per arrivare direttamente alla integrazione con il titolo di avvocato italiano. Naturalmente, è sì necessario il requisito del titolo professionale di un Paese membro, ma l’«iscrizione nel Registro generale del Collegio degli abogados» è più che sufficiente. Questa la tesi sostenuta dai giudici di legittimità, contrariamente invece a quanto affermato dal Consiglio nazionale forense. Pertanto, Piazza Cavour annulla la pronuncia del Consiglio nazionale forense, e accoglie la richiesta del legale relativa all’iscrizione nella sezione speciale degli avvocati comunitari stabiliti.

CARABINIERI: TANGENTI PER ANDARE IN MISSIONE E LO SCANDALO DEL CONCORSO PER IL QUALE I VINCITORI RESTANO A CASA.

Di irregolarità e trucchi per l’arruolamento nell’Arma dei carabinieri non vi sono notizie di stampa od inchieste della magistratura da cui trarre fonte certa. Si sa quello che voce di popolo dice: basta conoscere la persona giusta al posto giusto, anche se questo sia solo un semplice maresciallo. Comunque si può adottare ai carabinieri per analogia il "metodo Italia", ossia forme e modi equivalenti usati da altri concorsi pubblici, di sicura fattura truffaldina.

Per quanto riguarda le tangenti per andare in missione, la procura della Repubblica di Roma ha aperto un'inchiesta sulla denuncia di alcuni sottufficiali dell'esercito e dei carabinieri i quali in occasione di trasmissioni televisive hanno denunciato che i militari, che si erano offerti per andare in missione di pace o di guerra all'estero, dovevano versare una tangente ai loro superiori. L'inchiesta è affidata al pubblico ministero Adelchi D'Ippolito che ipotizza i reati di corruzione e concussione. È scoppiato il caso delle presunte tangenti pagate per poter partecipare alle missioni militari all'estero, sul quale la Procura di Roma ha avviato un'inchiesta affidata al pubblico ministero Adelchi D'Ippolito, che ipotizza i reati di corruzione e concussione. A denunciare i fatti, alcuni militari italiani, carabinieri e soldati dell'Esercito. E a raccoglierne le rivelazioni Rai New 24 che mandò in onda un ampio reportage a firma di Sigfrido Ranucci, nel corso del quale alcuni sottoufficiali dei carabinieri raccontavano di aver presentato senza successo richieste per partecipare alle missioni all'estero e che erano venuti a conoscenza del fatto che »bisognava pagare una o due mensilità per poter andare in Iraq, Bosnia, Kossovo«. Il servizio dava voce anche a un militare dell'esercito operativo a Udine, che era stato costretto a pagare per poter essere trasferito. L'inchiesta aperta dalla Procura romana si affianca a quella già avviata da tempo dalla Procura militare per aspetti diversi da quelli affidati all'esame di D'Ippolito e ha tratto spunto appunto dall'intervista fatta a luglio 2010 dal maresciallo dell'Esercito Domenico Leggero durante una trasmissione televisiva e successivamente anche da un maresciallo dei carabinieri. Le loro versioni dei fatti sono state confermate anche da altri due sottufficiali dell'Arma, che incappucciati confermarono tutte le accuse recentemente durante il programma 'Le Iene", spiegando come avevano fatto i loro colleghi che chi intendeva partecipare alle missioni di pace o di guerra all'estero era costretto a versare ai suoi superiori una somma di danaro calcolata sulla base della diaria che veniva percepita a seconda del tipo di missione. Il magistrato ha già acquisito un'ampia documentazione comprese le dichiarazioni fatte in televisione. Inoltre sono stati già sentiti come testimoni diversi militari che hanno confermato le accuse. (Adnkronos).

Invece, per quanto riguarda l'arruolamento, qui si va sul paradosso. Non si contesta forme e modi dei metodi concorsuali. Qui si rileva che nulla vale essere vincitori, in quanto, comunque, resti a casa, nonostante l'onerosità ed i sacrifici della partecipazione alla selezione. La notizia balza sul web da “La sottile linea rossa”.

L’Italia si sa non è un paese per giovani, ma soprattutto non è un paese dove si hanno certezza (di legalità). Non si ha nemmeno la certezza che ciò che è scritto nero su bianco sul bando ufficiale di un concorso di 1886 allievi carabinieri bandito dal Ministero della difesa, si avveri. Sì perché nel bando i posti erano 1886. Ma ci sono stati i tagli ed allora ecco che con una bella sforbiciata i posti in graduatoria uscita il 28 settembre 2012 si sono ridotti a 211. La cosa scandalosa è che questa riduzione di posti è avvenuta mentre il concorso era già alla fine. Tanti i concorrenti che si sono preparati, hanno studiato, hanno superato le prove fisiche ed hanno vinto il concorso. Chi ha vinto (tra i primi 211) entrerà direttamente nell’arma, ma gli altri invece dovranno restare a casa per via dei tagli. Oltre al danno una vera e propria ingiustizia. Tanta la delusione, l’amarezza, ma anche l’indignazione: infuria la protesta sul web. Solo sul web perché ai media non sembra interessare questa ennesima ingiustizia italiana. Nessuno si è preoccupato di informare i concorrenti della riduzione dei posti con una comunicazione ufficiale. “Non pensavo che potesse succedere a concorso ormai iniziato. Un bando uscito a febbraio 2012, che viene tagliato così drasticamente e senza nessuna comunicazione ufficiale sulla riduzione. Io chiedo allo Stato che non ci abbandoni per la strada e che vengano approvati emendamenti e mozioni a sostegno della nostra graduatoria.” Queste le parole di Stefano, 22 anni, uno degli idonei al concorso, in una dichiarazione al “Tirreno.it”. E viene da chiedersi: ma in Italia esiste davvero lo Stato? Su “Agora.Blog.Rai” vi sono alcuni commenti dei ragazzi e dei loro genitori. Ma anche su altre testate le lettere si sprecano.

Questa è la lettera pubblicata da “Libero Quotidiano”. "Alla C.A. Direttore Dott. Maurizio Belpietro. Credo di interpretare il pensiero di oltre 1500 giovani che come me si sono visti scippati , defraudati, presi in giro come cittadini italiani ma soprattutto come uomini. Tutti idonei vincitori dell ultimo concorso per 1886 allievi carabinieri. Solo poco più di 200 sono stati chiamati e gli altri tutti a casa pur risultando vincitori di concorso. Spese, impegno, sacrificio e l amore verso la gloriosa arma non è servito a nulla. Perchè nessuno ne parla o appena appena sottovoce ? Cosa dobbiamo fare ? A chi ci dobbiamo rivolgere? Non sappiamo a quale porta bussare...Confidiamo in un suo aiuto attraverso le pagine del suo giornale o interessando qualche persona autorevole competente e responsabile con una sua.... TELEFONATA che seguiremo con piacere e speranza. Con stima Andrea Motta vincitore di concorso." Altra denuncia di una nostra lettrice: "Lo Stato ci ha beffati". E Federconsumatori annuncia ricorso collettivo al Tar. Dovevano essere 1886 i posti da assegnare nel concorso per il reclutamento di giovani carabinieri, scrive “Today”.  Il concorso è stato fatto. 1886 persone lo hanno passato. Poi è arrivata la spending review del governo Monti che ha cambiato le carte in tavola. E così i 1886 posti sono diventati solo 375. I restanti 1511 si son visti "sbattere la porta in faccia", ritrovandosi classificati come "idonei non prescelti", per di più senza alcuna garanzia di blocco della graduatoria o di assunzione a scaglioni. A farci conoscere questa assurda vicenda è stata una nostra lettrice, Irene D., che in un messaggio su facebook ci ha raccontato la sua esperienza: "Vi scrivo per metterci a conoscenza di ciò che sta succedendo a 1600 ragazzi: lo stato ci ha beffati! Ora vi faccio una domanda: se aveste partecipato a un concorso pubblico per 1886 allievi carabinieri, foste risultati 'idonei' ma, a concorso concluso, il numero dei posti si fosse ridotto da 1886 a 375 cosa pensereste?". I vincitori di quel concorso "farsa" si sono così trasformati da "vincitori" a "idonei non vincitori". "Ma che Paese è l'Italia? Dice di voler aiutare i giovani volenterosi e poi ci tratta così?". La risposta a Irene, e agli altri 1500 giovani, arriva da Federconsumatori che parla di una "vera e propria beffa. Discutibile dal punto di vista umano ancora prima che da quello legale". Per questo Rosario Trefiletti di Federconsumatori annuncia interventi legali a tutela dei diritti acquisiti di tutti i candidati risultati idonei al concorso. "Presenteremo un apposito Ricorso collettivo al TAR Lazio, curato dall'Avv. Vanna Pizzi - Coordinatrice della Consulta Giuridica Nazionale della Federconsumatori, per l'annullamento dei decreti che hanno ridotto i posti dopo lo svolgimento del concorso stesso". Anche Gennaro Angelino su “Il Messaggero” dice la sua.

"Spett.le redazione, sono un ragazzo della provincia di Isernia, scusatemi se mi permetto di scrivere, ma credo di parlare a nome di circa 3.000 ragazzi che come me, hanno dedicato anima e corpo al concorso per l'arruolamento di 1.886 allievi Carabinieri. Con l'approvazione della Spending Review, nello specifico con il blocco del turn over al 20%, ci vediamo troncati, delusi, amareggiati. Un anno intero dedicato ad un concorso, con sacrifici, sudore e spese da affrontare. Giovani pronti a donare una vita per difendere la propria Patria, giovani che come me, avendo svolto servizio presso una Forza Armata, si sentono presi in giro ed abbandonati dallo stesso Stato che avremmo voluto difendere a costo della nostra stessa esistenza. In questo anno abbiamo sostenuto prove di ogni genere e da 20.500 domande siamo rimasti circa 3000; i posti a concorso erano 1886 e invece hanno assunto solamente 300 persone. Io mi ritrovo ad essere idoneo, eppure sono fuori. Vite stravolte di giovani vogliosi, preparati e selezionati, un futuro distrutto ed un sogno infranto. Un Paese non può crescere senza una forza che lo difenda e senza giovani carichi di entusiasmo. Non si può cercare di risparmiare sulle forze di Polizia e sulle forze Armate, non si può non garantire la sicurezza per i cittadini, sarebbe incentivare la criminalità! Con il cuore in mano,chiedo a voi di aiutarci, di fare tutto ciò che è nelle vostre possibilità di rendere pubblico quello che sta succedendo a questi ragazzi. Rinnovo la stima e i saluti, un aspirante Carabiniere." Anche su “Oggi” vi è una testimonianza. "Spett.le ….., mi scusi per il disturbo. Sono un ragazzo partecipante al concorso per il reclutamento di 1886 allievi Carabinieri, concorso già concluso, che al momento della pubblicazione della graduatoria ha riservato cattive sorprese, del tutto inaspettate. Credo di parlare a nome di circa 3000 ragazzi che come me, hanno dedicato anima e corpo per un anno intero, con sacrifici, sudore e spese da affrontare, da parte nostra e delle nostre famiglie, per cercare di realizzarsi indossando la tanto sognata divisa della prestigiosa Arma dei Carabinieri. Con l’approvazione della Spending Review, nello specifico con il blocco del turn over al 20%, abbiamo visto troncati tutti i nostri sacrifici, i nostri sogni e le nostre aspirazioni. Si, proprio quando tutto sembrava gia’ deciso, e con il concorso praticamente quasi concluso, sono state cambiate le carte in tavola, arruolando solamente 216 ragazzi direttamente nell’Arma e 159 VFP4, piuttosto che 1886 come stabilito da bando di concorso. Inoltre ai restanti 1506 ragazzi che si sono visti sbattuti la porta in faccia, non è stato garantito neanche il blocco della graduatoria, ne l’assunzione a scaglioni, insomma, il decreto d’approvazione della graduatoria, non lascia alcuna speranza, se non ritenerci IDONEI NON PRESCELTI. Inutile descrivere il nostro stato d’animo, e quello delle nostre famiglie, che dopo aver fatto enormi sacrifici economici pur di mantenerci tutte le spese concorsuali, e ci tengo a precisare che in molte realtà, hanno dovuto stringere abbondantemente i denti per farlo, non sono riuscite ugualmente a vedere i propri figli realizzati, mentre da parte nostra, beh, lo sconforto, la delusione, e l’amarezza sono inquantificabili, siamo increduli, e ci sembra ancora tutto un brutto sogno, ma così non è.

In questi giorni avremmo dovuto festeggiare la vincita di un concorso, e, ripagati i sacrifici fatti, gioire per aver realizzato non solo il nostro sogno, ma al contempo la tanto attesa realizzazione lavorativa, invece ci sentiamo presi in giro ed abbandonati dallo stesso Stato che avremmo voluto difendere a costo della vita. Tra l’altro non si capisce come non ci siano i fondi per un concorso che è stato bandito ad aprile 2012, e che quindi era stato previsto già con la legge di stabilità dell’anno passato. Anche io che dopo aver messo il massimo impegno per cercare di ottenere una buona posizione in graduatoria, mi sentivo al sicuro, mi ritrovo tra i primi 450 posti, eppure ugualmente tagliato fuori. Ultimamente seguiamo con interesse varie interviste pubblicate su varie testate giornalistiche nazionali, ad esempio le dichiarazioni del Ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, che dopo aver dichiarato ‘’Sbloccheremo i fondi e daremo attuazione ai concorsi già svolti’’ si vede favorevole al ripristino appunto del turnover .Pochi giorni fa le iniziative di vari partiti e di numerosi esponenti politici, sembra abbiano trovato riscontro positivo da parte del Senato, che ha dato parere favorevole per riportare il blocco del turnover quantomeno al 50%. Noi vogliamo affidare le nostre speranze e la nostra fiducia, in queste iniziative, sperando nel buon senso e nella sensibilità di questi spettabili signori, con la speranza che magari possano bloccare la nostra graduatoria, e riuscire entro 18 mesi (durata della graduatoria) a farci partire tutti per il corso, riconoscendo a noi ragazzi che quel posto che ci siamo abbondantemente sudato e meritato, e rendendo giustizia ad una situazione assurda e senza precedenti non solo per l’Arma dei Carabinieri, ma nella storia dei concorsi pubblici. Un Paese non può crescere senza una forza che lo difenda e senza giovani carichi di entusiasmo. Non si può cercare di risparmiare sulle forze di Polizia e sulle forze Armate, non si può non garantire la sicurezza per i cittadini, sarebbe incentivare la criminalità!!! Con questa riforma si sta trascurando l’elemento primario, che è la qualità della vita del popolo. Il cittadino che non si sente sicuro, tutelato e protetto dalle istituzioni, non può di sicuro essere soddisfatto del vostro operato, e state certi che nel momento in cui si dovrà votare, tutto questo sarà ricordato e ricambiato. Sicuro della vostra obiettività, spero rimedierete finchè si è in tempo, con la legge di stabilità, e che farete tutto ciò che è nelle vostre possibilità per aiutarci, ricordando che i giovani sono il futuro di questo paese. Rinnovo la stima e i saluti, un aspirante Carabiniere". Trattasi del concorso per il reclutamento di 1886 allievi carabinieri effettivi bandito il 25 febbraio 2012 (riservato, ai sensi dell’articolo 2199 del decreto legislativo 15 marzo 2010, nr.66, ai volontari delle Forze armate in ferma prefissata di un anno o quadriennale ovvero in rafferma annuale, in servizio o in congedo e, ai sensi del D.Lgs. 11/2011, ai concorrenti in possesso dell’attestato di bilinguismo). Tuttavia la spending review colpisce anche l'Arma ed il blocco del turn over previsto dal Governo Monti, e il conseguente taglio dell'80%, garantirà l'arruolamento solamente a 227 ragazzi. A chiedersi se possa considerarsi legittimo il concorso alla luce dei drastici tagli, oltre ai tanti giovani aspiranti di un posto di lavoro, è la senatrice di Grande Sud Adriana Poli Bortone, la quale in una interrogazione (pone la questione al Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola. “In un momento di crisi occupazionale giovanile soprattutto per il Mezzogiorno, la drastica riduzione dei posti per ricoprire la posizione di allievi carabinieri effettivi da 1886 a soli 227 ha il sapore della beffa”. La richiesta è dunque quella di “accertare la regolarità delle dinamiche che hanno portato alla drastica riduzione del numero dei vincitori del concorso, nonché di impedire l'applicazione retroattiva della norma mantenendo i 1886 posti per allievi carabinieri, così come bandito garantendo inoltre la graduatoria per almeno cinque anni”. Nel leccese sono tanti i giovani ad aver dedicato mesi ad un concorso che rischia ora di diventare una delusione. Afferma il padre di uno degli aspiranti: “Dopo tanti sacrifici di giovani e di rispettive famiglie, credo che nessuno meriti questa brutta fine”. Risposta alle interrogazioni n. 4-08273, 4-08218, Fascicolo n.185, (23 ottobre 2012). “Risposta. - La questione rientra, a pieno titolo, nel quadro più ampio della cosiddetta spending review che, nell’ottica di perseguire con equilibrio e rigore gli obiettivi di razionalizzazione della spesa, ha imposto a tutte le amministrazioni una disponibilità ai sacrifici e un impegno per la realizzazione del programma di rimodulazione della spesa stessa. In tale quadro, il Ministero, d’intesa con gli altri Dicasteri interessati, si è già reso artefice di un’iniziativa per innalzare in maniera significativa, pur tenuto conto delle esigenze di contenimento della spesa, secondo un principio di gradualità negli anni, le attuali percentuali del turnover stabilite dall’articolo 14, comma 2, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135. Tale iniziativa è in corso di esame in ambito governativo, mancando, tra l’altro, di adeguata copertura finanziaria. Tale modifica, che vedrebbe ricompresi anche i vincitori del concorso richiamato, consentirebbe di mitigare gli effetti della norma sul turnover approvata con la spending review a beneficio della funzionalità delle Forze di polizia, compresa l’Arma dei carabinieri, e permetterebbe di andare incontro alle aspettative dei volontari in ferma prefissata delle Forze armate vincitori di concorso. Per quanto riguarda l’Arma le attuali percentuali di blocco del turnover determinano, da un lato, una contrazione effettiva stimata in circa 6.500 unità nel periodo 2012-2016 e, dall’altro, l’impossibilità per circa 2.500 volontari in ferma prefissata quadriennale, già vincitori di concorso, di essere immessi nelle carriere iniziali delle Forze di polizia. Il Ministro della difesa. DI PAOLA". Per tradurre dal politichese: tutto rimane com'è ed i vincitori del concorso in oggetto restano a casa.

POCHI LUPI CON TANTE PECORE. ORDINI PROFESSIONALI E FUNZIONI PUBBLICHE, SE L’ESAME DI STATO DIVENTA UNA BEFFA O UNA TRUFFA ED I RESPONSABILI CRIMINALI IMPUNITI VANNO A PARLAR NELLE SCUOLE DI LEGALITA’.

Difformità di valutazione, barriere all'ingresso e scandali clamorosi, come quello di Catanzaro con i duemila compiti-fotocopia. Non solo Antonio Giangrande con il suo presente libro “Concorsopoli, l’Italia delle raccomandazioni, dei favoritismi e dei concorsi pubblici truccati”, che svela come sia ampio il fenomeno del trucco e come sia sottaciuto dai media, ma rivela anche come si truccano tutti i concorsi pubblici, compreso quello per cui nessuno osa parlarne: quello per l'accesso in magistratura. Altri scrittori, anche se in modo limitato, ma altrettanto efficiente, hanno affrontato lo scandalo degli esami farsa per l’accesso ad una professione. Nei "Veri intoccabili" (Chiarelettere) Franco Stefanoni racconta le "lobby del privilegio" e qui si dà spazio ad alcune recensioni.

"Attenzione, rischiamo di perdere voti... Inimicarsi le professioni può costare caro.". Massimo Brutti, esponente dei Ds (oggi Pd), autunno 2000. La metà dei componenti del Parlamento italiano è iscritta a un ordine professionale. Un gruppo trasversale: il partito dei professionisti. Stiamo parlando di più di due milioni di persone in Italia, divise in 28 categorie: avvocati, medici, notai, ingegneri, giornalisti, farmacisti... Hanno enti previdenziali propri, un patrimonio di circa 50 miliardi di euro investiti in beni immobili e titoli finanziari. Quello degli ordini professionali è un mondo chiuso e ancora tutto da raccontare. Una macchina del privilegio, con meccanismi e regole scritte e non scritte...Questo mondo, però, non chiamatelo mafia, ve la farebbero pagare......

Questo libro di Stefanoni racconta, attraversando inchieste e scandali, modalità di accesso non sempre trasparenti e sanzioni disciplinari che arrivano con incredibile ritardo. Nati con l’alibi di difendere il cittadino-consumatore, gli ordini professionali proteggono solo se stessi, tramandandosi il potere in maniera quasi ereditaria (il 44 per cento degli architetti è figlio di architetti, il 41 per cento dei farmacisti è erede di farmacisti, il 37 per cento dei medici è figlio di un medico). Ogni tentativo di riforma è bloccato (così Fabrizio Cicchitto, Pdl, definisce la tentata riforma Bersani del 2006: “Un esempio estremista di vendetta sociale”). All’interno delle stesse professioni c’è chi prova a opporsi (l’Anarchit – Associazione nazionale architetti italiani, Altrapsicologia, il Movimento nazionale liberi farmacisti...): invocano l’eliminazione degli albi e un radicale cambiamento che metta in prima fila libertà e merito, abbattendo ogni privilegio. La loro battaglia è la battaglia di tutti i cittadini italiani.

STORIA RECENTE DEGLI ORDINI:

- nell'estate 2011, sia nella prima manovra di luglio sia nella seconda di agosto, Tremonti ha cercato più volte di liberalizzare le professioni: prima con bozze drastiche (di fatto l'eliminazione di gran parte degli ordini) poi con testi più soft. Non sono passati, anzi, alla fine, grazie al pressing delle lobby degli albi, il testo finale contiene una parziale riforma che introduce pochi elementi di novità, molte cose già esistenti, e comunque che necessitano di future e improbabili altre leggi. Insomma, l'attacco di Tremonti è fallito mentre gli ordini si sono detti soddisfatti.

- perché Tremonti in estate avesse preso di mira gli ordini si è capito dopo, con la venuta alla luce della lettera della Bce al governo (datata 5 agosto, firmata da Draghi e Trichet): in uno dei punti d'intervento sulle riforme da fare con urgenza si segnalava la necessità di liberalizzare le professioni regolamentate.

- il 26 ottobre, nella lettera d'intenti di Berlusconi consegnata a Bruxelles al Consiglio europeo, uno dei sei punti è stato un nuovo intervento sulle liberalizzazione di professioni e gli ordini.

- a inizio novembre, nella proposta di maxiemendamento anticrisi alla legge di stabilità, si è tornati di nuovo sulla liberalizzazione delle professioni (via barriere, via tariffe e sì alle società di capitali per i professionisti, da realizzare entro un anno).

- alcune considerazioni sul futuro, anche se è difficile dire: l'obiettivo è aumentare la concorrenza (più soggetti possono fare più cose sui vari servizi professionali) e dunque movimentare lavoro e crescita economica. Secondo Catricalà, già Presidente dell'Antitrust (istituto che da decenni chiede la liberalizzazione degli ordini), liberalizzare le professioni potrebbe portare a un aumento dell'1,5% del pil, ovvero 18 miliardi di euro nei prossimi anni (l'ha detto il 13 ottobre).

- attenzione: Mario Monti, Presidente del Consiglio, è stato negli anni novanta (quando era Commissario alla Commissione europea) il più convinto sostenitore della liberalizzazione degli ordini e l'argomento entrerebbe ancor più nel mirino; nel discorso programmatico in senato ha parlato letteralmente di "revisione della disciplina degli ordini professionali".

Alla fine non se ne fa mai nulla. Tutti si scontrano con un muro di gomma, che di fatto, inibisce ogni sorta di liberalizzazione. Pochi lupi in un gregge di molte pecore. In Italia c’è un partito invisibile che accomuna milioni di persone, al di là delle appartenenze politiche. È quello dei professionisti, tutelati da una sfilza di ordini. Sono loro i veri intoccabili. Nessuno è mai riuscito a scalfire i privilegi di cui godono, neppure nei periodi di recessione, quando intere categorie di cittadini sono chiamate a sopportare nuovi sacrifici. Il caso più recente esplode nell’estate del 2011, nel pieno della crisi economica. Nell’ambito della manovra finanziaria, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti tenta più volte di introdurre una norma sulla liberalizzazione degli ordini professionali. Subito gli avvocati-onorevoli alzano le barricate, minacciando di non votare la fiducia in Parlamento. Dissentono anche gli stessi membri del Pdl, il partito di governo. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa e gli avvocati Maurizio Paniz e Niccolò Ghedini prendono le difese degli ordini. Il provvedimento sparisce e un altro, molto più morbido, lo sostituisce. È l’ennesimo tentativo andato a vuoto, che si aggiunge alle riforme avviate dai vari governi negli ultimi trent’anni, tutte clamorosamente fallite per l’opposizione delle lobby professionali, ben rappresentate in Parlamento: nel 2011 circa il 45 per cento di deputati e senatori ha in tasca la tessera di un albo. Gli ordini o collegi di categoria si presentano come paladini del consumatore: sono enti pubblici il cui scopo dichiarato è proteggere i cittadini dalle cosiddette asimmetrie informative, mettendoli in contatto con professionisti certificati che non abuseranno delle proprie competenze. Nella realtà si tratta di élite che proteggono soprattutto i propri iscritti. Chi li tocca muore. Nessuno può interferire nei loro interessi, nessuno può scalfire il loro potere. Avvocati, medici, ingegneri, commercialisti, notai, giornalisti, farmacisti, ma anche ostetriche, psicologi, spedizionieri doganali, periti agrari, chimici. In tutto 28 categorie, per un totale di oltre 2,1 milioni di professionisti. Anche se gli ordini sono ufficialmente enti senza scopo di lucro, il potere economico che movimentano è enorme. Il volume d’affari generato dai professionisti iscritti agli albi è stimato in circa 196 miliardi, pari al 15 per cento del Pil (compresa la componente sommersa). Il valore aggiunto, cioè detratti i costi sostenuti per le attività, si aggira intorno a 80 miliardi, ovvero il 6 per cento del Pil. Ogni anno, attraverso le quote di iscrizione, gli ordini raccolgono una cifra che si aggira sui 500-600 milioni di euro. È il denaro che serve a coprire le spese di funzionamento, illustrate in bilanci non sempre trasparenti e approvati senza adeguati controlli. Ma il vero forziere è custodito nelle casse previdenziali. Chi esercita la professione è obbligato a versare contributi con l’auspicio un giorno di ottenere una pensione. Il flusso finanziario rimpingua un patrimonio che nel 2011 ammonta a circa 50 miliardi. I presidenti degli enti pensionistici, espressione degli ordini di riferimento, sono plenipotenziari nelle cui mani passano autentiche fortune investite in valori mobiliari e immobiliari, con scelte che nel tempo hanno sollevato polemiche, arresti, processi e scandali. Con la crisi finanziaria del 2008 vengono a galla operazioni rischiose e poco lungimiranti che mettono a rischio la possibilità per i giovani di avere in futuro una pensione. Da anni in Italia si parla di snellire o abolire gli ordini, da molti ritenuti inutili, inefficienti, autoreferenziali, miopi, fautori di privilegi antistorici, conniventi con chi viola le regole, poco cristallini nella gestione degli affari, incapaci di annullare o limitare le sbandierate asimmetrie informative, conservatori, costosi, protettori di monopoli, interpreti di impropri ruoli sindacali, duri con i deboli e deboli con i duri. Ma la legge è dalla loro parte. L’impalcatura ordinistica, anche se risalente a epoche lontane, appare indistruttibile. Epoche fasciste di cui i comunisti non se ne curano. Questo libro ne racconta per la prima volta vizi e virtù, strategie, interessi politici e finanziari, abusi, malcostumi, lotte intestine e politiche, attraverso un viaggio nella miriade di enti che rappresentano le varie categorie professionali. Un viaggio da cui emerge una rete di piccoli sistemi di potere caratterizzati da scarsa trasparenza verso gli iscritti ed elevata litigiosità, spesso accusati di ostacolare l’ingresso delle nuove leve nel mondo del lavoro. Le piccole e grandi storie raccolte in questo libro compongono un mosaico da cui emerge la peculiarità della situazione italiana, erede delle corporazioni medievali, di leggi del ventennio fascista e di una cultura di lacci e lacciuoli.

Un’ingessatura che ha pochi pari a livello internazionale e che tante volte è stata contestata dall’Unione europea e dall’Antitrust. E tuttavia resiste e sembra godere di piena salute, a dispetto di mille proclami antiordini. Chi ha osato sfidarli, finora, è rimasto scottato.

Qui se ne riporta un estratto tratto su Sky Tg24. Facilissimo, ordinario, capestro. L’accesso agli ordini non brilla per omogeneità. In base ai dati forniti a fine 2009 dal ministero dell’Università, nel corso degli anni Duemila la probabilità di ottenere l’abilitazione a un ordine o a un collegio si è ridotta in media del 10 per cento: solo il 55 per cento dell’intero popolo dei candidati raggiunge il traguardo dell’albo. A fronte di un afflusso di aspiranti professionisti che cresce di anno in anno, calano le probabilità di farcela, nonostante l’incremento generale degli iscritti: tra il 1997 e il 2010 il loro numero complessivo da 1,5 a oltre 2 milioni. Ma l’accesso all’albo segue criteri differenti e all’interno delle varie categorie si trova di tutto. Per veterinari e farmacisti l’esame di Stato per immatricolarsi all’ordine è una pura formalità: a livello nazionale passa il 98 per cento dei candidati. Non è molto diverso per odontoiatri (96 per cento), biologi e medici (95 per cento). Per altre categorie, invece, le prove scritte e orali possono diventare una batosta. Tra i consulenti del lavoro le supera appena il 31 per cento, tra gli avvocati il 24 per cento, tra i notai addirittura un misero 7 per cento.

Esclusi i casi in cui gli esami si svolgono a Roma a livello nazionale, come per giornalisti, biologi o notai, in generale le prove si tengono a livello locale, con accorpamento delle sedi nei luoghi in cui il numero di candidati è ridotto. Per categorie come consulenti del lavoro, psicologi, geologi, assistenti sociali, chimici e tecnologi alimentari gli esami sono gestiti dai consigli regionali in sinergia con le università. In tutti gli altri casi ci pensano invece gli ordini provinciali. Sono i consigli dislocati sul territorio che contribuiscono a preparare e organizzare le sessioni scritte e orali, e che indicano la composizione delle commissioni d’esame, in genere condivise con membri scelti dai ministeri competenti: Università, Lavoro, Giustizia. All’interno delle commissioni sono designati professionisti, accademici, magistrati, esperti della materia, che periodicamente sono chiamati a valutare la preparazione di futuri ingegneri, avvocati o architetti. Nei casi in cui è richiesto, i candidati devono certificare lo svolgimento di un periodo di tirocinio da uno a due anni in uno studio professionale o in una struttura autorizzata. Il più delle volte il tirocinio è remunerato al minimo o per nulla, con ricadute professionali e familiari notevoli per chi rimane troppo a lungo in attesa di ottenere l’accesso. Talvolta, come accade per notai e avvocati, l’aiuto per preparare gli esami è fornito da apposite organizzazioni che fanno capo agli ordini stessi e alle università. Gli avvocati, per esempio, possono scegliere tra 77 scuole, con qualità di insegnamento e tariffe molto differenti tra loro. Non sono le uniche spese. Se a livello locale il candidato non deve sopportare costi di vitto e alloggio, non è così quando deve spostarsi a Roma per sostenere gli esami. Secondo l’Antitrust la scarsa uniformità della selezione fa sorgere il sospetto che alcuni ordini stabiliscano a tavolino un’implicita barriera all’entrata. L’accusa è che i consigli, oltre a esaminare i candidati sotto il profilo tecnico, agiscano sotto la spinta di logiche corporative. Ma riforme parlamentari ad hoc su singole categorie e moniti del garante sono serviti a poco.

D’altronde, il potere di un consiglio locale si esprime anche nella capacità di aprire o chiudere il rubinetto ai nuovi colleghi. A ciò contribuiscono fattori strutturali: per gli aspiranti medici esiste già il numero chiuso al momento dell’iscrizione all’università. Oppure, come avviene per i notai, c’è un numero fisso di posti stabilito in base a parametri economici e territoriali. Altrimenti la prassi può essere influenzata da logiche localistiche: in una zona dove il numero di iscritti all’albo è ritenuto eccessivo e il lavoro non basta per tutti può scattare la stretta, che poi potrà essere premiata in termini di voto al rinnovo degli organi dell’ordine. Viceversa, in zone dove predominano le logiche clientelari e di scambio elettorale può essere più conveniente abbassare la guardia sull’accesso all’albo e imbarcare iscritti, che troveranno il modo di sdebitarsi al momento del voto. Le differenze di valutazione tra una città e l’altra balzano all’occhio. Per esempio, a fine anni Duemila gli aspiranti architetti sono promossi per il 94 per cento a Napoli e l’86 per cento a Palermo, ma solo per il 34 per cento a Torino e il 25 per cento a Trieste. A Palermo supera l’esame appena il 14 per cento dei candidati dottori commercialisti, a Udine il 7 per cento, mentre a Torino passa il 90 per cento. Sono tuttavia gli avvocati a vantare il primato della minore omogeneità. A fine anni Duemila gli idonei risultano il 16 per cento a Salerno, il 21 per cento a Milano, il 22 per cento a Firenze e Trento, il 27 per cento a Torino. In altre sedi d’esame la situazione si ribalta: 50 per cento a Bologna, 53 per cento a Catanzaro, 65 per cento a Palermo e Lecce. Tale disomogeneità sussiste malgrado una riforma del 2003 varata dal leghista Roberto Castelli, ministro alla Giustizia, che ha ridotto la variabilità dell’esito delle prove forensi. Fino ad allora, infatti, gli scarti tra una sede e l’altra erano ancora più marcati. Con le nuove regole cambia la formula: nelle commissioni non sono più presenti membri dei consigli locali ma liberi avvocati del foro, e a chi svolge l’incarico di commissario è vietato di candidarsi alle elezioni dell’ordine immediatamente successive agli esami. Questo per annullare il pericolo di scambi di interessi e voti tra consiglieri e candidati. La riforma Castelli ha introdotto un’altra novità: gli elaborati di ogni sede sono corretti dai consigli di un’altra sede distrettuale abbinata con sorteggio. Vagonate di scritti sono spediti a ordini lontani centinaia di chilometri. Motivo? Contenere il fenomeno del cosiddetto turismo forense: aspiranti avvocati che si spostano da una città all’altra, con la compiacenza di colleghi che attestano tirocini di facciata, nella speranza di affrontare un esame più facile. Così, dal 2003, si spariglia: gli scritti di Milano sono corretti a Roma e viceversa. Siccome le prove orali restano di competenza della sede originaria, non è infrequente che si cerchi di compensare il tasso di ammessi e respinti: se dagli elaborati di Milano, corretti a Roma, risultano troppi promossi, agli orali Milano ne boccerà di più. I candidati che non ce la fanno possono tentare di diventare avvocati all’estero e poi farsi riconoscere in Italia: la via preferita è quella spagnola, ma i corsi formativi sono costosi e pochi la percorrono, anche perché c’è il rischio di restare marchiati dallo stigma del «furbo». Ancora nel 2009 è Catanzaro una delle città più generose nel garantire l’accesso all’albo. Un primato che in passato, quando ogni ordine locale correggeva da sé i propri esami con commissioni composte anche da esponenti del consiglio forense del luogo, è stato ancora più netto e ha dato origine a un clamoroso scandalo.

Lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia.

Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Lo verifica la Guardia di finanza, dopo la soffiata di alcuni esclusi, su mandato della Procura della Repubblica di Catanzaro. Si apre un’indagine resa pubblica nell’estate 2000 da Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera», in cui si denunciano compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente » in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati.

Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». Giuseppe Iannello, presidente dell’ordine forense di Catanzaro, smentisce tutto. Iannello non è uno qualunque ma un notabile dell’ente di categoria. È una vita che siede nel consiglio forense di Catanzaro, del quale per decenni rimane incontrastato presidente (lo sarà fino al 2012), spesso partecipando direttamente alle commissioni d’esame. Molto conosciuto in tribunale, consulente della Regione Calabria e storico socio del Lions club di Catanzaro, Iannello, che ha uno studio anche a Roma, leva la voce a difesa della procedura di accesso alla professione. Ma la candidata continua: «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio». L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Il clima è pesante e il consiglio dell’ordine calabrese protesta contro la «ferocia demolitrice della stampa» e la volontà di «aggredire tutta la città di Catanzaro». Lo scandalo dei 2295 compiti-fotocopia alza il velo su una prassi che molti conoscono. La sede d’esame della città calabrese è nota per l’altissimo numero di partecipanti e promossi: oltre il 90 per cento.

Una marea che sbilancia l’intero numero di accessi nazionali. Non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e I veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi.

Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […].

Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi.

Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito.

PARLIAMO DI IMPUNITA'.

Bari, Vendola assolto. Dopo una breve camera di consiglio, il gup di Bari ha deciso per l'assoluzione perché il fatto non sussiste. Il leader di Sel era accusato di concorso in abuso d'ufficio in merito a un concorso alla Asl di Bari e l'accusa aveva chiesto una pena di 20 mesi di reclusione, scrive Nico Di Giuseppe su “Il Giornale”. Assolto perché il fatto non sussiste. Nichi Vendola esce pulito dall'inchiesta per concorso in abuso d'ufficio in cui era coinvolto. "Se dovessi essere condannato, mi ritirerei dalla vita pubblica", aveva assicurato il governatore della Regione Puglia, dopo la richiesta di condanna a un anno e otto mesi avanzati dai pm. Una presa di posizione che era subito rimbalzata su tutti i quotidiani nazionali. Gesto "forte" o abile strategia comunicativa? Il sospetto che il governatore della Puglia abbia deciso di ufficializzare la sua posizione dopo essere stato rassicurato dai legali è forte. Una sicumera che ad alcuni osservatori ha fatto pensare che il leader di Sel sapesse già, informato probabilmente dai suoi legali, quale sarebbe stata la sentenza. Nessun ritiro, comunque. Vendola si salva, il Pd di Bersani no, costretto a fare i conti alle primarie con lui. Così come non festeggeranno l'assoluzione di Vendola i sostenitori del Monti-bis. Dopo una brevissima camera di consiglio, il gup del tribunale di Bari, Susanna De Felice ha deciso per l'assoluzione. Il governatore era presente in aula. Il leader di Sel era accusato, in concorso con l’ex direttore generale della Asl Bari Lea Cosentino, per la quale era stata chiesta la condanna alla stessa pena, di abuso d’ufficio in relazione ad un concorso per primario. La vicenda è quella della nomina di un primario di chirurgia toracica dell'ospedale San Paolo, Paolo Sardella, che sarebbe stata favorita dal presidente della Regione con un suo intervento presso Lea Cosentino. Secondo i pm, Nichi avrebbe istigato l'allora dg Cosentino a riaprire i termini per la presentazione delle domande per accedere al concorso, con l'obiettivo di assicurare a Sardelli l'assunzione quinquennale. I fatti si riferiscono al periodo compreso tra settembre 2008 e aprile 2009. Inoltre, il medico che si ritiene danneggiato dalla scelta perorata da Vendola, Marco Luigi Cisternino, parte civile nel processo, ha chiesto la provvisionale sul risarcimento dei danni di 50mila euro per ciascuno dei due imputati. "Io sono una persona per bene ed è stato per me bere un calice amaro, questo processo, ma l’ho fatto per rispetto nei confronti della giustizia e della Procura della Repubblica": sono le prime parole pronunciate da Nichi Vendola, che poi ha continuato: "Per me è un momento di felicità, sono stato usato in questi anni come contraltare per le più scandalose inchieste che hanno coinvolto un pezzo di ceto politico verminoso".

Vendola ha lasciato la procura in lacrime. Assolta anche la coimputata Lea Cosentino, ex manager della Asl di Bari. "Io ho vissuto un’intera vita sulle barricate della giustizia e della legalità. Oggi mi è stato restituito questo". In merito al suo annunciato ritiro in caso di condanna, Vendola ha spiegato che "quello che avevo deciso era sincero. Non avrei potuto esercitare le mie pubbliche funzioni con quel sentimento dell’onore che è prescritto dalla Costituzione. Mi sarei ritirato dalla vita pubblica. Per me non non era e non è in gioco una contestazione specifica rispetto a cui penso di poter documentare assoluta trasparenza dei miei comportamenti".

Sanità Puglia, ecco le accuse della Procura a Vendola, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Per i pm inquirenti, Desirè Digeronimo e Francesco Bretone, il pressing di Vendola su Cosentino sarebbe stato illecito perché avrebbe provocato un ingiusto vantaggio patrimoniale a Sardelli, che poco prima aveva visto svanire un incarico direttivo presso l’ospedale "Di Venere" del capoluogo pugliese. Vendola era accusato dalla procura di Bari di aver istigato l’ex direttore generale della Asl di Bari, Lea Cosentino, sua principale accusatrice e coimputata, a riaprire i termini del concorso per l’incarico quinquennale di direttore medico della struttura complessa di chirurgia toracica dell’ospedale San Paolo di Bari.

Questo perché – secondo l’accusa – Vendola voleva che al concorso partecipasse un medico che egli intendeva favorire, Paolo Sardelli. Il chirurgo nel 2009 partecipò e vinse il concorso e ancora oggi guida il reparto che è ritenuto un fiore all’occhiello della sanità pubblica pugliese. Per i pm inquirenti, Desirè Digeronimo e Francesco Bretone, il pressing di Vendola su Cosentino (entrambi accusati di abuso d’ufficio) sarebbe stato illecito perché avrebbe provocato un ingiusto vantaggio patrimoniale a Sardelli, che poco prima aveva visto svanire un incarico direttivo presso l’ospedale “Di Venere” del capoluogo pugliese. Per agevolare Sardelli – sempre secondo l’accusa – i due imputati avevano riaperto i termini del concorso (procedura che gli stessi pm ritengono regolare) sostenendo che alla selezione non si erano presentati candidati all’altezza dell’incarico. Circostanza non rispondente al vero questa – rilevano i pm – perché da subito alla prova aveva partecipato il medico Marco Luigi Cisternino, che alla fine della selezione aveva ottenuto un risultato “eccellente”. Da qui la conclusione che non fosse vero che non c’erano candidati eccellenti e che la riapertura dei termini del concorso fu fatta solo per favorire Sardelli. Gran parte del lavoro degli inquirenti si basava sulle dichiarazioni di Cosentino che nel corso delle indagini aveva riferito ai magistrati quanto le avrebbe detto Vendola all’epoca dei fatti, riferendosi alla riapertura dei termini per la presentazione delle domande del concorso per l’ospedale San Paolo: “Non ti preoccupare dì questa cosa! Ti copro io!”. Le dichiarazioni del manager poi sono state ridimensionate dai suoi stessi legali durante le arringhe che si sono conclude con l’affermazione che nella vicenda “tecnicamente non c’è reato”. Per la pubblica accusa, invece, l’abuso d’ufficio esisteva in quanto la pressione di Vendola nei confronti di Cosentino avvenne “in assenza di un fondato motivo di pubblico interesse” e “sulla base di una motivazione pretestuosa e in sé contraddittoria (asserita esigenza di ‘una ampia possibilità di scelta in relazione alla esiguità del numero dei candidati che hanno presentato domanda, in palese contrasto con la dichiarata ‘specifica particolarità della disciplina oggetto della selezione’). Dopo la riapertura dei termini per la presentazione delle domande, “con deliberazione del 19 aprile 2009 n.9183/1 Cosentino – per la pubblica accusa – presceglieva fra i soli tre candidati presenti alla prova colloquio tenutasi il 30 marzo 2009, tutti dichiarati idonei dalla Commissione di esperti ed inseriti nella terna da proporre al Direttore generale per la nomina (…) – il dott. Sardelli ai fini del conferimento dell’indicato incarico”.

Le tangenti, le minacce, le pressioni, gli imbrogli e le corruzioni sono conseguenza (quasi) naturale di un sistema di vita basato sul concetto di disuguaglianza. Altro che art. 3 della Costituzione. Altro che comunisti al potere. Chi vince gli appalti si arricchisce. Chi vince i concorsi pubblici truccati si onora, poi va a fare incontri con i ragazzi nelle scuole per parlar di legalità. Toghe e divise rubate: giudicanti, ingiudicati. Sì perché io ho vinto (barando) e tu no. Ergo: son migliore di te e ti giudico.

La «spintarella» provoca disuguaglianza. Un malcostume che inizia con la nascita. Scrive Francesco Piccolo su “Il Corriere della Sera”.

La figlia di un boss della ‘ndrangheta segnalata all’assessore regionale Zambetti. E poi assunta. Il vizio della raccomandazione, come sistema basato sull’illegalità per la cooptazione in posti pubblici o di rilievo, non ci fa indignare più. Perché? Perche siamo tutti uguali. Lo scavalco per sentirci migliori e usufruire di quei privilegi riconosciuti a pochi. La nostra asserita superiorità farla pesare agli altri, ma pronti ad indignarci quando qualcuno ci addita come raccomandati. La causa maggiore della raccomandazione, in Italia, è proprio quella che ha messo in risalto il direttore generale dell'Aler: funziona. Nella pratica, non c'è un giudizio diffuso che sia di sincera condanna. Anzi, a molti sembra un sistema di vita che ha una sua efficienza. In un libro di qualche anno fa, intitolato "La raccomandazione", l'antropologa americana Dorothy Louise Zinn diceva che il sistema comincia dalla nascita. Quando un italiano è pronto per venire al mondo, le probabilità che sua madre, appena arrivata in ospedale, abbia chiesto, tramite vari gradi di conoscenza, una stanza singola per starsene in pace, sono molto alte; ed esercita tramite terzi pressioni sulle infermiere, esprimendo la volontà di avere il proprio figlio tra le braccia, qualche minuto in più del consentito. Cioè, nella sostanza: qualche minuto in più degli altri. Il sistema si alimenta fino alla fine dell'esistenza. Subito dopo, i congiunti si muovono tra conoscenze varie per ottenere un funerale migliore e una posizione favorevole al cimitero. In mezzo ai due punti estremi, ci sono le scuole, i concorsi, il lavoro; ci sono i posti al teatro, le file da saltare, i passaporti, i posti auto, un tavolo in giardino al ristorante, il pesce più fresco in pescheria, e via con un elenco lunghissimo di eventi minuscoli o sostanziosi nei quali la differenza la fa il tuo pacchetto di conoscenze, il minor grado possibile di separazione dal potente di turno. La vita di un italiano, a prescindere dalle grandi corruzioni che sono in atto da tempo e che in queste settimane esplodono alla vista di tutti, è legata alla raccomandazione come a uno statuto naturale. Le tangenti, le minacce, le pressioni, gli imbrogli e le corruzioni sono conseguenza (quasi) naturale di un sistema di vita basato sul concetto di disuguaglianza. Perché in fondo la raccomandazione non serve ad altro che a creare una differenza tra me e tutti gli altri. Io voglio ottenere tramite una rete di amicizie cose, posizioni e rendite migliori; agli altri, lascio il resto. Non voglio accettare le regole condivise con la mia comunità: voglio qualcosa in più. Cioè: voglio vivere meglio degli altri. Una comunità dovrebbe basarsi sul concetto contrario. Cercare cioè di ottenere il meglio per tutti. La raccomandazione invece distribuisce disparità, e come conseguenza crea sfiducia nella neutralità. Se vado al ristorante, in fondo ho paura che mi rifilino cibo meno buono, perché non mi conoscono. E il cibo buono lo riservino per coloro che hanno ottenuto la raccomandazione. Ma non mi rendo conto che tale pratica l'ho messa in moto io tutte le altre volte. La vita italiana, nella sostanza, è modellata sull'ossessione che si ha in provincia: lì, non conta cosa vuoi fare, ma quante persone conosci. Ora, non tutti gli italiani che praticano la raccomandazione quotidiana sono abili a farne una pratica di corruzione ad alto livello. Però è come se qui la vita fosse un continuo allenamento, una lunghissima preparazione atletica, minuziosa e quotidiana, al malcostume, alla disuguaglianza dei diritti, alla propensione al privilegio. E quindi, chiunque abbia il talento di approfittarne, arriva con il massimo della preparazione. Il problema, però, non è se ogni italiano sia propenso a diventare il protagonista delle ruberie della scena italiana. No: quello che riguarda tutti noi, è se abbiamo la forza di riconoscere, indignarci e reagire, quando qualcuno procede per vie traverse - noi che siamo abituati fin dalla nascita a vivere in un mondo così. E ci sembra anche che, un mondo così, bene o male, abbia funzionato. E che ci aspettiamo, allora, se a far le leggi sono il fior fiore dei raccomandati, anche in virtù delle nomine imposte agli elettori nelle liste elettorali. Va da sé che questi si fanno le leggi a loro immagine e somiglianza e noi cittadini (coglioni) a rispettarle. E che ci aspettiamo se ad informarci sono le cricche genuflesse al potere.

La gente non va più a votare, né legge o vede le notizie di stampa taroccate. Ecco perchè l'italietta si è ridotta a farsi governare da nani, ballerine e comici. E ben ci stà, se siamo codardi o collusi. A che serve inviare i nostri curricula. La loro carta non va bene nemmeno al cesso. A che serve un curriculum nel Paese che premia con sistematica ostinazione i non meritevoli, i mediocri, i trombati, i zero titoli, gli amici degli amici, i figli di…? “Scurriculum”: viaggio nell’Italia dei raccomandati e dei figli di…scrive Warsamé Dini Casali su “Blitz Quotidiano”. Prendiamo il caso di Massimo Zennaro, portavoce del ministro del’Istruzione che in un comunicato ufficiale si inventa un tunnel di 700 km tra Ginevra e il Gran Sasso al solo scopo di magnificare la figura del ministro “mandante” della eccezionale scoperta sulla velocità dei neutrini.  C’è anche il suo di “scurriculum” nel catalogo degli orrori della repubblica fondata sulla “demeritocrazia” stilato da Paolo Casicci e Alberto Fiorillo di Legambiente pubblicato da Aliberti editore (prefato da Gian Antonio Stella). Ed è solo l’esempio che ha avuto la maggiore risonanza internazionale e nel mondo del web grazie all’enormità dell’errore.

Ma non è il caso più grave, né il più ridicolo. “Scurriculum” (un titolo che è già tutto un programma) offre un panorama deprimente della penisola delle parentele, della raccomandazione esibita, del contatto giusto. Il libro ragguaglia sui casi esemplari di un sistema di reclutamento della classe dirigente, fino ai livelli più bassi della gestione pubblica, che ha dimenticato merito e valore a favore della cooptazione più spudorata. Ci sarebbe da piangere, specie considerando i tantissimi titolati che, nonostante il curriculum di altissimo profilo o, forse proprio per questo, vengono regolarmente scartati per far posto ad autentici improvvisatori della dritta giusta. Quando va bene, i bravi bocciati, vanno ad arricchire il patrimonio di conoscenze e competenze di altri paesi. Tuttavia, di fronte alla messe di situazioni paradossali nei più diversi ambiti lavorativi, “Scurriculum” fa anche ridere, certo un humor dei più neri e risentiti. Un direttore di Asl ha raccontato al pm dell’inchiesta Tarantini in Puglia, della preoccupazione di un politico per la figlia ricoverata dopo un incidente stradale. “Perché ti preoccupi, c’è un bravo primario a ortopedia” gli fa il direttore. Risposta da commedia dell’arte: “Mi preoccupo perché ce l’ho messo io e so come è fatto”.

Per non parlare di Claudio Regis detto “Valvola”, assurto ai vertici dell’Enea per comprovata fedeltà alla Lega Nord e per il suo passato di giovane elettricista. Nel decreto di nomina firmato Letizia Moratti era accreditato come ingegnere, come sui biglietti da visita o negli articoli che andava pubblicando. Non era nemmeno laureato ma non si fece scrupoli per insolentire il premio Nobel Carlo Rubbia cui affibbiò l’etichetta di “sonoro incompetente” in fatti di ingegneria. Che si limitasse a studiare le sue particelle, l’arrogante professore.

L’elenco è troppo lungo per non rimanerci di sasso. Dentisti che dirigono autodromi in qualità di fidanzati di ministri (Brambilla). Igieniste dentali che fanno i consiglieri (i letti che ti hanno ospitato fanno curriculum). Gli amanti di… sono una variazione sul tema approfondita negli ultimi anni. Il principio però resta identico: meno sai più fai strada, ma ricordati di agganciare il politico più influente.

L'Italia rovinata dai raccomandati. Ed all'estero? Si domanda “Il Fatto Quotidiano”. In cerca di lavoro nell’Europa afflitta dalla crisi economica? Basta avere le conoscenze giuste! Ed ecco che dal "The Washington Post l'articolo tradotto da Grazia Ventrelli e Chiara Lo Faro per italiadallestero.info. Maria Adele Carrai ha due Master conseguiti presso università italiane, in economia e in lingue asiatiche, e ora sta completando un dottorato di ricerca in diritto internazionale a Hong Kong. Le sue credenziali linguistiche sono formidabili. Oltre all’italiano, lingua madre, Maria Adele conosce l’inglese alla perfezione, una rarità in Italia, e poi francese, arabo, giapponese e mandarino. Ma la ventiseienne, figlia di medici di un paesino vicino l’Adriatico, non possiede una chiave fondamentale per accedere al mondo del lavoro in Italia: la raccomandazione. Si tratta della parola giusta detta dalla persona giusta per ottenere un impiego, anche se magari per quell’impiego non si è tagliati. Mentre la crisi economica che ha investito l’Europa offusca il futuro di milioni di giovani, la cultura delle conoscenze che sottende alle pratiche di assunzione nella gran parte del continente si sta radicando sempre di più, danneggiando qualsiasi prospettiva di ripresa. Questo malcostume chiude le porte ai giovani talenti o li spinge all’estero e contribuisce ad alimentare un circolo vizioso stagnante che minaccia di lasciare l’Europa indietro nella partita della globalizzazione. “Ciò che conta non è la preparazione che hai ma chi conosci”, accusa Carrai, secondo quanto dichiarato ad AP in una testimonianza rilasciata su “Class of 2012” in merito alla devastante fuga di cervelli dal continente. A dirla tutta, avere delle buone conoscenze non fa mai male. Tuttavia, in gran parte dell’Europa, soprattutto nel Sud martoriato dalla crisi, si tratta spesso della carta vincente per un’opportunità economica. Secondo alcuni giovani ed esperti, senza questa chiave la prospettiva di una carriera promettente è scarsa. Marco Pacetti, Rettore del Politecnico di Ancona, la mette così: “Negli Stati Uniti la rete di conoscenze è sì importante, ma bisogna soprattutto essere in gamba. In Italia invece, nessuno crede che coloro che si affidano alla raccomandazione abbiano anche competenza e merito.” “È questa la differenza fra una lettera di raccomandazione e una “raccomandazione”, aggiunge Pacetti con riso beffardo. In America, “chi scrive la lettera di referenze, si prende la responsabilità di segnalare una persona preparata, non un idiota.” L’esempio dello scandalo che ha scosso la Sapienza di Roma, una delle più antiche e note università d’Italia, cade a fagiolo. In un caso denominato “parentopoli”, la moglie, la figlia e il figlio del Rettore della Sapienza sono riusciti a procurarsi posti di insegnamento prestigiosi pur non avendo le qualifiche richieste. Ma il peggio è avvenuto quando è emerso che il figlio del Rettore aveva superato l’esame di cardiologia davanti a una commissione d’esame composta da tre dentisti e due igienisti dentali.

Anche la Spagna ha il proprio sistema di reti di conoscenze profondamente radicato, chiamato “enchufismo”. Proprio come in Italia, si tratta del prodotto di una cultura mediterranea che affonda le radici in una fitta rete familiare in cui i membri del clan si preoccupano l’uno dell’altro. Sono molti i cittadini dell’Europa meridionale che nutrono una mancanza di fiducia praticamente innata verso lo Stato, spesso sinonimo di corruzione. In questa prospettiva, la famiglia è l’unica istituzione su cui poter contare. In Spagna, la rete delle conoscenze ha assunto un ruolo secondario durante il boom economico che ha interessato il Paese dalla fine degli anni ’90 fino al 2008, ma ha riconquistato una posizione di primo piano ora che la disoccupazione ha toccato punte che sfiorano il 25%. “In Spagna il fenomeno dell’enchufismo non è nuovo, tuttavia, negli anni del boom era possibile accedere a un colloquio e ottenere un impiego, anche senza ricorrere alla rete delle conoscenze,” sostiene Maria Astilleros, insegnante disoccupata di Madrid. “Da quando la crisi ci ha travolti, i colloqui sono sfumati e siamo ritornati punto e d’accapo all’enchufismo”.

Maria Astilleros di recente è stata convocata per un colloquio per la prima volta in due anni presso una società di relazioni pubbliche poiché il titolare, non a caso, è un cliente di suo zio. Secondo Gayle Allard, professore americano di Economia Manageriale presso la IE Business School di Madrid, circa il 95% degli impieghi in Spagna sono il frutto di conoscenze. “È una delle cose che più mi hanno colpito della Spagna”, sostiene Gayle Allard. “Per cambiare lavoro, devi avere la tua rete di contatti”. Secondo il professore, una cultura del nepotismo così radicata produce un effetto corrosivo sulla crescita economica, tanto più cruciale tenuto conto che la Spagna vacilla sotto il peso di un elevato tasso di disoccupazione giovanile che si aggira intorno al 53%. Un fatto è certo, la Spagna “non è una meritocrazia,” aggiunge Allard. “Il candidato che scegli molto probabilmente non è quello più qualificato. Il candidato che scegli è quello con la rete di conoscenze migliore.” Moira Koffi, membro di “Class of 2012”, recentemente laureata alla prestigiosa Università Sorbonne di Parigi, dice la sua sull’importanza delle conoscenze in Francia. “Se sei raccomandato, lo dici subito: è così che si ottiene un lavoro.” Anche se Moira Koffi, vendiduenne laureata in comunicazioni, ha tratto vantaggio da questo sistema, ma vorrebbe che la rete di conoscenze non fosse così decisiva per trovare un impiego. “Negli Stati Uniti”, sostiene, “ti viene data un’opportunità per quello che sei.” Secondo Jean-Francois Amadieu, professore di sociologia alla Sorbonne, il 70% della popolazione francese trova un impiego grazie alle reti di conoscenze personali o a uno stage, a cui comunque si accede solo se si conosce la persona giusta. “I giovani di famiglia modesta hanno grandi difficoltà ad accedere a uno stage rispetto ai giovani di famiglie agiate o di classe media proprio a causa delle reti familiari più ristrette”, aggiunge. In Italia, la cultura delle conoscenze “si è imposta ancora di più a causa dell’acuirsi della crisi economica,” sostiene l’economista Emiliano Mandrone. E chi parla è un esperto: ogni anno, Mandrone collabora alla preparazione di un’indagine telefonica sovvenzionata dallo Stato e rivolta a circa 40 mila cittadini per capire il modo in cui gli italiani trovano un impiego. “Il problema delle raccomandazioni non si riduce solo all’opportunità di trovare o meno un impiego,” sostiene Mandrone. “Piuttosto, il problema risiede nel fatto che in questo modo si sottrae lavoro a una persona più preparata.” Secondo Mandrone, il prezzo del sistema raccomandazione nella società e nell’economia italiane non è stato quantificato in termini finanziari, ma è chiaramente “enorme”. In Italia, la cultura delle conoscenze è stata additata da tempo come principale responsabile della fuga di cervelli dei cittadini più preparati e più brillanti. L’Istituto per la Competitività, un comitato di esperti italiano no profit, recentemente ha stimato che la fuga di cervelli costa annualmente all’Italia qualcosa come 1,2 miliardi di euro (oltre $1,5 miliardi) se si tiene conto dei brevetti perduti e di altre royalty frutto di invenzioni che emigranti italiani altamente qualificati hanno sviluppato durante la loro permanenza lavorativa all’estero. In Grecia, punto di partenza della crisi finanziaria in Europa, la macchina politica, basata sulla fitta rete di conoscenze, è ritenuta uno dei fattori principali dell’implosione economica. In cambio di voti, i partiti della maggioranza hanno piazzato nelle mani di persone inesperte e con poche qualifiche, ma con conoscenze politiche influenti, lavori nell’apparato amministrativo facili facili.

Risultato: quando, verso la fine del 2009, è scoppiata la crisi finanziaria, il governo non aveva la più pallida idea di quante persone impiegasse, né quanto sborsasse per i loro stipendi. La Germania potrebbe rappresentare un’eccezione al trend dei talenti europei che prendono il volo o che vengono ostacolati nella realizzazione dei loro sogni professionali. Nella ex Germania dell’Est, conoscere la persona giusta nell’apparato del partito era una carta vincente per poter progredire economicamente. Ma nella Germania unita, la rete di conoscenze non viene vista come un elemento cruciale della cultura aziendale. Il ventisettenne Lutz Hentschel, membro di “Class of 2012”, completato un Master in ingegneria elettronica all’inizio dell’anno, ha dovuto inviare circa 40 domande prima di aggiudicarsi un impiego a Berlino, dove oggi sviluppa circuiti elettrici per ascensori. Durante la ricerca del lavoro, ricorda di aver sostenuto un colloquio per un impiego che alla fine è andato a un candidato meno preparato, ma che conosceva la persona con cui ha sostenuto il colloquio. Tutto sommato in Germania, sostiene Hentschel, “se hai le qualifiche giuste, un lavoro alla fine lo trovi.”

Da tempo la Gran Bretagna è alle prese con un altro sistema di clientelismo che si fonda sulla rete di quel salotto bene della società che ha ricevuto un’istruzione elitaria e che evoca immagini di uomini vestiti di tutto punto con divise scolastiche, o che si intrattengono amichevolmente in esclusivi club per gentiluomini. Benché la Gran Bretagna abbia fatto passi da gigante per diventare più meritocratica, c’è chi lamenta che l’accesso a impieghi prestigiosi spesso rimane una prerogativa del fior fiore di quella parte della società che ha goduto di un’istruzione privilegiata. Nell’Europa meridionale, tuttavia, la cultura delle raccomandazioni permea tutte le classi e i settori, da un impiego in banca alla vincita di appalti di costruzione. Carrai, la linguista e aspirante esperta in diritto internazionale, ha imparato a sue spese quanto contino le conoscenze giuste anche nell’esclusivo mondo accademico. Ad Hong Kong si è trasferita per sottrarsi alla soffocante atmosfera del nepotismo universitario: “Ho visto come funziona. Non volevo rimanere in Italia e assecondare questo sistema.” “Il sistema delle raccomandazioni può essere una pratica normale, umana, ma fino a un certo punto”, sostiene, superato il quale, “diventa corruzione”. E voto di scambio…..Quindi: tutti raccomandati. Ergo: tutti mafiosi.

Già ma chi persegue i raccomandati (corruttori)? Gli stessi raccomandati corruttori, no?!? Ecco spiegato perché non si aprono processi. E quando lo si fa, si assolve o si archivia. Bella Giustizia!!! E gli italioti a scandalizzarsi sul costo della politica. Anziché pretendere competenza dai parlamentari, gli italioti fanno le pulci ai conti degli eletti. I legislatori devono guadagnare quanto gli esecutivi, i dirigenti e gli amministratori pubblici. Certo non meno dei magistrati, ma per tutti si deve pretendere competenza e da tutti esigere rispetto delle persone e delle leggi da loro imposte e comunque da loro reclamare un'assunzione di responsabilità per i loro errori: da risponderne come i poveri cristi.

PARLIAMO DI FAVORITISMO ALLE ASSOCIAZIONI DI VOLONTARIATO. SOLITA TOLFA. LA SINISTRA NELLE SCUOLE A PARLAR DI LEGALITA’.

Partecipo alla rassegna delle associazioni di volontariato organizzata dal Centro Servizi Volontariato della mia provincia. Tali rassegne si presentano in tutta Italia, ma a pagare sono le amministrazioni locali ed i fondi statali. Associazioni tutte di sinistra. Qualcuna utile, altre meno utili. Associazioni che spesso hanno gli stessi soci in comune. Questi sodalizi sono rappresentative di aspirazioni personali del loro presidente, che cerca di dare un senso alla sua vita, altre come strumento di propaganda politica. Alcune di loro hanno interessi ed attività per l'estero ed all'estero, dove non è possibile il controllo. Volontari che più che cooperare in sinergia tra loro, sono in perenne conflitto ed in competizione tra di loro nella stessa associazione e tra associazioni stesse. Tutti in cerca di una visibilità ed un sostegno economico riconosciuto solo ad amici e parenti dei potentati locali e nazionali.

Tempo fa ho ricevuto una e-mail dal redattore capo di una nota radio romana. Mi diceva che avendo appena scorso un paio di righe del mio libro su Perugia, non poteva non intervistarmi telefonicamente in diretta nel suo programma di due ore. Gli ho chiesto se conoscesse i miei scritti e la mia autonomia e libertà. Gli ho fatto presente che, pur non essendo foriere di diffamazioni, certo è che le mie dichiarazioni sarebbero state esclusive ed esplosive, come nessuno ha fatto mai nelle trasmissioni radio televisive riguardo tutti gli argomenti e temi da trattare. Ho specificato anche che non appartengo a nessun partito, tanto meno a quelli di sinistra. Mi ha risposto che non accettano insegnamenti e che loro sono liberi e non censurano alcuno. Di fatto l’intervista non è mai stata fatta. Così succede in tutte le radio e televisioni di tutta Italia: mi chiamano senza conoscere il personaggio ed il suo pensiero, per poi rinnegarlo nel momento in cui pretendo da loro di avere nozione delle tematiche da me affrontate senza peli sulla lingua e senza guardar in facci aacluno. La stessa cosa è con la scuola. Da varie parti d’Italia mi chiamano i docenti che organizzano incontri con gli studenti per parlare di mafia e di usura con la presenza di magistrati e Forze dell’Ordine. Il numero di telefono lo prendono dal sito web del Ministero dell’Interno da cui la mia Associazione Contro Tutte le Mafie è riconosciuta. Gli chiedo se hanno letto i miei libri e gli spiego che se parliamo di mafia non posso fare a meno di parlare delle commistioni tra potere istituzionale, politico ed economico e criminalità organizzata. Non posso fare a meno di parlare di come si cooptano i membri nel sistema delle caste e delle lobbies. Gli spiego che se parliamo di usura, non posso non parlare di usura bancaria ed usura di Stato. Di fatto non mi chiamano più.

Allora, per quanto i fatti ci indicano, se nessuna toga e nessuna divisa e nessuna parte politica può arrogarsi l’esclusiva della legalità: perché si continuano a fare incontri propagandati dalla sinistra e dalle associazioni vicine alla CGIL, a cui sono estromessi tutti gli altri, invitando solo magistrati a loro vicini, forze dell’ordine ed esponenti di sinistra. Escludendo di fatto me, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it, e scrittore-editore dissidente che ha scritto e pubblicato la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

La legalità ed il parlar di essa non è solo prerogativa della CGIL e dell’Associazione Nazionale Magistrati. La si smetta di tacere l'esistenza di raccomandazioni e favoritismi. Sono reati gravi di abuso d'ufficio e falso, e ciò rende criminali chi li commette o chi se ne avvantaggia, compresi i magistrati e le istituzioni che li mettono in atto o non li perseguono. Ed in tema di mafia la si smetta di influenzare le menti dei giovani e di speculare sulla morte di Melissa Bassi inneggiando ad una presunta lotta per la legalità, danneggiando non solo Mesagne e Brindisi, ma tutto il Sud Italia. In questo modo per scopi politici si da ai Salvini di turno l’occasione di offendere i meridionali, propagandano verità distorte.

La "Associazione Contro Tutte le Mafie" - ONLUS è una associazione nazionale contro le ingiustizie e le illegalità, iscritta per obbligo di legge, ai fini dell'attività antiracket ed antiusura, solo presso la Prefettura - UTG di Taranto, competente sulla sede legale. Non ha sostegno politico perchè è apartitica e non nasconde gli abusi e le omissioni del sistema di potere, tra cui i magistrati, e la codardia della società civile. Per questo non riceve alcun finanziamento pubblico, o assegnazione da parte della magistratura dei beni confiscati. Il suo presidente (lo scrittore editore dissidente Antonio Giangrande), è, spesso, perseguito per diffamazione, solo perchè riporta sui portali web associativi le interrogazioni parlamentari o gli articoli di stampa sugli insabbiamenti delle inchieste scomode. Le scuole non lo invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Pur affrontando questioni attinenti la camorra, la mafia, la 'ndrangheta, la sacra corona unita, la mafia russa, ecc; pur essendo stato ringraziato dal Commissario governativo per la collaborazione svolta ed invitato da questi a partecipare al forum tenuto a Napoli coi Prefetti del Sud Italia per parlare di Mafie e sicurezza, la Prefettura di Taranto, non solo non gli dà la scorta, ma gli diniega la richiesta del porto d'armi per difesa personale. La regione Puglia non iscrive la stessa associazione all'albo regionale, né il comune di Avetrana, città della sede legale, ha iscritto l'associazione presso l'albo comunale. Il sostegno mediatico è inesistente, tanto che vi è stata interrogazione parlamentare del sen. Russo Spena per chiedere perchè Rai 1 non ha trasmesso il servizio di 10 minuti dedicato all'associazione, autorizzato dall'apposita commissione parlamentare. L'editoria ha rifiutato le pubblicazione del saggio d'inchiesta "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", il sunto e l'elenco degli scandali  e i misteri italiani, senza peli sulla lingua.

La associazione "Libera" è un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso la CGIL, sindacato di sinistra, come a Taranto. I magistrati assegnano a loro i beni confiscati. Le scuole invitano i loro rappresentanti. Il sostegno mediatico è imponente, come se "Libera" fosse l'unico sodalizio antimafia esistente in Italia. La regione Puglia, con giunta di sinistra, riconosce a loro cospicui finanziamenti, pur non essendo iscritta all'Albo regionale.

200 mila euro. In favore della Cooperativa “Terre di Puglia – Libera Terra” (100 mila euro) e dell’Associazione Libera di don Luigi Ciotti (100 mila euro).

La cooperativa denominata «Terre di Puglia – Libera Terra» è formata da giovani pugliesi e si occupa della gestione dei terreni agricoli e degli altri beni confiscati alla Sacra Corona Unita. Attualmente, in partenariato con la Prefettura e la Provincia di Brindisi, con l’Associazione Libera ed Italia Lavoro Spa, gestisce un progetto che prevede l’impiego a fini agricoli dei terreni confiscati alle mafie nella provincia di Brindisi, nei comuni di Mesagne, Torchiarolo e San Pietro Vernotico.

L’Associazione Libera di don Luigi Ciotti in Puglia sosterrà il progetto MOMArt (Motore Meridiano delle Arti), che prevede la trasformazione di una ex discoteca di Adelfia (Ba), centrale di spaccio e illegalità, in un luogo generatore di sviluppo sociale e civile per i giovani pugliesi.

Per il raggiungimento di questo obiettivo la Giunta il 15 luglio 2008 ha approvato un protocollo d’intesa tra Regione Puglia, Tribunale di Bari, Commissario governativo per i beni confiscati e Associazione Libera.

Il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie denuncia una palese ingiustizia e discriminazione politica che viene perpetrata da parte della Giunta della Regione Puglia guidata da Nicola Vendola e dal suo assessore competente Loredana Capone.

«Sin dal 27 settembre 2008, avendone titolo anche in virtù di una verifica della Guardia di Finanza che ne attesta la reale attività, il sodalizio nazionale riconosciuto dal Ministero dell’Interno ha chiesto l’iscrizione all’Albo Regionale delle associazioni antiracket ed antiusura – dice il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie -. La risposta che è stata data è che l’Albo non è stato ancora costituito, nonostante in pompa magna si sia dato risalto della sua emanazione per legge. Intanto però la Giunta Vendola si prodiga a finanziare ed a promuovere “Libera” e le sue associate in ogni modo, pur non essendo iscritta all’albo non ancora costituito. Ciò che dico è confermato dalle varie determine di finanziamento delle varie convenzioni e così come appare su “Striscia La Notizia” 18 novembre 2011. In occasione del servizio di Fabio e Mingo in tema di favoritismi e privilegi l’assessore alle risorse umane, Maria Campese, pur non essendo competente sulla materia della mafia, in bella vista presso i suoi uffici sfoggiava un muro tappezzato di manifesti di “Libera”, da cui si palesava la scritta “I beni confiscati sono Cosa Nostra”. Spero che questa ipocrisia antimafia cessi e la Giunta Vendola sia meno partigiana, perché oltre a discriminarle, perché non sono comuniste, nuoce a quelle associazioni che si battono veramente contro le mafie. Spero che sia dato dovuto risalto alla denuncia, in quanto abbiamo bisogno del sostegno istituzionale per poter continuare a svolgere la nostra attività.»  

In un'intervista a Magazine del Corriere della Sera, si rivela che non c'erano motivi perchè a Roberto Saviano, autore di “Gomorra”, Mondadori editore, venisse assegnata la scorta. Vittorio Pisani, capo della Squadra Mobile di Napoli, è un poliziotto con gli “attributi” che ha ottenuto l'importante incarico all'età di 40 anni; rischia la pelle tutti i giorni e, persona seria in questo mondo di quaquaraquà e opportunisti. Intervistato da Vittorio Zincone ha detto le cose come stanno: “Resto perplesso quando vedo scortare persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni”. Da notare che Pisani non è il solo uomo d'azione in prima fila contro la criminalità organizzata ad esprimere perplessità sulla figura di Saviano. Ricordiamo il "precedente" del prefetto di Parma, Paolo Scarpis, già questore con al suo attivo importanti successi contro le mafie italiane e internazionali, che aveva liquidato come "sparate" certe uscite del giornalista napoletano. All'ex collaboratore de “Il Manifesto” è però stata concessa l'assidua compagnia d'un folto manipolo di guardie del corpo, che oltrepassa ogni ridicolo, schierando persino cani anti-bomba; eppure, rivela Pisani, “a noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull’assegnazione della scorta”. In cosa consistevano le pretese minacce subite dal giornalista campano? Si parla di volantini e scritte sui muri: armamentario da studentelli, tutte cose che hanno ben poco a che fare con il modus operandi dei camorristi. Si arriva così al “fiore all'occhiello” di Saviano, il presunto attentato con autobomba che avrebbe dovuto consacrarlo come uomo da abbattere, proiettandolo nell'olimpo dei Falcone e Borsellino: una chiacchiera presa subito per buona, che venne completamente smontata dalle indagini rivelandosi una clamorosa bufala, tuttavia strombazzata ai quattro venti e senza alcun rigore dalla grancassa dell'informazione-spettacolo di sinistra. D'altro canto, gli scritti del giornalista napoletano non tolgono certo il sonno alla criminalità organizzata, al punto che il film prontamente tratto da Gomorra viene clonato tale e quale dai camorristi e venduto nei circuiti della contraffazione. Tuttavia Roberto Saviano, sull'onda della popolarità antimafia e dell'autocommiserazione per la “vita sotto scorta”, è diventato un miliardario di fama mondiale che, oltre a sfornare libri alla moda e presenziare ovunque, collabora a testate come L'espresso e La Repubblica, negli Stati Uniti con il Washington Post e il Time, in Spagna con El Pais, in Germania con Die Zeit e Der Spiegel, in Svezia con Expressen e in Gran Bretagna con il Times. Intanto continua a lamentarsi dell'opprimente presenza di autista e guardaspalle (un benefit per cui tanti vip fanno carte false) piangendo sul conto in banca che giganteggia. Una domanda da scrittore a scrittore: se Saviano fosse uno scrittore antimafia di destra, avrebbe avuto tanta attenzione, tale da meritare film e scorta? E perché ad Antonio Giangrande, autore del saggio di inchiesta "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", che scrive 100 volte cose più gravi e pericolose, toccando gli interessi di mafie, lobby, caste e massonerie, oltre che denunciare il comportamento dei cittadini collusi o codardi, viene negato addirittura il porto d’armi?

Il trucco del 5x1000: beneficio, ma non per tutti.

Con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 aprile 2010 si è previsto per il 2010 la possibilità per i contribuenti di destinare una quota pari al 5 per mille dell'Irpef a finalità di interesse sociale. Associazioni ed enti pronti a rimpinguare le loro misere casse con l'adesione di cittadini seguaci delle loro attività. Sarebbe bello se non fosse tutto un trucco, così come ha constatato l'Associazione Contro Tutte le Mafie, che avrebbe investito quei contributi nei suoi siti web: d'inchiesta www.controtuttelemafie.it e di promozione del territorio www.telewebitalia.eu . L’Agenzia delle Entrate ha imposto la presentazione delle richieste di ammissione al beneficio entro il 7 maggio 2010 e solo in forma telematica, nei modi e nelle forme previste dall’ufficio. Per farlo vi è l’obbligo dell’abilitazione ai servizi telematici.

Dal 23 aprile al 7 maggio ci sono 14 giorni, di cui solo 10 lavorativi.

In questi 10 giorni, molti richiedenti hanno provato ad inoltrare la richiesta, ma il sistema non ha riconosciuto la password e il pincode dell’anno precedente.

I contatti telefonici con l’agenzia (a pagamento) sono stati impediti dalla lunga lista d’attesa, (fino a 70 contribuenti). La richiesta del nuovo pincode e password è rimasta disattesa nei termini, se non riceverla dopo 12 giorni dall’istanza. Le comunicazioni dell’Agenzia delle Entrate non hanno alcuna data, per cui inutile contestare il ritardo, non avendo prova, né te la fornisce il servizio postale, che interpellato sull’apposizione della data di ricezione, ti dice: “noi non mettiamo alcuna data, altrimenti i ritardi dell’Agenzia delle Entrate ricadono su di noi”. In questo modo gli enti pubblici fanno ricadere le colpe sui contribuenti, che non possono provare il disservizio. Comunque, se pur in palese ritardo, la richiesta del beneficio non si può inoltrare, in quanto avere il pincode e la password non basta. Dopo tutto il casino, nel momento in cui attivi i servizi telematici,  ti comunicano sul portale web dell’Agenzia che bisogna rivolgersi ad un incaricato terzo abilitato (a pagamento). Cosa che a saperla, si sarebbe potuta fare dall’inizio, senza aver percorso tutta la trafila burocratica inutile. Risultato: in tempi ristretti e per i disservizi dell’Agenzia delle Entrate non tutti hanno potuto accedere al beneficio. Ed è solo una semplice istanza. Il problema è che la prassi si ripete ogni anno e nessuno vi pone rimedio, mentre i contribuenti ignari pensano di aver donato una quota di tasse alla loro associazione, mentre i contributi, in realtà, vanno ad altri sodalizi. Nonostante un'interrogazione Parlamentare nessun ristoro vi è stato per il diritto leso. Dico di più. In seguito al mio ricorso ed all'interrogazione il 23 ottobre 2012 l'agenzia delle Entrate mi comunica che con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 20 aprile 2012, pubblicato il 27 aprile, vi è stata proroga fino al 31 maggio 2012 per sanare la posizione di chi aveva inviato la domanda entro il 30 giugno 2010. Pensate un po se si sta ancora a pensare a quanto due anni prima era stato impedito. E solo perchè quei fondi devono essere destinati ai soliti noti.

MAFIOSO E' CHI TI OBBLIGA OD IMPEDISCE DI ESSERE O DI FARE.

Una cosa bisogna chiarire a chi legge le mie opere ed indignato, oltre che incazzato, ha voglia di lottare per le proprie idee di cambiamento affinché si possa lasciare ai figli un futuro migliore: se non si hanno soldi per divulgare le proprie idee, anche la panacea di tutti i mali non ha prospettiva di successo. Da singolo o da sodalizio è impossibile manifestare il proprio pensiero od operare se non si è omologati e conformati. I media ti ignorano, le istituzioni ti emarginano. In Italia chi ha soldi comanda, specie in politica, assoggettandosi la  visibilità mediatica ed assicurandosi il consenso ed il sostegno popolare. E chi comanda detta legge, garantendosi il sostentamento. Bene. L’odierna politica si è organizzata alla meglio per occupare tutti quei posti che le assicurano finanziamenti, visibilità e potere, assicurandosi norme che eludono qualsiasi controllo su gestione e bilancio. Per usufruire del finanziamento pubblico questo apparato mafioso ha occupato tutti i settori pubblici.

I partiti godono di finanziamenti. Con questo tutelano loro stessi e gli interessi di lobbies e caste che rappresentano. I partiti hanno i loro sindacati di riferimento che assicurano consenso e sostegno: anche loro finanziati dallo Stato. I sindacati hanno le loro associazioni di tutela dell’ambiente e dei diritti dei consumatori, che assicurano consenso e sostegno: anche loro finanziati dallo Stato.

In questo sistema entra anche “Libera”,  il coordinamento delle associazioni antimafia pubblicizzato da stampa e tv, le cui sedi territoriali spesso sono site proprio presso le sedi della CGIL. Ergo: se hai soldi, hai visibilità su stampa e tv. Di conseguenza: hai consenso, sostegno e potere. Le tessere sono assicurate dallo stesso finanziamento pubblico, che è elargito ed assicurato proprio in base al numero dei tesserati. Spesso i tesserati sono sempre gli stessi: a scalare per i partiti, per i sindacati, per le associazioni. Un gatto che si morde la coda. Secondo il Corriere della Sera il denaro pubblico finanzia fino all'85% del bilancio delle associazioni dei consumatori, che sono tante ed in aperta lotta fra loro. Ora che anche in Italia è arrivata la class-action (in una versione apparentemente orrenda, ed anche di questo sarebbe il caso di discutere) le associazioni dei consumatori, la loro attività, trasparenza e gestione diventano questioni molto importanti. Su cui, apparentemente, poco si discute. Vediamo se fra i lettori v'è in giro qualche esperto. L'articolo in questione è a pagina 8 della versione cartacea del Corriere del 29 dicembre 2007; nella versione online e' un po' difficile da trovare. Anche La Stampa sembra averci dedicato un articolo piuttosto aggressivo, in data 11 dicembre 2007. I due articoli contengono alcune informazioni interessanti sulle associazioni dei consumatori, che mi hanno spinto a fare qualche piccolo controllo personale. Esse sono riunite in un ente di natura para-statale chiamato CNCU (Consiglio Nazionale Consumatori e Utenti) vengono finanziate da Stato e regioni per una percentuale che arriva all'80/85% del loro bilancio. Dal 2003 parte dei finanziamenti vengono dalle multe comminate dall'Antitrust, per un totale di 47,7 milioni di euro in 5 anni. Un bel pacco di soldi: qualcuno ha idea di come vengano spesi? Una visita, sommaria, al sito del CNCU non mi ha permesso di scoprirlo ...Le quote di fondi pubblici vengono attribuite in base al numero di aderenti, che di conseguenza viene gonfiato a dismisura (da voci di corridoio, riportate dal Corriere, anche di 10 volte). Qualcuno si ricorda dei vari giochetti partitici sulle tesseramento, e via dicendo? Sembra che i vizietti italiani rimangano invariati, anche se cambiano i soggetti. Le associazioni sono molto litigiose, soprattutto fra di loro.

In particolare il Codacons ha ottenuto per via giudiziaria l'espulsione di due concorrenti - Altroconsumo e Cittadinanza attiva - ora capisco perchè non trovavo Altroconsumo! - dal CNCU. Nulla di sorprendente visto che così amplia la propria fetta di torta. Carine le associazioni consumatori, no?

Alle spalle dei cittadini. Assalto alla diligenza dei Consumatori. Sedi fantasma e sigle sconosciute per incassare i contributi a detta di Raphaël Zanotti su “La Stampa”. A volte hanno strutture serie, con uffici legali, impiegati e consulenti. Altre volte, purtroppo sempre più spesso, sono ospiti da qualche parte, hanno a malapena una scrivania e un telefono, a cui non sempre risponde qualcuno. Sono le associazioni dei consumatori. Un mondo che, negli ultimi anni, si è trasformato diventando una vasca per piranha. Una vasca sempre più affollata, con sigle e nomi mai sentiti prima. La colpa, come spesso accade, è dei soldi pubblici. Briciole, rispetto ad altri ben più nutriti acquari. Ma briciole che hanno attirato sempre più persone, molte più o meno velatamente appoggiate dalla politica, che hanno così deciso di avere la propria organizzazione dei consumatori personale grazie alla quale bussare a quattrini. Uno degli esempi più eclatanti di questa trasformazione in atto è il Piemonte, una delle patrie del consumerismo. Per dieci anni, dal 1994 al 2004, le associazioni riconosciute erano quattro: Federconsumatori, Adiconsum, Acu e Movimento Consumatori. Si spartivano i pochi fondi regionali girandoli ai loro sportelli. Venti milioni di lire a sportello. Poco, giusto la sopravvivenza dell’ufficio.

Ma erano altri tempi: quelli della passione e del sacrificio. Poi qualcosa è cambiato. È stato nel 2004 quando un decreto del ministero delle Attività Produttive ha deciso di destinare le multe comminate dall’Antitrust alle aziende alla tutela dei consumatori. E allora, la vasca, ha cominciato a riempirsi. Nel 2005 la nuova giunta regionale ha azzerato i fondi. Nel 2006 si riparte da zero: 911 mila euro da dividere. Tra chi? Tra tutti quelli che dimostravano di avere almeno duecento iscritti. Come? Autocertificandole. Risultato: le associazioni sono diventate dieci. Gli sportelli: 55. Oggi prendono denaro pubblico per la propria attività anche l’Adoc, l’Associazione Consumatori Piemonte, Cittadinanzattiva, Codacons e Casa del Consumatore. Il problema è che, quando ci si spartisce le briciole, e si è in tanti, resta poco. E così, paradossalmente, oggi ogni sportello prende meno di quanto si prendeva in precedenza. I primi a farne le spese sono state le associazioni storiche, che hanno strutture più corpose. Altri si sono arrangiati.

Se dietro c’è il sindacato. «Sono andato in via Alessandria 8 bis, nella sede che consigliate come Adoc. Nessuna traccia di associazione consumatori. Mi reco a Grugliasco in via Michelangelo 59. Nessuno nuovamente. Chiamo negli orari indicati, ma nessuno risponde. All’esterno dell’edificio sono sigle Uilm Uil e Lega Sindacale. Chiamo il sindacato e mi spiegano che l’Adoc riceve solo in via Cigna nella sede Uil. Ma io non voglio il sindacato, voglio un’associazione consumatori». Questo scriveva, il 25 ottobre scorso a un’associazione, Carlo, un consumatore. Di illecito non c’è nulla. L’Adoc, come altre associazioni, si arrangia. Usa le sedi della Uil (come la Federconsumatori quelle della Cgil e l’Adiconsum quelle della Cisl) nelle quali mette una scrivania e un telefono. «È un problema - dice uno storico esponente del movimento consumatori che intende restare anonimo - perché è chiaro che a volte sindacato e consumatori sono in conflitto d’interessi. Senza contare la vera e propria posizione dominante di cui godono i sindacati quando bisogna prendere i contributi».

Se dietro ci sono gli avvocati. «Recandoci presso la sede vi sono affissi degli orari in cui, presentandoci, non abbiamo trovato nessuno. Nella stessa sede risulta solo esservi un circolo del signor Di Benedetto (Alessandro) candidato al Consiglio regionale. La Telecom ci fornisce un vostro unico numero telefonico, ma vi è una segreteria telefonica con la comunicazione di un altro numero, che però corrisponde a un avvocato e non alla vostra associazione».

Così scrivevano, in una lettera alla Consulta dei consumatori del Piemonte Marziano Milani e Carla Piovano che volevano lamentarsi dell’Adusbef, associazione a cui si erano rivolti per il problema dei bond argentini. L’Adusbef si era limitata a indirizzarli presso un avvocato, che poi aveva fatto pagare parcella piena. Semplici passacarte?

Se le sedi non esistono. La Casa del Consumatore, legata al centrodestra, secondo l’elenco regionale, ha una sede. Peccato che a quell’indirizzo non si trovi nessuno. Ne ha un’altra, vera, intestata a un’altra associazione. Pochi, nel mondo delle associazioni dei consumatori, possono vantare di aver mai visto i titolari a una riunione. Per entrare nell’elenco della regione Piemonte basta avere 200 tesserati (autocertificati). Per i contributi a livello nazionale si usa lo stesso metodo: bisogna dimostrare di avere 28.000 tessere. «In realtà non le ha nessuno - dichiara l’operatore che mantiene l’anonimato -. Lo rivelò anche l’avvocato Carlo Rienzi, presidente del Codacons, in un’intervista: i suoi associati erano falsi, esattamente come quelli di tutti. Ma a nessuno conviene tirar fuori la questione». Il controllo non avviene nemmeno a posteriori.

Esiste un rendiconto dei casi affrontati dalle associazioni ogni anno (circa 81.000 in Piemonte) ma anche questi sono numeri che vengono forniti dalle stesse associazioni. «In realtà nessuno ci è mai venuto a controllare - dichiara l’operatore - se non quando abbiamo dovuto utilizzare fondi europei. In quel caso sì che la Ue ha verificato tutto, fin nei minimi dettagli. È da allora che alcuni di noi hanno preso a registrare le telefonate che arrivano, ma siamo in pochi a farlo».

L'eccezione che conferma la regola. In mezzo a chi ne approfitta, ci sono i tanti che lavorano onestamente, i molti che ci credono. Sono di solito i primi ad aver iniziato le battaglie del movimento consumerista e che ancora si trovano a dover far quadrare i conti in piccole sedi. «Per un certo periodo ho gestito l’eurosportello a Roma della Comunità europea - racconta per esempio Gavino Sanna -. Avevamo 400mila euro a sportello e trattavamo mille casi all’anno. C’erano strumenti, traduttori, consulenti di diritto internazionale, certo. Ma pensavo anche al mio sportello a Torino, quello che gestisce 10.000 casi e 10.000 euro di contributi annuali».

ASSOCIAZIONI DEI CONSUMATORI: 47 MILIONI DI FINANZIAMENTO DI STATO PER FARE ANTISTATO.

Secondo “Il Giornale”: votate alla difesa del consumatore: agguerrite, preparate, specializzate; capaci di minacciare cause contro tutto e tutti. Le associazioni dei consumatori, i cani da guardia nel mercato dei beni e servizi, per difendere il cittadino che si barcamena tra beni e servizi non guardano in faccia a nessuno.

Tranne che allo Stato. Perché da Roma le associazioni sono massicciamente finanziate. Eccola un’altra casta. Diversa, ma sempre casta: 47,7 milioni di euro in cinque anni, distribuiti a pioggia a partire da gennaio 2003, da quando alle associazioni va parte del ricavato delle multe dell’antitrust. Le società sbagliano, l’Authority le punisce e quei soldi che dovrebbero andare allo Stato vanno alle associazioni dei consumatori. Cioè quelle sigle che dal 1998 fanno parte del Cncu (consiglio nazionale dei consumatori e utenti, che ha sede presso il ministero dello Sviluppo economico).

Fino all’80-85% dei bilanci delle associazioni, secondo una ricerca del Sole24Ore, sono garantiti dal denaro pubblico. «In queste condizioni - ha dichiarato Palo Martinello, presidente di Altroconsumo - è difficile contestare le scelte di governo o regioni.

Così si rischia di diventare la foglia di fico delle amministrazioni».

Quindi la domanda è immediata: ma se i soldi li prendono dallo Stato, come faranno a fare azioni e operazioni contro tutto quello che lo Stato controlla come Poste, servizi idrici, ferrovie, smaltimento, gestione rifiuti? I soldi pubblici servono a finanziare molte cose, sostengono i vertici delle associazioni. Quali? Siamo andati a leggere i documenti dei finanziamenti dei progetti delle associazioni del 2005 per avere un’idea. Ne abbiamo trovati 27 e la prima cosa strana è che praticamente tutti hanno un contributo standard: mezzo milione di euro. E così, a prescindere dal lavoro svolto, tutti finiscono col portare a casa la stessa cifra (12 milioni nel solo 2005). Non ci dev’essere grande comunicazione tra le varie associazioni, poi, se in un anno tre progetti diversi hanno avuto però lo stesso contenuto: la lettura delle etichette. Un milione e mezzo di euro, quindi, per insegnare a leggere. Ma i soldi basta averli, se è vero che Carlo Rienzi, presidente del Codacons ha dichiarato all’Espresso: «Stare nel Cncu non serve a niente. È una scatola per dare soldi. E per fortuna li dà». I consumatori insegnano a non fidarsi di nessuno. Seguendo questa logica non bisognerebbe farlo neanche con loro. E forse non sarebbe poi tanto sbagliato. «Gran parte degli iscritti sono falsi», ammettono gli stessi presidenti. Tanto nessuno controlla. Così si deduce che i 300mila iscritti spacciati da qualcuno, i 100mila da qualcun altro e così via, siano solo numeri in libertà, con buona pace della tanto invocata trasparenza.

GLI INTRECCI CON LA POLITICA. Molte sigle sono nate e cresciute all’ombra di poteri politico-sindacali: Federconsumatori è strettamente legata alla Cgil, mentre Adiconsum e Adoc rispettivamente alla Cisl e Uil. Il movimento Arci ha la sua organizzazione «personale» nel Movimento consumatori, mentre la Lega consumatori è collegata alle Acli. Ma c’è anche chi ha giocato la carta della politica pura: dal Codacons è nata la Lista Consumatori, che alle politiche del 2006 riuscì a far eleggere in Calabria addirittura un senatore, Pietro Fuda. Il presidente di Adusbef, Elio Lannutti, è tutt’ora in parlamento, senatore dell’Italia dei Valori e personaggio ammiccante all’antipolitica visto che ha in programma l’uscita di un libro La Repubblica delle banche, con introduzione di Beppe Grillo. Di centrodestra è la «Casa del consumatore», il cui presidente Alessandro Fede Pellone è un ex consigliere lombardo di Forza Italia. Era collaboratore del ministro Livia Turco, Stefano Inglese, ex presidente del Tribunale dei diritti del malato e legato a Cittadinanzattiva, mentre Donatella Poretti dagli uffici dell’Aduc è passata direttamente agli scranni di Montecitorio, nelle file della Rosa del Pugno. Infine Mara Colla, già sindaco socialista di Parma, eletta alle scorse elezioni regionali con l’Ulivo, continua a tenersi stretta la presidenza della Confconsumatori. Alla faccia della libertà.

PARLIAMO DEI FAVORI ALLA POLITICA.

“In Italia anche i partiti morti godono di finanziamenti pubblici e la legge prevede che i rimborsi elettorali siano elargiti due volte in caso di fine legislatura anticipata. Il rimborso ai partiti, di fatto, è una “finzione del linguaggio” visto che ha reintrodotto il finanziamento pubblico ed è una “presa in giro” nei confronti degli elettori. Nel 1993 la consultazione ha avuto un esito plebiscitario. Infatti oltre il 90 per cento dei votanti si era espresso per l’abolizione della legge vigente ma, essendo abrogativo, è stata cancellata la normativa e lasciato il vuoto sulle possibili fonti di sostegno dei partiti politici. La conseguenza fu il ritorno dello stesso principio del finanziamento pubblico sotto mentite spoglie: infatti dopo solo otto mesi, il Parlamento decise di aggiornare la legge 515 del 10 dicembre 1993, allora definita “contributo per le spese elettorali”, che riportò nelle casse dei partiti miliardi di vecchie lire alle elezioni del 1994 e del 1996. Alla tornata del 2001 entrano inoltre in vigore le “Nuove norme in materia di rimborso delle spese elettorali e abrogazione delle disposizioni concernenti la contribuzione volontaria ai movimenti e partiti politici” che prevedono la reintroduzione del finanziamento pubblico per Camera, Senato, Parlamento Europeo, Regionali e referendum sostituito dai “rimborsi elettorali”, senza corrispondenza con le spese realmente effettuate. L’anno successivo, poi, il quorum per ottenere i fondi viene abbassato dal 4 all’1 per cento e a partire dal 2006 i partiti hanno diritto a ricevere l’intero importo del rimborso anche in caso di fine legislatura anticipata. Nel corso di tutti questi emendamenti  il legislatore fu molto ‘disinvolto’ e ripropose, seppur con altre parole, la legge sul finanziamento pubblico. La stessa che era stata bocciata dalla volontà popolare. Un altro aspetto controverso riguarda le verifiche sui rimborsi che, di fatto, sono inefficaci in quanto “i controllori sono i controllati”. Nel 1997 tuttavia la legge ha introdotto l’obbligo del bilancio per i partiti che, però, è sottoposto alla verifica della Presidenza della Camera, mentre la Corte dei Conti può soltanto accertare il rendiconto delle spese elettorali. Un sistema che favorisce la corruzione e non garantisce trasparenza, né interna al partito, né verso gli elettori. Un meccanismo di questo tipo facilita le violazioni. Poniamo anche il caso che i tesorieri siano onesti: i cittadini, a prescindere dalla correttezza dei dirigenti, sono comunque all’oscuro dei patrimoni dei loro partiti. E l’assenza di un soggetto terzo preposto al controllo, “ancor più necessario perché il contributo è pubblico”, favorisce i bilanci ‘truccati’.

PARLIAMO DEI FAVORI AI SINDACATI.

I sindacati vantano un patrimonio immobiliare immenso, ma non pagano un solo euro di Ici. Altro che Vaticano. I sindacati vantano un patrimonio immobiliare immenso, ma non pagano un solo euro di Ici. Questo grazie ad una legge, la numero 504 del 30 dicembre 1992 (in pieno governo Amato), che di fatto impedisce allo Stato italiano di avanzare richieste ai sindacati. E i soldi sottratti, o meglio non percepiti, dalle casse statali sono davvero tanti: la Cgil, ad esempio, sostiene di avere circa 3mila sedi in tutta Italia, ma si tratta di una specie di autocertificazione, in quanto i sindacati non sono assolutamente tenuti a presentare i loro bilanci.

Solo un altro dei tanti privilegi dell’”altra Casta”, come è stata brillantemente definita dal giornalista dell’Espresso Stefano Liviadotti, che con tale formula ha dato il titolo al suo libro/inchiesta sulla Triplice. Se la Cgil dichiara 3mila sedi, la Cisl addirittura 5mila.

E la Uil sarebbe in possesso di immobili per un valore di 35 milioni di euro. La legge, però, paragona in modo del tutto immotivato i sindacati alle Onlus, ossia alle organizzazioni di utilità sociale senza scopo di lucro. Senza scopo di lucro? I sindacati? Un paradosso. Ma c’è di più. Cgil, Cisl, Uil, Cisnal (poi diventata Ugl) e Cida hanno ereditato immobili dai sindacati del Ventennio fascista, senza dover pagare tasse. Tutto secondo legge, in questo caso la 902 del 1977, che con l’articolo 2 disciplina la suddivisione dei patrimoni residui delle organizzazioni sindacali fasciste. Non c’è da stupirsi: soltanto nella scorsa legislatura, 53 deputati e 27 senatori, quindi 80 parlamentari in totale, provenivano dalla Triplice. Logico che in parlamento si facciano leggi “ad personam”, o meglio ad usum sindacati. I regali più importanti, inutile dirlo, arrivano però sempre quando al governo c’è una coalizione di centro-sinistra. Eccone alcuni: nel maggio 1997 il governo Prodi, per iniziativa del ministro della Funzione pubblica, Franco Bassanini, ha tirato fuori dal cilindro la legge 127, la quale grazie all’articolo 13 libera le associazioni dall’obbligo di autorizzazione nelle attività e nelle operazioni immobiliari. Con la finanziaria del 2000 vengono invece istituiti fondi per la formazione continua gestiti da sindacati e associazioni degli imprenditori. Ancora con il governo Amato, nel 2001 è fissato l’importo fisso per i patronati calcolato su tutti i contributi obbligatori versati da aziende e lavoratori agli enti.

Attraverso i patronati, i Caf (Centri di assistenza fiscale) e le deleghe sindacali sulle pensioni giungono fiumi di denaro nelle casse dei sindacati. Un meccanismo infallibile: i patronati si occupano di previdenza, richieste di aumento e pratiche di invalidità. E per ogni pratica l’Inps rimborsa. L’assistito del patronato è però logicamente anche un potenziale cliente dei Caf: i Centri di assistenza fiscale, nati ovviamente con la sinistra al governo (Amato, anno 1992), compilano le dichiarazioni dei redditi e le spediscono via internet all’Inps. Ad ogni spedizione corrisponde un rimborso, anche se i costi sono pressoché azzerati. In soccorso dei Caf è arrivato persino il decreto legislativo 241 del 1997, governo D’Alema, che concedeva loro l’esclusiva sulla verifica dei dati inseriti sui 730. Costringendo il Ministero delle Finanze a elargire un rimborso per ogni 730 inviato dai Caf. Peccato che tale decreto sia stato “bastonato” nel 2006 dalla Corte di Giustizia Europea, senza che nessun quotidiano nazionale sempre attento alle sanzioni europee ne abbia dato notizia. Ma su internet la notizia si trova. Alla fine le entrate che derivano dai tesseramenti, la cui revoca è pressoché impossibile, sono quelle meno importanti.

Allora, i sindacati davvero meritano agevolazioni fiscali? Quando ho pubblicato questo articolo su Facebook alcuni simpatici amici mi hanno dato del “disinformato” “acchiappabufale. Allora mi sono informato e ho pubblicato ancora una nota che riporto. La legge di riferimento è la 504 del 1992 ed all’articolo 7 la norma elenca i soggetti che sono esentati dal pagamento della tassa comunale. Tra questi figurano anche le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, le Onlus. La giurisprudenza, in base a questa legge, ha equiparato le organizzazioni sindacali e i partiti alle ONLUS. Conseguentemente niente ICI. Non solo, in base a una legge del 1977, la n. 902, i Sindacati hanno ereditato i beni dei sindacati fascisti, senza pagare un euro né di prezzo né di tasse su quegli immobili. Nessuna ICI anche su questi immobili. Non solo: tutti gli edifici di culto sono esenti dall’ICI (sempre articolo 7) e quindi non solo la Chiesa Cattolica che in effetti nella norma ha un articolo rinforzato perché si parla di sedi di culto e anche di quelle sedi che sono di proprietà della Chiesa e quindi sottoposte a regime concordatario. Per i Sindacati la scappatoia è il riconoscerli, civilisticamente, sostanzialmente come ONLUS….fatto questo, la norma è applicabile e siccome il terzo settore (cioè le ONLUS) hanno una natura diversa dal volontariato ma un profilo giuridico simile – perché enti non lucrativi di utilità sociale- ecco che i sindacati (ma anche i partiti politici) sono esenti dall’ICI. Niente toglie che in alcuni casi lo paghino (magari se non dimostrano di mettere a disposizione l’immobile per attività di pubblica utilità) ma questo dipende solo dalle inadempienze di chi non è capace a “utilizzare” il combinato disposto delle norme…conoscendo i Sindacati: NESSSUNO!!!!!

Altri approfondimenti nel merito.

ICI e Sindacati. Si è tanto parlato e criticato la Chiesa che non paga l’ICI. Ma a ben vedere i sindacati non hanno mai versato un euro di ICI, nonostante abbiano un patrimonio immobiliare piuttosto sostanzioso (la CGIL conta circa 3000 sedi in tutta Italia). La legge è quella solita: la 504 del 1992. La giurisprudenza, in base a questa legge, ha equiparato le organizzazioni sindacali e i partiti alle ONLUS. Conseguentemente niente ICI, con buona pace per le casse dello Stato a fronte di un patrimonio immobiliare che sfiora un valore per milioni di euro. Immobili del ventennio e Sindacati. Non solo, in base a una legge del 1977, la n. 902, i Sindacati hanno ereditato i beni dei sindacati fascisti, senza pagare un euro né di prezzo né di tasse su quegli immobili. Ovviamente nessuna ICI su questi immobili.

Sindacati e Bilanci consolidati. Attualmente non si sa esattamente a quanto ammonta il patrimonio delle organizzazioni sindacali che hanno vari interessi in diversi rami del sociale (dal volontariato, alle associazioni dei consumatori, ai fondi pensione ecc.). Indovinate perché? Non hanno obbligo di bilancio consolidato. Nonostante ricevano contributi pubblici, i loro bilanci non sono soggetti al controllo della Corte dei Conti.

Sindacati e servizi. In questo settore ci si perde, tante sono le norme che in un modo o nell’altro portano denaro pubblico alle casse sindacali per attività che dovrebbero essere svolte dallo Stato e dagli enti pubblici, o se proprio vogliamo dai professionisti del settore (come i commercialisti e gli avvocati). Per rendere il tutto semplice, dico subito che sono stati istituiti i patronati e i CAF. I primi assistono i pensionati nelle vicende previdenziali, i secondi assistono i lavoratori in genere (solitamente per la dichiarazione dei redditi e l’assistenza fiscale). Ovviamente non gratis. Lo Stato versa per questi servizi, all’incirca 15 euro a pratica, o lo 0,226 di euro dei contributi obbligatori incassati dall’INPS. Il business, secondo una stima del 2007, è pari a circa 330 milioni di euro. Le leggi di riferimento sono la legge 413/1991 (istitutiva dei CAF) e la legge 152 del 2001 (istitutiva dei Patronati). Nel 2005 venne aperta una procedura di infrazione davanti alla Commissione Europea per monopolio. Il Governo Berlusconi fu «costretto» a concedere il medesimo servizio agli studi dei Commercialisti.

Sindacati e associazione dei consumatori. Si può dire in proposito che molte associazioni dei consumatori sono un prolungamento del business sindacale. Non a caso, diverse leggi attribuiscono alle associazioni dei consumatori la facoltà di costituirsi parte civile nelle azioni penali che coinvolgono in un modo o nell’altro i diritti dei consumatori e di aderire con interventi adesivi nei processi civili intentati a tutela dei diritti dei consumatori. Aggiungiamoci pure una sostanziosa percentuale delle multe comminate dall’Antitrust.

5 per mille e Sindacati. Uno strano rapporto questo. I Sindacati infatti godono del 5‰ dell’IRPEF, che va a favore delle associazioni collaterali al Sindacato stesso.

Pensionamenti e dipendenti dei Sindacati. Grazie alle leggi Mosca 252/1974 e Treu 564/1996, sindacalisti e dipendenti dei sindacati e dei partiti, hanno ricevuto, a carico dello Stato, il versamento di contributi figurativi per i periodi in cui non avevano versato contributi. Ciò è costato alle casse dello Stato circa 30.000 miliardi delle vecchie lire, pari a circa 15 milioni di euro.

I delegati sindacali. L’attività sindacale è una vera e propria professione a tempo pieno. I lavoratori che che godono di permessi retribuiti per questioni sindacali sono all’incirca 700.000, mentre 2.500 lavoratori sono distaccati al sindacato. Questi provengono soprattutto dal settore pubblico, e precisamente dalla scuola e dagli enti locali; questi lavoratori distaccati non possono essere licenziati o trasferiti. Va da sé che questo sistema alimenta ancor oggi il chiaro malcostume di utilizzare le norme di delega e distacco sindacale per proteggere i lavoratori più negligenti e facinorosi, che così non possono essere licenziati o allontanati dal posto di lavoro.

La presenza dei Sindacati negli organismi pubblici. Una vera e propria invasione. Ex sindacalisti sono presenti in parlamento, al governo, negli enti locali, nelle società partecipate, nelle camere di commercio e negli istituti di previdenza come l’Inps, il CNEL, l’IACP, la Banca d’Italia, gli albi professionali e le aziende per i trattamenti rifiuti, dove naturalmente godono dei gettoni di presenza.

Licenziamenti e Sindacati. Sappiamo che le organizzazioni sindacali sono i più strenui difensori dell’art. 18 Stat. Lav. che obbliga il datore di lavoro a licenziare il lavoratore solo per giusta causa o giustificato motivo. Casomai il datore di lavoro licenziasse senza la presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, avrebbe l’obbligo di reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato nel posto di lavoro, oltre a risarcirgli il danno. Ebbene, paradossalmente questa regola non si applica ai Sindacati, che invece possono sbattere fuori i propri dipendenti senza il pericolo che venga loro applicato l’art. 18. Non ci credete? Leggetevi l’art. 4, comma 1, della legge 108 del 1990.

Sindacato e diritto di sciopero. L’art. 40 della Costituzione prevede che lo sciopero debba essere regolamentato dalla legge. Ebbene la norma non è stata mai attuata per volontà dei Sindacati che in Parlamento contano numerosi supporters (soprattutto a sinistra) e hanno persino dei loro rappresentanti diretti (nella passata legislatura: 53 deputati e 27 senatori). Così, se mentre all’estero lo sciopero è regolamentato dalla legge e deve essere normalmente approvato con un referendum di tutti i lavoratori (diversamente è considerato inadempimento del contratto), in Italia lo sciopero selvaggio e politico sono la prassi sindacale, e costituiscono una formidabile arma di ricatto nei confronti dello Stato.

Sindacato e registrazione. La registrazione non esiste, disapplicando l’art. 39 della Costituzione.

Insomma, come i partiti politici, i sindacati italiani sono una vera e propria casta… che dice di tutelare i lavoratori, ma il cui unico obiettivo al fin fine è semplicemente autoconservarsi e autoconservarsi bene… anzi, direi benone....loro, i partiti di riferimento e le associazioni sottoposte. Il tutto nell'ignavia generale.

PARLIAMO DEI FAVORI ALLA CASTA DELLE ASSOCIAZIONI DEI CONSUMATORI.

ASSOCIAZIONI DEI CONSUMATORI: 47 MILIONI DI FINANZIAMENTO DI STATO PER FARE ANTISTATO.

Votate alla difesa del consumatore: agguerrite, preparate, specializzate; capaci di minacciare cause contro tutto e tutti. Le associazioni dei consumatori, i cani da guardia nel mercato dei beni e servizi, per difendere il cittadino che si barcamena tra beni e servizi non guardano in faccia a nessuno. Tranne che allo Stato. Perché da Roma le associazioni sono massicciamente finanziate. Scrive “Il Giornale”.

FINANZIAMENTI A PIOGGIA

Eccola un’altra casta. Diversa, ma sempre casta: 47,7 milioni di euro in cinque anni, distribuiti a pioggia a partire da gennaio 2003, da quando alle associazioni va parte del ricavato delle multe dell’antitrust. Le società sbagliano, l’Authority le punisce e quei soldi che dovrebbero andare allo Stato vanno alle associazioni dei consumatori. Cioè quelle sigle che dal 1998 fanno parte del Cncu (consiglio nazionale dei consumatori e utenti, che ha sede presso il ministero dello Sviluppo economico). Fino all’80-85% dei bilanci delle associazioni, secondo una ricerca del Sole24Ore, sono garantiti dal denaro pubblico. «In queste condizioni - ha dichiarato Palo Martinello, presidente di Altroconsumo - è difficile contestare le scelte di governo o regioni. Così si rischia di diventare la foglia di fico delle amministrazioni». Quindi la domanda è immediata: ma se i soldi li prendono dallo Stato, come faranno a fare azioni e operazioni contro tutto quello che lo Stato controlla come Poste, servizi idrici, ferrovie, smaltimento, gestione rifiuti?

UN PROGETTO PER TUTTI

I soldi pubblici servono a finanziare molte cose, sostengono i vertici delle associazioni. Quali? Siamo andati a leggere i documenti dei finanziamenti dei progetti delle associazioni del 2005 per avere un’idea. Ne abbiamo trovati 27 e la prima cosa strana è che praticamente tutti hanno un contributo standard: mezzo milione di euro. E così, a prescindere dal lavoro svolto, tutti finiscono col portare a casa la stessa cifra (12 milioni nel solo 2005). Non ci dev’essere grande comunicazione tra le varie associazioni, poi, se in un anno tre progetti diversi hanno avuto però lo stesso contenuto: la lettura delle etichette. Un milione e mezzo di euro, quindi, per insegnare a leggere. Ma i soldi basta averli, se è vero che Carlo Rienzi, presidente del Codacons ha dichiarato all’Espresso: «Stare nel Cncu non serve a niente. È una scatola per dare soldi. E per fortuna li dà».

LE ISCRIZIONI FALSE

I consumatori insegnano a non fidarsi di nessuno. Seguendo questa logica non bisognerebbe farlo neanche con loro. E forse non sarebbe poi tanto sbagliato. «Gran parte degli iscritti sono falsi», ammettono gli stessi presidenti. Tanto nessuno controlla. Così si deduce che i 300mila iscritti spacciati da qualcuno, i 100mila da qualcun altro e così via, siano solo numeri in libertà, con buona pace della tanto invocata trasparenza.

GLI INTRECCI CON LA POLITICA

Molte sigle sono nate e cresciute all’ombra di poteri politico-sindacali: Federconsumatori è strettamente legata alla Cgil, mentre Adiconsum e Adoc rispettivamente alla Cisl e Uil. Il movimento Arci ha la sua organizzazione «personale» nel Movimento consumatori, mentre la Lega consumatori è collegata alle Acli. Ma c’è anche chi ha giocato la carta della politica pura: dal Codacons è nata la Lista Consumatori, che alle politiche del 2006 riuscì a far eleggere in Calabria addirittura un senatore, Pietro Fuda. Il presidente di Adusbef, Elio Lannutti, è tutt’ora in parlamento, senatore dell’Italia dei Valori e personaggio ammiccante all’antipolitica visto che ha in programma l’uscita di un libro La Repubblica delle banche, con introduzione di Beppe Grillo. Di centrodestra è la «Casa del consumatore», il cui presidente Alessandro Fede Pellone è un ex consigliere lombardo di Forza Italia. Era collaboratore del ministro Livia Turco, Stefano Inglese, ex presidente del Tribunale dei diritti del malato e legato a Cittadinanzattiva, mentre Donatella Poretti dagli uffici dell’Aduc è passata direttamente agli scranni di Montecitorio, nelle file della Rosa del Pugno. Infine Mara Colla, già sindaco socialista di Parma, eletta alle scorse elezioni regionali con l’Ulivo, continua a tenersi stretta la presidenza della Confconsumatori. Alla faccia della libertà.

PARLIAMO DEI FAVORITISMI AL TERZO SETTORE. LE ONLUS.

Il terzo settore, distinto dallo Stato e dal mercato. Le Onlus fanno il bene, ma non sempre fanno bene. Bussano alle nostre tasche, proponendo mille cause nobili: la lotta senza quartiere ad una malattia inguaribile, l’aiuto ai bambini malati, una crociata contro le infinite piaghe della nostra società. Non sempre, però, i soldi che finiscono nelle mani di enti e organizzazioni vengono spesi con i migliori criteri. Sprechi, inefficienze, il peso soffocante della burocrazia che uccide anche i migliori sentimenti, quando non ammanchi, ruberie, truffe delle più odiose. Il mondo della carità, o della solidarietà, è una foresta dove si trova di tutto. Straordinari esempi di altruismo e storie di furbizia e di cinismo che fanno a pugni con la nostra coscienza. Per questo, “Il Giornale” è entrato in questo mondo e l’ha esplorato. Ha analizzato e smontato le più grandi macchine raccogli soldi dell’Italia col cuore in mano e ha posto domande scomode a trecentosessanta gradi. Non certo per scandalizzare, ma per capire se i nostri soldi sono in buone mani. Ha cercato di verificare le destinazione finale ed effettiva di quel che quotidianamente diamo per le cause più disparate. Vogliamo sapere come vengono spese le nostre offerte, fino alla virgola e fino al centesimo. Attenzione: non si tratta di spiccioli, ma di una montagna di denari. Solo il 5 per mille, scelto nell’ultimo anno dal 61 per cento degli italiani, vale quasi trecento milioni di euro; e solo le grandi campagne di solidarietà, che spesso passano con messaggi martellanti attraverso la televisione, raccolgono 100-150 milioni di euro l’anno. Ma quei 400-450 milioni di euro sono solo una parte di una torta molto più grande. I soldi che circolano sono molti, molti di più. E non sempre la carità è trasparente. Il Giornale ha messo il naso in questo mondo. Ha fatto le pulci all’Airc, la benemerita e blasonata Associazione italiana per la ricerca sul cancro. Ha letto e controllato i bilanci e sono andati a vedere quanti soldi finiscono effettivamente nella ricerca e quanti si fermano prima: per pagare stipendi, computer, telefoni, bollettini postali, comitati regionali. Le sorprese non mancano. Il Giornale ha verificato anche i conti dell’Anlaids, l’associazione nazionale per la lotta all’Aids. Nel week end di Pasqua le piazze d’Italia sono un tripudio di alberelli nani, ornati col fiocchetto rosso. In cambio, gli acquirenti lasciano un’offerta. Dove va in concreto questa offerta?  È la domanda chiave di questa inchiesta. Va bene dare, ma anche la generosità ha i suoi parametri, i suoi standard ottimali, le sue regole virtuose. Nel cestone del volontariato ha trovato di tutto. E di tutto ha dato conto, privilegiando sprechi e ruberie. Senza tabù: dedicheremo spazio anche alla Fao. E ci occuperemo anche dell’opaca gestione dei generi alimentari, destinati alle popolazioni più sfortunate, colpite da calamità naturali. Il caso classico è quello della Onlus accalappia solidarietà: si promette un aiuto ai bambini brasiliani o a ragazzini bisognosi di delicate operazioni chirurgiche. Si mostrano foto sconvolgenti, di quelle che spingono inesorabilmente al pianto. Ma poi i soldi intercettati evaporano verso auto di lusso, serate al night e allegre compagnie. Purtroppo, il mondo del terzo settore si porta sulla schiena parassiti e truffatori di ogni genere che approfittano, ci si scusi il bisticcio, del non profit per riempire il portafoglio. Le forze dell’ordine, in particolare la guardia di Finanza, e l’Agenzia per le Onlus, fanno la loro parte e passano il tempo a togliere le mele marce dal mondo della beneficenza. È una sfida continua. I criminali hanno una fantasia sfrenata e le studiano tutte pur di incantare l’opinione pubblica.

Basta sfogliare i giornali per rimanere a bocca aperta. C’è chi si mette nella scia di Padre Pio, come faceva una sedicente onlus intitolata al santo di Pietrelcina, in realtà mai esistita. I suoi rappresentanti però si facevano precedere dalle immagini delle stimmate e parlavano di terzo mondo e di aiuto ai Paesi poveri.

Come non dare loro una mano? Invece, le donazioni andavano dritte nelle tasche degli artefici dell’imbroglio. Più terra terra, l’attività della onlus casertana «Servizi terra di lavoro», in realtà un tentacolo della camorra: incredibilmente questa società paravento gestiva per conto della criminalità organizzata i parcheggi della Reggia di Caserta. Alla fine del 2007 gli arresti. Due. E la fine di uno scandalo all’ombra della storia. Come è vergognosa la trama venuta a galla a Genova: il «Centro cooperazione sviluppo» si proponeva di raccogliere risorse per i bambini africani. Ma non si andava al di là delle intenzioni; la realtà era mortificante: i soldi servivano per lucidare lo scintillante tenore di vita degli inventori di questa macchina mangiasoldi. C’è chi ha speculato perfino sul trasporto dei malati. La «Croce Verde Brixia», una sigla che farebbe pensare ad un’organizzazione seria e scrupolosa, triplicava le parcelle presentate agli ospedali di Bergamo, Mantova, Cremona.

Una parte serviva per coprire le spese realmente sostenute, il resto era mancia. Anzi, una cresta inqualificabile sulla sofferenza dei malati. I soldi, soldi del contribuente, prendevano un’altra strada. Lontanissima da quella indicata nello statuto. Il Progetto Bonsai è il fiore all’occhiello dell’Anlaids, l’Associazione nazionale per la lotta contro l’Aids. Si svolge dal 1993 il venerdì, sabato e domenica di Pasqua: le piazze di tutta Italia, nelle grandi città e nei piccoli paesi affollati di turisti in quel weekend festivo, come pure i piazzali di ospedali e centri commerciali, si riempiono di volontari e tavolinetti per distribuire gli alberelli nani ornati dal fiocchetto rosso. In cambio è chiesta un’offerta. È la manifestazione che consente la sopravvivenza dell’Onlus: nell’ultima edizione ha fruttato 2.366.009,47 euro, che rappresentano l’84 per cento dei proventi dell’organizzazione. Il resto affluisce da altri contributi liberi e finanziamenti legati agli specifici progetti. Con questi denari, spiega l’Anlaids, è possibile attuare gli scopi statutari: borse di studio, premi scientifici, progetti di ricerca, momenti di formazione, campagne informative, mantenimento di case alloggio, cooperazione allo sviluppo dei Paesi in via di sviluppo flagellati dalla peste del 2000. Eppure il Progetto Bonsai è un affare più per i vivaisti che per i ricercatori. Per raccogliere quei due milioni e 300mila euro, se ne spendono la bellezza di due milioni per acquistare, trasportare e distribuire i bonsai. Significa che per ogni euro donato ai banchetti pasquali dell’Anlaids, 87 centesimi finiscono nelle tasche dei coltivatori. Soltanto una minima parte di quella gara di generosità rimane nelle casse dell’associazione, e un rivolo ancora minore riesce ad alimentare la vera lotta contro l’Aids, perché quelle di approvvigionamento non sono le uniche spese da sostenere: la struttura organizzativa assorbe 168mila euro. Così, alle attività istituzionali dell’Anlaids restano poco più che le briciole: 75mila euro per borse di studio, 64mila per l’informazione, 57mila per la giornata del 1° dicembre (che ne frutta 126mila), 48mila per le case alloggio, 43mila per progetti di ricerca, 32mila per il progetto scuole, 22mila per dottorati di ricerca e cifre minori per progetti di cooperazione internazionale oltre ad «altri costi» non meglio precisati dall’ultimo bilancio. In definitiva, meno del 20 per cento dei denari spesi dall’Anlaids è destinato agli scopi per cui quei soldi vengono raccolti. L’associazione ha anche risparmiato qualcosina, realizzando un avanzo di gestione di 81.251 euro. E detiene una notevole liquidità: 306mila euro sono depositati in banca o alle poste mentre 50mila sono investiti in Bot. La situazione patrimoniale segnala anche la presenza di debiti per 215mila euro, ma non è dato sapere di che cosa si tratti: a differenza di altre grandi Onlus, sul sito internet non sono pubblicate le note integrative al bilancio (e anche i conti del 2008 sono apparsi soltanto dopo la segnalazione de il Giornale), mentre l’ultimo bilancio patrimoniale a disposizione dei donatori è quello del 2005. Quello dell’Anlaids appare un caso limite. Le principali Onlus italiane presentano rapporti tra ricavi e relative spese molto minori anche se assai diversi tra loro. Telefono Azzurro dichiara proventi per sette milioni e mezzo, di cui spende il 22 per cento nella raccolta fondi e il 60 nel personale, in gran parte impegnato nei centri di ascolto. All’Airc (associazione per la ricerca sul cancro) si scende al 18 per cento. Inferiore l’indice di efficienza registrato da Telethon, la maratona televisiva che rastrella denaro per combattere la distrofia muscolare e altre malattie genetiche: secondo il rendiconto, per incassare oltre 33 milioni e mezzo di euro ne sono stati spesi quasi sei, con un indice di efficienza del 17 per cento cui si aggiungono i costi di supporto generale. Ancora migliore è la «performance» di Actionaid: 15,5 per cento, con 34 milioni spesi in programmi di cooperazione su quasi 44 raccolti soprattutto con le adozioni a distanza. L’associazione si mostra particolarmente oculata nella gestione finanziaria: 2.899.000 euro investiti in operazione pronti contro termine (alta liquidità a rischio nullo, spiegano gli amministratori), 1.200.000 in certificati di deposito della Bpm, 1.046.000 in conti correnti bancari e postali, 499.000 in quote di un fondo di investimento della Banca popolare etica. Gli ambientalisti di Greenpeace spendono il 32 per cento del loro bilancio nella raccolta fondi e il 21,6 nella struttura, destinando all’attività istituzionale attorno al 45 per cento. Il «fundraising» garantisce a Emergency, l’ente fondato da Gino Strada, che gestisce ospedali in zone di guerra, entrate per 22 milioni di euro con i quali amministrare macchinari e strutture sanitarie, acquistare medicinali e protesi, pagare il personale: difficile catalogare con precisione gli indici di efficienza. Non si può dire che sia irregolare il modo di operare dell’Anlaids, il cui fondatore e presidente onorario è il professor Fernando Aiuti e la cui presidente Fiore Crespi siede nella Commissione nazionale Aids guidata dal già viceministro Ferruccio Fazio. Per le Onlus non è sancito l’obbligo di pubblicare il bilancio per dare conto agli italiani di come sono stati impiegati i fondi raccolti. E non è nemmeno fissata la percentuale delle sottoscrizioni da destinare ai bisognosi: si può andare dal 78,5 di Telethon al 20 dell’Anlaids. Le linee guida fissano un minimo del 70 per cento. Per ora, nessuno può alzare un dito se un ente di utilità sociale raccoglie 100 e trattiene 80. Gli unici che possono intervenire sono i donatori. Chiudendo i rubinetti. 

PARLIAMO DI POLTRONOPOLI. AMICI E PARENTI, L’ALTRA CASTA NELLE MUNICIPALIZZATE.

Descrizione: http://data.kataweb.it/kpmimages/kpm3/eol/eol2/2012/10/30/jpg_2193953.jpg

Non ci sono solo i parlamentari. Anzi. I più grandi privilegiati d'Italia sono quelli che i partiti hanno spedito nelle "municipalizzate". Tutti con super stipendi e auto blu. E sono più di trentamila, scrive Tommaso Cerno su “L’Espresso” con la collaborazione di Thomas Mackinson, Natascia Ronchetti e Nello Trocchia. Megastipendi.

Auto blu. Parenti assunti. Poltrone salva-trombati. Consulenze inutili. Mogli, amiche, amanti. E conti in rosso. Sembra la politica, ma non lo è. Almeno ufficialmente. Perché c'è un esercito fantasma nell'Italia degli sprechi, che non siede in Parlamento, in Regione o negli enti locali. Ma spende e spande quanto la casta. E' la costellazione di società partecipate, municipalizzate, ex controllate, holding regionali e agenzie provinciali che mangiano all'ombra del palazzo. Da Formigoni ad Alemanno, da Cota a Lombardo, sindaci e governatori hanno costruito una cassaforte miliardaria, che si muove come un privato, ma a spese del pubblico. Basta un dato per farsi un'idea dei privilegiati nascosti nel bilancio in rosso dell'Italia: più di 30 mila poltrone fra Cda e collegi sindacali. Il triplo di onorevoli, consiglieri regionali e sindaci messi insieme.

Esagerazioni? Macché, il bello è che potrebbero essere di più. Se l'Anci parla di 3.662 partecipate dai Comuni, cui vanno aggiunte 450 Spa solo regionali, per l'Irpa (Istituto di ricerca sulla pubblica amministrazione) oscillano fra 3 e 6 mila: «La zona grigia dipende dalla precarietà delle informazioni fornite dagli enti locali», spiegano. Anche tenendosi bassi, dunque, c'è da avere paura: nel paese dei tagli di Monti c'è una società pubblica ogni 17 mila abitanti e una poltrona ogni 2 mila. Più la politica.

POLTRONE DI FAMIGLIA

Quel che dev'essere capitato, è che Comuni e Regioni abbiano preso troppo alla lettera lo slogan che l'allora ministro Renato Brunetta coniò: «Le partecipate devono assumere con gli stessi criteri degli enti pubblici». E infatti, eccoli i criteri: parenti, amici e compagni di merende. Da Nord a Sud. Come Giorgio Pozzi, ex deputato lombardo del Pdl che, per dirla come il film, visse due volte. Prima si fa due anni al Pirellone senza dimettersi da presidente di Nord Energia, di cui la Regione è primo azionista. Poi la Cassazione lo fa decadere e al suo posto entra Paola Maria Camillo, eletta con 309 preferenze, che valgono un tesoro: circa 800 mila euro pubblici. Perché? Semplice, non solo eredita stipendio e vitalizio del collega, ma chiede al tribunale pure gli arretrati di due anni. Intanto, a Pozzi arriva un secondo incarico compensativo: il cda dell'Arpa, l'agenzia dell'ambiente, rifugio di molti trombati. Dall'ex presidente (fino a poche settimane fa) Enzo Lucchini (Pdl), poi spostato all'Asl di Lecco, fino a Giovanni Bozzetti, assessore in era Moratti poi messo ai vertici di Infrastrutture Lombarde Spa. Di politici paracadutati se ne trovano a bizzeffe. Stefano Maullu, in Lombardia, si era dimesso da assessore della giunta Formigoni per dissidi interni. E' rimasto disoccupato la bellezza di due giorni, piazzato poi alla nuova Tangenziale esterna (Tem) con 120 mila euro. La vittoria di Pisapia a Milano aveva, invece, declassato a consigliere semplice l'ex assessore morattiano Andrea Mascaretti, soccorso con un incarico da direttore generale di Milano Metropoli da 140 mila euro. E se Roma è capitale anche della poltronopoli italiana targata Gianni Alemanno, con lo scandalo delle assunzioni facili all'Ama e all'Atac, che tra il 2008 e il 2009 sono valse contratti "anomali" (tra cui quelli alla figlia e al figlio del caposcorta di Alemanno) a decine di parenti, amiche e fidanzate di big locali del centrodestra, tiene bene il passo la Sicilia. Dove il governatore uscente Raffaele Lombardo ha lanciato una campagna di nomine nelle partecipate per condizionare il voto regionale e garantire stipendi da nababbo agli eventuali sconfitti. Campo di battaglia l'Irfis, istituto di credito della Regione. Direttore generale l'ex ragioniere della Sicilia, Enzo Emanuele, indagato per abuso d'ufficio per la gestione commissariale di Catania. Alla presidenza, Francesco Maiolini, che aveva assunto Saveria Grosso, moglie di Lombardo, a 200 mila euro l'anno. E avanti con Claudio Raciti alla guida di Arsea, ente per i pagamenti in agricoltura. Coincidenza è l'agronomo dei Lombardo, quello che firma le perizie per l'impresa agricola della signora. Per non farsi mancare nulla, poi, ci sono pure le nomine alza-vitalizio, come in Toscana. Marco Susini, livornese, parlamentare per due legislature, vivrebbe già con la pensione di Stato, ma non basta. E così gli hanno affidato la presidenza dell'interporto di Guasticce da 30 mila euro per le spesucce.

BUCO MILIARDARIO

Gestite in questo modo, le partecipate si sono riempite di debiti. Buchi che sarà il pubblico a ripianare. La Corte dei conti, poche settimane fa, è stata impietosa: per le sole società regionali, fra perdite e ammanchi, i governatori staccano assegni attorno agli 800 milioni di euro, con una tendenza a crescere che li avvicina al miliardo. Poi ci sono i Comuni, dove regna il caos. Al ministero dell'Economia, spiegano che i debiti delle municipalizzate, circa 45 miliardi, non sempre sono iscritti nei bilanci, spesso apposta, per non dichiarare il dissesto finanziario e il default. Risultato: lo sperpero è fuori controllo e non c'è modo di sapere per quanti miliardi. Così i debiti spuntano da sotto il tappeto, all'improvviso come a Palermo. Immaginate la faccia del sindaco Leoluca Orlando, costretto a inviare al ministro dell'Interno un rapporto sui conti che ha trovato. E' un elenco di disastri.«L'Amia, in concordato preventivo fallimentare, ha un patrimonio netto negativo di 55 milioni», annota il sindaco. «E continua a perdere circa 2 milioni al mese». Nel 2011, l'altra controllata, l'Amat ha perso circa 5 milioni e i debiti sono di oltre 117 milioni. E via elencando. In Campania non sanno nemmeno quante società hanno. Per la Corte dei conti sono 29, per la Commissione Trasparenza 46. Fatto sta che le sole controllate della Regione, una decina, alimentano un buco di 107 milioni di euro. A Latina, poi, il danno e la beffa. Il sindaco Giovanni Di Giorgi dovrà fare i conti con un buco da 18 milioni della società che raccoglie i rifiuti. E con il rischio di ricoprire le strade di immondizia. Ma l'elenco è lungo. Dai 10,5 milioni di buco dell'Expo, ai 30 milioni della Co.Tral nel Lazio. Fino allo sperpero degli sperperi, l'utilizzo delle partecipate come fossero banche d'affari. E gli affari, neanche a dirlo, li fanno i privati, con fiumi di soldi che escono dalle casse pubbliche: Filippo Penati con l'autostrada Serravalle è un po' l'emblema, con i pm convinti che solo una maxi-tangente possa spiegare i regali al gruppo Gavio, svuotando proprio le casse della Provincia per l'acquisto a peso d'oro del 15 per cento delle azioni dal gruppo, garantendo al venditore plusvalenze per 176 milioni. Ma, caso specifico a parte, è il sistema Provincia che è saltato. Anche il successore Guido Podestà ha mantenuto ben vasto il firmamento delle controllate e ben alto il deficit costi-benefici. Il pezzo forte è l'Asam, che chiude il bilancio 2011 con perdite per 200 milioni. A vigilare sulla cassaforte provinciale, in qualità di presidente, è stato chiamato Stefano Pillitteri, ex assessore dell'era Moratti e figlio dell'ex sindaco di Milano Paolo.

VI PRIVATIZZO L'APPALTO

C'è pure un gioco di prestigio che sindaci e governatori si sono inventati grazie alle controllate: aggirare le norme europee sugli appalti per dare i soldi a chi gli pare. In Piemonte, la Scr (che fa un dirigente ogni sei dipendenti), è la società che gestisce gli appalti regionali. «Uno scandaloso esempio di spreco»,accusano i sindacati. Che fa la Regione? La Commissione d'inchiesta denuncia il marchingegno per dribblare i bandi. In gergo si chiama "sesto quinto" e funziona così: tu appalti una fornitura, poi la legge ti consente di prorogarla per aumenti massimi del 20 per cento. Ed ecco che in Piemonte, magia, tutti gli incrementi sono proprio del 20 per cento: «C'è uno sproporzionato ricorso a proroghe di forniture esistenti, senza gara d'appalto», spiega Alberto Goffi che presiede la commissione. E i dubbi riguardano soprattutto la sanità, così il problema si sposta dalla partecipata in questione al ben più ricco sistema delle Asl. Tanto che, sarà un caso, sempre in Piemonte è stato creato il sosia partecipato dell'assessorato alla Sanità. Si chiama Aress, è un'azienda regionale e costa 6 milioni e 800 mila euro nel 2011. La stessa, per capirci, dove un dirigente ha assunto il figlio come guardiano notturno, nei registri sempre presente al lavoro, anche quando se ne stava a casa con papà.

SPRECO FEDERALE

Nate con l'alto obiettivo di portare l'efficienza privata nel pubblico, le partecipate, insomma, stanno morendo del male opposto: sono diventate la camera di sfogo dei vezzi dei partiti, blindati dal patto di stabilità. E così la Lega s'inventa sedi federali per garantirsi posti e voti. Come a Lombardia Informatica, carrozzone da 600 dipendenti, che gestisce il call center sanitario. Puff, s'è moltiplicato ed è diventato un pozzo senza fondo. Nel 2007 aveva sede a Paternò e Biancavilla, terre d'origine e d'elezione dei potenti La Russa, con Ignazio ministro e il fratello Romano assessore regionale, ma tre anni dopo i padani sbancano alle elezioni e piazzano al vertice Lorenzo Demartini, ex consigliere non rieletto. Obiettivo? Un centralino "lumbard", con una spesa di altri 3,5 milioni per la succursale di via Juvara. Alla fine, il call center uno e trino costa 25 milioni l'anno e i cittadini, per far fronte ai costi di gestione, saranno costretti a pagare un servizio che prima era gratuito: 0,50 centesimi dal cellulare.

AFFITTOPOLI SPA

Sotto l'ombrello delle partecipate, poi, c'è pure una nuova affittopoli. Prezzi di favore nel lussuoso patrimonio dell'Istituto dei Ciechi a Milano, per esempio, emergono da un'inchiesta sugli appalti delle colonie per i bimbi. Beneficiari bipartisan: la figlia dell'ex assessore morattiana Mariolina Moioli, l'ex dirigente comunale Carmela Madaffari, il figlio del prefetto Gianvalerio Lombardi, l'assessore della giunta Pisapia, Daniela Benelli. Anche l'inchiesta che ha costretto Roberto Formigoni ad azzerare la giunta ha avuto la sua piaga immobiliare: Domenico Zambetti, assessore alla casa sotto scacco della 'ndgrangheta, pare ripagasse il debito offrendo lavoro e appartamenti dell'Aler, l'azienda lombarda per l'edilizia residenziale. Del resto lui stesso si era assicurato un appartamento del patrimonio del Pio Albergo Trivulzio, già nel 2008, in corso Sempione. Un vero affare quei 110 metri quadri a 50 metri dall'Arco della Pace. Ma lì vicino, in via Guerrazzi, abitava anche l'ex assessore regionale alla sanità Antonio Simone arrestato per i fondi neri alla Fondazione Maugeri. Anche il suo appartamento era un lascito ceduto del Pat, uno degli ultimi favori concessi da Mario Chiesa, presidente della Baggina, nel febbraio 1992. Simone vi si stabilì con tutta la famiglia e, vent'anni dopo si scopre che l'appartamento è stato acquistato dalla moglie, Carla Vites. Nell'autonomo Friuli Venezia Giulia, invece, la Regione che ha creato una vera e propria holding pubblica, Friulia, che gestisce tutte le partecipate, dalle Autovie venete (ultima nomina "tecnica" nel cda, il segretario regionale della Lega, Matteo Piasente) alle più piccole agenzie regionali, si buttano milioni per sciare. Nell'autonomo territorio a Nord-est opera, infatti, sotto il Pramollo una società pubblica che si chiama Promotur. Obiettivo: riempire le piste di sci. Risultato: mamma Regione ha speso 16 milioni per ripianare il bilancio e, a distanza di un anno, il buco è già tornato: 2,5 milioni di euro. Eppure la società va avanti, pronta ad aumentare i prezzi degli sky pass, anche se forse spenderebbe meno a pagare direttamente le vacanze ai turisti. A Parma, invece, c'è il record di partecipate. Nemmeno 200 mila abitanti e 35 società. Durante la stagione del centrodestra, attraverso la Stu area stazione (società di trasformazione urbana) il Comune ha messo in fila progetti faraonici di riqualificazione lasciando in eredità quasi 100 milioni di debiti. Ora per negoziare la ristrutturazione con i creditori, in poche settimane ha staccato assegni per 800 mila euro. Tutti a favore di consulenti.

COMPARI DI MONNEZZA

Ci ha puntato molto, su queste slot-machine alimentate dalle casse pubbliche, pure Luigi Cesaro, deputato Pdl e presidente dimissionario della provincia di Napoli, un passato di rapporti con il clan di Raffaele Cutolo. Ha creato la Sapna, partecipata che doveva risolvere lo scandalo rifiuti portandoli fuori dalla Campania. Invece è saltata fuori una macchina mangiasoldi, che regala consulenze a studi legali, a contabili, a personale esterno per un danno che supera il milione e mezzo di euro. Tanto che la Corte dei conti ha disposto un sequestro di 700 mila euro. In più, le partecipate napoletane servono per assumere dipendenti in violazione del patto di stabilità. La Procura indaga su 38 contratti firmati a pochi giorni dalle ultime elezioni. Contratti di cui nemmeno gli assunti hanno saputo spiegare le modalità di selezione.

Municipalizzate=clientelismo. Lo dice il figlio di Napolitano.

Una società su tre partecipata dagli Enti locali è in perdita, eppure i dati indicano come continuino nuove assunzioni per amici e parenti dei politici. Concorrenza distorta e penalizzazione del cittadino-contribuente, che ottiene servizi scadenti a un prezzo più alto. Lo dice un rapporto stilato, tra l'altro, da Giulio Napolitano, figlio di "re Giorgio", scrive Nicolò Petrali su “Il Vostro”. Se si parla di sprechi, inefficienza e clientelismo, cioè il peggio del malcostume italico, non si può non fare riferimento alle municipalizzate e, più in generale, alle società partecipate dagli Enti locali. Secondo uno studio di natura contabile dell’Anci, sono 4.206 le aziende tra i cui soci, alla data del 31 dicembre 2010, figurava almeno un Comune. I dati dicono che la regione con il più alto numero di società partecipate è la Lombardia (597), al secondo posto troviamo la Toscana (330), poi il Piemonte (320) , l’Emilia Romagna (304), il Veneto (275) e infine il Trentino Alto Adige (231). Per quanto riguarda il Sud, il primato è detenuto dalla Campania (237), seguita dalla Sicilia (163), dalla Puglia (156) e dalla Calabria (101). Nel Centro Italia, al primo posto del podio si piazzano le Marche (186), poi l’Abruzzo (147) e infine il Lazio (141). In queste società sono impiegati circa 300mila lavoratori di cui 186mila occupati nei settori del trasporto locale, dei rifiuti, dell’acqua e dell’energia. Il 75% di queste persone si trova nel ricco Nord, mentre solo il 26% nel Mezzogiorno.

Sarebbe un buon argomento antileghista se non fosse che nonostante il numero molto inferiore di società e quindi di lavoratori impiegati, in proporzione al Sud si spreca molto di più. Secondo un recente studio elaborato da alcuni studenti e ricercatori universitari tra cui Sveva del Gatto, Diego Agus e Giulio Napolitano (figlio del più noto Giorgio) per conto dell’Istituto di ricerche sulla Pubblica Amministrazione (Irpa) e denominato Capitalismo municipale, le municipalizzate hanno molta poca utilità per la collettività e moltissima, invece per i politici, che le utilizzano principalmente per fare assunzioni clientelari e altri affari poco puliti. «L’indagine – si legge nella premessa della ricerca – evidenzia lo straordinario sviluppo del numero e del peso delle società pubbliche locali e le disfunzioni da ciò derivanti. Il fenomeno è ancora più grave se si tiene presente che la maggior parte di tali società non è al servizio della comunità, ma della stessa amministrazione. Soltanto una quota minoritaria, infatti, gestisce servizi pubblici locali. Le modalità di affidamento di questi ultimi, a loro volta, favoriscono indebitamente le società a partecipazione pubblica. In questo modo i cittadini finiscono per pagare due volte un prezzo ingiusto: come contribuenti, sopportano il costo di imprese spesso inefficienti e in perdita; come consumatori, sono costretti a rivolgersi a gestori individuati per la contiguità al potere pubblico invece che per la capacità di offrire prestazioni migliori a condizioni più vantaggiose».

SPRECHI, INEFFICIENZA E CLIENTELISMO – Secondo lo studio, dunque, le logiche politiche prevalgono su quelle del marcato non generando quel meccanismo essenziale che è la concorrenza e andando a penalizzare i cittadini contribuenti che ottengono servizi scandenti a un prezzo più alto. Oltre a ciò le municipalizzate diventano dei parcheggi per amici e parenti dei politici che piazzano al loro interno chi gli pare e piace. «In questo senso – scrivono gli studiosi – relativamente alla crescita del numero degli occupati, in controtendenza con gli attuali dati sull’occupazione a livello nazionale, sono decisamente emblematici di un uso dello strumento societario funzionale alla distribuzione di posti e prebende, piuttosto che al perseguimento di utili o al soddisfacimento degli utenti.

L’aumento delle assunzioni stride decisamente con le perdite registrate dalla maggior parte delle partecipate locali, in particolar modo da quelle che operano nel settore del trasporto e dei rifiuti. Secondo i dati raccolti dalla Corte dei Conti, il 32,4% delle partecipate comunali è in perdita. Tra queste il 40% gestisce servizi pubblici locali e, all’interno di questa percentuale, il 60% di tali attività in perdita attiene al settore idrico e dei rifiuti, mentre il 35% ai trasporti”. Cari tecnici, non è forse giunto il momento di privatizzare?

PARLIAMO DI LAVORO. L’ITALIA DEGLI SFIGATI, DEI BAMBOCCIONI E DEGLI SCHIZZINOSI.

“Chi sa, fa. Chi non sa, insegna”. Così dice un vecchio detto. Ed eccoci oggi a commentare proprio una frase di chi insegna. Suvvia perdoniamo loro che non sanno quello dicono. Generalmente ci si divide in teorici e pratici (tecnici). I primi a teorizzare, i secondi ad attuare. Ma se al Governo ci hanno messo i teorici (quelli che insegnano e non conoscono la realtà), perché li han definiti tecnici (capaci di fare)? Già, perché, chi sapendo ben fare (rubare e sprecare), non aveva più niente da fare e voleva precostituirsi un alibi. Giusto per dimostrare una mia tesi: da sempre siamo solo presi in giro e pure ne godiamo, anzichè ribellarci e buttar giù tutti dal carrozzone. L'apatia e l'accidia generale dei cittadini ti smonta, la collusione e la codardia delle vittime ti scoraggia. E la politica. I borghesi conservatori posso capirli, ma i cosiddetti comunisti, che si definiscono progressisti, ma che in realtà sono solo restauratori?

“Giovani siete sfigati”! Giovani siete “bamboccioni”! “Giovani non siate schizzinosi”! Poverini non è colpa loro, (di chi dice ste cazzate), anche perché i loro figli schizzinosi non lo sono affatto, non avendone ragione. In un paese dove il 78% dei lavori si trova per «segnalazione» (dato Eurostat), i figli di banchieri, professori universitari, rettori, presidenti di Cda, prefetti, manager pubblici, magistrati, principi del foro, tutti futuri (attuali) ministri, non hanno tempo per essere choosy, «schizzinosi». Già a me quando ero giovane i vecchi mi dicevano: “aspetta, sei giovane, non hai esperienza. Devi farti le ossa”. Bene. Oggi che ho 50 anni i giovani mi dicono: “fai largo, sei vecchio, da rottamare”. Ergo, la mia è una generazione a perdere. In attesa di un turno che non arriverà mai. Questo mio pensiero è dedicato a chi, ignavo, non si ribella a cambiar le cose, se non per sé, almeno per i suoi figli. Per non destinare lor il destino di esuli per fame o per onor.

«Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.»

Il canto diciassettesimo del Paradiso di Dante Alighieri si svolge nel cielo di Marte, ove risiedono gli spiriti di coloro che combatterono e morirono per la fede; siamo alla sera del 13 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 30 marzo 1300.

Giustissimo prendersela con gli scandali della politica. Ma il problema è che l'Italia è divisa in due: chi è privilegiato (per conoscenze, relazioni familiari, corporazioni etc) e chi invece è abbandonato a se stesso. «Io faccio il senatore e so per esperienza che quando le persone si rivolgono a uno di noi è sempre per chiedere un aiuto personale, una promozione, un favore. E' questa la cultura che alimenta i privilegi e uccide il merito». Dice Ignazio Marino. Ha ragione e lo dico io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come?

A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.

A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità assieme ai giovincelli.

A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare. Pago caro il denunciare il malaffare ed i concorsi truccati di quelle istituzioni che pretendono rispetto, senza meritarlo.

Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).

Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Alla fine si è sfigati comunque, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate.

Schizzinosi no!! C’è da far umili lavori. Si và. Padre e figlio accomunati da identico destino. Fa niente che a parità di laurea il popolino appella il titolo di dottore solo a chi va in cravatta (immeritata) e non a chi va con le braghe sporche.

Certo è che nessuno va a chiedere ispezioni ministeriali per vagliare le risultanze dell'esame di abilitazione di avvocato o di notaio o di professore universitario, ovvero di verificare la legalità delle procedure di accesso alla magistratura. Compiti non corretti? Per le commissioni d'esame: Fa niente, conta il nome e l'accompagno. Il TAR, intanto, da parte sua sforna sentenze antitetiche tra loro su domande aventi lo stesso oggetto: dipende dall’avvocato che le presenta. Basta leggere il libro del  dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it, e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “CONCORSOPOLI".

Libro facente parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONE E CONCORSI TRUCCATI IMPUNITI: FAMILISMO, NEPOTISMO, CLIENTELISMO.

Dedicato a chi, ignavo, non si ribella a cambiar le cose, se non per sé, almeno per i suoi figli. Per non destinare lor il destino di esuli per fame o per onor.

«Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.»

Il canto diciassettesimo del Paradiso di Dante Alighieri si svolge nel cielo di Marte, ove risiedono gli spiriti di coloro che combatterono e morirono per la fede; siamo alla sera del 13 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 30 marzo 1300.

VITTIME DELLA RACCOMANDAZIONE E DEI CONCORSI TRUCCATI: NON SIATE SCHIZZINOSI.

Una carrellata di opinioni venute da destra e da sinistra, giusto per dimostrare una tesi: da sempre siamo solo presi in giro e pure ne godiamo, anzichè ribellarci e buttar giù tutti dal carrozzone. L'apatia e l'accidia generale dei cittadini ti smonta, la collusione e la codardia delle vittime ti scoraggia. E la politica. I borghesi conservatori posso capirli, ma i cosiddetti comunisti, che si definiscono progressisti, ma che in realtà sono solo restauratori?

Quei figli dei ministri «poco schizzinosi». Il ministro Fornero ha definito i giovani "choosy". E i loro pupilli? Ricoprono tutti incarichi di rilievo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. In un paese dove il 78% dei lavori si trova per «segnalazione» (dato Eurostat), i figli di banchieri, professori universitari, rettori, presidenti di Cda, prefetti, manager pubblici, tutti futuri (attuali) ministri, non hanno tempo per essere choosy, «schizzinosi»: il lavoro arriva e coi fiocchi. Al di là dei loro sicuri meriti, non deve aver fatto la schizzinosa Maria Maddalena Gnudi quando il padre, il ministro Gnudi (ex presidente Enel, quota Udc) le ha proposto di diventare socio del prestigioso Studio Gnudi (commercialisti in quel di Bologna), il suo. Approdo sicuro anche per Eleonora Di Benedetto, avvocato 35enne, assunta da uno dei più importanti studi legali di Roma, lo studio Severino, quello della madre Paola, ministro della Giustizia. Ma non tutti i brillanti figli si impiegano indoor, altri lo fanno outdoor, sempre ad altissimi livelli. Come Costanza Profumo, brillante architetto laureata al Politecnico di Torino, figlia del rettore del Politecnico di Torino Francesco Profumo (ora ministro dell'Istruzione), ha lavorato nello studio newyorkese dell'archistar Daniel Libeskind, ora pare sia a Rio de Janeiro. Carlo Clini, figlio del ministro dell'Ambiente Corrado, è rimasto invece in Europa, a Bruxelles, dove coordina progetti per la Regione Veneto. Ricordate Carlo Malinconico, il sottosegretario tecnico che si è dimesso per una vacanza pagata da altri? Suo figlio, Stefano, avvocato, ha fatto pratica nello studio Malinconico (del padre), poi ha trovato lavoro al ministero dell'Ambiente dov'era direttore generale Corrado Clini (ex collega di governo del padre), e quindi all'Antitrust, quando il presidente era il sottosegretario Catricalà, (ex) collega del padre nei governo Monti. A sua volta il segretario Catricalà, che ha gestito l'Antitrust per sei anni, ha una figlia che è in una società, Terna, partecipata dal ministero dell'Economia, dove da sempre siede Vittorio Grilli, ministro dell'Economia, che però ha figli ancora in età scolare. Brillante carriera per un altro rampollo, Luigi Passera, figlio del ministro Passera. Passera jr., dopo la laurea in Bocconi (come il padre) si è occupato di marketing per la Piaggio, società di Colaninno, partner dell'ex ad di Intesa nella cordata di salvataggio Alitalia. Ora Passera jr ha un impiego di tutto rispetto presso la multinazionale Procter & Gamble. Di Monti jr, invece, si sono perse le tracce. Dopo aver lavorato a Londra per Citigroup e Morgan Stanley, il figlio del premier era stato chiamato alla Parmalat da Enrico Bondi (a sua volta poi chiamato da Monti padre come commissario straordinario per la spending review). Dopo le polemiche sul posto fisso (il premier disse che era «noioso») il curriculum del figlio, che nel frattempo ha lasciato Parmalat, è sparito dal web. Si sa però che la seconda figlia di Monti, Federica, ha lavorato nel prestigioso studio Ambrosetti, quelli del Forum Ambrosetti di Cernobbio, dove si riunisce la crème dell'economia italiana. E che poi ha sposato Antonio Ambrosetti, unico figlio maschio degli Ambrosetti. Benissimo è andata a Giorgio Peluso, 42 anni, figlio del ministro Cancellieri. Già assunto trentenne come direttore di Unicredit, poi direttore generale di Fondiaria Sai a 500mila euro l'anno, l'ha in questi giorni lasciata con una buonuscita di 3,6 milioni, scoperta dal Fatto. Ma non è rimasto a spasso: assunto da Telecom Italia come Chief Financial Officer. Poi c'è la Fornero. La figlia Silvia ha una cattedra all'Università di Torino (dove madre e padre sono professori ordinari), e lavora in una fondazione finanziata da Intesa (dove la madre era nel consiglio di Sorveglianza). L'altro figlio, Andrea Deaglio, invece, è uno stimato regista e produttore di film socialmente impegnati (emarginazione, minoranze etniche). Chissà cosa pensa dei choosy.

I figli dei ministri? Tutti geni, ecco perchè non sono schizzinosi…..scrive “PDFontanaliri”. All’indomani dell’ultima provocazione di Elsa Fornero (“i giovani italiani sono un po’ troppo schizzinosi -choosy- nel cercare lavoro”) Repubblica tira fuori la notizia di una mega liquidazione al figlio del ministro dell’Interno Cancellieri, Piergiorgio Peluso. Tre milioni e 600mila euro per un anno di duro lavoro alla Fondiaria Sai (che ha nel frattempo contribuito ad affossare), la società assicurativa dell’imprenditore Salvatore Ligresti, già arrestato per tangenti e indagato per corruzione. La folgorante ascesa professionale di Peluso inizia presto: appena laureato viene catapultato subito all’Arthur Andersen. Un fenomeno della natura. Da lì balza a Mediobanca.

Passa poi per diversi enti e dirigenze bancarie tra cui Aeroporti di Roma (consigliere d’amministrazione), Gemina (consigliere) Capitalia, Credit Suisse First Boston e Unicredit per finire, poco tempo fa, alla Fondiaria Sai dove ha ricoperto (fino ad oggi) il ruolo di direttore generale con compenso da 500mila euro all’anno.

Dobbiamo interrogarci su come sia possibile offrire a tutti (al figlio di Monti come a quello dell’operaio) le stesse condizioni di partenza e le stesse opportunità così come recita l’articolo 3 della Costituzione che qui ricordiamo: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Ancora: Giovanni Monti, figlio del Premier Mario, a poco più di 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, la più potente banca d’affari americana, la stessa in cui il padre Mario ricopre il ruolo apicale di International Advisor. A 25 anni è già consulente di direzione da Bain & company, dove rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, vale a dire fino al suo approdo alla Parmalat, Giovanni Monti ha lavorato prima a Citigroup e poi a Morgan & Stanley: a Citigroup è stato responsabile di acquisizioni e disinvestimenti per alcune divisioni del gruppo, mentre alla Morgan si è occupato in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. Silvia Deaglio, la figlia del Ministro Forneo, a soli 24 anni, mentre già svolgeva un dottorato in Italia, ottiene un incarico presso il prestigioso Beth Israel Deaconess Medical Center di Harvard, il prestigioso college di Boston. La figlia del ministro inizia ad insegnare medicina a soli 30 anni. Diventa associata all’università di Torino a 37 anni con sei anni di anticipo rispetto alla media di accesso in questo ruolo. Il concorso lo vince a Chieti, nel 2010, nella facoltà di Psicologia, prima di essere chiamata a Torino, l’università dove insegnano mamma e papà, nell’ottobre 2011. alla professoressa Deaglio ha certamente giovato nella valutazione comparativa il ruolo di capo unità di ricerca all’Hugef, ottenuto nel settembre 2010 quando era ancora al gradino più basso della carriera accademica, e a ridosso dell’ultima riunione della commissione di esame che l’ha nominata docente di seconda fascia. Come detto, l’Hugef è finanziato dalla Compagnia di San Paolo, all’epoca vicepresieduta da mamma Elsa Fornero. Piergiorgio Peluso, figlio del Ministro Cancellieri: appena laureato viene catapultato subito all’Arthur Andersen. Un fenomeno della natura. Da lì balza a Mediobanca. Passa poi per diversi enti e dirigenze bancarie tra cui Aeroporti di Roma (consigliere d’amministrazione), Gemina (consigliere) Capitalia, Credit Suisse First Boston e Unicredit per finire, poco tempo fa, alla Fondiaria Sai dove ricopre il ruolo di direttore generale con compenso da 500mila euro all’anno. Michel Martone, figlio di Antonio Martone, avvocato generale in Cassazione, amico di Previti e Dell’Utri e Brunetta, già nominato da Brunetta presidente dell’authority degli scioperi, ruolo da cui si è dimesso dopo essere stato coinvolto come testimone nell’inchiesta P3, ha una carriera universitaria molto rapida: a 23 anni ha un dottorato all’università di Modena. A 26 anni diventa ricercatore di ruolo all’università di Teramo. A 27 anni diventa professore associato. Al concorso, tenutosi tra gennaio e luglio 2003, giunse al secondo posto su due candidati, in seguito al ritiro di altri 6. Presentò due monografie, una delle quali in edizione provvisoria (ossia non ammissibile); ottenne 4 voti positivi su 5, con il parere negativo di Franco Liso, contro i cinque voti positivi ricevuti dall’altra candidata, 52enne con due lauree e 40 pubblicazioni. Tuttavia fu Martone ad ottenere il posto da ordinario. A 37 anni diventa viceministro del governo Monti.

Figli dei ministri schizzinosi? A ciascuno il suo lavoro di prestigio, scrive “Politica 24”. Il ministro Elsa Fornero non è stata affatto clemente con i giovani, invitandoli a non essere schizzinosi per quanto riguarda la scelta del lavoro da svolgere. Le affermazioni del ministro del Welfare hanno scatenato parecchie polemiche. In effetti in molti, alle prese con una disoccupazione imperante, si sono sentiti quasi provocati da parole di questo genere. Più che essere schizzinosi, bisognerebbe comprendere che in Italia il lavoro non c’è, specialmente per chi è alle prese con la prima occupazione. E mentre i giovani italiani portano avanti queste difficoltà, come se la cavano invece i figli dei ministri? Se la Fornero avesse riflettuto su quest’ultima questione, probabilmente avrebbe evitato di parlare dei giovani come “choosy”. In effetti, se esaminiamo la situazione lavorativa dei figli dei ministri e degli uomini politici in generale, ci accorgiamo che abbiamo a che fare con casi altro che “schizzinosi”. Luigi Passera, il figlio del ministro Passera, dopo essersi occupato di marketing presso la Piaggio, adesso è approdato a lavorare per la multinazionale Procter & Gamble. Il confronto con il lavoro da centralinista o da ragazzo che consegna le pizze sorge spontaneo. Ma la Fornero ha preso un grosso granchio, perché, nel momento in cui ha parlato di essere schizzinosi, non ha considerato nemmeno il lavoro della figlia Silvia: una dimenticanza. La figlia del ministro Fornero ha una cattedra all’Università di Torino, dove sia la madre che il padre sono professori ordinari. Inoltre Silvia lavora in una fondazione finanziata da Intesa. Non c’è da meravigliarsi, visto che la madre faceva parte proprio del consiglio di sorveglianza di Intesa. La Fornero ha anche un altro figlio, Andrea, un “choosy” pure lui, potremmo dire: regista e produttore di film sull’emarginazione e le minoranze etniche. E che dire di Maddalena Gnudi, figlia del ministro Gnudi? Non avrà certo fatto la schizzinosa, nel momento in cui il padre le ha proposto di diventare socio del famoso Studio Gnudi, un team qualificato di commercialisti. Sempre meglio delle pizze, giusto? Paola Severino, invece, ha una figlia: Eleonora Di Benedetto. Anche lei è rimasta a lavorare “in famiglia”: svolge la professione di avvocato presso lo studio legale Severino a Roma. E che dire del figlio Stefano di Carlo Malinconico, noto sottosegretario tecnico? Stefano ha fatto pratica nello studio legale del padre e poi è stato assunto al ministero dell’Ambiente, sotto la supervisione del Direttore Generale Corrado Clini. Ma non pensate male: in fin dei conti Clini è solo un ex collega di Governo del padre. Se vogliamo dirla tutta, Stefano Malinconico ha lavorato anche all’Antitrust, quando era presidente il sottosegretario Catricalà, sempre collega del padre. La figlia di Catricalà lavora in una società partecipata dal ministero dell’Economia. In questa società ha un ruolo importante Vittorio Grilli, ministro dell’Economia. Peccato che i figli di Grilli siano ancora troppo piccoli…Schizzinoso è stato invece il figlio di Monti, che era stato chiamato a lavorare alla Parmalat di Enrico Bondi. Dopo che Monti affermò che il posto fisso fosse noioso, del figlio si sono perse le tracce. La figlia di Monti, Federica, ha invece lavorato presso il prestigioso Studio Ambrosetti, che presenta stretti legami con gli esponenti più alti dell’economia italiana. Il figlio del ministro Cancellieri, Giorgio Peluso, ha preferito al lavoro di centralinista dell’altro: direttore di Unicredit, direttore generale di Fondiaria Sai, con 500.000 euro di stipendio all’anno e infine, dopo una buonuscita di 3,6 milioni, è stato assunto da Telecom Italia come Chief Financial Officer. Suvvia, figli dei ministri, non siate schizzinosi.

Bamboccioni di governo. Giovani choosy, non solo Fornero: quanti figli dei ministri sono schizzinosi. La battuta di Elsa è l'ultima di una lunga serie sui giovani italiani. Come se i suoi ragazzi facessero i porta-pizze, scrive “Libero Quotidiano”. I pupi ministeriali? Grandi manager, prof in studi prestigiosi, docenti universitari...I ragazzi non sono abbastanza umili. Parola di Elsa Fornero, ministro del Lavoro in carica. Beh, se un esponente del governo dei Prof dice che i giovani italiani sono troppo schizzinosi nella scelta del primo impiego, vorrà dire che i figli dei suddetti Prof avranno avuto un'umiltà esemplare, quasi francescana, nel cercare lavoro. Si saranno accontentati. Sarà andata così, no? No. I Forneros - Cominciamo proprio dai due figli del ministro Frignero (come la chiama Beppe Grillo). Silvia a neanche 40 anni è già professore associato presso la facoltà di Medicina dell’Università di Torino (ateneo dove insegnano sia la madre che il padre, l'economista Mario Deaglio). Ma, visto che è una ragazza modesta, Silvia si è cercata anche un secondo lavoretto: è responsabile unità di ricerca della HuGeF, fondazione creata e finanziata dalla Compagnia di San Paolo (leggi Banca Intesa, istituto di credito nel cui consiglio di sorveglianza sedeva la mamma). Il fratello Andrea, essendo un giovane sabaudo tutto concentrato sul lavoro (perché con la cultura, si sa, non si mangia), è regista cinematografico. La giovane Profumo e il figlio di Passera - Costanza Profumo, figlia del ministro dell'Istruzione Francesco, si è laureata nel 2008 in architettura al Politecnico di Torino (chi era il rettore? Papà).

Ragazza quadrata, di fronte alla crisi incalzante non si è tirata indietro dallo sporcarsi le mani nel primo lavoretto capitatole a tiro: lo studio (a New York) dell'archistar Daniel Libeskind, uno che, per capirci, firma il progetto della nuova Ground Zero. Altrettanto tetragono alle difficoltà della vità è Luigi Passera (di Corrado, ministro per lo Sviluppo economico). Laureato in Bocconi, il giovanotto ha studiato in Cina alla Hong Kong University e alla Fudan University (l'esclusivo ateneo che sforna la locale classe dirigente). Dopo uno stage negli stabilimenti vietnamiti della Piaggio, ora lavora per il colosso Procter & Gamble. E il figlio del Premier? - Ricorderete certamente Mario Monti lamentarsi della monotonia del posto fisso. Il figlio Giovanni, a soli 43 anni, è un esempio di flessibilità: ha studiato a Milano e New York, ha lavorato a Londra per le banche City Group e Morgan Stanley (di cui è stato vicepresidente), poi è stato chiamato alla Parmalat da Enrico Bondi (diventato in seguito commissario straordinario alla spending review del governo... Monti). Oggi risulta disoccupato: la crisi è crisi.

Miscellanea di prole ministeriale - Giorgio Peluso, figlio del ministro Anna Maria Cancellieri, a 42 anni è già stato: direttore di Unicredit, direttore generale di Fondiaria Sai e, dopo una buonuscita di 3,6 milioni di euro, chief finacial officer per Telecom Italia. Carlo Clini, figlio del ministro per l'Ambiente, vive e lavora da anni a Bruxelles, dove ha avuto prima un incarico per l'Upi, Unione delle Province Italiane, e poi per la regione Veneto. Eleonora Di Benedetto, infine, è un giovane avvocato di 35 anni assunto da uno dei più prestigiosi studi legali di Roma: quello della madre, Paola Severino, ministro della Giustizia.

PARLIAMO DELLA RACCOMANDAZIONE: TUTTI LA RINNEGANO; TUTTI LA CERCANO.

«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell' Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall' ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino.

Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell' inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore.

Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008   pagina 20   sezione: cronaca)

Una generazione a perdere.

«Possiamo anche passar oltre al fatto che ancora oggi vi siano leggi fasciste a regolare la nostra vita ed ai catto-comunisti vincitori della guerra civile dell'altro millennio questo va bene, ma il grado di civiltà di una nazione si misura in base al livello di uguaglianza che viene riconosciuto ai suoi cittadini. Ed in Italia quel livello è infimo. Eppure la Costituzione lo prevede all’art. 3. Ma tra liste bloccate per amici e parenti e boutade elettorali, ogni nuova tornata elettorale, come sempre, non promette niente di nuovo: ergo, niente di buono.

I vecchi tromboni, nelle idee più che nell’età, minacciano il nostro futuro - dice il dr Antonio Giangrande, scrittore dissidente e presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie ( www.controtuttelemafie.it ). - Noi siamo figli di una generazione a perdere: senza passato, senza presente e, cosa più grave, senza futuro. Questa non è una notizia di cronaca, ma cronaca lo è. Chi scrive è definito intellettuale. Si scrive, per quanto mi riguarda, forse, perché non si ha di meglio da fare dopo una vita in cerca di lavoro e di partecipazione a concorsi pubblici truccati. Però una cosa la devo scrivere. Credo che sia tempo di dire basta con questi politicanti. Questi i problemi li creano, non li risolvono. Non si dia a loro visibilità e si parli, piuttosto, dei veri problemi della gente da lor signori causati. Gente in carcere o morta di fame. Eravamo ragazzi e ci dicevano: “Studiate, sennò non sarete nessuno nella vita”.

Studiammo con i sacrifici nostri e dei nostri genitori. Dopo aver studiato ci dissero: “Ma non lo sapete che la laurea non serve più a niente? Avreste fatto meglio ad imparare un mestiere od a fare i commercianti!”. Imparammo il mestiere o diventammo commercianti. Dopo ci dissero: “Che peccato però, tutto quello studio per finire a fare un mestiere o ad aprire una bottega?”. Ci convinsero e lasciammo perdere, anche perché le tasse erano troppe ed alte e la burocrazia inefficiente ed oppressiva. Quando lasciammo perdere, rimanemmo senza soldi, a campare con le pensioni dei genitori. Poi diventammo disperati, senza futuro e con genitori senza pensione. Prima eravamo troppo giovani e senza esperienza. Dopo pochissimo tempo eravamo già troppo vecchi, con troppa esperienza e troppi titoli, con pochi posti di lavoro occupati da gente incapace, figli di una cultura corrotta. Non facemmo figli - per senso di responsabilità - e crescemmo. Così ci dissero, dall’alto dei loro concorsi truccati vinti o lavori trovati facilmente negli anni ’60, con uno straccio di diploma o la licenza media, quando si vinceva facile davvero: “Siete dei bamboccioni, non volete crescere e mettere su famiglia”. E intanto pagavamo le loro pensioni, mentre dicevamo per sempre addio alle nostre. Ci sposammo e facemmo dei figli per dare una discendenza ad una nazione fiera dei suoi trascorsi e ci dissero: “Ma come, senza una sicurezza nè un lavoro con un contratto sicuro fate i figli? Siete degli irresponsabili”. A quel punto non potevamo mica ucciderli.

Così emigrammo. Andammo altrove, alla ricerca di un angolo sicuro nel mondo, lo trovammo, ci sentimmo bene. Ci sentimmo finalmente realizzati, ma a piangere la terra natia ed a maledire chi la governava ed anche chi li votava. Diventammo vecchi senza conoscere la felicità. Ma un giorno, quando meno ce lo aspettavamo, per il magna magna dei pochi il “Sistema Italia” fallì e tutti si ritrovarono col culo per terra. Allora ci dissero: “Ma perchè non avete fatto nulla per impedirlo?”. A quel punto non potemmo che rispondere: “Andatevene tutti affanculo, voi, la vostra claque in Parlamento ed i giornalisti foraggiati che vi danno spazio sui loro giornali e vi invitano in tv a dir cazzate!”.»

Siamo un Paese di figli e figliastri scrive Michele Ainis su “L’Espresso”. Giustissimo prendersela con gli scandali della politica.

Ma il problema è che l'Italia è divisa in due: chi è privilegiato (per conoscenze, relazioni familiari, corporazioni etc) e chi invece è abbandonato a se stesso. Scandali, sprechi, sciali. E privilegi di stampo feudale, come no. Dei politici, della loro dolce vita, ne abbiamo gli occhi pieni. E continuiamo a sgranarli ogni mattina, basta aprire un quotidiano. C'è un rischio però, anche se a enunciarlo rischi a tua volta i pomodori. Il rischio di trasformare le malefatte di Lusi o di Fiorito in un lavacro collettivo, che monda ogni peccato. I nostri, non i loro. Perché non è vero che da un lato c'è la casta, dall'altro la società dei casti. Non è vero che il furto di denaro pubblico avvenga unicamente per mano dei partiti: ce lo dicono i numeri dell'elusione fiscale, del lavoro nero, degli abusi edilizi. E soprattutto non è vero che i privilegiati siano soltanto loro. Nell'Italia delle corporazioni ormai lo siamo tutti. LE PROVE? Cominciamo dalla pappatoia delle regioni, dove i consiglieri pappano a spese dell'erario. Ma il personale burocratico non sta certo a digiuno. In Trentino i dirigenti ottengono mutui a tasso zero. In Emilia vanno in bus con uno sconto dell'85 per cento sul biglietto. In Sicilia hanno diritto a un sussidio per il matrimonio, alla colonia estiva per i figli, perfino al contributo per le pompe funebri. Senza dire dei benefit che toccano in sorte ai dipendenti delle assemblee parlamentari: quelli del Senato intascano pure la sedicesima, alla Camera uno stenografo può guadagnare più del capo dello Stato (259 mila euro lordi l'anno contro 239 mila). E gli altri? Ce n'è per tutti, anche per chi timbra il cartellino fuori dal Palazzo. I bancari lasciano il posto in eredità alla prole (almeno il 20 per cento del turnover nelle banche si svolge attraverso una staffetta tra padri e figli). Le mogli dei ferrovieri salgono in treno gratis. Gli assicuratori ci infliggono le polizze più salate d'Europa (il premio Rc auto costa il doppio rispetto alla Francia e alla Germania). I sindacalisti vengono esentati dai contributi pensionistici. I tassisti si proteggono con il numero chiuso. Al pari dei farmacisti e dei notai, che oltretutto sono creature anfibie: funzione pubblica, guadagni privati (il sigillo notarile vale 327 mila euro l'anno). Come i medici ospedalieri, ai quali s'applica l'intra moenia extramuraria: un pasticcio semantico, prima che giuridico. In pratica, devolvono il 6,5 per cento del loro fatturato all'ospedale e vanno ad operare nelle cliniche di lusso.

D'altronde ciascuno ha il proprio lusso, e se lo tiene stretto. Ai dipendenti della Siae tocca un'"indennità di penna". Ai servizi segreti un' "indennità di silenzio". Agli avvocati dello Stato una "propina" (55 milioni nel 2011). I diplomatici all'estero incassano uno stipendio doppio. Come i giudici amministrativi distaccati presso i ministeri (in media 300 mila euro l'anno). I professori universitari hanno diritto alla vacanza permanente (l'impegno annuale è di 350 ore). I giornalisti entrano nei musei senza pagare.

Chi è impiegato all'Enel fruisce d'uno sconto sulla bolletta della luce. I docenti di religione hanno una busta paga più pesante rispetto a chi insegna geografia. E c'è poi il santuario degli ordini professionali, lascito imperituro del fascismo. C'è una barriera all'accesso che protegge avvocati, architetti, commercialisti, veterinari, ingegneri. C'è il mantello dell'indipendenza che si traduce in irresponsabilità per i pm (le sanzioni disciplinari colpiscono lo 0,3 per cento della categoria). C'è una selva di privilegi processuali in favore delle banche (possono chiedere un decreto ingiuntivo in base al solo estratto conto), di privilegi fiscali per i petrolieri (pagano royalty del 4 per cento contro l'80 in Norvegia o in Russia). C'è la mammella degli aiuti di Stato (30 miliardi l'anno), da cui succhiano le imprese siderurgiche non meno di quelle cinematografiche (1,5 milioni a "L'allenatore nel pallone 2"). Sì, è esattamente questa la nostra condizione. Siamo un popolo di privilegiati e discriminati, di figli e figliastri. Senza eguaglianza, senza giustizia, senza libertà. E non basterà il faccione di Fiorito, non basterà quest'esorcismo collettivo che stiamo intonando a squarciagola, a farci ritrovare l'innocenza.

Se la Casta è dentro di noi scrive Ignazio Marino su “L’Espresso”.

«Io faccio il senatore e so per esperienza che quando le persone si rivolgono a uno di noi è sempre per chiedere un aiuto personale, una promozione, un favore. E' questa la cultura che alimenta i privilegi e uccide il merito». Non possiamo continuare a tollerare una situazione in cui il finanziamento della ricerca non è assegnato in modo concorrenziale, in cui i posti non sempre sono distribuiti in base al merito, in cui difficilmente i ricercatori possono accedere alle sovvenzioni o ai programmi di ricerca oltre confine e da cui ampie zone d'Europa restano escluse». Sono le parole di Máire Geoghegan-Quinn, commissaria europea alla ricerca e all'innovazione, che chiede di abbattere le barriere tra gli Stati per realizzare uno spazio europeo della ricerca. Uno spazio in cui l'unico giudice sia il merito e che sia misurabile, come sosteneva anche Michael Young, che nel 1958 coniò il neologismo "meritocrazia". Agli appelli pressanti, che arrivano anche dall'Europa, l'Italia continua a rispondere con la sua cultura anti-merito. Si inizia con la scuola, dove copiare il compito del compagno è tollerato e non è considerato un fatto riprovevole. Anzi, lo sciocco è chi non copia. E si continua per tutta la vita quando, nonostante l'odio contro la casta, ci si rivolge a un politico per chiedere una raccomandazione, un posto di lavoro, una promozione, un trasferimento, per saltare la lista d'attesa in ospedale. Lo dico per esperienza personale: purtroppo è raro che le persone mi cerchino per presentarmi un progetto in cui credono mentre è più comune la richiesta di un aiuto personale, e quando rispondo che l'unica raccomandazione che mi sento di fare è chiedere a ogni commissione di scegliere il migliore, leggo delusione negli occhi del mio interlocutore, non apprezzamento.

Questa mentalità è così diffusa che fa sì che la nostra società sia profondamente diseguale e soffra di una scarsissima mobilità sociale proprio per la mancanza di cultura del merito che non permette ai migliori di correre, e magari vincere, quella gara verso l'alto, qualunque sia la loro base sociale di partenza. La conseguenza è visibile anche nel fatto che l'Italia da anni ormai rimane saldamente ancorata agli ultimi posti nelle classifiche internazionali per efficienza, qualità dei servizi, stima nei dipendenti pubblici. Il merito, infatti, non serve solo al singolo individuo quale giusto e doveroso riconoscimento dell'impegno e delle sue capacità personali ma è fondamentale per fare funzionare meglio l'intero sistema. Il settore dell'aeronautica rappresenta un valido esempio: ogni pilota d'aereo possiede un log-book, un libretto sul quale vengono annotati i dettagli di ogni volo, gli errori, i rischi, le manovre giuste, in pratica tutta la storia professionale. Su quella base si valutano le qualità del singolo pilota ma si studiano anche i punti deboli e gli elementi di fragilità del sistema. E così non solo si correggono ma si prevengono gli errori. Perché non immaginare un sistema simile anche per la sanità? Se per esempio si potesse conoscere tutto ciò che un medico ha fatto dal suo primo giorno in ospedale, quelle informazioni diventerebbero un biglietto da visita importantissimo, ma anche un elemento di valutazione, trasparente e oggettivo, per la sua carriera e più in generale per l'efficienza e la sicurezza del servizio sanitario. La cultura del merito non si può imporre per decreto e quando il governo sostiene che la spending review servirà a rendere più efficiente l'amministrazione pubblica dice una bugia, perché servirà solo a fare cassa. Per incidere sull'efficienza e per premiare i migliori servono tempo e strategia, iniziando con la raccolta dei dati e con la loro analisi. E poi serve una motivazione intrinseca, che non è data dalla prospettiva di un aumento di stipendio o da uno scatto di carriera ma dalla convinzione che ogni sforzo personale possa avere un effetto positivo su tutti. E' così ambizioso iniziare a considerare la parola merito non come un insulto? O smettere di pensare che sia una prerogativa esclusiva del mondo anglosassone? E' vero, la cultura del merito non ce l'abbiamo nel sangue ma dobbiamo infonderla nelle nostre vene, soprattutto in quelle dei giovani affinché non si sentano predestinati a non cambiare mai.

Ecco perchè il cittadino, per egoismo personale, vende la sua anima al diavolo.

LA MAFIA DELLE RACCOMANDAZIONI. MARTONE, LE VITTIME, SFIGATI A PRESCINDERE.

Parliamo di lavoro. A proposito del viceministro al Lavoro Martone e di Sfigati. Su “L’Espresso”, così come su tantissimi giornali nazionali o locali, vi è stata pubblicata una lettera aperta del Dr. Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS. Da 20 anni partecipa al concorso forense: i suoi compiti non sono corretti, ma dichiarati tali da commissioni composte e presiedute da chi è stato da lui denunciato perché trucca l’esame. Il Tar di Lecce respinge i suoi ricorsi, nonostante vi siano decine di motivi di nullità. «Il viceministro Martone provoca i fuori corso universitari: "Se a quell'età sei ancora all'università sei uno sfigato". Ha ragione, eppure finisce alla gogna. Polemiche pretestuose sulla frase da chi ha la coda di paglia. Michel Martone, viceministro del Lavoro secondo il quale un 28enne non ancora laureato è spesso "uno sfigato". Ha ragione e lo dico io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come?

A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.

A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità assieme ai giovincelli.

A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).

Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Alla fine si è sfigati comunque, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate.»

Tale lettera è inserita in una inchiesta più larga su un malcostume ed illegalità noto ed utile a tutti. E si viene a sapere da Gianluca Di Feo su  “L’Espresso” che l'amico del padre del viceministro (quello degli 'sfigati') andò dal potente senatore del Pdl, Dell'Utri, per far sistemare il giovane. Lo ha detto, a verbale, Arcangelo Martino, imprenditore al centro dell'inchiesta sulla P3. «Mi sono ricordato che Martone sosteneva che attraverso il partito voleva dare una risposta lavorativa al figlio». Arcangelo Martino ha uno stile spiccio, spesso approssimativo. Del figlio di Martone dice che «fa il commercialista, una cosa del genere».  L'imprenditore è considerato uno dei pilastri della P3, la cricca che interveniva per pilotare le cause in Cassazione e in molti tribunali. Ma durante l'interrogatorio in carcere davanti ai pm romani ricostruisce in modo netto il principale interesse di Antonio Martone, all'epoca potente avvocato generale della Cassazione: sistemare il figlio, ossia Michel il giovane enfant prodige del governo Monti, pronto ad attaccare gli studenti fuori corso e le lauree tardive. Il suo curriculum di professore ordinario a soli 29 anni era anche - stando ai verbali - nelle mani degli uomini della P3. Martino dichiara che assieme a Pasqualino Lombardi, l'altro protagonista dell'inchiesta P3, si sarebbero presentati a Marcello Dell'Utri chiedendo di intervenire in favore del ragazzo. Sarebbe stato Lombardi a sollecitare la raccomandazione, accompagnata dalla lista dei meriti accademici del giovane al senatore del Pdl. Ottenendo una risposta vaga: «Va be' vediamo». Tanta premura per il rampollo non nasceva da una solidarietà amicale. L'interesse della P3 era chiaro: volevano che il padre intervenisse per sistemare la causa sul Lodo Mondadori, ossia il processo contro l'azienda di Silvio Berlusconi a cui era contestata un'evasione fiscale da circa 300 milioni, e sollecitasse un voto positivo della Consulta sul Lodo Alfano che garantiva l'immunità al premier. Due questioni strategiche per il Cavaliere che Pasqualino Lombardi e i suoi sodali volevano mettere a posto grazie all'aiuto di Martone, come spiegano ai magistrati. Antonio Martone ha dichiarato di non avere mai chiesto raccomandazioni per il figlio. L'uomo ha lasciato la suprema corte dopo la diffusione delle intercettazioni su suoi contatti con gli emissari della P3. Nunzia De Girolamo, parlamentare pdl, ha descritto la presenza dell'avvocato generale ai pranzi da Tullio dove ogni settimana Lombardi riuniva i suoi compagni di merende. «Ricordo che erano presenti il sottosegretario Caliendo e diversi magistrati. Tra loro Martone, Angelo Gargani e un magistrato del Tribunale dei ministri». Il geometra irpino Lombardi si mostra capace di grandi persuasioni, come ricostruisce la De Girolamo: «Ricordo anche che Martone diceva di volere andare via dalla Cassazione e che Lombardi non era d'accordo e cercava di convincerlo a restare.

Diceva che stava bene lì, che era un punto di riferimento lì. Martone insisteva dicendo che voleva fare altre esperienze e che preferiva andare da Brunetta».  Proprio da Brunetta era poi venuto il primo incarico di consulente da 40 mila euro l'anno per Michel Martone, mentre al padre andavano ruoli direttivi. Ma Lombardi e Martino si impegnavano per trovare «attraverso il partito una risposta lavorativa» migliore per il professore in erba. Che due anni esatti dopo l'incontro tra Lombardi e Dell'Utri per trovargli un posto «attraverso il partito» è arrivato al governo Monti.

RACCOMANDAZIONE E LUOGO COMUNE.

Luogo comune vuole che l’Italia è il paese dei raccomandati. Si chiede la raccomandazione per tutto, anche violando la legge, quando per attuarla si truccano i concorsi pubblici. Ma chi se ne frega e poi, chi va ad indagare? Se lo si chiede in giro ti diranno che la raccomandazione esiste, ma l’interlocutore però ti dirà, anche, che lui non ha mai chiesto la raccomandazione, né è stato mai raccomandato. Uno dei momenti clou della puntata del 2 febbraio 2010 di “Servizio Pubblico” è stato l’intervento di Marco Travaglio che ha scelto un obiettivo ben preciso per la sua invettiva. Il vice ministro Michel Martone e la sua infelice dichiarazioni sugli sfigati. A dire il vero Travaglio non ha iniziato subito incalzando l’incauto vice ministro. Prima ha fatto alcune considerazioni sulla possibilità di eliminare l’articolo 18 e sulla monotonia del posto fisso. Il primo affondo di Marco Travaglio è per Mario Monti, “Ha un posto da senatore a vita, più fisso di cosi si muore…Ma nel vero senso della parola”. Michel Martone viene presentato così, “Nonostante il nome e la faccia non è un parrucchiere per signora”. Travaglio si mette, con la consueta precisione ed ironia, a fare le pulci alla rapidissima carriera del vice ministro. Laureato giovanissimo, Martone, vede la sua carriera accademica e lavorativa accompagnata da una serie di esami e concorsi superati al primo colpo. Una particolarità, la commissione esaminante è presieduta sempre dalla stessa persona o da un amico stretto della stessa. In entrambi i casi persone molto vicine al padre di Martone, un “Potentissimo magistrato romano” che ha frequentato molto l’ufficio dell’avvocato Previti. Il curriculum del vice ministro Michel Martone è una lunga risata amara, soprattutto per chi, invece, non ha avuto una strada così liscia. Ciò non basta. Qualcos'altro serve a dimostrare l'inaffidabilità dei TAR per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi. A Tal proposito su LA7 il programma “Piazza Pulita” manda in onda il servizio sui fratelli Martone: il prof. Michel e l’avv. Thomas. Dopo aver sviluppato la solita litania su Michel si passa al fratello. Thomas nel 2004 partecipa all’esame per diventare avvocato e viene bocciato alla prova scritta. Lui, però, non si perde d’animo, a differenza di tanti altri, e fa ricorso al Tar. L’intervistatore chiede agli avvocati amministrativisti: «se vengo bocciato all’esame di avvocato e faccio ricorso al Tar quante possibilità si hanno di vincere il ricorso»: “non moltissime” rispondono questi. Thomas Martone lamentava al Tar che alla sua prova scritta fosse stato attribuito solo una votazione numerica senza alcun giudizio.

L’avvocato amministrativista spiega che bisogna dimostrare che il punteggio attribuito è ai limiti dell’irragionevolezza manifesta. L’intervistatore chiede «e se mi lamento per il fatto che mi sia stato attribuito soltanto un voto numerico?» L’avvocato spiega che il voto numerico, secondo la giurisprudenza, va bene se la procedura ha previsto che c’era il voto numerico e che se i criteri per il voto numerico sono stati esplicitati preventivamente. Un altro avvocato spiega che qualche ricorso è stato accolto, ma hanno detto che è molto difficile. Invece Thomas Martone c’è riuscito. Ce l’ha fatta. La prima sezione del Tar del Lazio ha deciso che la sua prova scritta andava giudicata da un’altra commissione che questa volta lo ha promosso. L'intervistatore cerca Thomas Martone nel suo studio, che si trova a due passi da Piazza San Pietro, in via della Conciliazione in un palazzo di proprietà della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. In altre parole Propaganda Fide.

L’intervistatore chiede a Thomas: «non è vero che va tutto bene ai figli dei Martone, perché io ho scoperto che lei fu bocciato allo scritto dell’esame per diventare avvocato.»

Martone: «io non vedo che cosa possa interessarvi e perché vi debba rispondere. Mi dispiace.»

L’intervistatore: «non è vero che i Martone sono tutti raccomandati, perché se lei fosse stato raccomandato non l’avrebbero bocciato allo scritto all’esame per avvocato.»

Martone: «lasciate perdere.»

L’intervistatore: «come ha fatto lei a vincere il ricorso, che peraltro non lo passa praticamente nessuno questo ricorso? Si ritiene fortunato per questo. Poi mi risulta che questo palazzo sia di Propaganda Fide. Come ha fatto ad essere inquilino di Propaganda Fide?»

Martone: «Si paga, anche profumatamente. Tutto qua.»

L’intervistatore: «come fa a sapere che ci c’è una disponibilità di immobili in locazione?»

Martone: «si informi non è esattamente così.»

Intervistatore: «e come è stato, mi dica lei. Cosa le costa. E’ una domanda semplice.»

Martone: «non so dove volete arrivare, mi dispiace.»

Intervistatore: «siccome uno dice “gli altri sono sfigati” se fanno ritardi con gli studi, però i Martone hanno un po’ di fortuna.»

Martone: «non è così. Se lei va a vedere su internet cosa intendeva dire mio fratello, capirà che è il contrario.»

Intervistatore: «ho capito, però guarda caso, il fratello di Martone bocciato allo scritto non è così fortunato. I Martone non sono così super raccomandati. E’ vero no. Questo ce lo può confermare?»

Dopo l’intervista Martone ha scritto alla redazione per precisare che lo studio in via della Conciliazione lo condivide con un collega più anziano titolare del contratto con Propaganda Fide da 40 anni. Quanto al ricorso al Tar contro la bocciatura all’esame di avvocato sottolinea che la Commissione che giudicò la sua prova era composta da 4 avvocati ed un solo magistrato, anziché 2 come previsto dalla legge, e che sui suoi elaborati mancava ogni segno grafico che dimostrasse l’effettiva correzione. Che ha sostenuto regolarmente la prova orale diventando così uno dei 250.000 avvocati italiani.

Italiani: raccomandati e pure bugiardi.

Tre italiani su dieci trovano un'occupazione grazie alla "spintarella" di parenti e amici. La crisi non fa diminuire quindi le raccomandazioni. L'ultima indagine dell'Isfol (Istituto per la formazione professionale dei lavoratori), riferita al 2010, sottolinea che la "buona parola" è il canale privilegiato per accedere al mondo del lavoro: il 38% dei giovani ha infatti ottenuto un posto grazie a familiari o conoscenti. A tutto questo persino il Presidente della Repubblica italiana, Giorgio  Napolitano, ha detto: Stop! "Basta con le raccomandazioni". Al Quirinale il 15 novembre 2011, per il rilancio dell'occupazione il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, fa un invito. «L'Italia deve diventare il più rapidamente possibile un Paese aperto ai giovani, deve offrire opportunità non viziate da favoritismi e creare per il lavoro sistemi di assunzione trasparenti che creino un vero ascensore sociale, smentendo così la convinzione che le raccomandazioni servano più dell’impegno personale. Bisogna - ha concluso - smontare la convinzione secondo cui le occasioni siano riservate a certi ambienti”.

Affermazione inane se si pensa che proprio un'altra istituzione, La Corte Costituzionale, in riferimento ai giudizi dati agli esami di Stato, smentisce queste buone intenzioni. Corte Costituzionale: sentenza 8 giugno 2011, n. 175 in riferimento al concorso pubblico di avvocato: “Il voto numerico è una motivazione sintetica e costituisce legittima tecnica di motivazione delle motivazioni amministrative”. Siamo in Italia, il voto non va motivato e le commissioni sono arbitrarie ed insindacabili negli abusi. Qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Un documentario realizzato da Ugo Gregoretti nei primi anni ’60 narrava la esilarante vicenda di un deputato calabrese. Al suo ufficio romano pervenivano centinaia di lettere da parte dei propri elettori, tutte contenenti pressanti richieste di raccomandazione.

Quel deputato aveva perfino creato un’apposita struttura – composta di solerti impiegati - che si premurava di rispondere a tutti i questuanti. Per tutti, il deputato avanzava accorate richieste di assunzione, che indirizzava alle varie amministrazioni pubbliche.

Questo sistema industrializzato, venne documentato da Gregoretti senza che il deputato avesse nulla da ridire. Anzi, come potete immaginare, la pubblicizzazione di quel sistema era per l’uomo politico un elemento di vanto. L’unica cosa su cui ebbe da ridire, peraltro, fu il fatto che nel documentario si vedeva il suo staff sedersi sulle buste, per garantirne la perfetta stiratura. Non era decoroso, infatti, che i questuanti venissero a sapere che le lettere di risposta, che essi trattavano come una reliquia, fossero state a contatto con i pachidermici deretani dei componenti il suo staff. Che pudore: roba di altri tempi!!!

In Italia, oggi invece, si è costruito intorno alla raccomandazione non solo un sistema di potere a fini clientelari. Si potrebbe dire, anzi, che la raccomandazione abbia assunto un ruolo antropologico-culturale, che affonda le proprie radici in un sistema valoriale sempre più decadente. In passato, il raccomandato acquisiva la possibilità di essere avvantaggiato perché garantiva - con tutto il suo parentado esteso – che avrebbe poi votato in eterno per il suo benefattore. Oggi, invece, si è imposta una ben più eterogenea serie di motivi (compreso la soddisfazione erotica del politico) che producono una degenerazione estrema di un sistema, di per sé anche in passato poco equo e corretto, ma ora addirittura devastante. Se nel recente passato, infatti, la raccomandazione era pur sempre odiosa e non giustificabile, oggi essa è palesemente distruttiva del buon funzionamento della macchina amministrativa pubblica. Oggi, non ci si limita ad avvantaggiare un competente sugli altri concorrenti, altrettanto competenti. Attraverso l’inserimento nei posti chiave di uomini pronti ad eseguire qualsiasi ordine, si creano i presupposti per il funzionamento del sistema corruttivo. È intuibile, infatti, che se a ricoprire un ruolo determinante viene chiamato qualcuno che non ne ha neanche lontanamente le capacità, costui sarà sempre pronto, da perfetto yesman, a rispondere positivamente a qualsiasi richiesta di chi lo ha favorito.

In sostanza, il raccomandato non è più un privilegiato che usurpa un diritto altrui (sempre gravissimo come fatto, ben inteso), ma molto più banalmente si è trasformato in un fortunato, che si presta ad essere accondiscendente strumento del sistema della corruzione. Quando so di non avere le competenze per occupare il ruolo che generosamente mi è stato affidato, sarò poco propenso ad opporre resistenza al malaffare, di cui finirò per essere pedissequo esecutore. Il Potere, quindi, non dispensa più prebende a fini clientelari, scegliendo un candidato fra i tanti che ne hanno le competenze, ma, anzi, sceglie quasi sempre il più incapace perché così si garantisce la sua cieca ed affidabilissima riconoscenza.

PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONE: FAMILISMO, NEPOTISMO, CLIENTELISMO.

Rapporto Eurostat: altro che centro per l'impiego o ufficio di collocamento, in Italia, il lavoro si cerca tramite un intermediario. Il 76,9 % chiede aiuto a amici, parenti o sindacati. In Europa la media è del 68,9 %. La diffusione di curriculum invece è tra le più basse (63,9 %). Solo il 31,4 % infine, fa affidamento sugli annunci che compaiono sulla stampa o sul Web.

In Italia oltre due persone su tre in cerca di lavoro si affidano a un intermediario che può essere un parente o anche un sindacato. Ricorrere a chi si conosce già è, così, la prima strada che si percorre per trovare un posto.

A certificare le "usanze" degli italiani a caccia di un impiego è Eurostat nel rapporto 'Methods used for seeking work', secondo dati aggiornati al secondo trimestre del 2011. Nella Penisola chi bussa alle porte di amici, parenti o sindacati è, infatti, pari al 76,9%, una quota superiore alla media dell'area euro (68,9%), a quella dell'Unione europea nel complesso (69,1%) e soprattutto circa doppia a confronto con quella di Paesi come Germania (40,2%), Belgio (36,8%), Finlandia (34,8%). Anche se nel Vecchio continente c'è chi fa peggio, è il caso della Grecia (92,2%), ma pure di Irlanda e Spagna. Nell'Unione europea, inoltre, si fa molta pubblicità del proprio curriculum, del proprio percorso di studi, (68,8% Ue 17 e 71,5% Ue 27), una modalità che viene anche seguita in Italia, ma con una percentuale inferiore (63,9%), tra le più basse, in particolare a confronto con Irlanda e Slovenia, dove quello che Eurostat definisce come lo Study advertisement è praticato da più di nove persone su dieci in cerca di lavoro. L'Italia risulta anche tra i Paesi che meno fanno affidamento agli annunci di lavoro che compaiono sulla stampa o sul web, con solo il 31,4% che si rende disponibile a una precisa prestazione o risponde a un'offerta di impiego. Insomma, gli italiani credono poco nei contatti a distanza e privilegiano di gran lunga gli approcci diretti e informali. Non a caso è anche al di sotto dei valori medi europei la quota di coloro che si rivolgono ad operatori istituzionali, come i centri pubblici per l'impiego (31,9%), addirittura l'Italia è penultima nell'eurozona, alle spalle solo di Cipro, con una forte distanza dalla Germania (82,8%). Un discorso simile vale per i centri privati di impiego, come possono essere le agenzie del lavoro. In generale, in tutta Europa chi contatta soggetti privati per essere assunto è una minoranza, ma in Italia la fetta è ancora più risicata (18,0%). Tornando alle preferenze degli italiani, la seconda via scelta per trovare un'occupazione consiste nel chiedere direttamente al datore di lavoro; sempre secondo le tabelle di Eurostat oltre sei persone su dieci in cerca si rivolge al principale. Molto probabilmente si tratta di una modalità favorita dalla struttura produttiva del Paese, con tantissime piccole e medie aziende, dove, quindi, è più facile entrare in rapporto con i 'capi'. Il sospetto già lo avevamo, ma ora arriva anche la certificazione dell'Eurostat. Nel Belpaese tre persone su quattro, quando devono cercare un posto di lavoro, bussano alla porta di amici, parenti o sindacati: qualcuno che possa dargli una mano. Insomma, qualcosa di molto simile al nepotismo, almeno nei casi in cui ci si rivolge ad amici e parenti nella speranza, magari, di avere accesso a una corsi preferenziale, una spintarella che possa lubrificare gli ingranaggi del mercato del lavoro. Il 76,9% degli italiani sceglie questa strada, una quota superiore alla media del continente (68,9%) e doppia rispetto a Germania (40,2%), Belgio (36,8%), Finlandia (34,8%). Tanti ma, secondo i dati diffusi dell'istituto di statistiche, non siamo neppure sul podio. Fanno peggio di noi Irlanda e Spagna e sul primo gradino del podio troneggia la Grecia. Atene stravince: il 92,2 per cento di chi cerca un posto di lavoro non prova nemmeno a seguire i metodi tradizionali. Ufficio di collocamento, annunci su giornali e siti web o invio a raffica di curriculum? Neanche per sogno: si suona il campanello di amici e parenti già sistemati. Tutta una questione di metodo e di curriculum. In Europa si presta molta attenzione alla diffusione delle proprie conoscenze e del percorso di studi, in Italia no. Emerge anche questo dai dati dell'Eurostat: solo il 63,9 per cento dei nostri connazionali pubblicizza le proprie credenziali.

Perché? Per sfiducia nei confronti degli annunci, innanzitutto, ma anche perché molto spesso non si è disposti ad accettare lavori che richiedano una precisa prestazione. E anche in questa abitudine siamo nella parte bassa della classifica europea.

Non solo chi cerca lavoro, ma anche chi offre lavoro si affida alla conoscenza diretta.

Altro che curriculum 6 aziende su 10 assumono in base alle conoscenze. Secondo l'ultima indagine Excelsior di Unioncamere e ministero del Lavoro, nel 2010 6 aziende su 10 hanno usato il canale della "conoscenza diretta e segnalazioni personali". Infatti, per assumere, le imprese preferiscono affidarsi a conoscenze personali piuttosto che a curriculum, società di lavoro interinale o centri per l'impiego. Secondo l'indagine, nel 2010 oltre sei imprese su dieci per la selezione del personale hanno fatto ricorso al cosiddetto canale informale, "conoscenza diretta in primo luogo e segnalazioni personali", attraverso conoscenti o fornitori. Soprattutto, rispetto all'anno precedente l'utilizzo del canale informale ha registrato un forte aumento, passando al 61,1% dal 49,7% del 2009. "Il clima economico ancora incerto spinge evidentemente le imprese alla massima cautela nella selezione di nuovi candidati: la conoscenza diretta, magari avvenuta nell'ambito di un precedente periodo di lavoro o di stage, e il rapporto di fiducia da essa scaturito diventano quindi premianti ai fini dell'assunzione", si legge nel rapporto. Nel 2010 è anche cresciuto il ricorso da parte delle imprese a strumenti interni, ovvero alle banche dati costruite dalle stesse aziende sulla base dei curriculum raccolti nel tempo (al 24,6% dal 21,5%), ma la quota resta limitata a poco più di due imprese su dieci. Perdono invece terreno le modalità di reclutamento "tradizionali" (annunci su quotidiani e riviste specializzate), preferite solo nel 2,3% dei casi. Sono pochissime e in diminuzione anche le aziende che utilizzano intermediatori istituzionali, come società di lavoro interinale, di selezione (5,7%) e quelle che si affidano a operatori istituzionali, ovvero ai centri per l'impiego (2,9%). Ma se si guarda alla dimensione d'impresa il quadro cambia, dopo i 50 dipendenti le aziende iniziano a fare più affidamento sulle loro banche dati interne e a basarsi sul curriculum. Ecco che, quindi, al crescere della dimensione d'impresa il rapporto diretto del candidato con il datore di lavoro o tramite conoscenti perde importanza. Basti pensare che nelle realtà con più di 500 dipendenti il ricorso al canale informale scende al 10,2%, mentre l'utilizzo di strumenti interni sale al 48,9%. 

Il dato più preoccupante, che emerge dal monitoraggio delle politiche occupazionali e del lavoro da parte del Ministero del Welfare, è quello relativo alla qualità del servizio offerto, che mostra come solo il 24 % di chi cerca lavoro si rivolge ai centri provinciali per l'impiego e di questi solo il 4% dell'utenza che si rivolge ai servizi pubblici per trovare un'occupazione, vede soddisfatta la propria richiesta, contro il 30% di coloro che si rivolgono ai privati.

La riflessione più interessante che esce dal monitoraggio è, però, un'altra. Non si tratta di stabilire se vinca il pubblico o il privato, bensì di capire di che tipo di servizio ha bisogno l'utenza. In Italia è proprio il sistema dell'intermediazione a non essere decollato, perché quello che funziona è il metodo fai da te. E questo sia a causa delle caratteristiche del tessuto imprenditoriale, sia per questioni di cultura. Le azioni più diffuse sono, infatti, quelle "private": colloqui di lavoro o selezioni spontanee, annunci o inserzioni su giornali o internet, invio domande di lavoro o curriculum, contatti tramite parenti, amici, conoscenti o sindacati.

Nell'eccesso di offerta e in presenza di scarsità di domanda lì emerge  l'adattabilità italica con lo scavalco furbesco del concorrente: attraverso l'uso della "Raccomandazione".

DEFINIAMO LA RACCOMANDAZIONE.

Wikipedia dà una definizione di “Raccomandazione”, fenomeno sociale impossibile da debellare in periodi di crisi economica e morale. Si sceglie di adottare questo rimedio per superare illegalmente tutti i candidati a ricoprire un impiego, o un incarico, o un appalto a numero limitato, pubblico o privato, professionale o istituzionale.

La raccomandazione proposta in ambito privato, se adottata, danneggia l’azienda quando la selezione non sceglie il migliore tra i candidati possibili. Vi può essere reato.

Si concretizza il reato di concussione nel caso in cui un amministratore comunale, anche se non ha direttamente un potere gestionale, invita un imprenditore ad effettuare assunzioni di dipendenti da lui segnalati in una iniziativa commerciale che si sta realizzando e minaccia ripercussioni negative sulle autorizzazioni che il comune deve rilasciare alla nuova attività nel caso negativo. Il reato matura anche nel caso in cui venga assolto il coimputato cui è attribuito un ruolo amministrativo importante e che è direttamente dotato del potere di rilasciare o meno tali assunzioni, cioè in presenza di una assoluzione del sindaco o di un assessore. Ed infine non osta alla maturazione del reato il fatto che l’amministratore condannato non sia dotato in via diretta ed immediata del potere di rilasciare l’autorizzazione, ad esempio perché presidente del consiglio comunale: risulta essere sufficiente il fatto che le minacce di ripercussioni negative sulla iniziativa commerciale risultino essere concretamente credibili e quindi tali da determinare un condizionamento concreto nelle scelte dell’imprenditore. Possono essere così riassunti i più importanti principi fissati dalla Corte di Cassazione, sesta sezione penale, nella sentenza n. 38617 del 5 ottobre 2009. Si deve soprattutto sottolineare che la pronuncia assume un notevole rilievo, perché stabilisce che per la maturazione del reato non è necessario che le minacce provengano personalmente da un amministratore, cui sono attribuiti compiti amministrativi diretti ed immediati sulla materia oggetto della autorizzazione da parte del comune, ma è sufficiente che queste minacce abbiano una rilevante probabilità di essere concretamente realizzate.

Per quanto detto, la Cassazione, sesta sezione penale, con sentenza nr. 38617 del 5 ottobre 2009, ha affermato che, fare pressioni su qualcuno, sfruttando la propria posizione o la propria autorevolezza, per agevolare l’assunzione di terze persone, può integrare gli estremi del reato di concussione. Il caso ha riguardato un Signore di Afragola (NA) che, in primo grado è stato condannato alla pena (condizionalmente sospesa) di due anni di reclusione per tentata concussione, perchè, approfittando della sua qualità di presidente del consiglio comunale di Afragola, aveva esercitato ripetute pressioni sui responsabili di un ipermercato di prossima apertura, per “agevolare” l’assunzione di 250 persone nominativamente segnalate, prospettando in caso contrario, la frapposizione di ostacoli all’avvio del centro commerciale.

Successivamente, la corte di Appello di Napoli, lo assolveva dal reato. La Procura ricorreva in cassazione. La Suprema corte ha affermato che per aversi il reato di concussione è necessario che “il comportamento abusivo sia idoneo a creare nel soggetto passivo uno stato intimidatorio”.  Aggiunge la Corte che questo illecito si configura anche nel caso in cui il pubblico ufficiale si attribuisca poteri estranei alla sua competenza. In pratica, “è sufficiente che la qualità soggettiva dell’agente renda credibile l’esistenza di una specifica competenza di fatto.

La raccomandazione in ambito pubblico, è proposta da un soggetto privato o istituzionale, ma per avere conseguenza giuridica deve essere percepita ed adottata da un Pubblico Ufficiale, che pone in essere atti illegali al fine di produrre gli effetti sperati nella Pubblica Amministrazione. Ciò si concretizza nell’avvantaggiare qualcuno in pubblici incanti o in pubblici concorsi, ma il vero danneggiato è il sistema pubblico: non vi è cooptazione dei suoi elementi secondo imparzialità e meritocrazia, inficiandone la sua efficienza. Molti sono i reati commessi.

Vi è il “Falso”, perché nei verbali pubblici si attesta una valutazione non veritiera o fatti inesistenti.

Vi è l’ “Abuso di ufficio”, perché si adotta un atto illegale con violazione di norme di legge, con cui si avvantaggiano soggetti non meritevoli, danneggiandone altri.

Vi è la “Corruzione” e la “Concussione”, perché vi è sempre un interesse e un vantaggio economico, spesso reciproco.

Vi è l’ “Associazione a delinquere”, perché si è in tanti ad essere partecipi. Ecc. ecc.

Insomma, dovrebbe essere equiparata alla turbativa d'asta, in quanto mi si dovrebbe spiegare qual'è la differenza tra un concorso truccato ed un appalto truccato.

Si soprassiede sul fatto, non marginale, sul perchè non si ravvisi il reato di associazione di stampo mafioso istituzionale, per il sol fatto che vi è sopraffazione ed omertà in atti pubblici, con il vincolo associativo dei Pubblici Ufficiali.

Per RACCOMANDAZIONE si intende, comunemente, un'azione o una condizione che favorisce un soggetto, detto raccomandato, nell'ambito di una procedura di valutazione o selezione, a prescindere dalle finalità apparenti della procedura, cioè indicare i più meritevoli e capaci. Per essere tale, la raccomandazione deve coinvolgere un altro soggetto, detto raccomandante o sponsor, il quale esercita un'influenza sulla procedura di valutazione, indipendentemente dalle qualità del soggetto raccomandato. Le procedure di valutazione o selezione più frequentemente distorte dalle raccomandazioni sono i concorsi pubblici, le procedure di selezione del personale, i procedimenti di valutazione scolastica o di accesso a un corso di studi, gli esami universitari o di abilitazione professionale, o qualsiasi procedura dove si valuta l'idoneità o la competenza di un soggetto in un determinato ambito professionale o culturale.

Caratteristica fondamentale della raccomandazione, dunque, è che agisce su queste procedure introducendo un criterio di valutazione estraneo ai loro criteri logici ordinari, che dovrebbero puntare a scegliere i più preparati e i più idonei. Questa caratteristica la distingue da altre pratiche apparentemente simili, ma eticamente legittime e socialmente funzionali, come la presentazione di un allievo, da parte di uno scienziato a un altro scienziato, affinché l'allievo prosegua con il secondo scienziato il percorso di ricerca già intrapreso con il primo. In questo caso, infatti, l'azione dello scienziato "raccomandante" non prescinde affatto dalla qualità del "raccomandato", testata appropriatamente attraverso l'esperienza di ricerca. Per sincerare l'esistenza di una vera "raccomandazione", occorre dunque comprendere la natura dei rapporti tra i soggetti coinvolti, e chiarire se la natura di questi rapporti sono tali da introdurre, nel processo di valutazione, criteri estranei a quelli del merito e della capacità del valutando.

Nella raccomandazione esplicita (o raccomandazione propriamente detta) lo sponsor o raccomandante è sempre formalmente estraneo alla procedura di valutazione, e può indirizzare una semplice segnalazione a uno o più decisori coinvolti nella procedura di valutazione (raccomandatari). In tal caso si può anche parlare di menzione raccomandativa, che spesso viene descritta dal raccomandante con l'espressione "ho fatto il nome di....". Se invece il raccomandante esprime una schietta richiesta di favore o di aiuto, indirizzata ai raccomandatari, allora si può parlare di raccomandazione esortativa.

La raccomandazione implicita (o raccomandazione impropriamente detta) è invece una proprietà del soggetto valutato, che lo lega a un soggetto terzo o a un decisore (rapporto di amicizia, parentela, appartenenza politica, esperienze pregresse) e che può influenzare il processo di valutazione anche senza che un'azione vera e propria venga compiuta per distorcerlo.

Nel caso della raccomandazione esplicita, o anche nel caso della raccomandazione implicita se il raccomandante e il raccomandatario non coincidono, è frequente ravvisare un legame tra raccomandante e raccomandatario che espone il secondo all'influenza del primo, per meriti acquisiti dal raccomandante presso il raccomanadatario, per un rapporto di potere che il raccomandante può esercitare sul raccomandatario, per il prestigio e la reputazione del raccomandante, o per una qualsiasi proprietà del raccomandante da cui il raccomandatario attende vantaggi. Dello stesso tipo possono essere inoltre i legami tra raccomandato e raccomandante: se sussiste un rapporto di parentela tra i due, la raccomandazione è un aspetto del nepotismo. Se invece sussiste un rapporto politico, che spesso si traduce in consenso elettorale a favore del raccomandante, la raccomandazione rientra nella fenomenologia del clientelismo.

Dunque nella "pratica di raccomandazione" si ravvisano almeno tre soggetti. Nel caso della raccomandazione implicita, il raccomandatario non ha un ruolo attivo, ma nondimeno esercita la sua influenza.

Il raccomandante: colui che, sfruttando la propria posizione sociale e il proprio potere, compie l'azione del raccomandare.

Il raccomandato: colui che gode della raccomandazione e della posizione di vantaggio che ne consegue.

Il raccomandatario: colui che riceve la raccomandazione e, dunque, la segnalazione del soggetto da favorire.

La raccomandazione, anche detta informalmente "spintarella", può essere ulteriormente distinta in raccomandazione a spinta e raccomandazione a scavalco.

Nel caso della raccomandazione a spinta, la procedura di valutazione non è di tipo competitivo. I valutandi, in altre parole, non competono per l'accesso a un bene scarso, quindi non si forma una graduatoria con i partecipanti alla procedura di valutazione. E' il caso, ad esempio, degli esami scolastici o universitari. In questo caso, la raccomandazione danneggia il sistema sociale nel suo insieme, ma non presenta "controinteressati" specifici i cui diritti sono lesi.

Nel caso della raccomandazione a scavalco, i valutandi vengono inseriti in una graduatoria, in quanto competono per l'accesso a opportunità di numero limitato (ad esempio l'assunzione in un ente pubblico). In questo caso, la raccomandazione, oltre a danneggiare il sistema sociale sfavorendo la selezione dei più meritevoli e capaci, danneggia direttamente i valutandi non raccomandati.

La distinzione tra raccomandazione a spinta e raccomandazione a scavalco è spesso sfumata, in quanto gli esiti di procedure di valutazione non competitiva possono essere utilizzati per procedure di selezione: ad esempio, l'assegnazione di borse di studio può dipendere dai voti d'esame, la graduatoria di un concorso pubblico può dipendere dal voto di laurea. In questo senso, pressoché ogni raccomandazione a spinta ha il potenziale per sostanziarsi in una raccomandazione a scavalco, sebbene gli effetti siano in prima battuta meno prevedibili e specifici. Nel caso della raccomandazione a scavalco, invece, i danni di natura morale e patrimoniale inflitti ai valutandi non raccomandati sono immediatamente tangibili.

La raccomandazione è in Italia una pratica molto diffusa, soprattutto per l'accesso al pubblico impiego, come segnalano molte vicende di cronaca. La trasmissione "Mi Manda Raitre" segnalò molti casi di raccomandazioni a vantaggio di candidati del concorso per titoli e per esami del 2000, rivolto ad aspiranti insegnanti, supplenti in attesa di cattedra e neolaureati. Caso che rimbalzò sui primi titoli del Times e fece il giro del mondo. In quel caso, si parlò soprattutto di regali da parte dei raccomandati a membri delle commissioni esaminatrici, spesso consistenti in pellicce e gioielli. Non da meno sono gli scandali esplosi sui concorsi a numero chiuso per accedere alle università, ovvero le forme di baronie accademiche. Meno note alla pubblica opinione sono le questioni attinenti ai concorsi pubblici che attengono l'abilitazione professionale dell'avvocatura e del notariato o dell'università, oltre che quella più scabrosa per accedere in Magistratura. Investiti delle denunce sui concorsi farsa sono i Magistrati, che con gli avvocati e i professori universitari fanno parte, come componenti necessari, di tutte le commissioni di esame per l'accesso ai rispettivi ordini professionale. Invalidare un concorso pubblico significa invalidarli tutti, in quanto il sistema concorsuale è marcio dal punto di vista oggettivo, così come molteplici interrogazioni parlamentari e sentenze amministrative hanno dimostrato. Ammettere ciò significa palesare il degrado morale di una società civile la cui classe dirigente non merita di essere tale. Ma muoversi dal punto di vista penale significa inficiare la credibilità delle categorie nominare. Per questo non si può, nonostante la riforma dell'esame forense del 2003 ha attestato quanto si cerca di censurare: fuori i consiglieri dell'ordine degli avvocati dalle commissioni esaminatrici e gli scritti corretti da avvocati, magistrati e professori universitari di altro distretto di Corte d'Appello, sorteggiato, questo perchè si raccomandava a iosa. In seguito nulla è cambiato. A questo punto per il sistema è più facile tacitare e perseguitare il dr Antonio Giangrande, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, autore del libro "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo" ed autore di centinaia di articoli-denuncia pubblicati da moltissime testate nazionali ed estere. Egli da anni denuncia al mondo il sistema illegale di accesso e di abilitazione alla classe dirigente italiana, non assicurandole la meritocrazia.  foriera di inefficienza. Per questo per decenni non gli è stata resa un'abilitazione forense, chiaramente meritata, oltre che essere perseguito per reati inesistenti.

Il meccanismo della raccomandazione "va a buon fine" quando tutti i soggetti coinvolti agiscono di concerto. Spesso le relazioni tra i soggetti qui descritti sono sostenute da trasferimenti di denaro e/o altre prestazioni. Quando la raccomandazione ha buon esito e il candidato è insediato nel posto di lavoro da lui richiesto, può succedere che gli venga segnalato dall'ex raccomandatario un nuovo candidato da favorire, aprendo così una catena che è molto difficile interrompere, ma che finisce spesso per premiare candidati impreparati o inadatti a quella mansione a danno di altre persone che avrebbero i titoli e la preparazione ottimale per accedere, ma che si vedono esclusi a priori dall'accesso. La raccomandazione viaggia spesso attraverso circuiti familiari (nepotismo): un parente può essere favorito da un membro della stessa famiglia che occupa una posizione importante in seno a un istituto della pubblica amministrazione, un ente privato o una struttura confessionale, se in tali istituzioni esistono soggetti in grado e propensi a favorire dei loro protetti e manchi la vigilanza delle istituzioni.

Questa pratica danneggia quindi meritocrazia e efficienza, che dovrebbero essere sempre alla base delle assunzioni e della gestione: l'accesso di nuovi assunti non in grado di assolvere ai requisiti richiesti può causare una diminuzione o un danno alla produttività e all'efficienza di una struttura, mentre in molti casi la macchina burocratica della stessa diventa più lenta per la presenza di personale assunto ad hoc in numero eccedente rispetto alle necessità effettive. Talvolta il raccomandatario, se in una posizione molto influente, può addirittura indire un concorso o una serie di colloqui per posizioni per esaudire le necessità del raccomandato.

Nel caso della raccomandazione clientelistica nel settore pubblico, ulteriore danno alla pubblica amministrazione proviene dal rapporto di riconoscenza che lega il raccomandato al raccomandante: se la Costituzione della Repubblica Italiana pone i dipendenti pubblici "al servizio della Nazione", il raccomandato potrebbe invece servire l'interesse particolare del raccomandante politico-clientelare, venendo talvolta a configurare un rapporto di lavoro subordinato, di fatto, non più con l'ente pubblico che eroga la retribuzione (e quindi con la comunità di cittadini che finanzia l'ente pubblico), ma con il raccomandante o con la parte politica del raccomandante. I raccomandanti, in alcuni casi, potrebbero contare sul dipendente pubblico come su una propria risorsa privata da utilizzare per le attività di partito o addirittura personali o familiari dei raccomandanti, sebbene a spese dei contribuenti.

A sua volta, laddove si manifesta, l'inefficienza della macchina burocratica (personale eccedente assunto senza effettive necessità, leggi errate, conflitti tra leggi regionali e statali ecc.) può rendere molto difficile l'accesso al posto di lavoro da parte del candidato avente i requisiti necessari. I cavilli legali, la lunghezza delle pratiche da espletare, possono creare così una competizione al ribasso che spinga un dirigente poco onesto a risolvere i problemi occupazionali di un candidato particolare piuttosto che di un altro in possesso di titoli uguali o maggiori del favorito.

La domanda di posti di lavoro aumenta con l'incertezza istituzionale: leggi e decreti che scadono al cadere di una legislatura, o concorsi istituiti una tantum per volontà di un singolo governo o di una singola amministrazione, non ripetuti a scadenze precise di tempo possono aggiungersi ai problemi già elencati. Le vessazioni burocratiche illegali (ad es. richiesta di documenti o certificati di identità o idoneità laddove la legge prescrive l'autocertificazione personale), la complicazione delle procedure burocratiche (eccessiva documentazione da compilare, difficoltà dei moduli di iscrizione e mancanza di personale, insufficienza delle strutture addette ad assistere i candidati nell'espletamento delle pratiche, la mancanza o insufficienza di informazioni atte alla preparazione del candidato possono scoraggiare ulteriormente chi non goda di sostegni particolari all'interno dell'istituzione in questione.

Per tutti questi aspetti, le raccomandazioni sono da considerare una vera e propria piaga sociale, che danneggia alle fondamenta il sistema sociale ed economico, incentivando la "fuga dei cervelli", minando la competitività del sistema produttivo, incentivando l'inefficienza, gli sprechi e l'illegalità nella pubblica amministrazione e contribuendo a diffondere un'atmosfera di sfiducia e scarsa propensione al lavoro e allo studio.

Dorothy Louise Zinn, con il suo libro, “La raccomandazione, Clientelismo vecchio e nuovo”, parla di un tema sempre attuale.

Secondo una radicata tradizione di studi antropologici, ormai largamente acquisita anche dal senso comune, il clientelismo è uno dei caratteri costitutivi della realtà del nostro Mezzogiorno. Ad esso viene strettamente connessa l'idea della raccomandazione, cioè di una qualche forma di relazione sociale tesa a «forzare le regole», e che va dalle più piccole e innocue richieste di favori, fino alle forme più gravi di sopraffazione e stravolgimento delle regole. Ma la raccomandazione è davvero, e soltanto, un fatto meridionale? Tutta la vicenda di Tangentopoli in Italia, così come le crisi economiche dell'Asia e della Russia, o lo scandalo che ha investito in Germania il partito dell'ex cancelliere Kohl, indicano che i tempi sono maturi per una riconsiderazione del clientelismo.

Sarà pure spregevole, ma è quanto mai necessaria. La raccomandazione è una pratica così diffusa nel malcostume nostrano da essere elevata a sistema, a ideologia pura. Il 58% degli italiani, infatti, secondo la rivista Focus, approva la spintarella come strumento di promozione senza differenze tra maschi e femmine. L'Italia si conferma paese dove il nepotismo e la "segnalazione" hanno basi abbastanza solide e così la percentuale si alza di molto quando si tratta di chiedere una raccomandazione per parenti o amici. Secondo l'indagine della rivista si arriva al 72% per gli uomini e addirittura all'80 per le donne. La meritocrazia non gode di ottima salute in Italia. E ormai la credenza che la raccomandazione sia un atto dovuto sta egemonizzando l'opinione pubblica e la gente comune. Nel familismo all'italiana sembra non si possa proprio negare un favore a nessuno. I centri di potere che creano clientele sono molteplici (politica, magistrati, avvocati, mondo ecclesiastico) ciascuno in grado di assicurare un posto al sole. Sono in pochi a credere nella mobilità sociale, così meglio affidarsi a prassi consolidate. Così all'intervistatore che chiede: “Raccomandereste il figlio, inetto, di un amico che vi ha fatto un grosso favore?”, il 41% ha risposto in modo affermativo aggiungendo, “senza insistere”. Ma solo il 10% degli intervistati ne sconsiglierebbe l'assunzione.

Sarà cambiata lei, ma i raccomandati no, quelli ci sono sempre. Almeno uno su due, è la conclusione di una ricerca dell’Isfol. E per un’indagine dell’Eures quasi il 60% dei ragazzi con meno di 20 anni hanno le idee chiare sul loro futuro, convinti come sono che il fenomeno della raccomandazione sia in aumento.

Anche chi è sempre stato diffidente verso la Confindustria farebbe bene a leggere il rapporto "Generare classe dirigente" della Luiss, l’università dell’associazione degli industriali. Quel rapporto è composto essenzialmente da due parti. La prima è stata elaborata sulla base di 2080 questionari rivolti a soggetti scelti fra tutta la popolazione italiana messi a punto dall’associazione laureati Luiss, dall’Università politecnica delle Marche, dell’Università di Bologna e dalla società Ermeneia del sociologo Nadio Delai. Il risultato è per certi versi sconcertanti. Alla domanda se in Italia le raccomandazioni contino più del merito, le risposte "molto" e "abbastanza" hanno raggiunto l’80,6% del totale. E questo nonostante il 79,9% sia d’accordo sul fatto che la valorizzazione del merito possa "migliorare le condizioni del Paese". E se secondo gli intervistati il riconoscimento del merito esiste sia pur moderatamente nella piccola e media impresa (51,2%) e nelle professioni (49,9%), nella classe dirigente (34,4%) è molto più basso, per non parlare dei sindacati (27,9%), delle associazioni imprenditoriali (24,5%), della pubblica amministrazione (24%) e della politica, dove i giudizi sul riconoscimento del merito sono i più bassi in assoluto: 22,9%. Da sottolineare che sia per la pubblica amministrazione che per la politica il peso delle risposte "poco" e "per nulla apprezzato" relativamente al merito, raggiungono i livelli massimi, rispettivamente pari al 56,3% e al 54,2%.

La raccomandazione non tramonta mai. Il male italiano resta radicato con forza nella nostra realtà lavorativa e non accenna a indebolirsi. E' quanto risulta da un sondaggio realizzato dall'istituto ricerca Swg e diffuso durante un convegno a Lamezia Terme sul tema "La nuova politica del quadro strategico nazionale: l'istruzione motore dello sviluppo". Secondo l'indagine 9 italiani su 10 credono che per trovare lavoro serve conoscere la persona giusta. Sono l'89% degli interpellati a dire dunque che la vecchia raccomandazione serve ancora, eccome, per trovare un'occupazione in Italia.

Al Sud solo un laureato su quattro trova lavoro  e solo grazie alle "conoscenze". Lo rivela uno studio della «Rivista Economica del Mezzogiorno», trimestrale della Svimez. Nonostante il conseguimento di un titolo di studio superiore, nella ricerca di un posto di lavoro al Sud, a farla da padrona restano la conoscenza diretta, la segnalazione da parte di parenti e conoscenti o la prosecuzione di un'attività familiare già esistente. Nel Sud infatti, laurearsi è importante, si legge nello studio, ma solo «se si proviene dalla famiglia "giusta", non solo perché ricca, ma pure perché inserita in un reticolo di rapporti sociali». Per le famiglie dei ceti sociali più bassi l'investimento negli studi universitari è rischioso: «La laurea riduce il rischio che lo studente resti disoccupato, ma non riduce il rischio di trovare un'occupazione mal retribuita».

Recenti inchieste giudiziarie hanno smascherato centinaia di casi di privilegio e favoritismi, costruiti scientemente. La raccomandazione è il metodo più rapido per ottenere risultati. Che denoti una scarsa cultura della legalità, o  un impatto sociale devastante non sembra interessare più di tanto. Del resto in situazioni di ristrettezza e di vacche magre, la spintarella rimane un valido appiglio per andare avanti con la proverbiale arte dell'arrangiarsi, del tirare a campare, del machiavellismo specioso. Come dire: ognuno usa i mezzi di cui dispone. Con buona pace dei sociologi che lanciano strali contro le sponsorizzazioni gonfiate e pontificano sul declino dell'etica, sul clientelismo, sul familismo amorale.

I PARENTI ECCELLENTI DELLA POLITICA: DALLE DINASTIE PERPETUE A CHI 'SISTEMA' I FIGLI NEGLI UFFICI O LE MOGLI IN PARLAMENTO.

Un fenomeno davvero curioso, che in politica si verifica con una frequenza strabiliante, è quello dell’ereditarietà. E’ curioso perché nello sport, per esempio, non accade con eguale sistematicità. Quanti grandi calciatori o sciatori o automobilisti hanno generato eredi capaci di eguagliarli e magari superarli? I casi si possono contare sulle dita di una mano. In politica, al contrario, non è così. Evidentemente, i geni si tramandano meglio quando si sta seduti su una comoda poltrona in Palamento, che quando occorre correre dietro una sfera di cuoio o su un bolide di Formula1. Chi di voi, infatti, sapeva che l’ex premier Massimo D’Alema è figlio di un ex deputato del Partito comunista italiano, Giuseppe D'Alema?

L’ex primo ministro – l’unico della storia italiana a provenire dalla sinistra – non è tuttavia l’unico prototipo del darwinismo applicato alla politica. Particolarmente articolata, infatti, è la dinastia dei Veltroni.

Walter è figlio di Vittorio Veltroni, radiocronista Eiar e poi dirigente della Rai, scomparso quando lui aveva appena un anno. Sua madre, Ivanka Kotnik, era figlia dello sloveno Ciril Kotnik, ambasciatore del Regno di Jugoslavia presso la Santa Sede, che dopo l'armistizio del 1943 aiutò numerosi ebrei romani a scappare dalla persecuzione nazifascista. Walter, bocciato in prima superiore – quasi un precursore rispetto a Renzo Bossi - nel 1973 ha ottenuto il diploma in cinematografia e televisione. In particolare, si è distinto per avere sfasciato il centrosinistra, defenestrando Romano Prodi – l’unico capace di battere sempre il Cavaliere - e guidando il Pd alla disfatta nelle politiche del 2008.

Proprio Romano Prodi, due volte presidente del Consiglio, ex ministro dell’era Andreotti e presidente storico dell’Iri, ha un fratello maggiore, Vittorio, che siede all’Europarlamento. La loro dinastia impera anche all’Università di Bologna. Vittorio è stato docente di fisica, Romano vi insegna ancora economia.

Giorgio Franceschini, padre del ferrarese Dario - anche lui leader per nulla indimenticabile del Pd, dopo il fallimento di Veltroni - fu partigiano bianco e deputato per la Democrazia cristiana durante la II Legislatura, dal 1953 al 1958.

Rosa Russo Jervolino, ex ministro dell’Interno e sindaco di Napoli, è figlia di Angelo Raffaele Jervolino, ex esponente del Partito popolare e della Dc, firmatario della costituzione, deputato, senatore e ministro di Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani e Aldo Moro.

Il deputato messinese del Pd ed ex sindaco di Messina, Francantonio Genovese, è nipote dello storico numero uno della Dc siciliana, Nino Gullotti, a suo tempo pluriministro della Repubblica, e figlio dell’ex senatore della Balena Bianca, Luigi genovese. Altro figlio d’arte messinese è il senatore Gianpiero D’Alia, coordinatore siciliano dell’Udc e capogruppo a palazzo Madama. Suo padre, Totò, è stato per anni un pezzo da novanta della Dc.

“Circondato” da politici o comunque da militanti è Piero Fassino, altro esponente di spicco del Pd, più volte ministro e segretario dei Ds dal 2001 al 2007. È sposato dal 1993 con Anna Maria Serafini, deputata del suo stesso partito dal 1987 al 2001 e senatrice dal 2006. Nel 2008, stranamente, è stata eletta in un collegio della Sicilia, sebbene lei sia nata - il 4 marzo 1953 - a Piancastagnaio (provincia di Siena) e sia residente a Roma. Probabilmente avrà trovato nell’isola un posto disponibile sul treno per palazzo Madama. Il nonno materno di Piero Fassino, Cesare Grisa, fu uno dei fondatori del Partito socialista italiano. Quello paterno venne ucciso dai fascisti nel 1944, mentre il padre, Eugenio Fassino, è stato comandante della 41ma brigata Garibaldi nel corso della resistenza.

Si sono separati come le acque al cospetto di Mosè i figli di Bettino Craxi, padre a dir poco discusso del socialismo liberale italiano. Stefania, sottosegretaria agli Esteri, ha sposato – sebbene con atteggiamento recentemente critico – la causa di Silvio Berlusconi. Bobo, fratello minore, è stato anch’egli sottosegretario agli Esteri, ma nel Governo Prodi. E ora tenta l’impresa con il riesumato Partito socialista.

Un nome decisamente altisonante e ancora più “scomodo” di quello dei Craxi è quello di Alessandra Mussolini, ex attrice e cantante e da una vita in Parlamento. L’attuale deputata del Pdl si potrebbe definire una predestinata, configurando una sorta di “incrocio” tra due famiglie di assoluto richiamo. E’ infatti figlia di Anna Maria Scicolone, sorella minore dell'attrice Sophia Loren, e di Romano Mussolini, quarto figlio di Benito.

Parenti eccellenti anche nelle forze cosiddette autonomiste. Come per esempio in Sicilia. L’ex europarlamentare e attuale governatore Raffaele Lombardo, un tempo democristiano di ferro e ora leader del Mpa, nel 2008 ha spedito a Montecitorio il fratello Angelo Salvatore, da una vita nella sua segreteria politica. Angelo, nel 2006, era stato eletto all’Assemblea regionale siciliana, salvo poi perdere la poltrona a causa dello scioglimento del governo in virtù delle dimissioni dell’allora presidente Salvatore Cuffaro.

Ma quando si parla di autonomismo non si può tralasciare l’epopea dei Bossi. Renzo, secondogenito di Umberto, dopo essere stato bocciato per ben 3 volte all’esame di Stato, nel 2009 è stato eletto in Consiglio regionale lombardo. Il primogenito Riccardo, all’inizio del nuovo millennio, è stato il portaborse – in Europarlamento – del leghista Francesco Speroni. Lo stesso è accaduto per Franco Bossi, fratello del Senatùr, che nello stesso periodo ha servito a Bruxelles un altro esponente del Carroccio, Matteo Salvini.

Nessuno dei due portaborse aveva titoli giustificativi dell’incarico ma guadagnavano entrambi 12.750 euro. Mensili.

Sempre in quegli anni, il sottosegretario Maria Elisabetta Alberti Casellati, in quota a Forza Italia prima e al Pdl poi, ha assunto a capo della propria segreteria, al ministero della Salute, la figlia Ludovica. E ancora in consiglio regionale Lombardo, oltre al Trota, siede un altro parente eccellente: Romano Maria La Russa, fratello minore del ministro della Difesa, Ignazio.

E questa è solo la punta dell’iceberg. Del resto, si sa, buon sangue non mente. Anche se verrebbe tanto da chiedersi dove è finito, dopo la morte della Prima Repubblica, il “nuovo che avanza”.

"Onorevoli figli di.... I parenti, i portaborse, le lobby: istantanea del nuovo Parlamento" Rinascita edizioni di Danilo Chirico e Raffaele Lupoli.

"Non possiamo avere un Paese che, quando andiamo a vedere le liste elettorali, sono tutti figli di". Luca Cordero di Montezemolo era ancora presidente di Confindustria quando, da buon manager legato alle famiglie più influenti del capitalismo italiano, prima del voto ha voluto ribadire l'importanza della meritocrazia e della concorrenza in tutti i campi, anche nella politica. "Sin dalla prima elementare - ha spiegato - chiunque deve poter andare avanti se è capace, indipendentemente da come si chiama". Gli si potrebbe replicare che dipende anche da dove uno frequenta le elementari. E se ci va accompagnato dall'autista di papà o a piedi con la mamma disoccupata assieme agli altri tre fratelli. (...) Essere figli di non è reato e non è per forza sinonimo di incapacità e privilegio: per fortuna c'è anche chi eredita passione e competenza. Anche se non sempre è possibile distinguere se e quanto il successo, nella professione o nella politica, dipenda dal saperci fare o dal peso del genitore di turno. 

Maria Paola Merloni, ad esempio, è laureata in Scienze politiche ed è un'imprenditrice. A 45 anni ha al suo attivo già due anni da deputato della Margherita, poi Pd. Prima di arrivare in politica è stata presidente di Confindustria nelle Marche e le sue parole d'ordine sono "innovazione e competitività". Nonostante abbia mostrato sul campo le sue doti, il suo nome lo si trova per forza di cose associato a quello del padre Vittorio, fabrianese patron della Indesit elettrodomestici e presidente di Confindustria dal 1980 al 1984. Durante la scorsa legislatura sulla prima dei quattro figli dell'industriale, membro peraltro della commissione Attività produttive, si è abbattuto un sospetto di conflitto d'interesse quando si è trattato di votare sugli incentivi all'acquisto degli elettrodomestici ecologici. (...)

Per rimanere nel ramo (figli e rottamazioni) passiamo a Matteo Colaninno, esordiente in Parlamento ma alle spalle una carriera da manager che fa spavento se rapportata ai suoi 38 anni. Prima di annunciare il suo sì a Veltroni (era capolista in Lombardia 1) si è dimesso dalla carica di presidente nazionale dei Giovani imprenditori, di vicepresidente di Confindustria e di membro del consiglio d'amministrazione del Sole 24 Ore. (...) Matteo è il numero due dell'impresa guidata da Roberto Colaninno, il gruppo Piaggio: 7.200 dipendenti, 7 stabilimenti e attività commerciali in oltre 50 paesi. La sua visione sul ruolo di operai e imprenditori nel paese è la stessa più volte espressa da Walter Veltroni: "Oggi anche le imprese non sono necessariamente soggetti forti - ha detto Colaninno all'apertura della campagna elettorale - . Bisogna capire che azienda e lavoratori devono fare parte dello stesso progetto perché il mercato non è più l'orto di casa o il confine domestico ma il mondo". (...)

Tanti imprenditori è vero, ma qualche rampollo della politica non se lo è fatto sfuggire neanche Silvio Berlusconi, nonostante un solenne annuncio dallo studio di Porta a porta, quando in apertura di campagna elettorale disse: "Nel Pd hanno messo dentro le segretarie, i portaborse e anche i figli e le figlie di. Una cosa che, posso assicurare, noi non faremo".

Fra i banchi di Montecitorio però siede anche stavolta Giuseppe Cossiga, figlio di Francesco. L'ex presidente picconatore che l'8 aprile, dopo aver confermato i buoni rapporti con il Cavaliere ("non l'ho mai votato, ma sono amico suo e delle sua famiglia"), ha regalato uno "scoop" alla giornalista del Piccolo che lo intervistava: "Sarò il testimone di nozze della figlia di Berlusconi, Barbara - ha detto - E sa chi mi ha scelto? Barbara". Amicizie di famiglia a parte, l'onorevole Cossiga figlio, 44enne ingegnere aeronautico, era vice-coordinatore sardo di Forza Italia e la scorsa legislatura faceva parte della commissione Difesa di Montecitorio. (...) 

Per restare ai politici figli di politici, torna in Parlamento anche Enrico Costa, figlio dell'ex ministro Raffaele, liberale finito nel Pdl, autore dei libri "L'Italia degli sprechi" "L'Italia dei privilegi" e propugnatore della fine dei poteri speciali a regioni e province autonome. Il padre presiede la provincia di Cuneo, mentre il figlio, deputato con il Pdl, ne segue le orme a Roma.

Meno noto, ma altrettanto "figlio" il teramano Paolo Tancredi, 42 anni: suo padre è l'ex parlamentare della Dc Antonio Tancredi. Eletto al Senato nelle truppe berlusconiane ha lasciato la carica di consigliere regionale nel suo Abruzzo.

Stessa eredità e stesso partito per Mauro Pili, figlio di Domenico, socialista di Iglesias che abbandonò la politica dopo una condanna per tangenti. Il giornalista ed ex (giovanissimo) presidente della Regione Sardegna (famoso il suo discorso d'insediamento in cui citava cifre e dati relativi alla Lombardia), in campagna elettorale ha attraversato la sua regione a bordo del "treno della libertà". 

Alla stazione Montecitorio Pili si è ritrovato seduto qualche posto più in là un altro figlio riconfermato, il responsabile Mezzogiorno di Forza Italia ed ex presidente della Regione Puglia Raffaele Fitto da Maglie, Lecce. Anche suo padre Totò, democristiano di razza e concittadino (ma avversario nel partito) di Aldo Moro, è stato alla guida della Regione. Purtroppo è morto in un incidente stradale nel 1998, prima di coronare il suo sogno di candidarsi all'Europarlamento l'anno successivo, ma il giovane Raffaele, oggi 38enne, ne ha raccolto bacino di voti e voglia di gettarsi nell'agone.

A 33 anni (è nata il 23 ottobre del 1974) è al suo terzo mandato anche Chiara Moroni, figlia del parlamentare socialista Sergio, che si tolse la vita dopo che fu coinvolto nello scandalo di Tangentopoli. Dopo la morte del padre Chiara ha militato nella Federazione giovanile socialista e, aderendo al Nuovo Psi, si è candidata con la Casa delle Libertà alle politiche del 2001. Nel 2004 è stata al centro di roventi polemiche, scaturite dalle esternazioni dei deputati leghisti Alessandro Cè e Dario Galli, che avevano dichiarato: "Ci sono persone abbastanza giovani, che stanno qui non si capisce per quali meriti", alludendo chiaramente alla Moroni e ai partiti della Prima Repubblica (fra cui quello socialista), che la Lega ha spesso criticato.

L'avvocato e poi magistrato militare Daniela Melchiorre, classe 1970, il 18 maggio 2006 è stata nominata sottosegretario alla Giustizia del governo Prodi. "Il governo di centrosinistra sarà fondamentale nel portare un miglioramento nella giustizia in generale. Si lavorerà in tutte le direzioni indicate da presidente del Consiglio", aveva dichiarato subito dopo la nomina. Prima di allora affiancava alla professione l'attività di vicesegretario regionale della Margherita in Lombardia. Gianni Barbacetto nel libro "Compagni che sbagliano" racconta che nel curriculum scritto da lei stessa, tra i meriti di studio e professionali, compare anche un'altra utile indicazione: "Figlia del generale della Guardia di finanza Melchiorre e nipote del cardinale Bovone". Una voce quantomeno originale, ma facile da valutare.(...)

Insospettabili le origini familiari di Maria Eugenia Roccella, neo-deputata del Pdl. Giornalista e saggista con una laurea in lettere e un dottorato di ricerca alla Sapienza, Eugenia è figlia di Franco, uno dei fondatori del Partito radicale e anima dell'Ugi, Unione goliardica italiana. A lui si deve il motto dell'associazione che annoverava fra i suoi adepti Marco Pannella e Lino Jannuzzi: "Goliardia è cultura e intelligenza, è amore per la libertà e coscienza della propria responsabilità". (...)

Se, insomma, il Popolo delle libertà non può scagliare la prima pietra, è vero anche che il Partito democratico è stato il più criticato in campagna elettorale per la sua eccessiva attenzione alla genealogia. La medaglia d'oro per la specialità va senz'altro a Daniela Cardinale, giovane figlia dell'ex ministro delle Poste e telecomunicazioni Salvatore. (...)

Sul banco degli imputati con l'accusa di essere "figlia di" è finita anche Marianna Madia, che rivendica con fierezza un'affermazione per la quale era stata criticata da più parti: "Porto in dote tutta la mia straordinaria inesperienza". E spiega che la sua candidatura "dimostra che c'è una rivoluzione in corso". Ma di lei in campagna elettorale si è detto soprattutto che è sveglia e amica dei potenti. Per sua stessa ammissione la parlamentare romana, classe 1980 "secchionissima" laureata con il massimo dei voti, deve dire grazie a chi le ha consentito di arrivare al posto di capolista nel Lazio: dal "maestro di vita" Giovanni Minoli a Enrico Letta, "che ad una ragazzina non ancora laureata ha dato la possibilità di entrare all'Arel", il Centro studi economici promosso dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E ovviamente a Walter Veltroni, a cui è bastato un colloquio dopo la segnalazione degli altri due padrini per decidere. "L'ho visto due volte in vita mia - si schermisce Marianna - Venne al funerale di mio padre. Tre anni e mezzo dopo mi ha telefonato per propormi la candidatura. Il padre di Marianna, Stefano Madia, era giornalista professionista. Poi decise di iscriversi a un corso di recitazione e Dino Risi lo scritturò per il film Caro papà che gli fruttò un premio come miglior attore non protagonista a Cannes. "Poi torna al suo lavoro - racconta la figlia - Ma da precario: programmista-regista in Rai. Lavora a Porta a porta, poi a Mixer, quindi fa causa alla Rai. Dopo dieci anni, due mesi fa ho ricevuto la sentenza: il giudice ordina assunzione e reintegro con giusta mansione. Perciò, in Parlamento, lo giuro: di due cose, certamente, mi occuperò. La lentezza della Giustizia e il dramma del precariato". 

"La candidatura come capolista di Marianna Madia mi convince come donna e come democratica. E le parole di Marianna mi convincono ancor più che la strada del rinnovamento è davvero iniziata". Sarà solidarietà filiale, dato che Franca Chiaromonte, senatrice eletta in Campania, è figlia di Gerardo, parlamentare e dirigente comunista, numero due del partito ai tempi di Berlinguer. (...)

Ritrova il suo posto al Senato anche Sabina Rossa, 45 anni, insegnante e sindacalista: eletta nel 2006 nelle file dell'Ulivo torna a Palazzo Madama dopo l'elezione in Liguria, dove era sesta in lista. Suo padre Guido nel '79 è stato giustiziato da un commando delle Brigate Rosse in un'esecuzione che segnò l'inizio della loro fine. L'attentato era stato deciso per punire il sindacalista della Fiom-Cgil che aveva voluto denunciare l'infiltrazione in fabbrica di un brigatista sorpreso a sistemare volantini terroristici. (...)

Con Sabina Rossa, Giovanni Bachelet ha in comune il tragico destino del padre. E anche lui è stato eletto con il Partito democratico alla Camera. Le sue ricerche come fisico della materia hanno ottenuto il prestigioso traguardo di circa quattromila citazioni: ora lo scienziato arriva in un Parlamento che nella sua storia ne ha annoverati davvero pochi. (...)

Segno Pd ascendente Dc anche per Francantonio Genovese, messinese avvocato figlio del senatore Luigi e nipote del pluriministro Nino Gullotti, entrambi dello scudo crociato. L'ex deputato regionale e sindaco di Messina "decaduto" è segretario siciliano del partito ed è stato eletto alla Camera nel collegio Sicilia II (terzo in lista). Da primo cittadino della sua città, nel 2007 il neo parlamentare è stato travolto, assieme all'intero consiglio comunale, dall'annullamento delle elezioni che lo avevano eletto nel novembre 2005. Il Consiglio di giustizia amministrativa ha accolto il ricorso di un suo contendente alla poltrona di sindaco, Antonio Di Trapani, e della lista del Nuovo Psi di De Michelis, esclusi dalla competizione.

Esordio in Parlamento anche per Roberto Della Seta, romano classe 1959, responsabile Ambiente del Pd eletto al Senato in Piemonte. (...) Prima del "salto" era presidente nazionale di Legambiente, dove era entrato da obiettore di coscienza e ha lavorato per oltre dieci anni. Laureato in Storia dei partiti politici, giornalista, è autore di saggi su vari temi di storia contemporanea: l'ultimo è il Dizionario del pensiero ecologico, il primo è I suoli di Roma, scritto a quattro mani con suo padre Piero, urbanista, saggista ed ex assessore nella capitale dal 1976 al 1983 nelle gloriose giunte Petroselli e Argan. (...)

Giuseppe Berretta, eletto in testa alla lista Pd nel collegio della Sicilia orientale, ha ereditato dal padre due carriere: quella accademica e quella politica. Prima di arrivare a Montecitorio il 37enne avvocato e docente di Diritto del lavoro all'università Kore di Enna, è stato consigliere comunale all'opposizione di Scapagnini, che ora ritroverà in Parlamento, e segretario dei Ds a Catania. Il padre è Paolo Berretta, vicesindaco ai tempi di Enzo Bianco, docente universitario da sempre impegnato in politica, scomparso nel 2006.

Candidata numero 18 al Senato per il Pd in Lombardia c'era anche Ludina Barzini, giornalista, nipote di Luigi Barzini senior, figlia di Luigi Barzini jr, ha raccontato alcune vicende della sua famiglia in Barzini, Barzini, Barzini (Rizzoli 1986). E' è stata anche assessore alla cultura al Comune di Milano. Assieme a candidature di bandiera come quella della Barzini, Pd e Pdl hanno candidato anche alcuni giovani dai natali parlamentari verso il fondo delle liste. Sono ragazzi che sulla scorta dell'esperienza paterna intraprendono la formazione alla dura scuola della campagna elettorale.

Per sostenere Veltroni, ad esempio, ha cominciato a farsi le ossa Gennaro Diana figlio di Lorenzo, ex senatore proveniente dalle difficili terre di Casal di Principe, in provincia di Caserta, in Parlamento dal 1994 al 2006. Dopo tre legislature nelle fila dei Ds e in commissione Antimafia, oggi è membro dell'assemblea nazionale del Pd. Il giovane figlio era numero 26 in Campania 2. Candidatura di servizio, si dice in gergo.

Nelle truppe berlusconiane è stato invece eletto Antonino Salvatore Germanà, nato a Messina nel 1976 e piazzato al decimo posto in Sicilia 2. Conquistando quel seggio che tra Camera e Senato il padre Basilio occupava per Forza Italia dal '94 (fu lui nel 2002 a proporre una provincia autonoma per le isole minori: 53 in tutto). Per la candidatura è perfino entrato in competizione con l'assessore regionale uscente alla Cooperazione Nino Beninati. Per volare a Roma il 32enne deputato ha lasciato ben volentieri la poltrona alla Provincia di Messina, dove era assessore alla Pubblica istruzione.

Le sedie che occuperà nella capitale hanno tutto un altro fascino. 

Invece è un capitolo a sé l'eterno match tutto interno alla famiglia Craxi. Il botta e risposta a distanza ha toccato il punto più caldo a metà marzo, quando Michele Vittorio detto Bobo Craxi si è armato di carta e penna e ha scritto a sua sorella: "Cara Stefania, stai nel posto sbagliato". Il capolista per il Partito Socialista in Lombardia 1 e 3 ha reagito così all'iniziativa dal titolo "I riformisti craxiani e il Partito popolare europeo", svoltasi a Milano ad opera del movimento Giovane Italia di Stefania Gabriella Anastasia, meglio conosciuta come Stefania Craxi. L'operazione è chiara: la sorella maggiore era candidata del Popolo delle libertà (è stata eletta nella circoscrizione Lombardia 1). E nella formazione guidata da Silvio Berlusconi ha voluto portare con sé l'ingombrante bagaglio del craxismo, quello che fa riferimento a suo padre Bettino. Le urne hanno dato ragione a lei. 

Tra non eletti anche il senatore Alessandro Forlani, figlio dell'Arnaldo del famigerato Caf (il trio Craxi Andreotti Forlani), sul quale l'Unione di centro riponeva le speranze di ottenere un seggio al Senato nelle Marche. Alessandro Forlani ha seguito fin dai tempi del Ccd le vicende politiche di Pier Ferdinando Casini, ritenuto unanimemente l'erede politico più diretto di Forlani padre. Il quale però avrebbe preferito che Berlusconi e Casini non fossero arrivati alla separazione. Poi si è rassegnato, visto che il dissenso tra Pier e Silvio è precipitato in lite. "Dico la verità, non mi aspettavo che, dopo aver fatto il patto con Fini, Berlusconi fosse così drastico con Casini". Una chiusura che a pochi giorni dal voto ha portato papà Arnaldo a dichiarare la sua preferenza: "Credo che le suggestioni e la retorica di un certo presidenzialismo abbiano reso la politica italiana meno democratica" e dunque va incoraggiata "la scelta dell'Udc di presentarsi da sola". Sarà mica perché era in gioco la rielezione del figlio? (...)

Rimane invece al Parlamento europeo Claudio Fava, 51enne figlio del direttore de I Siciliani Giuseppe, ucciso dagli uomini del clan Santapaola nel 1984. Dal padre Claudio ha ereditato molte passioni, a cominciare dal mestiere. Nel nuovo Parlamento poteva sedere con tutta tranquillità tra i banchi del Partito democratico, ma ha preferito fare il capolista con poche speranze per la Sinistra arcobaleno. Il motivo? "Mi sarei ritenuto pazzo a candidarmi capolista al Senato per il Partito democratico, avendo alle mie spalle, nella stessa lista, Mirello Crisafulli" ha detto Fava. Che all'affermazione di Casini sul fatto che "non è giusto che le liste le faccia la magistratura" ha replicato: "Infatti le liste dell'Udc le ha fatte Casini. Solo lui poteva ricandidare capolista al Senato un signore, Cuffaro, condannato all'interdizione perpetua dai pubblici uffici". E non ha risparmiato neanche Lombardo: "È un Cuffaro fresco di lavanderia". 

BERRETTA, Giuseppe (1970)

Figlio di Paolo Berretta, vicesindaco di Catania negli anni '90, è avvocato e professore universitario. Nel 2005 viene eletto consigliere comunale di Catania, e nel 2008 entra alla Camera nelle liste del Partito Democratico.

BOSSI, Renzo (1988)

Figlio del leader della Lega Nord Umberto Bossi e soprannominato "il trota", noto alle cronache per essere riuscito a conseguire il diploma di maturità solo al terzo tentativo nel 2009, l'anno successivo viene eletto consigliere regionale della Lombardia risultando il più votato nella provincia di Brescia.

CARDINALE, Daniela (1982)

Figlia dell'ex ministro Salvatore Cardinale, è laureata in scienze della comunicazione. Nel 2008 viene eletta alla Camera con il Partito Democratico, dopo la decisione del padre di non candidarsi con la promessa che sarebbe stata candidata al suo posto la figlia.

CHIAROMONTE, Franca (1957)

Figlia di Gerardo Chiaromonte, parlamentare e dirigente comunista, è giornalista. Nel 1994 viene eletta deputata con il Partito Democratico della Sinistra, nel 2001 e nel 2006 viene riconfermata alla Camera con l'Ulivo, nel 2008 viene eletta al Senato con il Partito Democratico.

COSSIGA, Giuseppe (1963)

Figlio del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, è laureato in ingegneria aeronautica. E' stato deputato di Forza Italia per due legislature e nel 2008 è stato rieletto alla Camera con il Popolo della Libertà. E' Sottosegretario alla Difesa.

COSSUTTA, Maura (1951)

Figlia di Armando Cossutta, dopo aver esercitato a lungo la professione di medico ematologo aderisce al Partito della Rifondazione Comunista, con cui viene eletta deputata nel 1996. Nel 1998 segue il padre nella formazione del Partito dei Comunisti Italiani, con i quali viene eletta alla Camera nel 2001.

COSTA, Enrico (1969)

Figlio dell'ex ministro liberale Raffaele Costa, avvocato, viene eletto deputato nel 2006 ed è rieletto nel 2008 nelle fila del Popolo della Libertà.

CRAXI, Bobo (1964)

Figlio di Bettino Craxi, è consigliere comunale a Milano fino al 1991. Nel 2000 fonda la Lega Socialista, che poi confluisce nel Nuovo PSI. Nel 2001 viene eletto deputato nella Casa delle Libertà. Nel 2006 viene candidato nella lista dell'Ulivo alla Camera senza essere eletto, ma viene nominato sottosegretario agli Affari Esteri del Governo Prodi. Nel 2007 aderisce alla "costituente" che porta alla nascita del Partito Socialista. Nel 2010 partecipa alle elezioni regionali nel Lazio guidando una lista socialista sostiene Emma Bonino.

CRAXI, Stefania Gabriella Anastasia (1960)

Figlia di Bettino Craxi, ha fatto parte prima del Partito Socialista Italiano, poi di Forza Italia, e infine del Popolo delle Libertà. E' Sottosegretaria di Stato agli Esteri dal 2008.

D'ALEMA, Massimo (1949)

Figlio di Giuseppe D'Alema, parlamentare del PCI, è deputato dal 1987. Nel 1994 viene eletto segretario del Partito Democratico della Sinistra, è Presidente del Consiglio dal 1998 al 2000, dal 2004 al 2006 è europarlamentare, nel 2006 viene nominato ministro degli Affari Esteri e vicepresidente del Consiglio nel governo Prodi. Nel 2010 viene eletto all'unanimità presidente del COPASIR.

DI PIETRO, Cristiano (1973)

Figlio di Antonio Di Pietro, nel 2006 viene eletto consigliere provinciale a Campobasso nelle fila dell'Italia dei Valori. Nel settembre del 2011 viene candidato al consiglio regionale del Molise.

FITTO, Raffaele (1969)

Figlio democristiano Salvatore Fitto, presidente della Regione Puglia dal 1985 fino alla morte nel 1988, è laureato in giurisprudenza. Nel 1995 viene eletto consigliere regionale della Puglia con Forza Italia. Nel 1999 viene eletto eurodeputato, dal 2000 è presidente della Regione Puglia e nel 2006 viene eletto alla Camera. Nel 2008 viene eletto deputato con il Popolo della Libertà e viene nominato Ministro degli Affari Regionali e le Autonomie Locali.

FRANCESCHINI, Dario (1958)

Figlio di Giorgio Franceschini, partigiano e deputato democristiano, è avvocato. Nel 1980 diventa consigliere comunale di Ferrara con la Democrazia Cristiana. Dal 1999 al 2001 è Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle Riforme Istituzionali. Nel 2001 viene eletto deputato con la Margherita e nel 2008 viene rieletto con il Partito Democratico, di cui è segretario nel 2009. 

GENOVESE, Francantonio (1968)

Figlio del senatore Luigi Genovese e nipote del ministro Nino Gullotti, entrambi democristiani, è avvocato e imprenditore. Nel 1998 viene nominato assessore all'agricoltura nella giunta provinciale di centrodestra di Messina di centrodestra. Nel 2001 viene eletto all'Assemblea Regionale Siciliana con la Margherita, nel 2005 diventa sindaco di Messina con l'Unione, ma le elezioni vengono annullate due anni più tardi. Nel 2008 viene eletto alla Camera nella lista del Partito Democratico.

GERMANA', Antonino Salvatore (1976)

Figlio del parlamentare di Forza Italia Basilio Germanà, imprenditore, nel 2008 viene eletto alla Camera con il Popolo della Libertà.

MORONI, Chiara (1974)

Figlia del parlamentare socialista Sergio Moroni, che si suicidò dopo essere stato coinvolto nell'inchiesta Mani pulite, è laureata in farmacia. Aderisce al progetto del nuovo PSI e nel 2001 viene eletta deputata con la Casa delle Libertà. Nel 2006 si candida con Forza Italia e viene ripescata alla Camera. Nel 2008 viene eletta deputata con il Popolo della Libertà.

PILI, Mauro (1966)

Figlio del socialista Domenico Pili, nel 1993 diventa sindaco di Iglesias con una lista civica e viene riconfermato alla scadenza del mandato. Nel 1999 e nel 2001 viene eletto presidente della Regione Sardegna, ma entrambe le volte è costretto a dimettersi per il venir meno della fiducia. Nel 2001 viene eletto deputato con Forza Italia, e nel 2008 viene di nuovo eletto alla Camera con il Popolo della Libertà.

ROCCELLA, Maria Eugenia (1953)

Figlia di Franco Roccella, fondatore del Partito Radicale, è giornalista. Negli anni '80 lascia il partito radicale. Nel 2008 viene eletta alla Camera con il Popolo della Libertà e diventa Sottosegretaria al Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali.

ROSSA, Sabina (1962)

Figlia del sindacalista Guido Rossa, ucciso dalla BR nel 1979, è insegnante di educazione fisica. Nel 2006 viene eletta al Senato con l'Ulivo, e nel 2008 viene eletta deputata con il Partito Democratico.

SCAJOLA, Antonio Claudio (1948)

Figlio del sindaco democristiano di Imperia Ferdinando Scajola, viene eletto consigliere comunale di Imperia nel 1980 con la Democrazia Cristiana e diventa sindaco nel 1982 e nel 1990. Nel 1996 viene eletto deputato con il Polo per le Libertà e nel 2001 è riconfermato con Forza Italia. Nello stesso anno viene nominato Ministro dell'Interno, nel 2003 Ministro per l'attuazione del programma di Governo, nel 2005 Ministro delle Attività Produttive. Nel 2008 viene eletto alla Camera con il Popolo della Libertà e viene nominato Ministro dello Sviluppo Economico, carica dalla quale si dimette due anni dopo.

SEGNI, Mariotto (1939)

Figlio di Antonio Segni, Presidente della Repubblica, è stato docente universitario. Dal 1976 è consigliere regionale, parlamentare nazionale, parlamentare europeo e Sottosegretario all'Agricoltura. Nel 1992 fonda Alleanza Democratica, nel 1994 fonda il Patto Segni, nel 1999 fonda l'Elefantino.

TANCREDI, Paolo (1966)

Figlio del parlamentare democristiano Antonio Tancredi, ingegnere elettronico, nel 1999 viene eletto consigliere comunale a Teramo con una coalizione di centrodestra, nel 2001 diventa consigliere regionale dell'Abruzzo con Forza Italia e viene rieletto nel 2005. Nel 2008 viene eletto senatore con il Popolo della Libertà.

E poi….

Alemanno Gianni: genero di Pino Rauti (ha sposato la figlia Isabella), Gianni divenne segretario nazionale del Fronte della Gioventù quando Rauti era segretario del partito MSI (Movimento Sociale Italiano).

Bocciardo Mariella: ex moglie di Paolo Berlusconi.

Carloni Anna Maria: moglie di Antonio Bassolino. Prima consigliera comunale a Bologna, poi a Roma nella direzione nazionale PCI-PDS. Varie le collaborazioni con ministeri e le diverse realtà istituzionali. Assessore al bilancio del comune di Castellammare di Stabia, oggi nei Palazzi che contano.

Cossiga Giuseppe: figlio di Francesco Cossiga, ex Presidente della Repubblica. Giuseppe, ingegnere aeronautico, era vice coordinatore sardo di Forza Italia e la scorsa legislatura faceva parte della commissione Difesa della Camera. Cossiga padre ha sempre tenuto a precisare di non essersi mai occupato della carriera politica del figlio, ha fatto tutto da se.

Costa Enrico: figlio dell’ex ministro Raffaele Costa PLI (Partito Liberale Italiano) passato poi al PDL. Costa padre, Presidente della Provincia di Cuneo, è stato in particolare, autore di due libri: “L’Italia degli sprechi” e “L’Italia dei privilegi”.

De Feo Diana: moglie di Emilio Fede.

Fitto Raffaele: figlio di Totò Fitto democristiano ed ex Presidente della Regione Puglia.

La Malfa Giorgio: figlio di Ugo La Malfa, fondatore e leader del PRI (Partito Repubblicano Italiano). Ugo La Malfa è stato deputato della costituente e ministro della ricostruzione nel dopo guerra. Giorgio è entrato in parlamento nel 1972 a 33 anni. Partito Repubblicano, Partito per l’Italia di Segni (1994), centrosinistra con L’Ulivo nella lista “Per Prodi” (1996), poi il passaggio nel PDL (Casa della Libertà).

Lanzillotta Linda: moglie di Franco Bassanini. Ministro degli Affari regionali del governo Prodi lei, ex Ministro a sua volta lui. Linda ha avuto un passato socialista, ha aderito alla Margherita e ora PD, è stata assessore al comune di Roma, funzionario del Ministero del Bilancio, Capo di gabinetto del Ministero del Tesoro e Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Franco, Ds e PD, al suo nome è legata la riforma della pubblica amministrazione.

Consulente del governo francese.

Melchiorre Daniela: figlia del Generale della Guardia di Finanza Melchiorre e nipote del Cardinale Bovone. Prima avvocato e dopo magistrato militare, ha ricoperto la carica di vicesegretario regionale della Margherita in Lombardia. nel 2006 è stata nominata sottosegretario alla Giustizia del governo Prodi. Nel 2007 è passata con Lamberto Dini (Movimento dei Liberaldemocratici), per poi andare nel PDL (Partito della Libertà).

Pili Mauro: figlio di Domenico Pili, socialista sardo che si allontanò dalla politica dopo qualche incidente di percorso. Giornalista, ex presidente della Regione Sardegna (famoso il suo discorso d’insediamento in cui citava cifre e dati relativi alla Lombardia).

Serafini Anna: moglie di Piero Fassino, ha sempre dichiarato di aver avuto solo svantaggi dal fatto di essere la moglie di Fassino. S’è iscritta al partito prima di Piero e prima di lui è entrata in parlamento (lei nel 1987 lui nel 1994).

Testoni Pietro: nipote di Francesco Cossiga. Giornalista, responsabile editoria di Forza Italia e uomo dello staff comunicazione di Silvio. L’Onorevole Cossiga così spiegò la parentela con Testoni: “…è mio nipote in quanto la nonna era cugina in secondo grado di mio padre…”

Veltroni Walter: figlio di Vittorio Veltroni, primo direttore di telegiornale in Italia e cronista di tutti i viaggi del Duce.

Ebbene sia. Diamo per scontato che il nostro Presidente del Consiglio abbia una vigorosa ed inesausta passione per le donne e che la soddisfi ampiamente. Quel che è certo è che non sarebbe né il primo né l’ultimo dei grandi protagonisti della storia d’Italia ad esserne felicemente afflitto.

A cominciare da tutti e quattro i “Padri della Patria”, ossia dal quartetto Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini dei nostri remoti studi scolastici. Vittorio Emanuele II, apprezzava, in particolare, le procaci contadinotte del suo Piemonte e non se ne faceva comunque sfuggire una, purché respirasse. Cavour era un impenitente libertino che passava spietatamente da un’amante sofisticata all’altra fino ad indurne una al suicidio e ad infilarne un’altra, la nota Contessa di Castiglione (che era anche sua nipote e che condivideva con il Re), nel letto di Napoleone III, propiziandovi la II e determinante Guerra di Indipendenza. Mazzini non gli era da meno, avendo disseminato nel corso dei suoi esìli nell’intera Europa, cuori infranti e figli abbandonati. E chi sa che l’eroica Anita era originariamente la moglie di un altro, e che l’”Eroe dei due mondi” seppe molto ben consolarsi della sua tragica scomparsa?

Nell’Italietta umbertina, nonostante gli ufficiali rigori vittoriani, il primo a correre entusiasticamente “la cavallina” era Umberto I in persona. Nel pieno dello scandalo della Banca Romana, Giovanni Giolitti consegnò platealmente al Presidente della Camera un “piego” in cui - tra altri documenti che lo discolpavano, inguaiando il suo avversario Francesco Crispi - c’era una lettera della moglie di questi che intimava al padrone della casa romana in cui Crispi dimorava, di “non portare più puttane a Don Ciccio”. Né Giolitti aveva a tal riguardo molte lezioni da dare, essendo anch’egli un assiduo frequentatore di bordelli, secondo peraltro un costume che soltanto l’infausta legge Merlin ha infranto.

Su Mussolini è perfino inutile soffermarsi, era quasi certamente bigamo mentre l’elenco delle sue amanti note, ed anche dei suoi figli più o meno occulti, continua ad allungarsi all’infinito. Nelle brevi pause della sua attività di governo si concedeva, con signore di passaggio, rapidissimi amplessi, nei quali, si dice, non si sfilasse nemmeno gli stivali... L’ultima e più innamorata delle sue amanti gli morì anche eroicamente accanto.

Delle distrazioni sessuali della prima parte della Prima Repubblica, soggetta ad una forte censura clericale, è filtrato poco, ma non tanto da nascondere – per esempio - le frequenti scappatelle di un Presidente della Repubblica come Giovanni Gronchi (mentre anche il suo futuro successore Sandro Pertini non se la passava male), o l’omosessualità di due Presidenti del Consiglio, uno dei quali pare anche legato ad un vicino Ministro e l’altro addirittura dedito in privato ai trasferimenti, prima di essere in tarda età beccato in una storia di coca. L’omosessualità era poi ampiamente diffusa tra le virago del movimento femminile della “Balena bianca”.

Né potevano prodursi in lezioni di moralità i vertici del PCI, che le loro donne ed in genere i loro cari li facevano parlamentari, alternando al riguardo mogli ed amanti, e stabilizzando negli scranni di Montecitorio e di Palazzo Madama fratelle et similia.

L’amante e futura moglie di Togliatti, è diventata addirittura Presidente della Camera, passando per grande donna senza che nessuno abbia mai spiegato perché. In Parlamento l’aveva preceduta la prima moglie del Migliore, poi liquidata senza troppi scrupoli insieme ad un figlio dispersosi misteriosamente in qualche casa di cura. Anche il suo successore, Luigi Longo, fece deputate prima la moglie Teresa Noce e poi la più piacente compagna; Pajetta la moglie, la compagna Miriam Mafai ed il fratello Giancarlo.

Berlinguer, più morigerato, preferì sistemare il fratello Giavanni e i due cugini Luigi e Sergio. La moglie di Occhetto, Aureliana Alberici, era inevitabilmente senatrice com’è deputata la moglie di Fassino, Anna Serafini. Anche l’un tempo bellissima Luciana Castellina era in realtà la moglie di Alfredo Reichlin, come D’Alema è il figlio della potentissima segretaria di Togliatti e di un autorevole parlamentare togliattiano, mentre nel Parlamento siede la compagna di Bassolino. E poi si scandalizzano di fronte a qualche bella euro-parlamentare altrui.

I favolosi “anni ‘80” furono segnati dai noti appetiti sessuali di Craxi e dei suoi collaboratori, mentre Cicciolina entrava trionfalmente a Montecitorio sull’onda della filosofia libertina bisex di Marco Pannella, di cui si narrano legami con splendidi dirigenti del suo Partito, uno dei quali destinato ad una luminosa carriera politica. In quegli anni conquistava per la prima volta il proscenio, un giovane poeta barese che sulla omosessualità avrebbe costruito una carriera, e che inneggiava alla libertà sessuale assoluta, senza nemmeno troppi scrupoli sull’età dei liberandi.

Nella Seconda Repubblica, Antonio Di Pietro, assegnatario a titolo gratuito negli anni gloriosi di “Mani Pulite” di una bollente garconniere al centro di Milano, è stato fotografato con una esplosiva donna dello spettacolo. Pare invece che l’unico condannato alla castità, in un mondo in cui quelli che un tempo erano “vizi privati” sono diventati costume diffuso alla luce del sole, debba essere Silvio Berlusconi, le cui debolezze verso le donne, secondo i novelli bacchettoni di una sinistra sempre più bigotta, addirittura squalificherebbero l’Italia nel mondo.

Lo svariato numero delle amanti di Kennedy ivi compresa la povera Marilyn, o la sotto-scrivania di Clinton, o le distrazioni di Re Juan Carlos e dei principi e delle principesse inglesi, o le quattro mogli ecc. di Shroeder e la lunga storia del “première dame” di Francia sono irreprensibili esempi di senso dello Stato.

Mogli, ex cognate, fratelli, figlie: il voto del 9 aprile 2006 rischia di passare alla storia come quello «dei parenti». Quasi tutti i partiti hanno presentato una valanga di candidati «di famiglia», con elezione garantita perché hanno abolito anche le preferenze, con l’annesso rischio-trombatura. Se n’è accorta perfino la Cnn: «La famiglia resta l’istituzione italiana più solida», ironizzano i giornalisti americani. Il caso più clamoroso: la moglie del segretario Ds Piero Fassino, Anna Serafini, ripresentata per la quinta volta nonostante il massimo di due legislature imposto dal partito a (quasi) tutti i propri parlamentari. Oppure Anna Maria Carloni, aspirante senatrice in Campania, regione della quale il marito Antonio Bassolino è presidente. Napoli vanta peraltro una tradizione consolidata di coniugi in politica: la presidente del Consiglio regionale Sandra Lonardo è infatti moglie di Clemente Mastella (Udeur). In Piemonte la diessina Magda Negri sta con il senatore Enrico Morando. E in Lombardia per la Margherita si presenta Linda Lanzillotta, coniugata con Franco Bassanini. «Lo scrittore Leo Longanesi sessant’anni fa propose di adottare come slogan ufficiale della Repubblica italiana il motto “Tengo famiglia”», scherza Goffredo Locatelli, autore con Daniele Martini del libro omonimo, pubblicato nel ’97. È lui il massimo esperto italiano di nepotismo, anche perchè sei anni prima aveva esordito con un altro volume, "Mi manda papà", che esaminava i legami familiari della Prima repubblica e vendette 25 mila copie. Non hanno scherzato però tutti quelli che lo hanno querelato, in primis la famiglia Necci, chiedendo un totale di dieci miliardi di lire in danni. Risultato: l’editore Longanesi ha tolto Tengo famiglia dalla circolazione, intimorito nonostante le diecimila copie già vendute. È un argomento scottante, quindi, quello del familismo in politica. Anche perché riguarda tutti gli schieramenti.

Silvio Berlusconi, per esempio, candida alla Camera nella circoscrizione Lombardia 1 l’ex cognata Mariella Bocciardo, già coniugata col fratello Paolo. In Sicilia il parlamentare di An Enzo Trantino fa correre la figlia Maria Novella, così come il collega di partito Orazio Santagati, che mette in pista la figlia Carmencita. I figli di Bettino Craxi si dividono equamente: Stefania a destra, Bobo a sinistra. Infine ci sono i fratelli, come Marco Pecoraro Scanio, ex calciatore e poi assessore ad Ancona e Salerno, il quale condivide con Alfonso la fede verde. L’unico sfortunato sembra essere Umberto Bossi: sua sorella Angela è sì candidata, ma contro di lui, in una lista lombarda concorrente della Lega. Sembrano lontani, insomma, i tempi del povero Paolo Pillitteri, crocifisso come «sindaco cognato» quando governava Milano per conto di Craxi. «Non è cambiato nulla dai tempi della famigerata Prima repubblica», commenta sconsolato Locatelli, «anche perché ormai la politica si è degradata a mestiere, non è più un fatto onorifico».

Fra l’altro, abolito il voto di preferenza, noi elettori non possiamo neppure vendicarci bocciando il parente eccellente. Insomma, assistiamo impotenti al trionfo della nomenklatura burocratica, che si appropria in ogni modo di compensi molto alti (un parlamentare guadagna 120 mila euro annui). Occorre precisare però che, almeno nel caso delle mogli di Fassino, Bassolino e Bassanini, si tratta di signore in politica da molto tempo, le quali probabilmente avrebbero fatto carriera indipendentemente dai mariti. In altri casi, invece, la «vocazione» sembra essere maturata all’improvviso...E pensare che fino a pochi anni fa i consiglieri comunali e provinciali percepivano soltanto qualche gettone di presenza. Oggi invece tutti, perfino gli eletti in quartieri e circoscrizioni, incassano uno stipendio fisso. L’unica consolazione viene guardando gli Stati Uniti: anche lì le dinastie familiari sembrano eterne, con cariche che passano di padre in figlio (George Bush senior e junior), tra fratelli (John, Robert e Ted Kennedy) e fra marito e moglie (Bill e Hillary Clinton).

Alle regionali del 2010, nel Lazio l’Udc schiera il broker Pietro Sbardella, figlio di Vittorio, passato alla storia della Dc come «lo Squalo». Sempre nel listino della candidata del Pdl Renata Polverini entra, tra le polemiche, la moglie del sindaco Gianni Alemanno, Isabella Rauti: capo del dipartimento Pari opportunità presso la presidenza del Consiglio, la figlia del fondatore del Msi, Pino Rauti. E c’è anche una giovane coppia in corsa nel Lazio con la Polverini: Francesco Pasquali e Veronica Cappellari, insieme nella vita e nel listino. Nelle Marche scende in pista, con Sinistra ecologia e libertà, Iside Cagnoni, moglie dell’onorevole Luigi Giacco, figura storica della sinistra di Osimo. E si parla anche del vicesindaco di Bari Alfonso Pisicchio, fratello dell’onorevole Pino, passato dall’Idv all’Api. Sempre in Puglia corre Mario Cito, figlio dell’ex deputato e sindaco di Taranto Giancarlo (già condannato a quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa), con la lista «I pugliesi per Palese presidente », depositata a Taranto. Con il candidato governatore del Pd Claudio Burlando, a Genova, corre la nipote di Don Baget Bozzo, Francesca Tedeschi, impiegata turistica. Nella lista del Pdl di Napoli e provincia per il rinnovo del Consiglio regionale della Campania c’è anche Angelo Gava, dirigente d’azienda, figlio dell’ex ministro Antonio, leader dei dorotei, e nipote di Silvio, patriarca della Democrazia Cristiana. Infine in Calabria, col Pd, si ricandida l’uscente Stefania Covello, figlia dell’ex parlamentare Franco.

Umberto Bossi, l’intransigente leader del Carroccio, poi colloca i parenti stretti in impieghi tali da poter allattare alle mammelle della scrofa politica. Prima manda in Europa il fratello Franco e figlio primogenito Riccardo, assunti al Parlamento Europeo, al seguito dei deputati leghisti Speroni e Salvini (già direttore di quella Radio Padania Libera che per anni ha cannoneggiato contro il clientelismo e le assunzioni in Terronia di amici, cognati e parenti), per 12.750 euro al mese. Poi è la volta del figlio Renzo. Il nepotismo padano quindi segue il suo corso ed il giovane Renzo, maturo o no, è ormai riconosciuto come il delfino dell’Umberto, lo ha accompagnato in tutte le manifestazioni di partito e compare su centinaia di foto. Il ministro Calderoli lo riconosce come erede affermando che lui e Maroni sono già troppo vecchi e poi Renzo “È la fotocopia del papà”. L’Umberto dichiara: “Quando passerò la mano, non certo adesso, qualcosa di me resterà”, una vera investitura. “Dopo Bossi ci sarà ancora Bossi”. Tanto per onor di cronaca ricordiamo alcune parole gridate da Sua Maestà Umberto Bossi contro clientele e “familismo amorale”: “La Lega assicura assoluta trasparenza contro ogni forma di clientelismo”. “Il nostro programma? Incrementare i posti di lavoro, eliminare i favoritismi clientelari e restituire il voto ai cittadini”. “Non si barattano i valori-guida con una poltrona!”. “Questo deve fare un segretario di sezione: far crescere la gente e non dare spazio agli arrivisti. Dobbiamo essere in primo luogo inflessibili medici di noi stessi se vogliamo cambiare la società!”.

Non ci dobbiamo dimenticare anche il caso ripreso da Striscia la Notizia”: "Cara Renata, non ti dimenticare delle mie figlie", così il finiano Zaccheo, sindaco di Latina, alla finiana Polverini, Presidente della Regione Lazio.

Con il discorso ufficiale del Magnifico Rettore, Prof. Ing. Domenico Laforgia, è stato inaugurato a Brindisi il 3/12/2009 l'anno accademico 2009-2010 dell'Università del Salento. Presenti alla cerimonia Gianfranco Fini, Presidente della Camera dei Deputati e diverse altre insigne personalità del mondo politico, economico e culturale della penisola salentina. In quella sede ha palesato una realtà, che molti cercano di ignorare o tacitare. “…..Questo è un altro dato che si presta ottimamente ad una lettura politica. Il familismo non è la ferita pruriginosa di questa o quella Università, ma di tutto il sistema occupazionale italiano. È una malattia endemica del Paese che ha contagiato tutti i campi, dalla politica alle libere professioni, dal giornalismo al mondo dello spettacolo, dall’industria a tutto il comparto pubblico. Familismo, nepotismo e clientelismo non sono le conseguenze di un sistema malato, come spesso si dice, ma sono il segno più evidente di una mancanza effettiva di alternative possibili. Ed è questa povertà di occasioni che mette in moto il meccanismo, che diventa perverso e nocente alla comunità quando non è neppure compensato dal merito."

Anche lei, poverina, non è più quella di una volta. E c’è chi, pur di tenerla alla giusta distanza, le cambia l’identità: un freddo «segnalazione», un burocratico «indicazione», un elegante «gestione combinata». I partiti non ci sono quasi più, la legge elettorale ha abolito i collegi, i parlamentari che non si perdono un battesimo sono eccezioni, però lei, anche se si deve scontrare con la modernità, con le lobbies e i lobbisti, resiste e lotta insieme e per noi: la vecchia e cara Raccomandazione, italianissima come la pizza e le romanze di Verdi. Raccomandazione di governo o di opposizione, ce n’è (sempre) per tutti. E cosa non si fa per lei, perfino un premier che scippa il mestiere a Lele Mora. Però, appunto, non è più quella di una volta. C’è, ma non si vede. E non ci sono più i Remo Gaspari, il ministro dc che aveva assunto postini a vagonate. «O personaggi come Franco Evangelisti, l’ombra di Giulio Andreotti - ricorda Alfredo Biondi, avvocato, liberale e genovese, 9 legislature prima del prepensionamento non voluto -. Quando lo incontravi in Transatlantico ti appariva la Raccomandazione». Ecco, fine di quella storia: «Ora che la politica è cooptazione - dice Biondi - la Raccomandazione passa da lobbies potenti e clandestine».

RACCOMANDATO E PARENTE.

Raccomandato e parente, il massimo. Categoria sdoganata a fine Anni 80 al Festival di Sanremo, nientemeno. Quando, a presentare canzonette, erano stati chiamati gli eredi di Adriano Celentano, Johnny Dorelli, Anthony Queen e Ugo Tognazzi, e l’allor giovane Gigi Marzullo, in odor di raccomandazione dc, li sfotteva in diretta: «I figli di ...». Però erano bravini, e qui si passa alla raccomandazione a fin di bene, a sua volta differente dalla «raccomandazione per necessità», quella applicabile ai poveracci.

E’ a fin di bene, come per la verità dicon tutti, perché segnala qualcuno che non delude, che se la cava o addirittura lo merita.

Di solito il raccomandato non ha buona memoria ed è facile alla smentita, a volte rabbiosa. Intervenuto in difesa di chi si è visto pubblicare raccomandabili intercettazioni, Francesco Cossiga aveva raccontato le sue telefonate in favore di due telegiornaliste, Bianca Berlinguer e Federica Sciarelli, peraltro amiche. L’avesse mai fatto, a momenti se lo mangiano. Perché a nessuno fa piacere l’abbraccio della Raccomandazione, anche se capita nell’ambiente Rai, dove è chiamata più brutalmente lottizzazione, e ad ogni cambio di governo le carriere interne si misurano con il bilancino del chi è sponsorizzato da chi.

Favore, spintarella, aiutino, pratica nota, diffusa e trasversale. «Medialab» ha fissato le quote dei concittadini che negli ultimi tre mesi hanno chiesto o ottenuto qualcosa: il 66,1% da un parente, il 60,9% da un amico, il 33,9% da un collega di lavoro. Quanto basta per stabilire che nessuno, proprio nessuno, può dirsi immune. Non è reato, per carità. E’, appunto, malcostume. Lo stesso che poi intasa ad esempio i Laboratori diagnostici del Lazio. «Perché - spiega Gianni Fontana, il responsabile - ci sono pazienti che accedono al servizio senza prenotazione». I soliti raccomandati... Ma queste sono le storie di tutti i giorni, dei soliti italiani che cercano la scorciatoia e avranno sempre un buon motivo per non sentirsi in colpa. Altra e più complessa è la storia della Raccomandazione da lobby, dove politica e interessi si abbracciano e colpiscono pesante. La sanità, per dire, con gli intrecci tra baronie e lottizzazioni. «E qui il gioco si fa molto più sottile», spiega Paolo Cherubino, 60 anni, primario ortopedico, preside della facoltà di medicina a Varese. «Perché le lobbies della politica con le assegnazioni di posti si affermano, si rafforzano e ne ricavano un potere di compensazione con altre lobbies». Ecco, Varese che passa per città leghista. Su dieci primari solo uno non è dell’area di Comunione e Liberazione, il movimento caro al governatore Roberto Formigoni. Un caso? «Mi sono sentito dire che non è lottizzazione - dice Cherubino - ma il dato oggettivo resta». Ma il lobbismo non si ferma qui, e il preside Cherubino, per cautela, ricorre all’esempio. «Mettiamo che si decida un Piano di Ristrutturazione Ospedaliera. Bisogna tener conto dell’interesse dell’area interessata, dei cittadini, e questo è giusto. Poi si prevedono reparti e personale sulla base degli individui da sistemare...». La Raccomandazione pilotata.

La lobby non rivendica, non si vanta, basta che chi deve sapere sappia. Non è più come ai tempi di Gaspari e Evangelisti. Non è più come nella Milano dove per essere assunti in banca bisognava frequentare gli oratori, per una licenza da tassista i socialdemocratici, per una casa i socialisti. E nemmeno e non solo come nella Sicilia dell’ex governatore Totò Cuffaro, che per lenire il bruciore di un calo di voti per la sua Udc se n’è uscito con questa spiegazione: «Per forza, in quella zona non avevamo l’assessore regionale!». E magari non sarebbe manco bastato, magari si sarebbe scontrato con una lobby. Trovare la lobby giusta, dunque, il mix tra politica e affari, perché il resto è robetta. «Se mi chiama un politico - racconta Paolo Sassi, presidente dell’Inps - è solo per sapere la posizione contributiva di un elettore, non sanno che è tutto su Internet».

Puoi darmi una mano...? Comincia sempre così. «Lo so bene - dice Pierluigi Bersani,-. La mia mamma diceva che bisogna aiutare tutti, ma aiutando tutti si finisce sempre con il fregare qualcuno. La mia regola? Aiutare solo i malati, gli handicappati, i disperati, per loro sì che sono pronto a dare una mano. Per gli altri niente, grazie». Antonio Marano, direttore di Rai2 intercettato al telefono con Agostino Saccà, la mano la dà per chi vale. «E’ normale per noi, i personaggi del mondo dello spettacolo li conosciamo bene». E’ normale, come il titolo di una trasmissione Rai di successo. «I Raccomandati».

UNISALENTO: IL GIOCO DELLE PARTI.

I sindacati, Laforgia e Mantovano. Università del Salento. Una grande famiglia. Tanto rumore per nulla. E’ tutto truccato e si accapigliano per tre compiti truccati. Omertà invece per i concorsi in avvocatura, magistratura e notariato. Università del Salento: una grande famiglia. Si intitolava un servizio di Tele Rama. I grappoli di famiglie che hanno fatto il nido nell'Università del Salento, il nepotismo che rischia di soffocare l'ateneo leccese e le contromisure che il rettore Domenico Laforgia ha cercato di mettere in campo, senza troppo successo. Scheda a cura di Danilo Lupo e Matteo Brandi, andata in onda nell'Indiano del dicembre 2008 dedicato all'università e condotto da Mauro Giliberti. Con il discorso ufficiale del Magnifico Rettore, Prof. Ing. Domenico Laforgia, è stato inaugurato a Brindisi il 3/12/2009 l'anno accademico 2009-2010 dell'Università del Salento. Presenti alla cerimonia Gianfranco Fini, Presidente della Camera dei Deputati e diverse altre insigne personalità del mondo politico, economico e culturale della penisola salentina. In quella sede ha palesato una realtà, che molti cercano di ignorare o tacitare. “…..Questo è un altro dato che si presta ottimamente ad una lettura politica. Il familismo non è la ferita pruriginosa di questa o quella Università, ma di tutto il sistema occupazionale italiano. È una malattia endemica del Paese che ha contagiato tutti i campi, dalla politica alle libere professioni, dal giornalismo al mondo dello spettacolo, dall’industria a tutto il comparto pubblico. Familismo, nepotismo e clientelismo non sono le conseguenze di un sistema malato, come spesso si dice, ma sono il segno più evidente di una mancanza effettiva di alternative possibili. Ed è questa povertà di occasioni che mette in moto il meccanismo, che diventa perverso e nocente alla comunità quando non è neppure compensato dal merito." Che una vera corazzata di parlamentari italiani sottoscriva una dichiarazione di guerra contro un ateneo di provincia è un caso più unico che raro. Porta la firma di ben cinquantacinque deputati, infatti, la richiesta di ispezione ministeriale da eseguire nell’Università del Salento. L’interpellanza urgente, ideata dall’ex sottosegretario agli Interni, il pidiellino Alfredo Mantovano, è stata inoltrata ai ministri dell’Istruzione e della Funzione Pubblica, Francesco Profumo e Filippo Patroni Griffi. Di mezzo ci sono presunte condotte illecite e ragioni di trasparenza da ripristinare. Ci sono anche gli appalti che si accingono ad essere portati in gara. Tanti. Molti. Del valore, all’incirca, di cento milioni di euro. Nell’interpellanza si parla del Tar di Lecce. Tar che spesso adotta decisioni contrastanti tra loro, pur aventi lo stesso oggetto. E pur la stampa pubblica: Indagato presidente del TAR Lecce solo per abuso d’ufficio e solo lui. Antonio Cavallari, presidente del Tar di Lecce indagato per abuso d’ufficio per aver favorito un’azienda in odor di mafia difesa dal noto amministrativista leccese, avv. Pietro Quinto. Ahhh... Quante volte io e tutti gli avvocati non principi del foro che bazzicano le aule del Tar di Lecce avremmo desiderato un atto di sospensiva di sabato ed in 24 ore!!!!!!!! Poi si parla della Procura di Lecce. Mi astengo dal dare giudizi sull’esito delle mie denunce contro i concorsi truccati, ma mi riporto a quanto detto dal Procuratore Capo di Bari: «Non posso non rilevare che questo tipo di accertamenti è iniziato un anno fa, ma un’indagine a carico di un procuratore non può durare tanto. Occorre dare risposte rapide sia che siano stati commessi reati, sia che non siano stati commessi, soprattutto per la credibilità dell’ufficio». La pensano allo stesso modo migliaia di persone indagate che vivono in un «limbo» e che chiedono senza fortuna di potere dire la loro. La giustizia non è uguale per tutti? «Capita a me quello che accade a tanti cittadini. Rappresento, però, che, indipendentemente dalla vicenda personale, la questione si riverbera sull'intero ufficio. Non sostengo che la mia posizione è diversa, ma lamento che così si mette a rischio la credibilità della giustizia e delle istituzioni. Una situazione che deve essere definita in tempi rapidi. Per questo voglio subito essere interrogato». Tanto rumore per nulla. Certo è che nessuno, tanto meno l’On. Alfredo Mantovano più volte interpellato, va a chiedere ispezioni ministeriali per vagliare le risultanze dell'esame di abilitazione di avvocato o di notaio o di professore universitario, ovvero di verificare la legalità delle procedure di accesso alla magistratura. Compiti non corretti? Per le commissioni d'esame: Fa niente, conta il nome e l'accompagno. Il TAR, intanto, da parte sua sforna sentenze antitetiche tra loro su domande aventi lo stesso oggetto. Basta leggere il libro del  dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it, e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “CONCORSOPOLI".  Libro facente parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

CONCORSI ACCADEMICI TRUCCATI IN ITALIA.

Malauniversità, in 6 mesi 86 denunce di concorsi pilotati. Record di adesioni a Osservatorio indipendente e Trasparenza e merito, le due associazioni che dal basso contestano il clientelismo nel sistema di reclutamento. C'è chi attiva la magistratura e chi sceglie la strada della lettera al rettore: "Il bando del suo ateneo è irregolare". Ma finora quasi nessuno ha risposto, scrive Corrado Zunino il 17 luglio 2018 su "La Repubblica". Sono nate, rispettivamente, da otto e sei mesi. Una parte crescente del mondo accademico le guarda come si osserva una scialuppa di salvataggio. Sono due libere associazioni che non solo si occupano di malauniversità, ma hanno deciso di portarne gli episodi più degradanti alla luce e di affiancare le vittime di abusi o inadempienze in ricorsi ai tribunali amministrativi, in alcuni casi di firmare esposti penali con gli avvocati interni. "Non vogliamo lasciare sole persone che dall'università sono state ingiustamente fermate, allontanate". Insieme, Trasparenza e merito e l'Osservatorio indipendente sui concorsi universitari, in questo primo scorcio di 2018 hanno radunato 316 affiliati (207 e 109, precisamente) e ottantasei denunce. Una media di cinque al mese per associazione. Le denunce - ora pubbliche, ora interne, ora alla magistratura - riguardano concorsi pilotati. Per posti da professore associato, triennali da ricercatori, abilitazioni scientifiche, assegni di ricerca. L'Osservatorio indipendente, che annovera tra gli iscritti anche il rettore dell'Università di Ferrara, Giorgio Zauli, e professori delle accademie di Bristol e Gent, Maastricht e Dublino, del Quebec e dell'Oregon, sta rodando un metodo interessante. Laddove gli associati avvistano un "bando profilato", cioè un concorso scritto su misura per un candidato gradito all'ateneo, scrivono una lettera e con la posta certificata la inviano al rettore dell'università, al direttore di dipartimento, al presidente della società della disciplina coinvolta. Agli "illustrissimi professori" l'Osservatorio segnala: il bando "emanato dal Suo Ateneo" potrebbe contenere "elementi di irregolarità". L'associazione ha scritto all'Università di Bologna per un bando in Storia della Filosofia antica, due volte all'Università di Bergamo, Letteratura italiana e Letteratura francese, per Storia medievale a Perugia, per un concorso da ricercatore di tipo A alla Sapienza di Roma, Progettazione architettonica. Ancora Storia dell'arte a Roma Tre. Poi Firenze, Filologia classica e tardoantica, un assegno al Dipartimento di Biotecnologie di Siena e un posto da ricercatore per Diritto romano a Salerno. Nell'oggetto della mail scrivono proprio così: "Segnalazione di bando profilato". All'Università di Torino sono incappati in quaranta assegni di ricerca (su ottantatré controllati) degni di segnalazione perché "costruiti sull'identikit di giovani cloni dei docenti, magari molto diligenti, ma con competenze scientifiche limitate". L'ateneo di Torino, interpellato da "Repubblica", ha risposto che non c'è alcun scandalo in corso, ma solo "la ricerca di figure a elevata specificità e specializzazione". Quelli dell'Osservatorio concorsi universitari hanno inviato la stessa mail a tutti i magnifici rettori italiani per ricordare loro che, così come accade nel resto della Pubblica amministrazione, "la pubblicazione della valutazione dei titoli nelle procedure comparative deve avvenire prima della prova orale" al fine di "prevenire rischi di manipolazione dei punteggi e di favoritismi, agevolare l'imparzialità della valutazione, anticipare ricorsi e contestazioni". Alle molteplici segnalazioni finora ha risposto solo l'Università di Bologna: "Grazie, siamo già attenti", hanno fatto sapere. È pronta una seconda lettera per il rettore. Marco Federici, uno dei fondatori dell'Osservatorio, dice: "In questi sei mesi non è mai accaduto che un ateneo abbia fermato un concorso da noi considerato su misura, ma continueremo a utilizzare questa forma di pressione. Se un rettore non ne tiene conto dovrà risponderne, successivamente, di fronte a un possibile esposto". "Trasparenza e merito" (L'università che vogliamo) oltre ai 207 iscritti con carta d'identità ha registrato 1.087 sostenitori e segnalato 27 nuovi casi che si aggiungono ai dieci già denunciati. Gli ultimi chiamano in causa la Statale e la Bicocca di Milano, Cagliari, Messina. Da questo alveo sono uscite storie universitarie che stanno facendo letteratura oltreché giurisprudenza. Il processo al rettore di Tor Vergata, Giuseppe Novelli, per esempio, avviato sulle intercettazioni fatte dall'avvocato Giuliano Gruner e dal chirurgo Pierpaolo Sileri. O la mancata assegnazione di un posto da ricercatore a Giambattista Scirè da parte dell'Università di Catania. Scirè, ora, è il portavoce di "Trasparenza e merito" e dice: "Le segnalazioni preventive rimbalzano sui muri di gomma dei rettorati italiani. L'unico modo per ottenere giustizia e provare a cambiare l'abito culturale dei nostri atenei è quello di far emergere pubblicamente i singoli casi e rivolgersi alle magistrature".

Concorsi truccati nelle università: ecco tutta la lista di quelle sott’inchiesta. Concorsopoli: ecco le inchieste in alcune università italiane che ignorano le sentenze, scrive I. M.V. Autore della news (Curata da Sergio Manzo) il maggio 2018 "it.blastingnews.com". La prima regola per fare carriera nell’Università italiana è avere la consapevolezza che non è il merito a orientare le scelte, ma la logica del “do ut des” e del “vile commercio dei posti’. Questo in un paese diverso dall’Italia probabilmente non sarebbe socialmente ed eticamente tollerato. Ma dato che il fenomeno “concorsopoli” è invece ben radicato nel Belpaese, non di rado capita di venir a conoscenza di casi di palese corporativismo dell’istituzione universitaria. In questo articolo proviamo a raccontare varie storie che confermano il dilagante fenomeno di concorsopoli e la crescita del contenzioso nelle università italiane. Da una parte dunque c’è chi decide di non ribellarsi e assecondare il sistema di corruzione e le consolidate pratiche di lottizzazione generalmente in corso nell’accademia italiana, dall’altra parte ci sono tutti coloro che si ribellano contro quella gestione scellerata e poco meritocratica dei concorsi negli atenei.

Molti i ricercatori, umanisti e medici che sono contro il sistema corporativismo dell’università italiana. Sebbene nella prassi i bandi sono spesso cuciti su misura e le cattedre sarebbero state “spartite” senza alcun rispetto delle procedure concorsuali, sono in costante crescita la inchieste penali aperte a seguito di denunce di chi non ci sta ad un sistema corrotto che offre corsie preferenziali solo agli interni. Molto spesso sono infatti i pupilli dei professori a conseguire i vari posti di professore ordinario o associato in assenza di una reale concorrenza. Nel bando vengono quindi richiesti dei requisiti troppo specifici che non tutti hanno e che mirano quindi ad inserire solo chi è raccomandato. Il paradosso è che, nonostante le denunce, i ricorsi e le sentenze dei Tar e dei Consigli di Stato che condannano molti atenei a rifare i concorsi, gli stessi disattendono il dispositivo. Tali università infatti, non solo non rifanno gli esami e non rinominano le commissioni incriminate, ma neanche riformulano la graduatoria finale.

I casi di Tor Vergata, Calabria, Firenze, Catania: testimonianza di una contestazione crescente. A Roma, il chirurgo Pierpaolo Sileri ha fatto denuncia per tentata corruzione nei confronti di Giuseppe Novelli, rettore dell’Università Tor Vergata. All’epoca dei fatti (febbraio 2015) fu bandito un concorso (non reso pubblico) per un posto da associato in Chirurgia che quindi era stato trasformato in una chiamata diretta. Il Consiglio di Stato, dopo una prima sentenza del TAR disattesa dal rettore, è intervenuto dichiarando che devono essere in grado di conoscere la procedura anche persone diverse da quelli individuati autonomamente dall’ateneo. Sta di fatto che il vecchio concorso è stato fermato, anche se il nuovo non è stato neppure calendarizzato. Ancora, sembra abbastanza Kafkiana la storia del concorso di Storia della Filosofia bandito dall’Università della Calabria in cui era stato riammesso un candidato che aveva presentato titoli falsi. L’Università ha ripubblicato la graduatoria retrocedendo al terzo posto la seconda in classifica e il candidato classificato al terzo è avanzato al secondo. Il vincitore contestato, è rimasto il vincitore, nonostante il Tar locale abbia annullato tale graduatoria ben tre volte.

A Catania invece, l’Università ha interpretato la sentenza del Consiglio di giustizia siciliano in modo piuttosto parziale: non ha assunto secondo la legge il reale vincitore Giambattista Scirè ricercatore di Storia contemporanea, né ha allontanato l’architetta inspiegabilmente premiata. Dopo 4 mesi di lezioni, Scirè è infatti stato liquidato.

Anche il Tar di Pescara è dovuto intervenire per porre fine ai numerosi rinvii dell’Università di Pescara e Chieti su un concorso in Medicina. La sentenza parlava chiaro: provvedere a formare una commissione diversa e provvedere al riesame dei titoli dei candidati. Il Tar ha altresì ordinato una nuova prova che l’università non ha mai espletato, violando il giudicato della prima sentenza.

Infine c’è l’università di Firenze (Dipartimento di Architettura) e il Consiglio nazionale delle ricerche finiti sulle prime pagine dei giornali per la manifesta illogicità e travisamento della valutazione dei titoli dii partecipanti al concorso. Le commissioni valutavano titoli non posseduti, ma solo autocertificati, assegnando altresì ad alcuni candidati vincitori punteggi ben sopra i limiti fissati.

Concorsi truccati, baroni tremate: il governo manda la “Iena”, scrive Ernesto Ciecaquaglia martedì 4 settembre 2018 su Secolo D’Italia. L’incredibile storia di Dino Giarrusso dalle “Iene” al governo. Il sottosegretario all’Istruzione Lorenzo Fioramonti lo ha infatti scelto come collaboratore per aiutarlo a scovare i concorsi truccati. Giarrusso è stato candidato con il M5S alle elezioni politiche, ma non ce l’ha fatta a diventare parlamentare. L’annuncio è arrivato direttamente dal profilo Facebook di Fioramonti e sta già suscitando varie polemiche. In un post il sottosegretario elenca comunque le competenze di Giarrusso: “Dino è laureato in Scienze della comunicazione e ha insegnato per vari anni all’Università di Catania, prima di diventare noto in tutto il Paese come giornalista investigativo per lo show televisivo Le Iene. Oltre che svolgere il ruolo di manager della comunicazione e mantenere i rapporti istituzionali tra il mio ufficio, il Parlamento e gli altri ministeri, Dino dirigerà il nostro osservatorio sui concorsi nell’università e negli enti di ricerca”. In sostanza dunque, Giarrusso dovrà dare la caccia ai concorsi truccati, come spiegato sempre dal sottosegretario all’Istruzione: “Da quando sono entrato in servizio, meno di due mesi fa, ho ricevuto oltre trenta segnalazioni di concorsi sospetti. Chi meglio di una ex Iena per farlo”.

Riuscirà la competenza da giornalista investigativo a contribuire alla fine di una delle peggiori forme di malcostume italiano? Noi ce lo auguriamo. Speriamo solo che il buon Giarrusso riesca ad aver ragione del peggiore del più duro dei poter: quello della burocrazia.

M5S, Giarrusso e il nuovo incarico a caccia di concorsi truccati: «Ma io con la tv guadagnavo di più», scrive Stefania Piras Mercoledì 5 Settembre 2018 si Il Messaggero.

Giarrusso porta fortuna non vincere le elezioni?

«Io ho rifiutato la candidatura, ho continuato a fare le Iene girando tre servizi mai andati in onda, poi c'è stato quell'ammiraglio che era incompatibile e quindi si è liberato un posto, mi sono candidato in un collegio tra l'altro impossibile dove abbiamo perso 39 a 18. Ho preso 37 mila voti ma non sono stato eletto. Tutto qui.»

E ora dopo non essere entrato in Parlamento, dopo aver fatto il capo comunicazione nella Regione Lazio per il M5S, ora un altro ruolo ancora. 

«Mi sono dimesso dalla Regione perché sono stato chiamato da Lorenzo Fioramonti a svolgere questo ruolo molto importante. Che è un ruolo previsto per legge. Ci ho pensato molto prima di decidere. Quello dell'Osservatorio sui concorsi e i baroni è uno dei ruoli che ho, sono segretario particolare, non è un ruolo per cui sono previsti concorsi ma fiduciario».

Ha letto i commenti che la chiamano "trombato riciclato"?

«Ci sono anche molti commenti positivi. Li legga

Buon lavoro, sono felicissima, buon lavoro, ecco guardi: pure Dino deve campare, ci voleva un magistrato...

«Pure questo è vero. Fa parte del gioco. Io sono stato docente a contratto a Catania, Wikipedia non lo dice. E poi da Iena mi sono occupato di concorsi truccati anche con minacce, ricercatori minacciati dai baroni. Vogliamo evitare la fuga di cervelli. Vogliamo che non ci sia il professore che dice ti faccio il concorso per te».

A lei però l'hanno chiamata dicendo che c'era un posto per lei.

«Per legge ogni sottosegretario si sceglie i suoi collaboratori, non serviva un concorso. Guardate che noi facciamo tutto in regola. Io ho lavorato tanto in televisione eppure non sono stato nominato nel cda Rai».

Le ha portato fortuna non vincere le elezioni però.

«Io non ero disoccupato, potevo continuare a fare tv, guadagnavo di più facendo Le Iene».

Nel Movimento una regola sacra è non abbandonare un ruolo per assumerne un altro.

«Questo vale per gli eletti, io non sono stato eletto».

Concorsi universitari, rettore La Sapienza: "Nomina Giarrusso? Serve gente competente", scrive il 5 settembre 2018 Tiscali. Fonte: Radio Capital. "Un'iniziativa fumosa. Per fare queste cose ci vuole gente competente", così il rettore dell’università La Sapienza Eugenio Gaudio, intervistato da radio Capital, sull'idea del sottosegretario all’Istruzione Lorenzo Fioramonti di ingaggiare l’ex iena Dino Giarrusso per scovare i concorsi truccati negli atenei. “Ci sono già il Tar e il consiglio di Stato”, ha detto Gaudio.

Ricercatrice a Copenaghen. “Quando hai 30 anni e sei costretto a fare l’expat, non puoi mettere radici”. Valentina Barletta, geofisica dell'Università Tecnica della Danimarca, ha iniziato il suo PhD nel 2004 all’Università di Milano. Poi, dopo una sentenza "ridicola" su un concorso truccato, ha capito che non sarebbe stato possibile realizzare i suoi sogni e se n'è andata. "Tornare in Italia? Mi vengono i brividi solo a pensarci", scrive Raffaele Nappi il 10 settembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “È da sciocchi non essere preparati agli eventi estremi causati dal cambiamento climatico. Eppure in Italia, uno dei Paesi più a rischio in Europa, il dibattito è praticamente scomparso”. Quando Valentina Barletta, geofisica dell’Università Tecnica della Danimarca, ha pubblicato i risultati del suo studio che potrebbe aiutare a prevenire o ritardare il crollo della calotta polare antartica occidentale all’interno della prestigiosa rivista Science sono stati in tanti i giornalisti a chiamarla. Americani, inglesi, olandesi, qualche tedesco. Nessun italiano. “L’Italia? Ci torno solo per le vacanze di Natale. Non di più”, racconta. Valentina ha iniziato il suo PhD nel 2004 all’Università di Milano. Ha capito che il suo futuro era all’estero in un momento preciso: quando i giudici del Tar hanno emesso una “sentenza ridicola contro noi ricercatori precari che protestavamo contro l’ennesimo concorso truccato. Lì ho perso definitivamente fiducia nelle istituzioni italiane”, ricorda. Dopo aver girato tanto per lavoro tra Stati Uniti ed Europa Valentina nel 2011 decide di trasferirsi in Danimarca accettando al Dtu Space, la Nasa danese, un posto a tempo determinato. “I danesi mi hanno accolto bene – racconta –. Qui non è facile, ma di certo è una passeggiata rispetto alla nostra vita precedente in Italia”. L’arrivo in ufficio con i mezzi pubblici, il mare, i colori della città, il verde. “La differenza principale è che qui respiro molto meglio e praticamente non soffro più d’asma – racconta Valentina –. Quando ho vissuto a Milano ho avuto la sensazione di essere in una città grigia e triste; qui invece è tutto colorato, pieno di parchi e bambini che giocano. Anche solo vederli ti solleva lo spirito”. Copenaghen è a misura d’uomo, “ci sono palazzi bassi e piccoli supermercati in ogni quartiere”. I mezzi pubblici funzionano bene, le piste ciclabili sono ovunque e il traffico è scarso (“ma non per i danesi!”). La priorità della gente, insomma, “non è guadagnare, ma vivere bene”. Del settore pubblico ci si può fidare, anche se a volte “i danesi sono pasticcioni”. In Italia, al contrario, “cresci con l’idea che chiunque è sempre pronto a fregarti, specialmente gli amministratori pubblici – continua Valentina – La sensazione è che da noi ci siano molti meno imbranati e molti più furbetti”. Costi? Mica poi tanto diversi. “È chiaro che se vieni in vacanza in Danimarca i prezzi si alzano tantissimo”. Ma viverci è un’altra cosa: “Qui come post doc si arriva a tremila euro netti al mese, l’affitto in centro costa meno di mille euro e potevo anche pagarmi il mutuo. A Milano potevo sperare in 1.300 euro, e con quelli non ci vivi. Quando in Italia con il mio contratto precario ho chiesto un mutuo in banca non mi hanno offerto nemmeno un caffè”. Guardare l’Italia dalla Danimarca a volte si rivela sconcertante. “Non sono più aggiornata sulla situazione accademica. Quando l’ho lasciata io il problema peggiore erano i baroni e tutti coloro che li difendono. Beh, se quelli ci sono ancora allora non c’è molto da discutere”. Il continuo movimento di cervelli è una risorsa, certo, “ma solo in fase di apprendimento – continua Valentina –. Quando raggiungi i 30 anni e sei costretto a muoverti continuamente all’estero non puoi mettere radici, avere una famiglia, come nel mio caso”. I giovani che hanno voglia di girare il mondo, insomma, “fanno benissimo a muoversi e a fare esperienze diverse: poi a un certo punto è meglio fermarsi, pensare a un futuro stabile. Ma questo per la maggior parte è impossibile”. La domanda più corretta sarebbe come fare per attirare talenti stranieri. “In primis imparare l’inglese – sorride Valentina –. Poi adeguare i servizi, aumentare salari e prospettive di carriera”. Eppure ci sono parecchi ricercatori e lavoratori italiani rispettati e stimati in Danimarca. Ma passa tutto sotto silenzio, “oscurati completamente dalla farsa politica italiana”. Valentina confessa di essersi via via disamorata del lavoro di ricercatore, se “in realtà deve passare il 90% del suo tempo a fare altro, tipo cercare fondi”. E la situazione della ricerca scientifica in Europa “non è rosea come potrebbe apparire”. Il futuro è al 90 % in Danimarca, con l’obiettivo di continuare il lavoro di ricerca. Per Valentina “di questi tempi, con l’aria di xenofobia che tira in tutta Europa essere emigrante è abbastanza snervante”, continua. “E sentire slogan del tipo ‘ci rubano il lavoro’ da parte dei miei connazionali fa davvero arrabbiare”. Dopo tutto quello che ha passato Valentina non vuole tornare a vivere in Italia, né a lavorare. “Solo a pensarci – conclude – mi vengono i brividi”.

Concorso universitario. Il premier Conte prima fa rinviare il concorso "ad hoc" ma dopo rinuncia, scrive l'11 settembre 2018 "Il Corriere del Giorno". L’esame orale per la cattedra di Diritto Privato alla Sapienza era previsto in giornata. Il premier aveva detto: “Il mio nuovo ruolo mi impone di riconsiderare la domanda” mentre in realtà aveva solo richiesto di posticipare la prova per impegni istituzionali.” I due altri candidati si riservano di valutare la legittimità della richiesta. Subito dopo arriva la decisione definitiva: “Nessun conflitto di interessi, lo faccio per sensibilità personale”. ROMA – Il quotidiano americano New York Times in riferimento alla partecipazione di Giuseppe Conte al concorso per diventare professore di diritto privato all’Università La Sapienza di Roma, con un suo titolo si era chiesto: ““Il primo ministro italiano sta cercando un lavoro di riserva?”. “Giuseppe Conte – scrive il NYT – trovandosi a ricoprire un incarico tradizionalmente precario, ha cercato di evitare di mettere tutte le sue uova in un paniere professionale perseguendo una posizione di riserva come insegnante in un’università di Roma. La svolta: il paniere in questione è il governo italiano. E Conte è il premier. “La notizia della scorsa settimana – prosegue l’autorevole quotidiano americano – che il signor Conte sta continuando a perseguire un lavoro di emergenza, nonostante sia diventato primo ministro della quarta economia d’Europa, non ha esattamente ispirato fiducia in un governo populista e anti-establishment che molti in Italia vedono come una grave minaccia per l’Unione europea. E il piano di riserva per un ritorno all’Università di Conte è solo l’ultimo episodio di alcune settimane scomode per la coalizione di governo”. Il New York Times fa riferimento al crollo del ponte Morandi di Genova il mese scorso che “ha rilevato una spaccatura ideologica nella coalizione tra la Lega, favorevole alla privatizzazione, e ilMovimento Cinque Stelle, che ha chiesto allo Stato di prendere possesso di importanti progetti infrastrutturali”. A seguire, il nuovo attacco hacker ai danni della piattaforma Rousseau del M5s, che ha sollevato ancora una volta forti criticità sulla sicurezza ed affidabilità di un portale utilizzato dal partito per i voti interni. E ciliegina sulla torta, la sentenza del tribunale di Genova “per congelare i fondi della Lega guidata da Matteo Salvini nell’ambito di un’inchiesta sulla corruzione. Una mossa che rappresenta una minaccia per il suo partito”. “Ma Conte, il premier che molti credono sia controllato da Salvini e da Di Maio, si è concentrato sulla costruzione di una carriera di altro tipo. Continuando a perseguire il lavoro alla Sapienza, programmato prima di diventare primo ministro, Conte ha attirato critiche da parte dell’opposizione e sostenitori del buon governo che hanno suggerito che stava violando le leggi”. Conte come risposta, continua il New York Times, ha citato “impegni istituzionali” che impediscono la sua partecipazione al test di inglese previsto per ieri. “Ed ha aggiunto che `come giurista´ non ha visto alcun conflitto di interessi, aggiungendo di aver trovato risibile l’idea che avrebbe dovuto sostenere un esame di inglese pur avendo condotto riunioni di alto livello, tra cui, “aver parlato con Trump”. L’esame il “professor” Conte di fatto lo aveva già superato, ma senza aver passato un concorso pubblico perché secondo “qualcuno” la cattedra di professore di diritto privato all’ Università La Sapienza gli spettava di diritto, in quanto era del suo mentore, Guido Alpa che va in pensione il prossimo 31 ottobre, che in una delle sue rare espressioni pubbliche ha definito Conte “uno studente eccezionale” ed “una persona molto per bene”. Era quindi normale che la cattedra sarebbe finita al premier, secondo quelle regola non “scritta” ma correnti nel baronificio universitario italiano, restando in aspettativa finché durava il suo mandato di premier, per poi riprendersela, com’è giusto che sia. Era stato organizzato tutto a buon fine. La domanda “di trasferimento” inviata prima di diventare premier, in febbraio. Ma qualcosa aveva interrotto il ruolino di marcia, allorquando Conte viene indicato premier, perché la cattedra vacante di Alpa viene messa a concorso. E così si è arrivati al mese di agosto. Un periodo perfetto per poter esaminare quattro candidati, tre professori oltre il premier. E quindi nessuno vede nulla, nessuno si pubblica nulla. La commissione esaminatrice si riunisce il primo agosto, e chiaramente nessuno trova alcunchè da eccepire di fronte al candidato Conte. I punteggi arrivano, ma di fatto non si vedranno mai sul sito della “Sapienza”. Il primo passo era stato compiuto. Arrivati ai primi di settembre, ai quattro candidati viene comunicata la data dell’esame di Legal English: ieri, il 10 settembre. Chiunque in totale buona fede non potrebbe mai immaginare un presidente del Consiglio che sostiene l’esame di un concorso pubblico scendendo in competizione con altri candidati “normali”. Tutto rimane sottotraccia, basta un po’ di “nebbia” estiva e qualche “no comment”. Era quasi fatta ma alla fine dell’estate, il percorso evidente studiato a tavolino si interrompe. Qualcuno protesta, un qualcuno che si è rotto di dover vedere i propri figli costretti a cercare carriera e successo lontano da un Paese che non apprezza e non riconosce il merito. Qualcuno che non vuole più subire e stare a testa in giù. E la storia diventa pubblica grazie alla rettitudine di una brava giornalista, Silvia Sciorilli Borrelli. Tutto il resto è ormai cronaca: il sito Politico Europe pubblica lo scoop del concorso segreto di Conte, ricostruisce i fatti spiegando il perché e il per come di un conflitto di interessi grosso come una casa, e prima di pubblicare ogni cosa, aspetta di ricevere chiarimenti, una smentita che però non arriveranno mai. In compenso arrivano due imbarazzanti “no comment”: uno da Palazzo Chigi e l’altro dall’ Università La Sapienza. La notizia come ben noto a tutti finisce in apertura delle prime pagine dei quotidiani. Il professor Conte prima stringe le spallucce, poi racconta dice che si era pure dimenticato. Alla fine sostiene che era un trasferimento che aveva chiesto, sì, perché aveva un bambino piccolo in un’altra città (quanti pendolari dalle famiglie divise conoscete?).  Quello che non ha mai confessato inizialmente è se abbia realmente rinunciato a concorrere per la cattedra del suo maestro Alpa, perché, non risultava arrivata alcuna Pec che confermasse che le intenzioni del premier siano quelle dette a parole. Ma nella serata di ieri è arrivato via Facebook l’atteso nuovo: “Rinuncio”. Precisa, per “sensibilità personale” sostenendo che avrebbe voluto partecipare questo concorso per dimostrare di non volere ricavare un vantaggio a vita da questo incarico di premier che secondo lui andrà avanti per 5 anni. Da Palazzo Chigi il tam-tam del “Grande Fratello grillino” (leggasi Casalino) lascia trapelare, ma mai ufficialmente che la decisione, non sarebbe stata adottata a seguito di presunte pressioni dai due vicepremier Di Maio e Salvini. Nel frattempo all’esame di inglese si sono presentati i due candidati rivali: il prof. Mauro Orlandi, allievo del professor Natalino Irti ed il prof. Giovanni Perlingeri, figlio del giurista Pietro. La commissione esaminatrice ha chiesto loro se volevano sostenere subito l’esame o posticiparlo insieme l’altro candidato (il prof. Conte, n.d.r.) che aveva chiesto lo spostamento dell’esame per “motivi istituzionali”. Tutto ciò in aperto palese conflitto con quanto dichiarato dallo stesso Conte ai microfoni di Repubblica: “Il mio nuovo ruolo mi impone di riconsiderare la domanda”. Gli altri due candidati in maniera molto signorie e corretta hanno deciso di rinviare l’esame aspettando la presenza premier, ma contestualmente hanno richiesto che venisse verbalizzata la possibilità di una valutazione di legittimità in merito alla richiesta rinvio della prova. In ogni caso è opportuno ricordare che l’incompatibilità si desume dall’art. 6.3 del Regolamento per la chiamata dei professori di I e II fascia dell’Università La Sapienza. Le situazioni di incompatibilità sono specificamente individuate dall’art. 13, comma 1, n. 2 d.p.r. 11 luglio 1980, n. 382, il quale prevede la “nomina alla carica di presidente del Consiglio dei ministri, di ministro o di sottosegretario di Stato. Ci sarebbe poi l’art. 97 della Costituzione, in particolare, per il principio di par condicio tra i concorrenti”. Sulla decisione finale del premier Conte “non farò il concorso” è bastato ricordare il passaggio presente nel Decreto del presidente della Repubblica (numero 382, 11 luglio 1980), risultato decisivo, che obbliga un professore all’aspettativa, niente lavoro né retribuzione, se nominato “alla carica di presidente del Consiglio”. Quindi vincere ipoteticamente un bando universitario e poi mettersi in aspettativa avrebbe offerto certamente una immagine poco edificante ed offerto delle armi giudiziarie in caso di un ricorso da parte degli sconfitti. La decisione finale del vincitore, al di là della prova orale, sarà affidata all’esame dei titoli presentati dalla commissione presieduta da un altro docente della Sapienza, Enrico Elio Del Prato. Il premier Giuseppe Conte, attualmente è professore ordinario di Diritto privato all’Università degli Studi di Firenze, e vanta ha un curriculum lungo. Va ricordato che la candidatura alla Presidenza del Consiglio della Giustizia amministrativa Conte presentò un documento di 28 pagine, all’interno del quale erano inserite esperienze alla New York University e in altri quattro atenei internazionali ritenute “gonfiate”. Attualmente non si sa, quale versione del suo curriculum il premier abbia consegnato per partecipare al concorso a cattedra alla Sapienza di Roma.

Concorso alla Sapienza, Politico.eu: “Conte ha rinviato l’esame di inglese”. Il premier non ha mai parlato di rinuncia. In molti, comprese alcune agenzie di stampa, erano convinti che il premier avesse deciso di rinunciare alla gara, ma il diretto interessato ha detto cose diverse. Da dove nasce questo cortocircuito? Dall'interpretazione sbagliata di una dichiarazione del presidente del Consiglio. La cui iniziativa, a leggere i regolamenti, non presenta criticità di forma. Resta però la questione di opportunità politica e istituzionale, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 10 settembre 2018. “Giuseppe Conte resta in corsa nonostante le critiche”. Con questo titolo il sito Politico.eu è ritornato sulla vicenda del concorso da professore di diritto privato alla Sapienza di Roma, a cui aveva deciso di partecipare il presidente del Consiglio italiano prima di ricevere l’incarico da premier. Secondo Politico.eu, la novità di oggi è che Conte ha chiesto di posticipare la sua prova di inglese perché impossibilito a partecipare per impegni istituzionali, confermando quindi la sua intenzione di prendere parte alla selezione. Molti, però, erano convinti che il premier avesse deciso di rinunciare al concorso. Da dove nasce questo cortocircuito? Dall’interpretazione sbagliata di una dichiarazione del diretto interessato. Ecco come sono andati i fatti. I progetti accademici del capo del governo erano stati resi noti sempre da Politico.eu il 6 settembre. Lo stesso giorno, durante la conferenza stampa di presentazione del Ddl Anticorruzione, Conte ha confermato la notizia e aggiunto tre particolari non di poco conto: a sua avviso non c’era alcuna incompatibilità; “per impegni istituzionali” non sarebbe stato presente al test di inglese in programma il 10 settembre (oggi, ndr); in virtù della sua “nuova vita”, avrebbe “riconsiderato questa posizione con molta attenzione”. In molti, agenzia Ansa compresa, hanno valutato e tradotto quel “riconsiderare” in un “rinunciare” al concorso. Eppure Conte non ha mai utilizzato la parola rinuncia. Così quando oggi (data fissata per il test di inglese) gli altri candidati si sono presentati all’esame di lingua e, come riportato sempre da Politico.eu, hanno appreso della richiesta del premier di rinviare la sua prova, chi ha creduto in una rinuncia ha accusato Conte di aver commesso una scorrettezza o, peggio, una furbata. Che non c’è stata perché il presidente del Consiglio non ha mai annunciato di voler rinunciare al concorso. Il primo agosto e il 4 settembre, del resto, il processo di selezione era andato avanti, con la giuria che ha valutato pubblicazioni e curriculum del professor Conte, la cui candidatura era e resta attuale. La giuria non ha finora sollevato problemi di incompatibilità, nonostante le regole in materia della Sapienza stessa, la legislazione del 2010 sulle università che prevede il divieto per i funzionari pubblici di avere incarichi in università pubbliche e uno statuto del 1980. Nella fattispecie, come riporta l’agenzia Ansa, se decide di non rinunciare il presidente del Consiglio Conte, in base alle norme che regolano i concorsi universitari, ha due opzioni per partecipare al bando per la cattedra di diritto privato. La prima è di un ulteriore allungamento dei tempi del concorso, che slitterebbe di circa due mesi rispetto al limite dei sei mesi previsti. La seconda è la revoca momentanea dell’aspettativa dall’università per permettergli di partecipare al bando. Secondo quanto prevede il regolamento che disciplina il reclutamento dei professori universitari, inoltre, le commissioni giudicatrici sono tenute a concludere i propri lavori entro sei mesi dalla data di pubblicazione del decreto di nomina. Per comprovati ed eccezionali motivi, il ministero dell’Istruzione può concedere per una sola volta una proroga del termine non superiore a due mesi. Nel caso in cui i lavori non siano conclusi entro quei termini, il ministero sostituisce la commissione assegnando un nuovo termine per la conclusione dei lavori non superiore a sei mesi. Nel caso in cui Conte vincesse il concorso potrebbe comunque mantenere la richiesta di aspettativa nei confronti dell’università e quindi ‘congelare’ la sua nuova cattedra fino a data da destinarsi. Secondo l’Ansa, inoltre, il regolamento non prevede casi di conflitto di interessi. Gli unici a poterlo segnalare potrebbero essere i commissari, ad esempio in caso di parentela con uno dei candidati o, eventualmente, gli altri partecipanti al concorso attraverso un ricorso. Se sul piano formale, quindi, la strada seguita da Conte sembra non presentare alcuna criticità, resta eccome la questione di opportunità politica e istituzionale di un premier che partecipa a un concorso pubblico mentre è in carica. Oggi, come detto, era in programma il test di inglese. Gli altri due candidati (gli studiosi Giovanni Perlingeri e Mauro Orlandi) si sono regolarmente presentati e a loro la commissione esaminatrice ha chiesto se volessero sostenere l’esame in giornata o se volessero farlo in futuro, insieme a Conte, che – come annunciato il 6 settembre – non poteva esserci per impegni istituzionali. Sia Perlingeri che Orlandi hanno deciso di aspettare il loro collega giurista, nel frattempo divenuto premier, ma sempre in corsa per il posto da ordinario in virtù di una domanda presentata quando ancora non era entrato in politica. Nella fattispecie, si tratta di una sorta di trasferimento da Firenze – dove è professore ordinario – a Roma, per riavvicinarsi al figlio. La notizia in questione non è mai stata commentata da La Sapienza. Dal Partito democratico, invece, sia il 6 settembre che oggi hanno duramente attaccato il capo del governo. “Doppia mandrakata di Conte: prima prova a fare un concorso in violazione della legge; poi annuncia di essersi ritirato. E invece no: Conte non ha rinunciato al concorso alla Sapienza, #bastafurbate” twitta il deputato Pd Andrea Romano. Il collega di partito Filippo Sensi, invece, si è chiesto: “Sul suo concorso universitario Giuseppe Conte aveva detto, in conferenza stampa a Palazzo Chigi, che la sua veste di Presidente del Consiglio gli imponeva di riconsiderare questa procedura in corso. Ora pare che non abbia riconsiderato abbastanza. Rinuncia al concorso o no?”. Chi non ha dubbi è Silvia Fregolent, sempre del Pd: “Conte non si è ritirato dal concorso per professore all’università La Sapienza perché sa che il suo governo durerà ancora per poco e sta già cercando una nuova occupazione. Le sue bugie sono la più efficace testimonianza dei fallimenti della maggioranza giallo-verde”. “Il premier Conte evidentemente è un mentitore seriale. Non è vero che si era ritirato dal concorso, ma ha solo spostato la data del test di inglese. È un palese, ripetuto, grave conflitto di interesse per un presidente del Consiglio, seppure solo formalmente in carica” ha scritto invece la senatrice Caterina Bini, componente dell’ufficio di presidenza del gruppo Pd al Senato. La deputata dem Alessia Morani, invece, ha presentato un’interrogazione al governo. Sulla questione ha detto la sua anche il vicepremier Luigi Di Maio: “Io ero in conferenza stampa con lui quando vi ha detto che avrebbe riconsiderato il suo impegno in vista dell’incarico da presidente del Consiglio – ha detto – un ruolo che sicuramente all’inizio di quest’anno era abbastanza inaspettato. Quindi va in linea con la sua riconsiderazione – ha concluso – poi ovviamente riconsiderare il suo impegno fa parte di decisioni che prenderà”. Tutta la vicenda del concorso è stata analizzata anche dal New York Times. Che in un titolo pone la seguente domanda: “Il primo ministro italiano sta cercando un lavoro di riserva?”. Nell’articolo si legge: “Giuseppe Conte, trovandosi a ricoprire un incarico tradizionalmente precario, ha cercato di evitare di mettere tutte le sue uova in un paniere professionale perseguendo una posizione di riserva come insegnante in un’università di Roma. La svolta: il paniere in questione è il governo italiano. E Conte è il premier”. “La notizia della scorsa settimana – prosegue il quotidiano – che il signor Conte sta continuando a perseguire un lavoro di emergenza, nonostante sia diventato primo ministro della quarta economia d’Europa, non ha esattamente ispirato fiducia in un governo populista e anti-establishment che molti in Italia vedono come una grave minaccia per l’Unione europea. E il piano di riserva per un ritorno all’Università di Conte è solo l’ultimo episodio di alcune settimane scomode per la coalizione di governo”. Il New York Times, quindi, fa riferimento al crollo del ponte Morandi, che “ha rilevato una spaccatura ideologica nella coalizione tra la Lega, favorevole alla privatizzazione, e il Movimento Cinque Stelle, che ha chiesto allo Stato di prendere possesso di importanti progetti infrastrutturali”. Quindi, il nuovo attacco hacker ai danni della piattaforma Rousseau dei M5s, che ha sollevato ancora una volta domande sulla sicurezza di un portale utilizzato dal partito per i voti interni. E infine, la sentenza del tribunale di Genova “per congelare i fondi della Lega guidata da Matteo Salvini nell’ambito di un’inchiesta sulla corruzione. Una mossa che rappresenta una minaccia per il suo partito”. “Ma Conte, il premier che molti credono sia controllato da Salvini e da Di Maio, si è concentrato sulla costruzione di una carriera di altro tipo. Continuando a perseguire il lavoro alla Sapienza, programmato prima di diventare primo ministro, – ha spiegato il Nyt – Conte ha attirato critiche da parte dell’opposizione e sostenitori del buon governo che hanno suggerito che stava violando le leggi”. Come risposta, ha continuato il quotidiano statunitense, Conte ha citato “impegni istituzionali” che impediscono la sua partecipazione al test di inglese previsto oggi. “E ha aggiunto che "come giurista" non ha visto alcun conflitto di interessi, aggiungendo di aver trovato risibile l’idea che avrebbe dovuto sostenere un esame di inglese pur avendo condotto riunioni di alto livello, tra cui, ‘aver parlato con Trump'”.

Il vero scandalo nel concorso universitario del prof. Conte. Oggi si ciancia di un “conflitto di interessi” nella domanda del premier al concorso alla Sapienza. Dove mai sarebbe il conflitto? Scrive Vincenzo Zeno-Zencovich il 7 Settembre 2018 su “Il Foglio”. Al direttore - Lo “scandalo” del giorno sarebbe che il prof. Giuseppe Conte, attuale presidente del Consiglio, ben prima delle elezioni del 4 marzo ha presentato la sua domanda in un concorso aperto per professore di Diritto privato alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma. Nella storia dell’Italia unita sono numerosi i professori universitari di diritto cui è stato affidato il compito di presidente del Consiglio: prima del fascismo spicca Vittorio Emanuele Orlando. Con la Repubblica Antonio Segni, Giovanni Leone, Aldo Moro, Giuliano Amato. Da sempre, e ancor più oggi, centinaia di professori di diritto prestano gratuitamente la loro expertise al governo, al Parlamento, alle istituzioni locali. Perché lo fanno? Perché ritengono che sia loro dovere civico, prescindendo del tutto da preferenze politiche. In passato personaggi che non hanno mai messo piede in una università e non hanno idea di come funzioni hanno contestato al prof. Conte i suoi documentati soggiorni di studio e ricerca alla Nyu, comuni peraltro a decine di altri giovani accademici. Oggi si ciancia di un “conflitto di interessi” nella domanda del prof. Conte al concorso alla Sapienza. Dove mai sarebbe il conflitto? Nel fatto che l’Università di Roma acquisisce uno studioso che è stato ai vertici dello stato? Ai miei occhi – e sulla base dei criteri fissati dalla legge (la quale chiede espressamente di indicare gli eventuali riconoscimenti ricevuti) – si tratta di un indiscutibile merito, come lo era in passato la circostanza che valorosi studiosi del diritto romano, parlamentari, siano stati chiamati sempre alla Sapienza. Forse il conflitto starebbe nel fatto che il presidente del Consiglio potrebbe influire sui colleghi componenti la commissione, in nessun modo legati da vincoli di gerarchia o di subordinazione (e adesso addirittura sotto il vigile controllo di una “iena”)? Non diciamo sciocchezze. In realtà lo scandalo che si agita è un ulteriore colpo al merito, quello vero, sostanziale. L’essere diventato presidente del Consiglio senza camarille o consorterie, diventa una sorta di Daspo dall’università, una università nella quale più sei grigio e nascosto meno gli invidiosi ti possono bersagliare. Con strampalate accuse, senza strumentali interferenze, si lasci lavorare con serenità la commissione nominata, che dovrà valutare i titoli e le pubblicazioni dei candidati. Si leggeranno i suoi giudizi e se qualcuno riterrà che sia stato leso l’interesse pubblico dell’istituzione o quello individuale esistono tutti gli strumenti amministrativi e giudiziari per porvi rimedio. Vincenzo Zeno-Zencovich è professore ordinario di diritto comparato e titolare degli insegnamenti di Sistemi giuridici comparati e di EU Transport Law all'Università di Roma Tre.

SE CONTE VUOLE FARE IL BARONE - ANCHE 'REPUBBLICA' SI ACCORGE CHE IL VERO PROBLEMA NEL PREMIER CHE PUNTA ALLA CATTEDRA DELLA SAPIENZA NON STA NELL'OPPORTUNITÀ POLITICA MA NELLA PALUDE UNIVERSITARIA: IL BANDO PER EREDITARE IL POSTO DEL SUO MAESTRO E SOCIO GUIDO ALPA È FATTO SU MISURA PER LUI, COME NELLA PEGGIORE TRADIZIONE ACCADEMICA ITALIANA. E CHISSÀ CHE CURRICULUM HA PRESENTATO A FEBBRAIO: QUELLO ZEPPO DI ESPERIENZE ''GONFIATE''?

Dalla commissione ai requisiti, il concorso costruito su misura per Conte. Il premier avrebbe ereditato la cattedra di Alpa, suo maestro. Il caso del curriculum gonfiato sull’inglese, scrive Corrado Zunino il 7 settembre 2018 per ''La Repubblica''. Il concorso Conte ha le stimmate del bando profilato, costruito su una persona. Il premier, si sa, quando era solo un professore si era candidato al "trasferimento" (parole sue) dall' Università di Firenze a quella, più prestigiosa, di Roma La Sapienza. Concorso in Diritto privato. Ha parlato del figlio piccolo cui voleva avvicinarsi, spiegando giovedì, solo in un secondo momento, che avrebbe rinunciato a presentarsi «per impegni istituzionali». Due ore prima, in verità, agli stretti collaboratori aveva riferito: «Io vado, la mia storia è quella di un docente». C' è chi gli ha spiegato, nel frattempo, la scarsa opportunità di partecipare alla prova iniziale d' inglese. «Era un'altra vita quella in cui mi sono candidato al posto alla Sapienza», ha detto ancora. Era lo scorso febbraio, già era stato avvicinato da Luigi Di Maio per una possibile candidatura di governo. Il premier non ha detto, però, che il professore ordinario che gli avrebbe dovuto lasciare il posto è stato suo maestro e poi collaboratore di studio. Il professor Guido Alpa, ordinario di Diritto privato alla Sapienza che abbandonerà la cattedra il prossimo 31 ottobre, nelle poche occasioni in cui si è pubblicamente espresso ha dichiarato: «Conte è uno studente eccezionale». Ieri, intervistato, ha insistito: «Fa male a ritirarsi, merita quel posto, è preparatissimo». Ha detto «merita quel posto», non «quella candidatura». Somiglia tanto a un'indicazione di successione. Solo che questa era un concorso pubblico, non una chiamata diretta. I rapporti tra lo studio Alpa e il professor Conte sono stati professionalmente fusi. Sul sito della Camera, al momento dell'insediamento alla carica di governo, si poteva leggere nel curriculum: «Giuseppe Conte, dal 2002, ha aperto con il professor avvocato Guida Alpa un nuovo studio legale dedicandosi al diritto civile, al diritto societario e fallimentare». Ancora, il professore pensionando, di fronte alle polemiche di fine maggio sul curriculum gonfiato del futuro presidente del Consiglio, ha sottoscritto una sentita lettera in sua difesa. Oggi il preside del Dipartimento di Giurisprudenza, professor Paolo Ridola (siamo sempre alla Sapienza), riferendosi a Giuseppe Conte parla apertamente di una facoltà, la sua, che vuole attrarre «persone di grande valore». Eccola pronta. Nella composizione della commissione giudicatrice, tre docenti di diritto, il Dipartimento ha scelto come presidente un interno, il professor Elio Del Prato, studio a Roma, da sempre vicino all' uscente - Alpa, appunto - e all' entrante più importante, il premier Conte. Nella giurisprudenza italiana ci sono due grandi scuole, che si riconoscono in altrettante associazioni. Alla Sapienza domina, ovviamente, quella legata al professor Alpa. Non è un caso che il caso lo abbiano sollevato i candidati della cordata che si è sentita esclusa, costringendo il premier ad abbandonare il campo. I bandi profilati - ad personam - sono una maledizione dell'università italiana, per il Paese. Nei primi sei mesi di attività l'Associazione Trasparenza e merito e l'Osservatorio indipendente sui concorsi hanno segnalato 86 bandi su misura. Lo stesso rettore della Sapienza, Eugenio Gaudio, in uno sforzo allestito per superare l'era Frati su cui si sono costruite le attuali rendite di posizione, ogni anno rimanda al mittente, le facoltà, diverse valutazioni sui candidati. La commissione del concorso Conte, nonostante l'evidente conflitto di interesse della candidatura vip, nelle sedute del 1° agosto e del 4 settembre scorsi non ha eccepito nulla. Un professore di Economia della Sapienza, Fabio Sabatini, ora scrive: «La nomina a premier ha posto il candidato Conte in una posizione di potere rispetto all' ateneo che ha bandito il concorso e ai commissari che avrebbero dovuto giudicarlo. Nessun commissario può giudicare serenamente un suo superiore». Il Dipartimento di Giurisprudenza ha deciso di sostituire un professore ordinario pensionando con un altro ordinario. Apparentemente un cambio naturale, in realtà rarissimo nell' università esangue di oggi. «In questi tempi di vacche magre un "Po" - professore ordinario - è una piccola fortuna per qualsiasi dipartimento», ancora il professor Sabatini. Infine, il curriculum. Nel 2013 Giuseppe Conte ha presentato 28 pagine per candidarsi alla presidenza del Consiglio della giustizia amministrativa. Nel maggio 2018 si è scoperto che in almeno quattro esperienze accademiche c' era stata un'esagerazione: un curriculum gonfiato. Sarebbe interessante sapere se per il concorso di Diritto privato Conte abbia consegnato quel curriculum. Poiché l'assegnazione di una cattedra avviene per titoli, quattro titoli gonfiati avrebbero potuto falsare la gara.

Esclusivo: dietro il concorso di Conte un arbitrato milionario e baronie universitarie. «Non era un bando su misura per me», aveva detto il premier dopo lo scandalo della selezione alla Sapienza. Ma L’Espresso ha scoperto che il professore che lo avrebbe esaminato lo stimava già da tempo. Al punto da nominarlo presidente di un arbitrato da 27 milioni di euro. In pieno conflitto di interesse, scrivono Emiliano Fittipaldi e Federico Marconi il 21 settembre 2018 su "L'Espresso". Due settimane fa il premier Giuseppe Conte (dopo che alcuni media internazionali hanno rilanciato l’inchiesta dell’Espresso  che lo scorso giugno svelò tutti i dettagli del concorso universitario a cui il presidente del Consiglio stava partecipando) è stato costretto a una repentina marcia indietro, abbandonando la corsa alla cattedra della Sapienza che fu del suo maestro Guido Alpa. Ora l'Espresso, in edicola da domenica 23 settembre, ha scoperto – analizzando report economici, documenti interni all'ateneo e intervistando membri della commissione giudicante dell'ateneo romano – nuove incompatibilità ed evidenti conflitti di interessi nella genesi del concorso, nella composizione della commissione giudicante, nei profili dei professori che avrebbero dovuto valutare i titoli di Conte. Il presidente della commissione, indicato il 13 marzo 2018 dall'ateneo a pochi giorni dalla chiusura del bando, è infatti il professor Enrico Del Prato, direttore del dipartimento di Scienze giuridiche che ha bandito il concorso. Del Prato è arrivato alla Sapienza nel 2013 dall'università di Macerata. Vincendo una selezione anche grazie al giudizio entusiasta di un collegio presieduto proprio da Alpa, maestro e collaboratore di Conte. Ma Del Prato a giugno del 2017 - prima del bando romano - aveva pure indicato Conte come presidente di un arbitrato milionario alla Camera arbitrale di Milano, nel quale lo stesso Del Prato era arbitro di parte. Si tratta della delicata causa internazionale tra la Sogered, una società dell’Arabia Saudita, e la nostra Leonardo-Finmeccanica, il cui arbitro di parte è invece l’avvocato Giorgio De Nova. Valore della lite: 27 milioni di euro complessivi, di cui 18 milioni pretesi dagli arabi e nove richiesti da Leonardo con una contro-domanda. L'arbitrato inizia nella primavera dell'anno scorso. A fine giugno del 2017 i due co-arbitri indicati dalle due società contendenti devono indicare un presidente del collegio. E decidono di scegliere l’avvocato Conte. Un incarico che il professore mantiene per quasi un anno. Anche dopo la sua decisione di partecipare al concorso della Sapienza. Anche dopo il 13 marzo 2018, quando il suo co-arbitro Del Prato viene indicato dall’ateneo romano come presidente della commissione d’esame che avrebbe giudicato i suoi titoli nei mesi successivi. Durante la procedura concorsuale, dunque, si verifica il rischio di una doppi incompatibilità: quella di Del Prato futuro “giudice” di Conte e quella di Conte, diventato ago della bilancia di una lite milionaria proprio per volontà di Del Prato. Per mesi nessuno dei due fa un passo indietro. Conte lascerà l’arbitrato solo il 25 maggio, spiegando in una lettera (come ci ha confermato De Nova) di declinare l’incarico nell’arbitrato solo a seguito della chiamata di Sergio Mattarella. Del Prato spiega oggi che non esisteva alcuna questione di incompatibilità tra concorso e arbitrato. «Non faremmo mai scorrettezze. Tutti noi teniamo alla nostra buona fama» si giustifica. «Inoltre – a parte le “voci” lette sul pezzo dell'Espresso - ho conosciuto ufficialmente i nomi dei candidati al concorso solo il primo agosto, come prevede il regolamento dell’ateneo. Conte non mi aveva mai detto che aveva partecipato al bando. Nemmeno durante le udienze dell'arbitrato avute ad aprile». Oggi la lite è ancora pendente e ha un nuovo presidente, l’avvocato francese Alexis Mourre. Se Conte non si fosse dimesso per l’incarico avuto da Mattarella, avrebbe guadagnato, grazie all’indicazione di Del Prato e De Nova, un bel gruzzoletto. «Non esageriamo con le cifre però» dice ancora Del Prato. «Sono tariffe prestabilite dalla Camera arbitrale di Milano: credo che alla fine, per un arbitrato di questa entità, non si arriverà a più di 200-300 mila euro, da dividere per tutti e tre gli arbitri. Io per me ho indicato, nella richiesta di autorizzazione che ho mandato alla Sapienza, un compenso ipotetico di 80 mila euro». Altro mistero: come poteva Del Prato, che come direttore del dipartimento di scienze giuridiche ha l’obbligo del “tempo pieno”, essere arbitro di una lite milionaria? La legge Gelmini prevede infatti che gli avvocati che puntano sulla carriera universitaria non possano esercitare la professione, mentre all'Espresso risulta che il professore Del Prato abbia fatto altri arbitrati e più di un parere. E che esista, in viale Bruno Buozzi a Roma, uno “studio Del Prato” a lui riconducibile. Il docente spiega così la sua posizione. «Io prima facevo l’avvocato in proprio, e non avevo mai avuto uno studio associato. Quando i miei colleghi della Sapienza mi hanno sollecitato a fare direttore dipartimento a tempo pieno, io ho detto di sì. Ma volevo evitare di disperdere la mia clientela. Così, dopo averne parlato con il rettore e gli uffici preposti dell’ateneo e aver studiato la legge Gelmini che permette attività di consulenza, ho deciso di costituire un nuovo studio associato fatto su misura per le mie esigenze. Nel quale io non potessi fare attività professionale o prendere incarichi, ma seguire le attività consentitemi dalla Gelmini». Del Prato ammette che tutta l’operazione fu «prospettata all’ateneo, che mi autorizzò». Il direttore del dipartimento, alla fine della fiera, è così diventato consulente dello stesso studio di cui lui è associato principale, tanto da portare il suo nome nel marchio. «È tutto regolare», conclude.

La rete di Giuseppe Conte: dall'incontro con Matteo Renzi alle amicizie in Forza Italia. Grand commis di Stato. Cardinali. Giuristi. Il "premier sconosciuto" in realtà ha molti legami trasversali, scrive Emiliano Fittipaldi il 18 giugno 2018 su "L'Espresso". Il presidente esecutore. Il premier fantasma. L’uomo invisibile. Un vaso di coccio. Pinocchio tra il Gatto Di Maio e la Volpe Salvini. Il primo presidente del Consiglio di cui non si conosce un’idea: Giuseppe Conte, il nuovo capo del governo italiano, è stato accolto come un oggetto misterioso da quasi tutti gli addetti ai lavori, che da qualche settimana stanno cercando di riempire i vestiti sartoriali del professore di contenuto politico e umano. Un compito difficile, perché è la prima volta nella storia della Repubblica che il Parlamento ha dato fiducia a un premier di cui non sapeva praticamente nulla. Issare l’inesperto Conte a Palazzo Chigi è certamente uno dei principali esperimenti del laboratorio politico grillo-leghista che sta forgiando gli inizi della Terza Repubblica. Per i più critici «l’avvocato del popolo» (claim inventato dalla macchina della comunicazione pentastellata guidata da Rocco Casalino) è solo un grigio notaio che dovrà attuare un contratto di governo stilato e firmato dai vicepresidenti del Consiglio che lo affiancavano come due badanti durante il discorso programmatico di martedì scorso, dall’opposta prospettiva il professor Conte viene invece descritto come la perfetta incarnazione del sogno americano in salsa grillina. Un premier che viene dalla Puglia, figlio di una famiglia semplice del Sud che grazie alla tenacia, alle capacità individuali e a una ferrea ambizione è riuscito a 54 anni a scalare tutta la piramide sociale, fino a sedersi sulla poltrona più importante della nazione. Come dicono alla Casaleggio, «un self made man che incarna tutti i valori del M5S», e che ha scritto da solo la sceneggiatura della sua vita. «Più che un film sembra un miracolo», ripetono oggi parenti e conoscenti, ancora attoniti nel vedere in televisione l’amico che ha passato le ultime vacanze di Natale nella casetta di mamma a San Giovanni Rotondo discutere i destini del mondo al G7, assiso insieme al presidente americano Trump, il francese Macron e la grande nemica dei populisti italiani, Angela Merkel. Il miracolo, in realtà, inizia quattro anni fa, quando Alfonso Bonafede, nuovo ministro della Giustizia e uomo ombra di Luigi Di Maio, s’innamora del cattedratico, che ha conosciuto come studente alla facoltà di giurisprudenza di Firenze. È lui a chiedere a Conte nel settembre del 2013 di entrare come componente laico nel Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa in quota M5S. «Non sono dei vostri, il mio cuore batte a sinistra», avrebbe chiarito il professore, che alla fine però accetta la corte e il posto da vicepresidente. Conte è così ambizioso («forse troppo», ha confessato il padre al Tg2) che, mentre flirta con i grillini, fa amicizia anche con pezzi del Pd. Mira in alto, come ha fatto fin da quand’era piccolo, e punta al Giglio magico di Renzi. Il primo link, spiega qualche buona fonte fiorentina, ha le sembianze di Francesca Degl’Innocenti, avvocato che ha insegnato Diritto civile con Conte alla Scuola di specializzazione per le professioni legali, e che risulta collaborare con lo studio Tombari: quello in cui lavorava Maria Elena Boschi. Il nuovo premier non solo allaccia rapporti con la ministra delle Riforme, ma riesce a conoscere anche Matteo Renzi in persona. L’incontro è avvenuto qualche tempo fa, in forma privata. Se qualcuno sorride affermando che Conte si offrì anche ai renziani, va però ricordato che lo stesso neopremier bocciò la candidatura della “vigilessa” Antonella Manzione, fedelissima di Matteo, a una poltrona al Consiglio di Stato per “mancanza di requisiti”. Le simpatie piddine, comunque, erano note in parte anche a Di Maio, tanto che nel M5S qualcuno racconta che il leader di Pomigliano d’Arco lo inserì nella lista dei possibili ministri grillini (Conte era stato designato alla Pubblica amministrazione) anche come eventuale pontiere di un’alleanza post voto con i dem. Sappiamo che quel ponte è crollato subito. Per provare a spiegare la genesi dell’incredibile scalata a Palazzo Chigi bisogna dunque percorrere altre strade. Quando a inizio maggio è ormai chiaro che Di Maio e Salvini, a causa dei veti incrociati, devono obbligatoriamente individuare un terzo nome per il premier, gradito ad entrambi ma appartenente all’entourage del partito più votato, Di Maio, Grillo e i maggiorenti della Casaleggio (su tutti Davide, Casalino e Pietro Dettori) individuano in lui il profilo migliore. Un avvocato ambizioso ma pacato, un tecnico con un viso pulito, sufficientemente incolore per non offuscare il leader politico. Dopo il sì di Salvini, propongono (ufficiosamente) il nome di Giuseppe Conte a Mattarella e al suo principale consigliere Ugo Zampetti. I due, che preferiscono un premier politico e di spessore, non l’hanno mai sentito in vita loro. Chiedono così informazioni ai loro fedelissimi. In primis al presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno, legatissimo al presidente della Repubblica, che negli ultimi quattro anni ha visto Conte all’opera tra i corridoi di Palazzo Spada; poi al gruppo di professionisti e grand commis di Stato capeggiato da Giulio Napolitano, figlio del presidente emerito Giorgio, e dall’avvocato Andrea Zoppini, entrambi grandi amici del figlio di Mattarella, Bernardo Giorgio. I primi feedback sono positivi, così a Conte - seppur privo di qualsiasi esperienza amministrativa - viene dato l’ok. Il suo profilo viene preferito ad altri più prestigiosi (come quello dell’economista Giulio Sapelli) ipotizzati da Di Maio e Salvini: la speranza del Quirinale è che un premier alle prime armi e politicamente debole possa accettare qualche consiglio sugli alti burocrati da piazzare nei gabinetti, nelle segreterie di Palazzo Chigi e di altri ministeri. Non è detto che Conte colga i suggerimenti. Nessuno, in fondo, conosce davvero la sua indole, ne sa quale potrà essere il suo livello di autonomia rispetto ai diktat dei due firmatari del contratto di governo.

Analizzando la sua biografia, parlando con civilisti e amici, l’enigma Conte può essere almeno in parte sciolto. Perché il presidente ha un passato interessante, e una rete relazionale sotterranea e trasversale. Con contatti nel Pd e qualcuno persino dentro Forza Italia. Conte, soprattutto, ha un “maestro” a cui deve moltissimo e su cui fa ancora affidamento per suggerimenti di ogni tipo, il professor Guido Alpa, e cura una carriera accademica a cui tiene forse più di ogni cosa: L’Espresso ha scoperto che ha fatto da poco domanda per un concorso “ex articolo 18” per essere chiamato alla Sapienza, e che all’ateneo qualcuno dei suoi concorrenti parla già - nel caso dovesse vincere proprio lui - di lampante conflitto d’interessi. Conte è nato a Volturara Appula, un paese di 416 anime in provincia di Foggia. I genitori, fedeli di Padre Pio, appartengono alla piccola borghesia impiegatizia del Sud: il padre Nicola è stato impiegato del minuscolo Comune per anni, la madre Lillina faceva la maestra elementare. Dopo pochi anni passati a Volturara, la famigliola si sposta a San Giovanni Rotondo. Giuseppe, ragazzo riservato e sgobbone, finisce le medie e il liceo classico con il massimo dei voti. È il 1982. Conte vuole laurearsi in legge e si trasferisce a Roma, alla Sapienza. I soldi della famiglia non bastano a vivere nella Capitale, così nel 1983 il neopremier partecipa al concorso del Collegio universitario “Villa Nazareth”, un ente ecclesiastico che accoglie gratuitamente nelle camerate gli studenti che hanno curriculum scolastici eccellenti e provenienti, spiegano dalla Santa Sede «da famiglie che, per condizione socio-economica o culturale, non siano in grado di sostenerli negli studi: è dal 1946 che al Nazareth aiutano i talenti a sbocciare». Anche se Conte non viene ufficialmente ammesso, al Nazareth diventa di casa. Nei giorni scorsi i giornali avevano raccontato delle entrature vaticane del presidente del Consiglio: se l’appartenenza all’Opus Dei è una bufala, il rapporto con il cardinale Achille Silvestrini è invece forte e radicato. La porpora, 95 anni a ottobre, è infatti dal 1986 il capo della fondazione che controlla Villa Nazareth: i rapporti cordiali con il giovane Conte iniziano allora, e nel corso del tempo si intensificano, fino a diventare strettissimi. Anche dopo la laurea il futuro premier continua a collaborare come volontario con l’istituto ecclesiastico. Diventa una sorta di consigliere giuridico di Silvestrini, e dal 1992 aiuta l’ente agevolando gli interscambi culturali tra i nuovi ospiti del collegio e alcune facoltà straniere. È Silvestrini, dunque, a nominarlo nel cda del trust intitolato al Cardinal Domenico Tardini (il fondatore del Nazareth) con sede a Pittsburgh, ed è sempre al Nazareth che Conte conosce l’attuale segretario di Stato Pietro Parolin. «In effetti si sono incontrati quando Sua Eminenza è stato direttore della scuola, alla fine degli anni Novanta. Al tempo si sono incrociati qualche volta, ma non si vedono da vent’anni», dicono Oltretevere. Di altri rapporti con le sfere ecclesiastiche non esistono evidenze. Con la laurea in tasca, Conte comincia a cercare lavoro. Sia nell’università sia negli studi legali della Capitale. Inizialmente i suoi referenti sono il relatore della sua tesi Giovan Battista Ferri, ordinario di diritto privato di cui diventa assistente, e l’avvocato Renato Scognamiglio, un pezzo da novanta che ha lavorato anche all’Iri, al ministero del Tesoro e all’Acquedotto pugliese. «Fino al 1998 Conte aveva questi due riferimenti. Nello studio di Scognamiglio gli avevano dato una stanza minuscola, strapiena di fascicoli: quando entravi a Giuseppe nemmeno riuscivi a vedergli il ciuffo. Lavorava dalla mattina alla sera, ogni tanto si concedeva una partita di calcetto in un circolo sul Tevere. Pensavamo tutti che sarebbe andato all’Università di Sassari, dove teneva lezioni, ma alla fine fece il concorso di ricercatore anche a Firenze, lo vinse e decise di andare in Toscana. Era il 1998. Da allora i rapporti con Ferri e Scognamiglio si sono via via diradati, e la sua guida è diventata Guido Alpa», ricorda chi lo conosce da sempre. Il professore ordinario, 70 anni, è la figura chiave della rete di relazioni del nuovo presidente del Consiglio. Genovese doc, “maestro” di una prestigiosa scuola giuridica, allievo di Stefano Rodotà, presidente per lustri del potente Consiglio nazionale forense, una lista di incarichi sterminati (l’ultimo è quello avuto nel 2014, quando è diventato membro del board di Leonardo-Finmeccanica anche grazie alla segnalazione, raccontano le cronache, dell’amico Denis Verdini), anche Alpa è uno che si è fatto da solo. È figlio di un ferroviere e nel giovane Conte il maestro, che non ha mai avuto figli, rivede se stesso. I due diventano inseparabili, e iniziano a lavorare insieme: prima al Cnr (nel 1999 il trentacinquenne Giuseppe cura parte di un progetto diretto da Alpa; in quell’anno il futuro premier riesce anche a comprare una bella casa a via Giulia da 450 milioni di lire, quella ipotecata da Equitalia nel 2009 per 52 mila euro di tasse non pagate), poi nell’avviatissimo studio del luminare, di cui Conte dal 2002 diventa il collaboratore preferito. A quarant’anni la sua carriera spicca il volo. Dinamico e intraprendente, stimato dalla categoria dei civilisti come un «buon giurista» (tra i tanti colleghi avvocati ed esperti di diritto intervistati da L’Espresso nemmeno i più sfavorevoli hanno usato parole negative su questo argomento), il neopremier diventa professore associato a Firenze nel 2001 (verrà chiamato come ordinario nel 2012) e comincia ad accumulare incarichi accademici importanti, spesso in progetti coordinati da Alpa in prima persona. Il mentore, che ancora oggi lo consiglia, è un appassionato lettore di Dostoevskij, non a caso citato da Conte nel suo primo discorso alle Camere. Dandy fissato con la moda inglese e le camicie su misura, appassionato di auto d’epoca (una Jaguar, pagata pochi soldi, è spesso in garage perché sempre rotta) e di vecchi orologi a corda di valore modesto, Conte viene chiamato nel Comitato scientifico della Scuola superiore dell’avvocatura del Consiglio nazionale forense (presieduto dal solito Alpa), poi alla Luiss e da Confindustria come membro della commissione Cultura. La partecipazione a conferenze e convegni è assidua, e la produzione di saggi e pubblicazioni a getto continuo. Proprio per aver voluto elencarli tutti Conte ha scritto il curriculum monstre da 12 pagine, che passerà alla storia, più che per i ritocchini e gli abbellimenti, come esempio plastico di chi venuto dalla provincia profonda vuole dimostrare al mondo - e, paradossalmente, all’establishment che i grillini aborrono - di avercela fatta davvero. Un curriculum che presto sarà letto con attenzione anche dai tre membri della commissione del dipartimento di scienze giuridiche della Sapienza, che presto dovrà sancire il vincitore della procedura selettiva voluta dall’ateneo romano per un posto da ordinario di diritto privato e civile. Il neopremier ha presentato domanda a fine 2017 (insieme a competitor di peso come il giovane ordinario Giovanni Perlingeri, figlio del giurista Pietro, e a Mauro Orlandi, considerato tra i migliori allievi di Natalino Irti, altro mammasantissima del diritto italiano) e risulta ancora tra i candidati. La cattedra è ambitissima, per un altro anno sarà ancora in mano al pensionando Alpa, ma per Conte metterci i gomiti sopra rappresenterebbe il coronamento della cavalcata accademica. Il rischio, ora, è che il sogno possa sfumare a causa della nuova avventura politica. Se la Sapienza scegliesse proprio lui, i rischi sono due: le polemiche sul possibile conflitto di interessi, definito dal professore «un tarlo che mina il nostro sistema economico-sociale fin nelle sue radici... noi rafforzeremo la normativa attuale in modo da estendere le ipotesi di conflitto fino a ricomprendervi qualsiasi utilità, anche indiretta»; e il fatto che Conte dovrebbe mettersi subito in aspettativa. I gravosi impegni didattici richiesti dalla procedura di chiamata non sarebbero certo compatibili con quelli istituzionali.

Compulsando amici e colleghi, incrociando vecchi arbitrati e incarichi pubblici, si scoprono altri dettagli della vita privata e della rete relazionale del premier misterioso. Se è noto che è stato sposato con Valentina Fico, avvocato di Stato con cui ha avuto un figlio che ha oggi dieci anni («è legatissimo a lui, una volta lo portò pure a una cena annuale dei civilisti, cosa rara a un evento tanto formale», racconta chi era presente), se è un fatto che non esce quasi mai dalla sua casa di 80 metri quadri al centro di Roma se non per andare nello studio Alpa in piazza Cairoli o nel pied-à-terre di Firenze, in pochi sanno che Giuseppe è stato padrino di battesimo del figlio di Stanislao Chimenti. Chimenti è un avvocato molto affermato, partner di Delfino e Associati, e grande collezionatore di incarichi pubblici: oltre ad essere stato ex commissario straordinario della Tirrenia e della Siremar, fu al timone anche del fallimento Ittierre, la grande azienda tessile molisana che ha guidato fino al 2015. Quest’ultimo mandato è stato foriero di molte amarezze: Chimenti è stato infatti rinviato a giudizio a gennaio del 2016 perché accusato di aver affidato all’avvocato Donato Bruno (onorevole di Forza Italia scomparso tre anni fa, vicinissimo a Cesare Previti e a Berlusconi) consulenze per ben 3,7 milioni di euro, talvolta secondo l’accusa «superiori ai massimi tariffari». Il problema principale, però, è la presunta presenza di un interesse privato tra i due: i pm scrivono infatti che «con Donato Bruno Chimenti coltivava da anni rapporti di collaborazione professionale, in forza dei quali usufruiva gratuitamente» degli uffici e dei servizi «dello studio Bruno», oltre a percepire «periodicamente compensi dallo stesso studio». Ora, risulta a L’Espresso che Conte e Chimenti avrebbero legato proprio tramite l’avvocato forzista morto nel 2015: il neopremier ha in effetti bazzicato lo studio di Bruno quando quest’ultimo collaborava con quello di Alpa. Ma c’è un altro esponente di Forza Italia che può vantare un’amicizia di lunga data con Conte: si tratta di Maurizio D’Ettore, un ex socialista originario di Locri diventato, come il premier, ordinario di diritto privato a Firenze, che da qualche anno si è buttato tra le fila dei berluscones diventando coordinatore provinciale di Arezzo del partito. Se il professore pentastellato non ha mai preso un voto, alle ultime elezioni il collega è stato invece eletto alla Camera in pompa magna. I bene informati dicono che sia stato proprio D’Ettore a rassicurare il suo capo Berlusconi sulle capacità (e sulla moderazione) di Conte. Non ci sono controprove, ma un fatto è certo: il grillino e il berlusconiano vantano un rapporto d’amicizia decennale, e forse non sarà facile per D’Ettore fare opposizione dura e pura a chi stima da sempre. Altra vecchia conoscenza di Conte è il consigliere di Cassazione Fabrizio Di Marzio, che con il presidente del Consiglio dirige la rivista online “Giustizia Civile” (dove Alpa ha firmato molti articoli) e che siede dal 2016 nella delicata Commissione di garanzia per il controllo dei rendiconti dei partiti politici del Parlamento. Qualche giorno fa in un editoriale sul sito della rivista Di Marzio ha omaggiato il presidente del Consiglio con parole definitive («sono davvero contento, Giuseppe è una persona seria e perbene, questa scelta merita la fiducia di tutti»), e forse ora Pd, Forza Italia e gli altri partiti di opposizione (i cui conti Di Marzio deve radiografare annualmente) potrebbero sollevare contro di lui il tema, così caro al M5S e allo stesso premier, del conflitto di interessi. La ragnatela di Conte comprende anche Ugo Grassi, professore all’Università Parthenope di Napoli e neosenatore grillino («Quello di Sergio Mattarella è un attentato alla Costituzione. Dirò di più, è anche una forma di alto tradimento... Io non sono un costituzionalista, sono un collega di Conte, ma sto studiando il merito della questione», annunciò Grassi qualche ora prima della giravolta del suo capo Di Maio), e Giovanni Bruno, altro docente di diritto privato con cui il premier si è conosciuto alla Fondazione Tardini del cardinale Silvestrini, e con cui ha codifeso Francesco Bellavista Caltagirone in un difficile contenzioso con il Comune di Imperia per la vicenda del porto. Se con Chimenti, Bruno, Di Marzio e D’Ettore i rapporti sono ottimi, il suo amico più intimo, oltre ad Alpa, è Luca Di Donna. Anche lui giovane allievo del maestro, è riuscito a entrare alla Sapienza come ricercatore a soli 29 anni (il presidente della procedura comparativa era Stefano Rodotà). Di Donna due settimane fa è stato tra gli animatori di un appello pubblico in difesa di Giuseppe, massacrato - si legge - come «una vittima sacrificale» per la vicenda del curriculum da «un giornalismo che per la propria sopravvivenza è alla spasmodica ricerca di scoop». Il primo firmatario della lettera era Alpa, e oltre a quelli di Di Donna in calce si trovano altri nomi della rete di Conte: come i professori Raffaele Di Raimo e Claudio Rossano, e come Francesco Capriglione, esperto di arbitrati bancari ed ex potente condirettore centrale addetto alle consulenze legali della Banca d’Italia. Anche il premier ha ottenuto più di una consulenza da Via Nazionale: nel 2012 è stato infatti nominato tra i componenti del Collegio di Napoli dell’Abf (Arbitro bancario finanziario), l’ente che deve risolvere le controversie tra istituti e correntisti italiani. «Per fare quei lodi bisogna eccellere nell’arte della mediazione, e Giuseppe è uno dei più bravi in assoluto. Capriglione è un grande amico di Alpa, ma stima Conte innanzitutto perché è uno capace di suo», chiosa chi al premier vuole bene. Vedremo solo nei prossimi mesi se il premier marziano è stato assunto da Di Maio e Salvini solo per conciliare possibili crisi politiche tra i due leader, o se al contrario riuscirà a imporsi dimostrando autonomia di azione e di pensiero. Valori che la Costituzione italiana pretende da chi siede sulla poltrona più importante della presidenza del Consiglio.

Giuseppe Conte giudice del concorso all'università. E la sua allieva lo vince. Il presidente del Consiglio, insieme al suo maestro Guido Alpa, è stato commissario per l'assegnazione di una cattedra. Che è andata a una collaboratrice di lungo corso dei due. Un caso imbarazzante per l'esecutivo che dice di voler combattere nepotismo e autoreferenzialità negli atenei, scrivono Vittorio Malagutti ed Andrea Palladino il 12 luglio 2018 su "L'Espresso". Lorenzo Fioramonti ha preso il problema di petto. Appena insediato al ministero, il nuovo sottosegretario all’Istruzione ha promesso di combattere «la tradizione di autoreferenzialità, e in alcuni casi di vero e proprio nepotismo», dell’università italiana. Parole forti, pronunciate in un’intervista pubblicata online da L’Espresso il 22 giugno. L’economista eletto deputato con i Cinque Stelle probabilmente sa già come vanno le cose dalle nostre parti, visto che ha lasciato l’Italia per trovare una cattedra a Pretoria, in Sudafrica. Se però gli servisse un racconto in presa diretta dei meccanismi di selezione nel mondo accademico, Fioramonti dispone di un esperto a portata di mano. Si chiama Giuseppe Conte. Proprio lui, il presidente del Consiglio, avvocato con una brillante carriera universitaria alle spalle. Conte, ordinario di diritto privato a Firenze, ha partecipato a diversi concorsi, prima come candidato e poi, più di recente, è stato chiamato a selezionare gli aspiranti docenti in alcune facoltà giuridiche sparse per l’Italia. Sulla base di documenti ufficiali, L’Espresso ha ricostruito una vicenda che chiama in causa il capo del governo e il suo maestro Guido Alpa, luminare del diritto con cattedra alla Sapienza di Roma. Nel 2002, proprio Alpa presiedeva la commissione che ha promosso Conte nel concorso per professore ordinario bandito dall’università Vanvitelli di Napoli. In quello stesso anno, come si legge nel suo sterminato curriculum, il futuro premier ha fondato insieme ad Alpa lo studio legale che porta il nome del famoso cattedratico. La storia che L’Espresso è in grado di raccontare prende invece le mosse nel mese di marzo del 2016. A quell’epoca l’Università San Raffaele di Roma, fondata e controllata dagli Angelucci, meglio noti come proprietari di cliniche nel Lazio, cercava un professore associato di diritto privato per il corso di laurea in “Scienze dell’organizzazione e dell’amministrazione”. Al termine di un concorso la cattedra è stata assegnata a una studiosa (Giovanna Capilli) con oltre 15 anni di esperienza come ricercatrice e docente universitaria, che ha prevalso rispetto ad altri tre concorrenti. Dagli atti depositati emerge però che almeno due dei tre commissari, cioè Alpa e Conte, avevano rapporti professionali di lunga data con la candidata che si è aggiudicata l’incarico. Già nel 1999 Alpa era stato il tutor della vincitrice del concorso, all’epoca neolaureata, quando quest’ultima, dopo gli studi a Messina, era approdata alla Sapienza con una borsa di studio. La collaborazione è proseguita anche negli anni successivi. Anni in cui la futura professoressa dell’ateneo San Raffaele ha ottenuto molteplici incarichi di docenza e di ricerca in corsi universitari, master e seminari, tutti coordinati da Alpa. In altre parole, gran parte della sua carriera si è svolta nella scia del famoso professore, con cui ha firmato anche numerose pubblicazioni. Conte invece è entrato in scena nel 2007. In quell’anno, e fino al 2009, l’avvocato di origini pugliesi ha insegnato diritto privato presso la facoltà di economia della Luiss, l’università romana controllata da Confindustria. E tra i suoi collaboratori, con un contratto integrativo di docenza, troviamo anche la giovane allieva di Alpa, che dopo una parentesi di qualche anno come professoressa all’Università Giustino Fortunato di Benevento ha infine presentato la sua candidatura per l’incarico di associato all’ateneo romano degli Angelucci. Dopo i preliminari di rito, ad aprile del 2016 l’università San Raffaele bandisce il concorso per un posto di professore associato di diritto privato. In base al regolamento interno dell’ateneo, la nomina dei commissari spetta al rettore Enrico Garaci, docente di lungo corso, negli anni Ottanta al vertice dell’università di Tor Vergata, candidato sindaco capitolino per la Democrazia Cristiana e poi a lungo presidente dell’Istituto superiore di sanità. A norma di legge, la commissione deve essere formata da tre professori ordinari del «settore concorsuale oggetto della selezione», cioè, nel caso specifico, il diritto privato. La platea dei potenziali commissari è quindi amplissima, popolata da decine di nomi. Eppure, Garaci sceglie proprio i due docenti che più a lungo hanno lavorato con uno dei candidati. A ben guardare, poi, anche il terzo e ultimo commissario, l’avvocato genovese Fabio Toriello, associato a Sassari, fa parte della scuderia degli allievi di Alpa. Il concorso, come è norma in questi casi, si è poi svolto per intero sulla carta. Nessun colloquio con i candidati. La valutazione è avvenuta in base alle pubblicazioni scientifiche, del curriculum e dell’attività didattica dei quattro aspiranti docenti. All’atto della nomina i tre componenti della commissione sono stati chiamati a sottoscrivere una dichiarazione in cui affermano che «non sussistono situazioni di incompatibilità (…) con i candidati e con gli altri commissari». Tutti firmano. Nessuno, quindi, si è visto costretto ad astenersi dal giudizio per conflitto d’interessi. Le maglie della legge in materia sono larghe quanto basta per garantire la regolarità formale della procedura nonostante l’evidente rapporto di vicinanza professionale tra un candidato e almeno due componenti su tre della commissione. Altra cosa, invece, è la tradizione di “autoreferenzialità” se non di vero e proprio “nepotismo” che il sottosegretario Fioramonti sostiene di voler combattere. Casi come quello del concorso targato Alpa e Conte all’università San Raffaele sembrano suggerire che non manchino davvero gli spazi d’intervento per la riforma annunciata dal sottosegretario all’Istruzione in quota Cinque Stelle.

Il prof che bandisce il concorso per sé. «La legge vieta solo l’aiuto a parenti». È nel collegio Accademico e partecipa alla selezione alla Normale di Pisa. L’avvocatura dello Stato, chiamata per un parere, l’aveva escluso. Il Tar dà l’ok: nessuna violazione della legge Gelmini sul familismo universitario, scrive il 26 marzo 2018 Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera". Certo, i nostri burocrati han regalato al mondo chicche inimitabili. Si pensi all’«autodichiarazione d’esistenza in vita» che ricorda ai morti che «in caso di dichiarazione mendace» (metti che dichiarino da defunti d’essere vivi...) saranno perseguiti ai sensi del «Dpr 445/2000». Anche la sentenza 00225/2017 del Tribunale Amministrativo Regionale toscano (sezione prima) merita però di finire negli annali.

La selezione. Partiamo dall’inizio. Il 9 settembre 2016 la Scuola Normale Superiore di Pisa, tra i primi atenei mondiali nel ranking procapite, apre una «procedura di selezione per la copertura di un posto di professore universitario di prima fascia per il settore Scienza Politica». Il 10 ottobre si candida anche Giliberto Capano, ordinario all’Università di Bologna, in via di uscita dopo sei anni di «distacco» alla Normale. Dove, al momento della candidatura, è ancora membro del Collegio accademico dove è entrato il 1° febbraio 2015 per restare fino al 31 ottobre 2016. Per capirci: anche nel periodo del bando al quale è interessato.

La legge. La legge 240/2010, nota come la «riforma Gelmini», è chiara: «In ogni caso, ai procedimenti per la chiamata di cui al presente articolo, non possono partecipare coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio d’amministrazione dell’ateneo». Secondo l’università il testo non lascia equivoci: se c’è conflitto di interessi tra un cugino al quarto grado e l’eventuale consigliere di amministrazione Tizio Caio, va da sé che lo stesso Tizio Caio, se si candida a qualcosa, va considerato a maggior ragione in conflitto. O no? L’avvocatura dello Stato, chiamata a dare un parere, conferma: Capano va escluso. E così decreta il segretario generale: fuori.

Il ricorso. Il professore estromesso, però, non ci sta. E ricorre al Tar. Sostenendo di non avere partecipato alla riunione specifica in cui è stata formalmente varata l’assunzione e che il regolamento interno della Normale (che rende se possibile ancora più inequivocabili le norme contro il familismo universitario, da anni al centro di scandali, polemiche e risse) è stato fatto dopo la sua esclusione.

La sentenza. E che fa il Tar? Prima concede la solita sospensiva, che in casi come questi non è negata mai, poi emette una sentenza in cui afferma come «il regolamento di ateneo non prevedesse alcun divieto di partecipazione a carico dei componenti degli organi della Scuola, limitandosi a sostanzialmente mutuare in parte la disciplina di legge». Ma come: non era già spiegato chiaramente tutto lì, nella «Gelmini»? No, rispondono i giudici amministrativi. E in ogni caso la precisazione della Normale non può avere effetti retroattivi. Tanto più che Capano il giorno della delibera non c’era.

Candidato incompatibile. La parte più interessante del verdetto, però, riguarda la tesi dell’Avvocatura, secondo cui una lettura seria dei limiti introdotti dalla legge del 2010 contro il clientelismo «imporrebbe di ritenere che il divieto valga anche nel caso-limite in cui il candidato incompatibile non sia il parente, il coniuge o l’affine al componente dell’organo accademico, ma», come in questo caso, «lo stesso componente dell’organo». Insomma: se il conflitto di interessi riguarda mogli, figli, zii, cognati e parenti anche alla lontana come può non riguardare il protagonista numero uno: il professore stesso?

Il parente di grado 0. E qui arriva il virtuosismo del Tar: «L’argomento della Scuola resistente, dichiaratamente utilizzato in senso atecnico, secondo cui “ognuno è il primo parente di se stesso, il parente di grado 0”, è suggestivo, ma non convince». Testuale. Stupefacente, ma testuale. Secondo i giudici infatti «la ratio del divieto di partecipazione» di amici e parenti è di «contrastare uno specifico fenomeno, quello del cosiddetto familismo universitario».

Il divieto. Dunque se il legislatore ha elencato gli specifici destinatari del divieto voleva elencare esattamente solo quelli e «sul piano lessicale il divieto non può essere esteso al candidato il quale sia egli stesso componente dell’organo che ha deliberato la chiamata. Anche volendo estendere al massimo della loro portata semantica le espressioni adoperate dal legislatore, altro è l’esistenza di un rapporto di parentela, o affinità, o coniugio, dal quale deriva l’incompatibilità, altro è la titolarità in proprio di interessi potenzialmente confliggenti con quelli dell’organo/ente cui si appartiene».

Nessuna disposizione specifica. E allora se il professor Tizio fa solo gli interessi di se stesso che c’entrano le regole contro il familismo? «Il legislatore non ha dettato una disposizione dedicata, in ambito universitario, al contrasto del conflitto di interessi tout court, ma ha individuato un’ipotesi qualificata di conflitto di interessi, quella legata, appunto, all’esistenza del rapporto di parentela o affinità, giudicata meritevole di particolare attenzione e di cautele aggiuntive».

La differente ipotesi. Per il resto, amen: «La norma non si occupa affatto della differente ipotesi del conflitto coinvolgente interessi propri». Infatti, dicono i magistrati, non sarebbe «verosimile che il legislatore, pur volendo includere nel divieto di partecipazione anche i soggetti portatori di un conflitto di interessi in proprio (non derivante da legami familiari), abbia però omesso di menzionarli». Tutto chiaro? Se il professor Capano avesse fatto un passo per accontentare i propri parenti o «clientes» avrebbe potuto essere perseguito. Se si è mosso solo per gli interessi propri no. Proprio un messaggio educativo da trasmettere agli studenti...

Moglie e marito sono parenti? I giudici interrogano la Consulta. Catania, è vietato l’accesso ai concorsi per i parenti entro il 4° grado di membri della struttura ma la legge contro il familismo negli atenei «non nomina il coniuge», scrive il 29 marzo 2018 Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera". Ma la moglie è parente del marito? La domanda, che quando fu proposta la prima volta qualche anno fa sollevò ondate di ilarità, è finita addirittura davanti alla Corte Costituzionale. Che dovrà decidere se sia o no in linea con la Carta la famosa «legge Gelmini» varata contro il familismo nelle università italiane. Come andasse in passato è noto. Basti rileggere il reportage di Attilio Bolzoni sul suo arrivo all’Università di Bari: «Buongiorno, dov’è la stanza del professore Girone? Girone chi?, risponde spazientito il vecchio custode di Economia e Commercio. Girone Giovanni il Magnifico Rettore o Girone Raffaella che è sua figlia? Girone Gianluca che è suo figlio o Girone Sallustio Giulia che è sua moglie? In ordine, stanza numero 3, stanza numero 26, stanza numero 58, stanza numero 13. E aggiunge, sempre più infastidito: Poi se vuole parlare con un altro parente…».

La legge del 2010. Per non dire delle cronache su Luigi Frati che, da rettore della Sapienza, si circondò di affetti: la moglie, il figlio, la figlia… O ancora di articoli a pioggia come questo di Lorenzo Salvia: «In due sole facoltà della Federico II di Napoli, economia e giurisprudenza, la confederazione degli studenti ha contato 140 casi di parentela su un totale di 877 professori». O di libri come «L’università truccata» di Roberto Perotti. Finché arrivò finalmente la Legge 30 dicembre 2010, n. 240 voluta da Maria Stella Gelmini, allora ministro dell’Istruzione, università e ricerca. Che all’articolo 18 metteva un freno alle peggiori abitudini: divieto di accesso ai concorsi universitari per «coloro i quali, alla data di presentazione della domanda, abbiano un grado di parentela o di affinità entro il quarto grado compreso con un professore appartenente alla struttura didattica che richiede l’attivazione della procedura, o con il rettore, o il direttore generale o un componente del Consiglio d’amministrazione dell’Ateneo».

I «dubbi» del Senato accademico. Tutto chiaro? Chiarissimo. Ma non per chi, abituato a un certo andazzo, non si capacitava di dover rinunciare a radunare nei dintorni della propria facoltà di un po’ di parentela. Al punto che ancora a Bari dove Nino Luca in «Parentopoli» aveva contato «Antonella, Fabrizio, Francesco Saverio (vale uno nonostante il doppio nome), Gian Siro, Gilberto, Lanfranco, Manuela Monica Danila (tre nomi ma vale sempre uno) e Stefania. Totale otto Massari: Massari, Massari, Massari, Massari, Massari, Massari, Massari e Massari», fu convocato sul rovello il Senato accademico: la moglie è una parente? Quattro ore durò la pensosa discussione intorno al quesito. Fino al responso, dettato anche dalla volontà di tanti professori di mostrare come l’ateneo barese fosse deciso a voltar pagina seguendo la legge e il codice deontologico: sì, la moglie è parente. Quindi, se ci sono incompatibilità, non può essere assunta.

La non decisione. Da allora, però, c’è chi non si è rassegnato affatto. E la questione è stata più volte riproposta sulla base di una domanda: se il legislatore voleva escludere la moglie perché non l’ha espressamente nominata nella legge? La risposta che viene in mente è che la consorte è già compresa nel parentado fino al quarto grado. Sennò, per vietare l’incendio doloso di un bosco occorrerebbe precisare che il divieto vale per abeti, larici, cipressi, castagni, olmi e via via ogni albero del Creato. Macché: nella scia d’un ricorso a Catania contro un bando per la chiamata di un professore di prima fascia, bando al quale aveva partecipato (vincendo) Daniela Giordano moglie del decano dello stesso dipartimento Alberto Faro, il Consiglio di Giustizia Amministrativa, che in Sicilia ha le funzioni del Consiglio di Stato, ha deciso di non poter decidere. Per carità, dice la sentenza, non è contestato «il rapporto di coniugio» né il fatto che nel bando erano stati ricordati i paletti fissati dalla legge e dalle regole d’Ateneo. No, a essere contestata è proprio l’interpretazione estensiva data dal giudice di primo grado: «Se la ratio della norma è quella di evitare l’ingresso nelle strutture universitarie o la progressione in carriera dei soggetti legati da vincoli di parentela così stretta con coloro che già vi appartengono (…) è evidente che tale ratio ricorra anche, e soprattutto, nel caso di coniugio». Interpretazione «fermamente avversata dalle difese delle parti appellanti».

La risposta dei giudici. Certo, dice la sentenza, «non sfugge al Collegio come l’affinità presupponga il rapporto di coniugio» dato che «senza il matrimonio non vi sarebbe alcun vincolo fra una persona e i parenti del suo coniuge». Ovvio. Fatta sta che la legge «non fa menzione del coniuge, accanto a parenti e affini, come anche non fa menzione delle unioni civili e delle convivenze». Insomma, perché la legge non parla espressamente di moglie e marito? A farla corta, «la sola via per rimediare ad una simile lacuna» è «dubitare della legittimità costituzionale della norma nella parte in cui non vieta di partecipare ai procedimenti per la chiamata a coloro che sono in rapporto di coniugio…». Precisate, gente, precisate…

"Quel mio allievo da sistemare in cattedra..." Spunta una lettera di 40 anni fa all'ex ministro. Mentre l'inchiesta sulla spartizione dei posti nelle Università scuote il mondo accademico, l'Espresso scopre una raccomandazione diretta all'ex ministro Fantozzi da parte di un potente barone. Che dimostra come il sistema duri da decenni, scrive Alfredo Faita il 6 Ottobre 2017 su "L'Espresso". La spartizione delle cattedre universitarie a tavolino, arrivando perfino a corrompere le commissioni come sostiene la procura di Firenze nella sua indagine sul mondo del diritto tributario, forse non è solo un male dei giorni nostri, ma affonda nella prima Repubblica. Quella del Caf (Craxi Andreotti Forlani) inossidabile al potere e della Milano da Bere, spazzata via da Tangentopoli. Almeno questa è l'impressione che si ha leggendo una lettera, che L'Espresso ha potuto consultare in esclusiva, tra due dei protagonisti dell'indagine penale fiorentina: Augusto Fantozzi e lo scomparso Victor Uckmar, i due pesi massimi del diritto tributario in Italia. «Caro Augusto, in relazione all'attribuzione della cattedra di diritto tributario a Siena, ti preciso – cosa che d'altronde ti è già nota – che il dottor Lovisolo non è giuridicamente in grado di assumere la supplenza, ai sensi dell'articolo 114 del dpr...perché ha veste giuridica di contrattista... Il dott. Lovisovo può tuttavia vedersi attribuito l'insegnamento, ai sensi dell'articolo 116, assumendo la veste giuridica di professore a contratto...». È Victor Uckmar a prendere carta e penna per vergare al “caro” Augusto Fantozzi i suggerimenti su come poter attribuire al suo allievo un insegnamento presso l'antico ateneo toscano, perché “meritevole” di essere “sistemato”.

Siamo nel 1980 - la lettera è datata 16 ottobre - ed è su carta intestata dell'Università di Genova, ma il suo contenuto suona decisamente attuale con quello dell'inchiesta della procura di Firenze. Che vede tra gli indagati, come si diceva, proprio Fantozzi, il quale, scherzosamente, parlava della necessità di «una nuova cupola» di persone «di buona volontà» che si sostituissero di fatto ai commissari per le abilitazioni nelle cattedre universitarie. Oltre all'ex ministro dei governi Dini e Prodi, nonché attuale Rettore dell'Università Giustino Fortunato di Benevento risultava indagato anche Uckmar, com'è emerso dagli atti, ma la sua dipartita nel dicembre dello scorso anno lo ha sollevato dall'incombenza di doversi difendere dalle pesanti accuse di corruzione mosse ai 59 accademici finiti nelle indagini dopo la denuncia di Philip Laroma Jezzi. Nella lettera Uckmar detta la strategia per arrivare alla nomina senese di Antonio Lovisolo, suo allievo prediletto, attualmente professore a Genova nonché titolare di uno dei più importanti studi tributari d'Italia, ma non indagato nell'inchiesta fiorentina. Innanzitutto, dice, bisogna che non venga prorogato il vecchio professore, poi che nessuno “stabilizzato” faccia domanda per una supplenza, e poi che la «facoltà deliberi l'attribuzione dell'incarico a un professore a contratto, designato nella persona del dott. Lovisolo... che sarebbe poi sottoscritto dal Rettore» scrive Uckmar, sottolineando che la strada intrapresa è “ad hoc” per sistemare qualche giovane “meritevole”. «Come vedi, quindi, la possibilità di sistemare il mio allievo non manca, certo occorre un po' più di impegno da parte di tutti, di quanto non richiederebbe un certo conferimento di supplenza» si congeda l'ex professore genovese.

Come andò a finire allora lo si vede leggendo il curriculum vitae pubblicato dal Antonio Lovisolo sul sito internet del suo studio: «Negli anni accademici 1980/1981, 1981/1982 e 1982/1983, Antonio Lovisolo ha rivestito la qualifica di professore a contratto di Diritto finanziario presso la facoltà di Scienze economiche e bancarie dell'Università di Siena». Il trampolino di lancio di una lunga carriera universitaria che lo ha (ri)portato fino a Genova.

Trentasette anni fa il metodo di assegnazione delle cattedre somiglia a quello tratteggiato oggi dai pm fiorentini, criteri che appaiono simili e gli stessi personaggi di vertice nel mondo tributario che come una “cupola” assegnava posti per cooptazione, sfruttando bene i cavilli normativi per evitare le barriere delle commissioni ministeriali di abilitazione. Cambia solo il linguaggio, meno sguaiato di quello che ci ha consegnato la cronaca di quest'indagine portata svolta dalla Guardia di Finanza e coordinata dai pm Luca Turco e Paolo Barlucchi, che vede in questi giorni il susseguirsi degli interrogatori di garanzia per tutti i docenti sottoposti a misure cautelari. Peraltro proprio dalle cronache del 1980 emerge qualche altro indizio che le pratiche nel mondo accademico del diritto tributario – ma non solo in quello - già da allora non fossero così limpide. In una interrogazione parlamentare del novembre 1980, l'onorevole pugliese Stefano Cavaliere, avvocato dal passato monarchico poi confluito nella Democrazia Cristiana, si rivolgeva così al ministro dell'Istruzione: «Scandaloso deve definirsi l'operato della commissione del concorso a cattedre di diritto tributario. Qui si è partiti male con la formazione della commissione, perché dei cinque membri tre erano allievi del professor Victor Uckmar, di cui due appartengono allo studio professionale dello stesso professore. È stato così possibile spartirsi le cattedre tra i protetti dei capi scuola … accontentare un notaio o qualche figlio di industriali cliente di questo o di quel caposcuola, senza preparazione scientifica e primi di esperienza didattica. Nei verbali si legge che questa commissione si sarebbe riunita presso la facoltà di economia e commercio dell'Università di Roma, mentre svolse i lavori in una camera dell'hotel Excelsior di cui era ospite anche il professor Uckmar che, al termine di questa nobile impresa, offriva ai commissari un lauto pranzo». Cavaliere in quell'interrogazione parlava di risultati scandalosi dell'operato di quelle commissioni che «meriterebbero il vaglio della magistratura penale». A trentasette anni di distanza quel vaglio è arrivato, e l'impressione è che da quell'anno ad oggi poco sia cambiato. Nel frattempo gli indagati smentiscono le accuse loro rivolte. Lo ha fatto anche Augusto Fantozzi, per bocca del suo avvocato Antonio D'Avirro, secondo il quale il professore, ex commissario di Alitalia, è «completamente e indubitabilmente estraneo ai fatti in contestazione in primo luogo perché era già andato in pensione all'epoca degli avvenimenti oggetto di indagine. La sua integrità è altresì testimoniata da una limpida e unanimemente apprezzata carriera accademica». Ce lo dirà la magistratura.

ITALIA BARONALE. I concorsi truccati di un Paese ancora feudale. Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato», considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI. L’AUTODENUNCIA DI UN PROFESSORE.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Carmine Schiavone è colui che rivelò, fin dalle sue prime dichiarazioni, il concepimento di un vero e proprio Stato Mafia da parte dell'organizzazione criminale del casertano. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

Nel seguire attentamente la dichiarazione autodenunciante del professore universitario, si tenga conto del fatto che la categoria dei Professori Universitari è una componente necessaria per tutte le Commissioni di Esame Pubblico abilitante o di un Concorso Pubblico.

Ergo: tutti i concorsi e gli esami pubblici sono truccati o truccabili.

Concorsi universitari, il prof: "Li trucco e continuerò a farlo". Ammissione-autodenuncia di un noto docente universitario: "Non sono raccomandazioni, premiamo chi lo merita". Concorsi universitari: "Sì, li trucco, altri professori li truccano e continueremo a farlo fino a che non ci arresterete. Perché va bene così". E' l'autodenuncia-confessione del professor Vincenzo Zeno Zencovich, uno dei giuristi più noti e importanti in Italia in materia di Diritto Internazionale che insegna a Roma 3. Una lettera aperta pubblicata dal quotidiano il Foglio e indirizzata alle procure della Repubblica che da qualche tempo stanno indagando sui concorsi universitari truccati (ultimo caso quello della "cupola dei costituzionalisti" su cui si indaga da Bari). Ebbene: Zeno Zencovich, con piglio autoironico, si autodenuncia, non risparmiando di citare tutti i reati di cui potrebbe essere ritenuto responsabile. “Concorsi truccati”, “concorsopoli”, “parentopoli” sono gli immaginifici titoli che alle sue inchieste forniscono i giornali e le televisioni. Poiché io di questo sistema faccio parte, quei reati li commetto da anni, e continuerò, se non arrestato, a commetterli, sento il dovere di autodenunciarmi", dice il professore. Secondo il docente bisognerebbe smetterla di parlare di raccomandazioni in ambiti accademici, o meglio: bisognerebbe smetterla di pensare che la raccomandazione sia una brutta cosa. Ecco, secondo il professore, come funzionano le raccomandazioni in ambiente universitario. Un docente raccomanda un giovane studioso perché ne apprezza e loda (“commenda”) le qualità, fa affidamento su di esse, ma al tempo stesso impegna la propria figura, la propria credibilità. Da questo punto di vista tutti i docenti universitari sono “raccomandati” e più sono “raccomandati” più significa che godono di una stima diffusa. Non vi sono candidati “sconosciuti” e se lo sono ci si deve chiedere perché lo sono, e perché tutto d’un tratto dovrebbero essere scoperti come un tesoro sepolto. Il concetto, spiega Zeno Zencovich, andrebbe capovolto: in ambiente accademico se non sei raccomandato è un problema. Nel senso che nessuno ti conosce, nessuno ha avuto l'occasione di vedere chi sei e come te la cavi. E perciò, probabilmente, non hai fatto nulla che valga la pena raccontare. La lettera si conclude - ironicamente - con l'arrivo della Guardia di Finanza nell'abitazione del professore per arrestarlo dei reati di cui si è autoaccusato.

«Illustre Signor Procuratore, mi è stato riferito che Ella (o qualche suo collega: tanto, la competenza territoriale è ormai ubiqua) ha disposto la intercettazione sulle varie utenze telefoniche a me riferibili. Vorrei risparmiare a Lei, ai suoi sostituti, ai sempre vigili ufficiali di polizia giudiziaria una fatica inutile. E alla collettività una spesa che meglio potrebbe essere impiegata per altre finalità di giustizia. Lo dichiaro apertamente: sono reo confesso. Associazione per delinquere. Abuso in atti d'ufficio. Corruzione, attiva e passiva. Traffico di influenza. Adsum qui feci. E se Lei vorrà aggiungere, per sovrammercato, i reati di attentato ai diritti politici e di associazione di stampo mafioso e camorristico (per via dei miei innegabili legami con la Sicilia e la Campania), non mi sottrarrò, cavillando, alle mie responsabilità. Ella, come molti altri suoi colleghi, è impegnato da tempo nello sradicare la mala pianta che cresce nei giardini dell'università italiana: "Concorsi truccati", "concorsopoli", "parentopoli" sono gli immaginifici titoli che alle sue inchieste forniscono i giornali e le televisioni. Poiché io di questo sistema faccio parte, quei reati li commetto da anni, e continuerò, se non arrestato, a commetterli, sento il dovere di autodenunciarmi. Non posso più continuare a vivere come centinaia di miei colleghi che, in queste settimane conclusive delle procedure dell'Abilitazione scientifica nazionale (il 30 novembre dovranno essere tutte terminate), vivono nel terrore: di fare una telefonata, di scrivere un biglietto, di mandare un messaggio di posta elettronica, di incontrarsi. Se lo fanno, sembra una scena dalla migliore spy story: entrare da due ingressi separati in un albergo; casualmente scambiare alcune parole durante il buffet di un convegno; rigorosamente togliere la batteria dal telefonino o lasciarlo in un'altra stanza. E ancor più delle manette li spaventa finire sbattuti in prima pagina, come di recente è capitato a una serie di "saggi" nominati per la revisione della Costituzione e tirati in ballo per una oscura vicenda concorsuale. Perché - ai fini della contestazione delle aggravanti di legge - lei abbia contezza della intensità del dolo che mi anima le dirò che: 1. Penso che sia dovere di ogni professore universitario dire in pubblico e in privato quello che pensa dei propri colleghi e di coloro che aspirano a esserlo. Esprimere il suo giudizio sui loro lavori, sulle loro capacità didattiche e organizzative, sul loro carattere. 2. Soprattutto deve farlo nei momenti in cui è in atto un processo di selezione e nei confronti dei selezionatori. Non si tratta di una indebita pressione ma di un necessario complemento alla formazione del convincimento di chi è chiamato a decidere. Di un contributo a una discussione che spetta a tutta la comunità scientifica di cui la commissione non è un giudice imperscrutabile e inavvicinabile, ma un "organo tecnico". 3. L'ambiente accademico è quel che si definisce un "mercato reputazionale": ben prima di guadagnarsi i gradi ci si è fatti conoscere, apprezzare o deprezzare, si è data prova concreta di operosità e competenza. Qui la parola "raccomandazione", che altrove appare esprimere la progressione degli incompetenti, assume il suo significato più veritiero. Un docente raccomanda un giovane studioso perché ne apprezza e loda ("commenda") le qualità, fa affidamento su di esse, ma al tempo stesso impegna la propria figura, la propria credibilità. Da questo punto di vista tutti i docenti universitari sono "raccomandati" e più sono "raccomandati" più significa che godono di una stima diffusa. Non vi sono candidati "sconosciuti" e se lo sono ci si deve chiedere perché lo sono, e perché tutto d'un tratto dovrebbero essere scoperti come un tesoro sepolto. Signor Procuratore, perché sia chiaro che non intendo sfuggire a nessuna delle imputazioni che mi verranno elevate, non mi nasconderò dietro il facile argomento che in tutto il mondo civile, soprattutto in quei paesi che vengono additati come modello di eccellenza accademica, succede così. Apertamente ci si pronuncia, come apertamente i decisori ascoltano, riflettono, scelgono. Certamente ci si fanno degli amici e dei nemici, le maldicenze corrono, taluni soccombenti sospettano una congiura ai loro danni. Ma anche in questo caso quel che conta è il giudizio della comunità, non di un tribunale o, peggio, di qualche incompetente giornalista i cui titoli di studio probabilmente andrebbero esaminati con attenzione. Né mi sfiora l'idea di utilizzare una retorica di basso conio chiedendo a Lei, Signor Procuratore, se quando si è apprestato a sostenere l'esame orale per l'accesso alla Magistratura qualcuno l'ha "raccomandata" (nel senso di cui sopra) alla sua commissione di concorso; se quando dalla sua prima e disagiata sede periferica ha chiesto il trasferimento presso un ufficio giudiziario più grande e prestigioso qualcuno o più d'uno ne abbia lodato l'impegno, l'assiduità, la perspicacia; e infine se risponde al vero che nel concorso per assumere il prestigioso incarico di Procuratore capo che ora ricopre in diversi siano intervenuti presso il Consiglio superiore della magistratura indicando in Lei, senza ombra di dubbio, la persona più meritevole. Ma devo interrompere questa lettera. Hanno suonato al citofono e dalla finestra vedo la inconfondibile uniforme di un ufficiale della polizia giudiziaria che deve notificarmi, in tempo reale, un provvedimento restrittivo della libertà che riporta quasi testualmente il contenuto della missiva. Sono lieto che le intercettazioni, anche ambientali e telematiche, funzionino con una efficienza da fare invidia alla National Security Agency. Mi dispiaccio solo che domani non mi sarà consentito leggere i titoli cubitali sull'organizzazione criminale che è stata smascherata. In ogni caso, buon lavoro! Mi creda suo, e rispettosamente mi firmo Vincenzo Zeno-Zencovich Ordinario di diritto comparato nell'Università di Roma Tre Rettore dell'Università degli Studi internazionali - Roma (UNINT).»

CHI GIUDICA CHI? Università, commissione zero titoli per giudicare chi diventa professore. Chi vuole diventare docente universitario deve convincere esaminatori che spesso vantano meno meriti scientifici di lui. Un paradosso previsto dalla legge, con conseguenze nefaste. Perché così il merito non viene premiato. E i nostri atenei sfigurano nelle classifiche mondiali, scrive Stefano Vergine il 31 agosto 2017 su "L'Espresso". Professori universitari senza nemmeno una citazione scientifica. Chiamati a giudicare candidati-professori che di citazioni ne hanno centinaia. È la storia paradossale della commissione che un mese fa ha annunciato chi saranno i nuovi docenti ordinari di geografia in Italia. Ruolo ambitissimo; stipendio di partenza da oltre 3 mila euro netti al mese. Ma non è il salario a essere messo in discussione qui. Piuttosto il metodo attraverso cui vengono scelti i professori del domani, più precisamente la statura scientifica di chi li seleziona. Tutto legale, meglio dirlo subito. È infatti la legge a prevedere questa contraddizione in cui si è trovato stritolato Marco Grasso, novarese di 51 anni, professore associato di geografia economica e politica all’università Bicocca di Milano. In aprile, insieme a centinaia di colleghi, ha inviato la candidatura per diventare ordinario. Si chiama abilitazione scientifica nazionale ed è una sorta di patentino, indispensabile per poter poi partecipare a concorsi ed essere eventualmente assunto come docente presso le università italiane. Un filtro anti-raccomandati, insomma, frutto della riforma voluta nel 2010 dall’allora ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. L’abilitazione aveva infatti l’obiettivo dichiarato di frenare il nepotismo imperante negli atenei italiani. Perché, centralizzando il processo di selezione, fino ad allora appannaggio esclusivo delle singole università, promuovere l’amico dell’amico sarebbe risultato più difficile e il merito avrebbe avuto finalmente un riconoscimento. Così almeno si diceva. Le cronache giornalistiche, i ricorsi alla giustizia amministrativa e le inchieste giudiziarie degli ultimi anni hanno dimostrato che le cose non sono andate come l’ex ministro auspicava. Professori che hanno truccato il curriculum per far parte delle commissioni, conflitti d’interesse fra giudici e giudicati, accordi sottobanco tra membri di diverse giurie. Scandali che hanno costretto Stefania Giannini, succeduta alla Gelmini, ad apportare alcune modifiche alla riforma.

La storia dell’ultimo concorso per diventare professore di geografia mostra però che i problemi sono ancora tanti. E fornisce una spiegazione in più per capire come mai, ancora una volta, fra i primi 100 migliori atenei del mondo (selezionati nell’Academic Ranking of World Universities) anche quest’anno non ce ne sia nemmeno uno italiano. Il profilo di Grasso è quello di un tipico cervello in fuga. Proprio coloro che il nuovo sistema punta in teoria a far tornare indietro. Economista e geografo, è un esperto di cambiamenti climatici. Studia gli effetti del surriscaldamento globale. Per esempio. Dove si trasferiranno gli abitanti di quelle zone del mondo che già stanno diventando invivibili? Che cosa si potrà coltivare in Italia quando la temperatura si sarà alzata mediamente di 2 gradi?

Laurea in economia alla Bocconi di Milano, corso di specializzazione in sistemi dinamici e ambiente al Politecnico della Catalogna, dottorato di ricerca in geografia al King’s College di Londra, Grasso ha insegnato all’estero per parecchi anni: Sydney, Amsterdam, Stati Uniti e Inghilterra. «Poi sono diventato papà, volevo far crescere mio figlio in Italia e ho fatto di tutto per poter tornare qui», racconta davanti a una granita in un bar di Milano. Pantaloncini corti e maglietta, Grasso sembra il tipico prof che si potrebbe incontrare in un campus universitario del Nord Europa, lontano dallo stereotipo del barone italiano. Dalla sua ha decine di pubblicazioni su riviste scientifiche autorevoli. La sorpresa di Grasso è stata quella di essere bocciato da una commissione con “zero tituli”, per citare l’ex allenatore dell’Inter, José Mourinho. Uno degli aspetti cruciali per decidere se concedere l’abilitazione è infatti la produzione di documenti scientifici da parte dell’aspirante professore, prova tangibile della capacità di fare ricerca. Ai candidati per il posto di ordinario di geografia, quello a cui ha partecipato Grasso, era richiesta la pubblicazione negli ultimi 15 anni di almeno due articoli su riviste di classe A. Fanno parte di questa categoria, per dire, Nature e Geoforum: pubblicazioni di qualità indiscussa. Quanti articoli devono aver scritto i commissari su questo tipo di riviste? Zero. Lo prevede l’Anvur, l’agenzia del ministero dell’Istruzione responsabile del processo di selezione dei nuovi docenti. Il risultato paradossale è che Grasso, con all’attivo tre pezzi su riviste di fascia “A”, è stato valutato da persone che su quei giornali non hanno mai scritto una riga. Una contraddizione che potrebbe aver penalizzato molti altri candidati: scorrendo la lista dei requisiti richiesti ai commissari si vede infatti che sono moltissimi i settori per i quali non sono previste pubblicazioni in riviste di fascia “A”. Tanto per citarne alcuni: storia moderna, scienza delle finanze, economia applicata, statistica, demografia. Ma c’è di più. Un’altra variabile presa generalmente in considerazione per valutare le qualità di uno studioso sono le citazioni, cioè il numero di volte in cui un suo lavoro scientifico viene menzionato da altri articoli accademici. Anche qui Grasso pensava di avere il terreno spianato. Su Scopus, una delle banche dati più usate per la letteratura scientifica, il geografo novarese conta infatti 18 articoli e 212 citazioni. E i membri della commissione chiamata a giudicarlo? Questo il loro palmares. La presidente della giuria, Emanuela Casti, tre articoli e diciannove citazioni. Il segretario, Gian Marco Ugolini, due articoli e nessuna citazione. Girolamo Cusimano e Laura Federzoni: un articolo a testa e nessuna citazione. Chiude la cinquina Gavino Mariotti, il cui nome sulla banca dati non compare. Il sito del ministero dell’Istruzione mostra che Grasso non è stato il solo a essere bocciato da questa commissione. Lo stesso è capitato per esempio a Francesco Chiodelli, Cecilia Pasquinelli e Oreste Terranova: tutti e tre candidati al ruolo di professore di geografia (associato, in questo caso), tutti e tre respinti nonostante una produzione scientifica molto maggiore rispetto a quella dei commissari. 

Va detto che per diventare docente non basta essere un prolifico ricercatore. I requisiti sono parecchi, dalle esperienze di insegnamento alle partecipazioni a convegni. Nelle motivazioni della bocciatura di Grasso i commissari scrivono che, «seppure di discreta qualità», i titoli posseduti dal candidato «quasi sempre non sono collocabili all’interno del settore concorsuale di geografia». Come dire: ha fatto cose accettabili, ma spesso riguardavano altri ambiti. Il punto qui non è però giudicare se sia stato giusto non concedere l’abilitazione a certi candidati, ma se è autorevole un sistema universitario in cui un aspirante professore viene valutato da studiosi con una produzione scientifica molto più bassa della sua. Perché, come in ogni ambito, maggiore è l’autorevolezza di chi giudica e maggiore sarà quella dell’istituzione stessa. E quella dell’università italiana, stando alle classifiche, non è proprio delle più invidiabili.

Università, l'ossessione della produttività può danneggiare i migliori. "Quanto vali? significa adesso "Quanto sei in grado di produrre". Accade nelle istituzioni universitarie in balia di agenzie di valutazione chiamate a misurare quanto siano produttivi docenti e dipartimenti. Così si riduce l'arbitrio dei baroni, ma si rischia di penalizzare non solo i fannulloni, ma i professori più dotati, scrive Roberto Esposito il 10 luglio 2017 su "L'Espresso". Può sorprendere, in una società che sembra perdere ogni rapporto con i propri valori, l’espandersi inarrestabile dell’ideologia della valutazione. Ormai siamo tutti valutati. Non ascoltati, considerati, sostenuti nelle nostre fragilità pubbliche e private. Ma valutati sì. In termini economici di utilità, di performance, in cui occorre misurare il “capitale umano” che ciascuno, potenziale imprenditore di se stesso, può vantare. Del resto la trasmigrazione del concetto di valore dall’ambito etico a quello economico non poteva portare ad altro. “Quanto vali?” significa adesso “quanto sei in grado di produrre?”. Tutto ciò non solo a prescindere da considerazioni sociali, contestuali, personali. Ma anche in base a dati puramente quantitativi, misurabili e appunto valutabili in maniera numerica. Se in campo economico tale indagine di mercato è comprensibile, trasferita ad altri settori rischia di determinare effetti controproducenti e vere e proprie storture. Per esempio valutare in questi termini la situazione di un malato in una struttura sanitaria pubblica può portare a conseguenze catastrofiche. Ma l’impatto – per usare un vocabolo amato dai valutatori – su altri ambiti può risultare del pari devastante. È quanto accade da tempo nelle Università, ormai in balia, per i loro finanziamenti, di agenzie di valutazione destinate a misurare il “valore” dei singoli docenti e dei Dipartimenti in cui essi operano. Numero degli studenti, numero delle pubblicazioni dei docenti, numero delle citazioni dei loro lavori, numero dei brevetti, degli stage attivati, degli sbocchi professionali. Nulla sfugge alla griglia approntata dalle agenzie di valutazione allestite ovunque – prima l’Aeres in Francia poi l’Anvur in Italia. Ciò che esse si ripromettono è misurare in maniera oggettiva, perché numericamente definita, il valore quantitativo prodotto da singoli e da collettivi, finanziati in base a tale indice. Da quel momento i dossier, le schede, i formulari prodotti dalle strutture accademiche e dai docenti superano di gran lunga quello dei prodotti stessi della ricerca. Ciò che conta è che questi entrino nelle griglie prefissate, dando luogo a una cifra superiore, pari o inferiore a una serie di “mediane” preventivamente fissate. Chi le supera passa – nei ruoli accademici superiori, nelle abilitazioni scientifiche nazionali, nei Collegi dei Docenti dei Dottorati. Chi non ha gli stessi numeri – di articoli, citazioni, brevetti – resta fuori. Ciò, si dice, non senza qualche ragione, ha finalmente abolito l’arbitrio dei vecchi baroni, gli accordi sottobanco, i privilegi che effettivamente caratterizzavano il sistema universitario precedente. Oggi tutto ciò è finito, dissolto dalla nuova neutralità oggettiva. Basta contare. I numeri non tradiscono. La giustizia accademica è infine instaurata. Restano, però, aperte alcune domande. Chi valuta i valutatori? Essi – si risponde – sono valutati con le medesime mediane adoperate per i candidati da valutare. Ogni valutatore, a sua volta, si avvale di numerosi sottovalutatori che egli stesso individua in base alle proprie valutazioni delle loro capacità valutative. Sembra uno scioglilingua. Ma le cose stanno davvero così. Un sistema volto all’oggettività del giudizio si basa su una serie di scelte soggettive discendenti di cui sfugge solo il primo anello, che riguarda il vertice dell’Agenzia, di nomina governativa. Del resto su tutto sorveglia il Miur, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, a sua volta garantito dall’alta responsabilità del Ministro in carica, scelto dai partiti di governo in base a criteri del tutto esterni a quelli applicati a valutandi e valutatori e anzi, possibilmente, mai sottoposto ad esami di pubblico rilievo. Non basta. La cornice dell’intero quadro si è evoluta nel tempo. Mentre fino a poco fa si poteva pensare che, per chi fa ricerca scientifica, almeno nell’ambito delle scienze umane, i “prodotti” più rilevanti fossero i libri – in gergo accademico, “le monografie” – a un certo momento si è stabilito che non è più così. Ciò che conta sono solo gli articoli – anche di due-tre pagine – pubblicati in riviste collocate preventivamente, in base a una apposita valutazione, nella cosiddetta fascia A. Soltanto chi le dirige o chi è suo buon conoscente, può pubblicare in esse articoli che, s’intende, verranno neutralmente valutati dai valutatori che gli stessi direttori hanno scelto. Ma non basta. Queste riviste, ai fini della valutazione, non sono uguali. Valgono solo quelle del settore disciplinare del valutando, cosicché, se questi ha interessi di tipo interdisciplinare – che so, di architettura se insegna storia dell’arte o di filosofia politica se insegna filosofia morale – va severamente punito con l’esclusione dall’ambito dei salvati e precipitato in quello dei sommersi.

L’esito, borgesiano, di questo sistema è che la Commedia di Dante non otterrebbe la valutazione positiva perché non attinente a un settore disciplinare specifico, visti i suoi riferimenti, appunto “interdisciplinari”, filosofici, cosmologici, politici, etc. Ancora, Francesco De Sanctis sarebbe bocciato in un’abilitazione in Storia della Letteratura Italiana, perché, insieme alla sua grande “Storia” non ha scritto sufficienti articoli; Einstein non passerebbe perché, rompendo paradigmi e convenzioni scientifiche del tempo, non avrebbe potuto organizzare lo scambio di citazioni necessarie con i colleghi. E così via. Tutto ciò, naturalmente, questi effetti perversi, non sono ignorati da chi ha messo in piedi, magari anche in buona fede, il sistema. Ma sono considerati danni collaterali rispetto ai suoi aspetti positivi. Che in effetti ci sono, soprattutto per i peggiori: coloro che non pubblicano abbastanza vengono adesso giustamente esclusi. A pagare il prezzo sono tuttavia i migliori, cioè coloro il cui prestigio internazionale spinge a scrivere i propri libri, spesso tradotti in diverse lingue, senza preoccuparsi delle griglie, delle fasce, delle citazioni e così via. Ve li immaginate, per restare nel campo della filosofia, Habermas e Derrida che cercano le riviste di fascia A per scrivere dodici articoletti? E coloro che fanno ricerca scientifica perché dovrebbero tentare di innovare il proprio campo, rischiando di non essere citati dai colleghi più tradizionali? Questo spiega perché sta nascendo un silenzioso movimento di protesta, sfiducia, stanchezza che porta diversi professori, soprattutto in area umanistica, a lasciare l’Università. Per dedicarsi finalmente alla ricerca. Non per non essere valutati, ma per non finire preda di un dispositivo inefficiente e contraddittorio.

Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Chi tocca i baroni rossi finisce sotto processo. L'odissea di un giornalista querelato: raccontò la strana carriera di una professoressa vicina al Pd, scrive Stefano Filippi, Giovedì 28/09/2017, su "Il Giornale". Oggi che Concorsopoli è diventata una vergogna nazionale con baroni arrestati e sospesi dall'insegnamento, la denuncia del sistema corrotto è un atto benemerito, anticasta e trasparente. Non sempre è stato così. Per aver raccontato nel 2011 i sistemi di cooptazione all'università di Viterbo un giornalista che allora lavorava al quotidiano Italia Oggi, Giampaolo Cerri, invece che applausi si è preso una querela e il processo è ancora in corso. L'accusa è diffamazione ma suona come lesa maestà. Perché i chiamati in causa sono una professoressa con tessera e ruoli di responsabilità nel Ds/Pd e il capo dipartimento per l'università del ministero dell'Istruzione, all'epoca rettore dell'ateneo e presidente della Conferenza dei rettori. Nonché compagno della docente in questione. Lei si chiama Flaminia Saccà. Laurea in sociologia politica nel 1995 con tesi sul controllo sociale della sessualità, relatore il professor Umberto Melotti. Dottorato di ricerca in sociologia della cultura nel 2001. Ricercatrice all'università La Sapienza di Roma. Dal 2002 al 2005 è responsabile nazionale università e ricerca dei Ds e guida la contestazione all'allora ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti. Nel 2006 diventa co-coordinatrice della Scuola di formazione politica del Pd e nel 2007 viene nominata presidente di Filas spa, società della Regione Lazio a sostegno della ricerca, dello sviluppo e dell'innovazione. Piero Marrazzo, allora governatore, la giudicò «una nomina di alto profilo che conferma la sensibilità del sistema Regione nei confronti del sostegno alle imprese». Negli stessi anni Saccà ottiene un incarico di ricerca in sociologia all'università di Cassino. E nel 2010-11 partecipa a un concorso per un posto da associato all'ateneo della Tuscia a Viterbo, il cui rettore è il suo compagno, Marco Mancini. Qui scoppia il caso rivelato da Italia Oggi che è costato il processo per diffamazione. Uno dei cinque docenti della commissione giudicatrice, il professor Marcello Fedele, ordinario alla Sapienza, dopo una prima valutazione favorevole si corregge. E produce un tomo singolare: ampi stralci del lavoro presentato da Flaminia Saccà e a fianco, in imbarazzanti tavole sinottiche, testi di Francesco Amoretti, Gianfranco Bettin, Gianpietro Mazzoleni, Gabriel Almond e Sidney Verba. Uguali. L'accusa è semplice: la candidata ha copiato eminenti sociologi senza citarli. Il professor Fedele mette a verbale la volontà di cambiare giudizio perché «la produzione si configura priva di originalità e dunque con un valore scientifico in larga misura inesistente». Gli altri quattro commissari «prendono atto» ma non battono ciglio e ribadiscono la valutazione positiva per l'aspirante associata in sociologia targata Pd «in considerazione del curriculum, dei titoli presentati e delle due prove orali». Chiamato a testimoniare al processo per diffamazione, Fedele ha confermato tutto. Il decreto di nomina è firmato dal rettore viterbese, Marco Mancini, che era anche il presidente della Conferenza dei rettori e compagno della professoressa Saccà. Concorso confezionato su misura? Il sospetto esiste. Ora entrambi hanno fatto carriera: lei presiede il corso di laurea in Scienze politiche e relazioni internazionali a Viterbo mentre lui dall'agosto 2013 ha lasciato il rettorato (dove si era insediato nel 1999) per diventare capo del dipartimento per la formazione superiore e la ricerca al dicastero dell'Istruzione, cioè il braccio destro del ministro per le questioni universitarie.

Docente universitario. In Italia esistono due categorie di docenti universitari: i professori di seconda fascia o “associati” e quelli di prima fascia o “ordinari”. Si tratta delle due tappe successive a quella di ricercatore nella carriera universitaria. Per accedere a entrambi i ruoli è previsto un concorso, le cui modalità di svolgimento sono state recentemente riformate da un decreto del ministero dell’università e della ricerca scientifica.

PROFILO. I docenti universitari svolgono prioritariamente attività didattica e di ricerca. Nell’anno accademico, il docente svolge due corsi della durata di circa una quarantina di ore ciascuno. L’incidenza dell’attività di ricerca è molto variabile e dipende dalla disciplina di riferimento e dall’anzianità del docente. Ogni professore universitario è libero di scegliere fra l’impegno a tempo pieno o l’impiego a tempo determinato. In Italia, diversamente da quanto accade in altri paesi, i professori, oltre a svolgere attività didattica e di ricerca, si occupano anche della gestione delle università in cui operano, con ruoli che vanno dal direttore di istituto al direttore di dipartimento, dal presidente del corso di laurea al preside di facoltà, fino ad arrivare al rettore, la massima carica istituzionale di un’università.

REQUISITI. Le competenze e le attitudini richieste sono:

- un’ottima conoscenza della propria materia; 

– capacità di divulgare in modo chiaro e sintetico i risultati della propria attività a studenti, ricercatori e docenti; 

– disponibilità ai trasferimenti o, quantomeno, agli spostamenti frequenti. 

FORMAZIONE. Un laureato può diventare docente universitario anche senza passare dal dottorato, ma solo se ha svolto lavoro di ricerca presso istituti e centri studio privati, e ha pubblicato i risultati del suo lavoro.

SBOCCHI PROFESSIONALI. La carriera universitaria di un docente di fatto si esaurisce con l’ottenimento di una “cattedra”, ossia con il conseguimento del titolo di professore di prima fascia (ordinario). A questo ruolo si accede tramite la partecipazione a un concorso: ogni università che necessita di un nuovo professore bandisce un concorso. La commissione giudicatrice, composta da professori ordinari eletti da tutti i docenti della materia, nomina un vincitore e due “idonei”. Questi ultimi, pur non avendo diritto al posto, possono essere chiamati, nel corso dei tre anni successivi, da altre università senza dover nuovamente sostenere il concorso.

L'INCHIESTA. Sono i docenti titolari di corsi ma ingaggiati a contratto, spesso con compensi minimi. Il boom degli ultimi anni. Ma il decreto Mussi li ridurrà drasticamente: reggerà il sistema?

L'Università dei prof "esterni" in molti atenei sono più della metà, scrive Massimiliano Papasso il 19 marzo 2007 su "La Repubblica". Il ministro Mussi qualche settimana fa li ha definiti come "lo zoccolo duro dell'università". Senza di loro molti rettori sarebbero costretti a chiudere bottega e alcuni studenti molto probabilmente non potrebbero nemmeno laurearsi. Eppure dal prossimo anno accademico, quella dei docenti a contratto, sarà una figura destinata a ridimensionarsi radicalmente nel panorama accademico italiano. Lo prevede il decreto approvato in questi giorni e che fissa un tetto molto rigido all'utilizzo dei cosiddetti "contrattisti": in pratica per ogni corso di laurea, vecchio o nuovo che sia, le università dovranno garantire che almeno il 50% del personale docente utilizzato per la didattica sia di ruolo. Stop quindi ad insegnamenti appaltati a personale esterno, esperti e professionisti di vario genere che le università ingaggiavano con contratti di diritto privato per poche centinaia di euro all'anno. Un fenomeno che negli ultimi tempi ha fatto registrare un vero e proprio boom dato che i docenti a contratto sono arrivati ad avvicinarsi pericolosamente alla somma dei professori ordinari, associati e ricercatori, a cui normalmente dovrebbe essere affidato il settore della didattica nelle università italiane. I dati. Secondo di le cifre raccolte dall'ufficio di statistica del Ministero dell'Università, nello scorso anno accademico sono stati 48.797 i docenti a contratto reclutati dagli atenei. Di questi a ben 33.008 è stata affidata la titolarità di un insegnamento ufficiale. Ovvero per 12 mesi esperti di un determinato settore, liberi professionisti o semplici laureati dal curriculum accattivante hanno svolto in tutto e per tutto le funzioni di un docente universitario tenendo lezioni, presenziando alle sessioni d'esame, ricevendo gli studenti e assegnando tesi di laurea. Un lavoro che normalmente ai docenti di ruolo frutta migliaia di euro l'anno e che invece ad un "contrattista" viene riconosciuto con una retribuzione, nella migliore delle ipotesi, di appena mille euro ad incarico. Un fenomeno in continua ascesa visto che negli ultimi cinque anni il numero dei docenti a contratto si è moltiplicato del 126%, passando da quota 21.536 del 2000 ai quasi 50 mila del 2005 (ultimo dato disponibile). Gli atenei a contratto. La moda di affidare a non accademici moduli didattici o un intero corso universitario ha contagiato quasi tutti, senza molte differenze tra atenei pubblici e privati. In testa a questa speciale classifica c'è l'Università di Bologna con 2.744 docenti messi sotto contratto nel 2005, di cui 1148 erano titolari di insegnamenti ufficiali. Seguono la Cattolica di Milano con 2706, l'Università di Padova con 2124 e quella di Pavia con 2124 contrattisti. Ma se per alcuni di questi atenei la proporzione tra docenti di ruolo e a contratto è ancora a favore dei primi (la somma dei professori ordinari, associati e ricercatori dell'Alma Mater bolognese è di 3092) per altre università, soprattutto quelle più piccole, la realtà è completamente ribaltata. E' il caso, tra gli altri, dell'ateneo di Ferrara dove a fronte di 678 docenti di ruolo quelli a contratto sono 1400, di cui quasi il 90% è titolare di insegnamenti ufficiali. Oppure di alcune facoltà della Sapienza di Roma (Architettura, Psicologia, Scienze della comunicazione, Sociologia) dove il numero di docenti a contratto supera quello di tutti i docenti di ruolo messi insieme, inclusi i ricercatori. Questione di budget. Le cause che hanno spinto gli atenei a ricorrere ad un così massiccio utilizzo di docenti a contratto sono soprattutto di natura economica. Visto che molto spesso chi accetta di insegnare all'università, svolgendo molto spesso un altro lavoro, si accontenta anche di poche centinaia di euro. Facendo risparmiare così alle università cifre considerevoli. "Non tutti i docenti a contratto vengono sottopagati - spiega Alessandro Perfetto, dirigente dell'area amministrativa dell'ateneo emiliano - . Soprattutto nelle facoltà di nuova istituzione, le retribuzioni possono anche adeguarsi attorno ai 10/15 mila euro l'anno. Dipende dai singoli casi. Più in generale, poiché la stragrande maggioranza di questi docenti sono dei professionisti o esperti che svolgono anche un altro lavoro, gli stipendi possono essere anche al di sotto dei mille euro. Certo in linea generale i docenti a contratto per le università italiane rappresentano sicuramente un vantaggio in termini economici, visto che il loro stipendio incide diversamente sulle casse dell'ateneo rispetto a quello di un professore di ruolo. Ma non dimentichiamo che le università negli ultimi cinque anni hanno dovuto fare i conti con una crescita senza freni dell'offerta formativa. E quella dei docenti a contratto era l'unica strada percorribile per tenere i bilanci sotto controllo". Tutta colpa del "3+2". In effetti se il decreto del 21 maggio del 1998 parlava di docenza a contratto solo nel caso in cui le università dovessero "sopperire a particolari e motivate esigenze didattiche", lasciando quindi intendere la straordinarietà della norma, gli atenei nella realtà si sono fatti prendere un po' la mano facendo ricorso ai contrattisti senza pensarci su due volte. Soprattutto perché con l'entrata in vigore del sistema del "3+2" la priorità era diventata quella di assicurare l'insegnamento di migliaia di nuovi corsi di laurea senza pesare eccessivamente sulle casse dell'ateneo. "La volontà del ministro Mussi di mettere un freno a questo fenomeno ci trova abbastanza d'accordo - dice Silvano Focardi, rettore dell'Università di Siena, che lo scorso anno aveva poco più di mille docenti a contratto - Già da quest'anno nel nostro ateneo abbiamo previsto un taglio del 20% alle supplenze e ai singoli contratti. Sicuramente le università in questi anni hanno abusato di questo istituto ma è tutto collegato all'entrata in vigore del "3+2", visto che con il ricorso ai docenti a contratto si poteva facilmente far fronte a qualche carenza dal punto di vista organico. A mio avviso però considerare tutti le tipologie di docenti a contratto come dei precari dell'università è sbagliato. Tra di loro, è vero, ci sono molti professionisti che tengono degli interi corsi universitari e seguono i ragazzi anche durante le tesi, ma ce ne sono anche altri che entrano in aula solo per qualche ora". "Più ore ai prof". Ma adesso che il decreto varato dal ministro Mussi riporterà la situazione alla normalità, il vero rischio per gli atenei è che il taglio dei contrattisti finisca con il compromettere del tutto i già traballanti bilanci delle università. "Soldi in più soprattutto in questo particolare momento non ce ne sono - assicura il rettore Focardi - Come faranno gli atenei a sostituire i contrattisti non lo so. Un'idea potrebbe essere quella individuata dalla legge 230 sullo status giuridico della docenza che prevedeva un aumento delle ore di insegnamento dei professori universitari fino a 120 ore, contro le 60 attuali. La priorità adesso è non incidere ulteriormente sui bilanci". 

Ma davvero Daverio? Un ordinario senza laurea. Nel corso della puntata del 26 settembre 2017 di Matrix su Canale 5 condotta da Nicola Porro il noto televisivamente storico e critico d’arte Philippe Daverio ha spiegato come “per essere professore universitario ordinario in Italia non serva la laurea.” Egli spiega che avendo frequentato l’università durante il ’68, dato il fermento intellettuale, a un certo punto non ha più sentito il bisogno di continuare a studiare e, malgrado sia passato quasi mezzo secolo, non ha inteso riprendere mai quegli studi. Pur tuttavia ha ottenuto, ci tiene a dirlo mediante concorso, una cattedra da ordinario all’Università di Palermo al Dipartimento di Architettura.

Prof senza laurea e fino al 2057 graduatorie a esaurimento, scrive Gian Antonio Stella il 26 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". Avanti così e nel 2057 le «graduatorie a esaurimento» dei docenti, che dovevano inizialmente esaurirsi cinque anni fa, saranno infine esaurite. Evviva. Una «svista» di decenni. Dovuta non solo all’ottimismo un po’ ganassa di alcuni protagonisti (Matteo Renzi si impegnò a settembre del 2014 ad assumere tutti «a settembre del 2015»!) ma allo sbracamento del sistema. E all’incontinente prodigalità di certi Tar. Risultato: salvo retromarce, potranno andare in cattedra migliaia di docenti mai laureati, mai passati ai concorsi imposti dalla Costituzione e spesso mai chiamati in vent’anni, neppure un giorno, a insegnare. E gli studenti che si dovessero ritrovare con maestre e professori del tutto incapaci? Auguri. Ed è da qui che bisogna partire: dal panorama attuale del corpo docente. Prendiamo la capitale. La città con più iscritti alle Gae, le famose liste destinate a svuotarsi. Scrive Tuttoscuola in una dettagliatissima inchiesta in uscita oggi che, prendendo a esempio solo le materne e le elementari, nonostante i 42/43 anni di età media degli aspiranti maestri, «tra i 6.123 iscritti nella Gae di Roma per la scuola dell’infanzia ben 4.873 docenti, pari al 79,6% del totale (circa quattro su cinque), risultano iscritti con zero punti di servizio: verosimilmente è da ritenere che non abbiano mai insegnato». Mai. Eppure peggio ancora va nelle «primarie»: «Su 5.356 iscritti risultano con zero punti di servizio ben 4.916 (91,8%): nove docenti su dieci è da ritenere che non abbiano mai insegnato». Rileggiamo: mai. «Docenti per caso», li chiama la rivista di Giovanni Vinciguerra. Ma un paese come il nostro, che ha solo il 26% di laureati tra i cittadini tra i 30 e i 34 anni (penultimo in Europa davanti solo alla Romania), che ha 3 docenti su cento nelle «superiori» con meno di 40 anni contro i 26 di Francia e Germania, i 43 del Belgio e i 46 del Regno Unito, che investe nella ricerca la metà della media Ocse, un terzo della Germania o della Svezia e riceve fondi competitivi su merito e qualità assegnati da Agenzie pubbliche indipendenti pari a un quarantaduesimo della Gran Bretagna, può accettare un pantano così? Come può tenere il passo, ed è una questione di vita o di morte, con un mondo che accelera e accelera e accelera? Certo, vanno capiti tutti quegli aspiranti al posto fisso, disoccupati o sotto-occupati che si sono messi in coda per entrare nel mondo della scuola. Più ancora quanti si sono ritrovati perfino impossibilitati a vincere ogni concorso perché, fossero pure dei fuoriclasse, di concorsi non ce n’erano, come tra il 2000 e il 2011. Dice la Costituzione che «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso» ma, come accusa il giornale, «leggi e sentenze hanno messo all’angolo» la Carta. Intendiamoci: quando nel 2007 nacquero le «Gae» assorbendo decenni di graduatorie permanenti, furono istituite con buone intenzioni. Certo, il sistema conteneva già un principio discutibile: chi era dentro era dentro, chi era fuori era fuori. A costo di ostruire l’accesso a nuovi docenti. Magari preparatissimi, forti di un concorso vinto, entusiasti, ricchi di fantasia. Si pensò che fosse più importante mettere un punto. Fissando questo schema: metà dei posti vacanti a chi aveva passato un concorso, metà agli iscritti alle graduatorie ad esaurimento. Per svuotare finalmente il bacino dei precari generato da un’incessante catena di sanatorie iniziate con un decreto di Vittorio Emanuele II nel 1859: «In eccezione alla regola del concorso…» Ma come smaltirli, tutti quei precari in attesa? Allargando le maglie. Al punto che le buone intenzioni sono state via via sradicate e, scrive Tuttoscuola, «la perentorietà della chiusura delle graduatorie ad esaurimento è stata violata più volte a partire dal 2008, per iniziativa parlamentare o per via giudiziaria». Con quelle famose sentenze che una dopo l’altra accoglievano un po’ tutti i ricorsi. Col risultato che non solo smaltire i «vecchi» precari si è rivelato lentissimo ma «sono stati immessi in ruolo nei vari settori oltre 215 mila docenti (50 mila da provvedimenti del ministro Fioroni, 73 mila del ministro Gelmini, oltre 90 mila nell’epoca Profumo-Giannini-Fedeli), pari a oltre un quarto degli attuali posti di ruolo». Morale: coi ritmi attuali, come dicevamo, serviranno 14 anni per esaurire le graduatorie nelle «primarie» e 41 (quarantuno!) nelle scuole d’infanzia. Certo, ricorda la rivista, si tratta di «una previsione teorica fatta “a vita lavorativa infinita”: molte insegnanti (nate a cavallo degli anni 1950-60) nell’attesa supereranno infatti il limite massimo di età per essere assunte in ruolo». Di più: sul capo di quasi la metà degli iscritti «con riserva» a queste graduatorie incombe «la decisione che il Consiglio di Stato, a sezioni riunite, assumerà nel prossimo autunno per accertare la sussistenza del requisito di accesso alle Gae». Se il verdetto sarà sfavorevole, quegli iscritti con riserva «verranno definitivamente depennati». Se sarà favorevole, un po’ alla volta gli aspiranti maestri e professori dovranno essere smaltiti tutti. Anche quelli «recuperati» con la vecchia abilitazione. Che studiarono non 18 ma solo 13 anni, che non sono laureati, non sanno l’inglese, non hanno competenze digitali, non hanno mai fatto un concorso e neppure una supplenza… E magari non aprono un libro dai tempi del diploma. E potrebbero andare in cattedra dopo aver fatto per anni il commercialista o il postino, la contabile o la cuoca. Trovandosi alle prese con materie studiate anche venti o trent’anni prima, come un diplomato al liceo che dopo decenni allo sportello di una banca dovesse tradurre l’«Anabasi» di Senofonte. Onestamente: buon per loro ma cosa potrebbero insegnare ai nostri figli? Sono rimasti così abissalmente lontani dalle aule, tanti di questi docenti «a esaurimento», spiega Tuttoscuola, che si aggirano tra di noi i fantasmi di circa 1.300 docenti introvabili. I quali sono stati immessi in ruolo ma, dopo tanti anni trascorsi a fare altre cose, non se ne sono manco accorti. «L’Ufficio scolastico regionale della Campania, ad esempio, ha emanato tempo fa un decreto con cui i nominati che non avevano provveduto a ritirare entro sette giorni il contratto a tempo indeterminato venivano considerati rinunciatari alla nomina». Macché. Desaparecidos.

Si può insegnare senza abilitazione? Scrive Maura Corrada il 2 febbraio 2017. Per diventare insegnanti, bisogna passare per l’università, il Tfa e il concorso. Ma ci sono casi in cui è possibile insegnare senza abilitazione?

Per partecipare ai concorsi e ottenere una cattedra negli istituti scolastici pubblici è necessaria l’abilitazione all’insegnamento che si ottiene attraverso la partecipazione al Tfa(Tirocinio Formativo Attivo). In altre parole, quindi, i laureati che non hanno potuto parteciparvi si trovano in una situazione di stallo e non possono accedere all’insegnamento nelle scuole pubbliche. Ciò non significa, però, che non vi siano altre strade per insegnare senza l’abilitazione.

Come diventare insegnante? Il percorso di studi da seguire per diventare insegnante deve essere scelto a seconda delle scuole di destinazione: per le scuole dell’infanzia e le scuole elementari, coloro che si sono diplomati presso un istituto magistrale, entro e non oltre l’anno scolastico 2001, dispongono automaticamente dell’abilitazione per potere accedere alle graduatorie predisposte dal ministero dell’Istruzione (Miur). Dopo il 2000, l’accesso all’insegnamento è possibile solo per coloro che hanno conseguito la laurea presso le facoltà universitarie di scienze della formazione primaria o scienze dell’educazione. Tali soggetti devono inoltre aver svolto un periodo di tirocinio durante il corso di studi: solo così avranno il titolo di abilitazione all’insegnamento, necessario per partecipare ai concorsi indetti. Discorso in parte diverso per scuole medie e scuole superiori, per insegnare nelle quali occorre una laurea in materia come lettere moderne, lettere classiche, lingue e materie scientifiche. La laurea non basta: negli anni universitari, bisogna, infatti, conseguire il numero di crediti stabiliti dal ministero dell’Istruzione, consultabili sul relativo sito. Chi è in possesso di questi due requisiti, dovrà, poi, ottenere l’abilitazione, mediante i corsi Tfa. Coloro che sono in possesso di una laurea ma che non hanno conseguito i crediti dagli esami richiesti, secondo quanto stabilito dal Miur, possono comunque intraprendere il percorso che abbiamo appena esposto ma prima dovranno integrare gli esami mancanti attraverso corsi singoli universitari. Facciamo qualche esempio: Tizia ha una laurea magistrale in giurisprudenza e vorrebbe intraprendere la carriera di insegnante di diritto. Secondo il Miur, i laureati in legge devono avere un determinato numero di crediti derivanti da materie economiche. Quindi, Tizia dovrà integrare i crediti mancanti sostenendo esami di economia (ad esempio, statistica, matematiche, economia aziendale, ecc…) iscrivendosi a ogni singolo corso. I costi variano a seconda degli atenei: in alcune università è previsto un tot ad esame, in altre un costo per ogni singolo credito. Altro esempio: i laureati vecchio ordinamento dovranno sostenere esami di nuovo ordinamento da 12 crediti per ciascuna annualità richiesta.

Insegnanti: cos’è il Tfa? Fino a qualche anno fa si parlava di Ssis, oggi di Tfa: la sostanza non cambia. È il Tirocinio Formativo Attivo che si svolge annualmente presso le università italiane e che permette di conseguire l’abilitazione all’insegnamento. Si tratta di un corso universitario a tutti gli effetti, a numero chiuso: si accede, cioè, previo superamento di un test d’ingresso consistente in tre prove, test a risposta multipla, prova scritta e prova orale. Implica il versamento delle tasse che, a seconda dell’area geografica, oscillano da un minimo di 1.000 sino ad un massimo di 3.000 euro, a seconda anche della propria situazione economico-patrimoniale che viene indicata all’atto dell’iscrizione. I corsi in questione durano 1500 ore, per un totale di 60 crediti universitari. Il numero dei posti disponibili e le modalità di svolgimento per regione vengono resi noti annualmente dal Miur nel momento della pubblicazione del bando di concorso.

Insegnanti: cosa sono le fasce di insegnamento? Sia per le scuole dell’infanzia ed elementari che per le scuole medie e superiori, vale la regola secondo cui gli aventi diritto, a seconda del punteggio presentato, vengono inseriti in delle graduatorie nazionali:

1ª e 2ª fascia: vengono inseriti gli insegnanti muniti di abilitazione con i punteggi elevati e medi;

3ª fascia: vengono iscritti, ogni tre anni, i laureati privi del titolo di abilitazione i quali, per accedere alle supplenze possono indicare solamente 10 scuole per provincia. Se non si riesce ad accedere nemmeno alla 3ª fascia, si può compilare una domanda di messa a disposizione: in questo modo si manifesta la propria disponibilità ad effettuare delle supplenze, da inviare, via posta elettronica certificata (Pec) o a mezzo raccomandata a/r, alle scuole di interesse.

Insegnanti: come lavorare senza abilitazione? Un buon modo per provare a fare una prima esperienza di insegnamento pur non avendo l’abilitazione è inviare il proprio curriculum ai centri studi e alle associazioni di ripetizioni. Nella maggior parte dei casi, non si avrà una classe di studenti ma un gruppo ristretto di alunni o un solo studente a cui impartire lezioni frontali. Un altro modo per insegnare senza abilitazione è quello a cui abbiamo fatto riferimento poco sopra: l’invio delle domande di messa a disposizione, cui cui l’aspirante docente di propone per eventuali posti vacanti e sostituzioni di breve durata nelle scuole pubbliche. A differenza di quanto si pensa, anche per le scuole paritarie (scuole private, non statali, che sono abilitate a rilasciare titoli di studio con valore legale) è necessaria l’abilitazione. Tuttavia, in casi particolari (quando, per esempio, si ha difficoltà a reclutare insegnanti in possesso di abilitazione), si può essere chiamati a insegnare, per supplenze, anche senza titolo di abilitazione all’insegnamento.

Insegnanti: fac simile domanda di messa a disposizione.

DOMANDA DI MESSA A DISPOSIZIONE FINALIZZATA ALLA STIPULA DI CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO

Al Dirigente Scolastico (Indirizzo scuola)

Oggetto: domanda di messa a disposizione per supplenze di docente per l’a.s. …

Il/la sottoscritt …, CF …, nato/a a … Prov. …, il …, residente a… in via…; tel (fisso e mobile), e-mail … ,

presenta domanda di messa a disposizione in caso di esaurimento delle graduatorie d’istituto per le seguenti tipologie di posto e/o classi di concorso:

– per le seguenti classi di concorso della scuola … (elementare, media, ecc)

A tale scopo, consapevole delle sanzioni penali, nel caso di dichiarazioni non veritiere, di formazione o uso di atti falsi, richiamate dall’art. 76 del D.P.R. 28/12/2000 n. 445, così come modificato e integrato dall’art. 15 della Legge 16/1/2003 n. 3; dichiara sotto la propria responsabilità

– di essere cittadino/a italiano/a;

– di godere dei diritti civili e politici;

– di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l’applicazione di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi iscritti nel casellario giudiziale ai sensi della normativa vigente;

– di non essere sottoposto a procedimenti penali;

– di possedere il seguente titolo di studio: … (laurea) presso Università …; e che nel proprio piano di studio sono stati superati i seguenti esami necessari per accedere alla seguente classe di concorso della scuola …: …(crediti universitari – CFU). 

Luogo, data,             Firma

PARENTOPOLI: DIVIETO PER PARENTI ED AFFINI; AMMESSI CONIUGI, CONVIVENTI ED AMANTI. Università, vietato assumere i parenti. Tranne le mogli. Bari, 31 assunzioni all’università. La legge vieta congiunti dei professori fino al quarto grado. Ma il rettore annuncia: «L’interpretazione non è univoca», scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. La moglie è una parente? «Che razza di domanda!», direte voi. All’università di Bari, invece, indifferenti alle risate di scherno, la domanda se la pongono sul serio: d’accordo che la legge vieta l’assunzione in facoltà di «parenti e affini fino al quarto grado» ma perché mai escludere le mogli? Passi pure per i cognati, ma i mariti? Il tormentone di Parentopoli, all’ateneo «Aldo Moro» di Bari, va avanti da tempo immemorabile. «Per anni giornali, settimanali, libri e tv hanno elevato agli onori della cronaca i casi di alcune famiglie particolarmente portate alla carriera accademica - scrive Roberto Perotti già nel 2008 -. Nella facoltà di Economia sono noti i casi della famiglia Girone, con l’ex magnifico rettore Giovanni professore di Statistica, la moglie Giulia Sallustio, tre figli, un genero tutti docenti nella stessa facoltà; o della famiglia Massari, con Lanfranco professore di Economia aziendale, due fratelli, e almeno cinque tra figli e nipoti, a Bari e atenei limitrofi; o della famiglia Tatarano, con il padre Giovanni e due figli, tutti docenti di Diritto privato e tutti nello stesso corridoio». «Meno noto è il fatto che non ci sono soltanto loro - insiste il docente della Bocconi -. Nella facoltà di Economia almeno 42 docenti su 179 (quasi il 25 per cento) risultano avere almeno un parente stretto nella stessa facoltà; altri parenti sono sparsi per le altre facoltà dell’ateneo, e altri ancora insegnano negli atenei satelliti, nella sede staccata di Taranto, a Lecce, a Foggia. Tutte queste sono stime prudenziali, perché in parecchi casi fortemente sospetti non sono riuscito a rompere il muro di omertà e ad accertare al di là di ogni dubbio l’esistenza di un legame di parentela. E non c’è soltanto Economia: a Medicina e Chirurgia i cognomi che ricorrono almeno due volte sono 40, su 417 docenti». L’anno dopo, nel libro Parentopoli, Nino Luca rincara: «Antonella, Fabrizio, Francesco Saverio (vale uno nonostante il doppio nome), Gian Siro, Gilberto, Lanfranco, Manuela Monica Danila (tre nomi ma vale sempre uno) e Stefania. Totale otto Massari: Massari, Massari, Massari, Massari, Massari, Massari, Massari e Massari. Nell’ordine: ordinario, associato, ricercatore, associato, associato, ordinario, ricercatore e straordinario. Facoltà di Economia, economia, economia, economia, tutti ad economia. Stessa facoltà, stesso cognome, stessa famiglia, stesso mestiere, la stessa città. Anche se qualcuno, forse per frenare le malelingue, si è dovuto sobbarcare una piccola trasferta a Lecce e a Casamassima. Ma gli otto Massari portano l’università di Bari nel guinness dei primati». Macché record! Tre anni dopo, nel 2012, Striscia la notizia becca il direttore amministrativo Giorgio De Santis, via via consolato nella sua solitudine dall’arrivo all’ateneo barese della moglie, della figlia, di un fratello, della cognata, della sorella della cognata e di sette nipoti. Totale: dodici. «Ma no! Ma no!», si affrettavano via via a precisare dopo ogni scandalo i più rocciosi difensori del buon nome dell’università. «È tutta roba vecchia, un accumulo di casi isolati che non possono essere messi insieme. È il passato! Adesso c’è il codice etico!». Giusto, dal gennaio del 2007. Quando l’allora rettore Corrado Petrocelli benedisse le nuove regole, che vietavano le assunzioni dei parenti prima ancora che arrivasse la legge nazionale firmata da Maria Stella Gelmini, con parole di esultanza: «È un momento altissimo per l’intera comunità accademica barese. Bari adesso si pone come capofila nazionale per la lotta ai mali dell’università. Spero che da oggi in poi si parli più della bravura dei nostri ricercatori che degli scandali che in passato han travolto l’intera istituzione». Nel 2010, replay. Col trucco. Codice etico alla mano, Medicina è costretta infatti a negare l’assunzione di Maria Luisa Fiorella, prima al concorso per un posto da associato ad Otorinolaringoiatria. «Non è giusto!», si ribella il padre, Raffaele Fiorella, otorinolaringoiatra lui pure, professore e primario del Policlinico. E perché non sarebbe giusto? «Non è una legge, è un regolamento». E spiega al nostro Corriere del Mezzogiorno: «Mi verrebbe voglia di dimettermi, ma non lo faccio solo per rispetto dei miei pazienti e degli studenti». Poi ci ripensa, si dimette, va in prepensionamento e fa strada alla figlia. Il tempo che Maria Luisa si insedi e lui torna ad insegnare, con un contratto a tempo, nel dipartimento che dirigeva. Tié! Ma, ahinoi, il 30 dicembre 2010 l’insieme di «Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento», meglio nota appunto come legge Gelmini, sembra spazzare via ogni scappatoia. Dice infatti che «in ogni caso, ai procedimenti per la chiamata non possono partecipare coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo». Chiaro? Non bastasse, una sentenza dell’Abruzzo annulla due anni dopo un’assunzione furbetta all’università di Teramo, basata proprio sul fatto che la legge non cita espressamente tra i parenti mogli e mariti, spiegando che «se l’affinità presuppone il coniugio, la ragione di incompatibilità riferita all’affinità (si badi, fino al quarto grado), a maggior ragione, deve valere per il coniugio». Linguaggio buro-giudiziario orrendo, ma chiaro. O no? No, pensa qualche testa fina a Bari. Tanto è vero che, essendo in arrivo i bandi per assumere trentuno nuovi professori associati, un’occasione in altri tempi unica per infilare un po’ di parenti, il problema è stato sollevato dal Collegio dei garanti, deciso a sciogliere le «incongruenze» appunto tra il codice etico dell’ateneo che precisa il divieto per i coniugi e la legge Gelmini che lascerebbe, per quanto sia ridicolo, questo pertugio. Il presidente del Collegio Ugo Villani ha invitato in una lettera i colleghi a interpretare la legge Gelmini in modo costituzionalmente corretto: «Sarebbe irragionevole il divieto per gli affini entro il quarto grado e non per il coniuge». Insomma, ha spiegato alla Gazzetta del Mezzogiorno, «non posso chiamare in dipartimento il cugino di mia moglie, che magari non ho mai visto in vita mia, ma posso chiamare mia moglie. È una situazione assolutamente irragionevole». Ovvio, agli occhi di tutti gli italiani. Ma non a quelli di tutti i docenti di Bari. Tanto che il rettore Antonio Uricchio, spiegando che «quella del Collegio dei garanti non è una interpretazione univoca» (testuale!), ha convocato il Senato accademico. Il tema è quello che dicevamo: la moglie è una parente? Chissà se questa dotta disquisizione contribuirà a rafforzare il profilo internazionale dell’università barese. Nell’ultimo ranking «Times Higher Education World» è tra il 351º e 400º posto in Europa. E quella mondiale è ancora più umiliante. Auguri.

«Parentopoli» All'Università di Bari, il caso di mariti e mogli, scrive Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Forse si è trattato di una svista. Forse, ed è più probabile, di un calcolo ben ponderato. Fatto sta che la legge Gelmini ha un buco, un buco che sta spaccando il mondo accademico e in particolare l’Università di Bari, dove sono in arrivo i bandi per reclutare 31 nuovi professori associati. Nell’eterna lotta al familismo universitario si pone un problema non da poco: sebbene sia vietato assumere chi ha «parenti o affini fino al quarto grado» nello stesso dipartimento, quel divieto non vale per mogli o mariti. E a Bari, tra quanti aspirano a un posto da professore, ce ne sono parecchi. Il problema è stato sollevato dal Collegio dei garanti, che ha fatto emergere le incongruenze tra la legge (e il nuovo regolamento di Ateneo) e il codice etico dell’Università di Bari, in cui - oltre ai parenti fino al quarto grado - è vietata anche l’assunzione del coniuge. In una lettera, il presidente del Collegio, Ugo Villani, ha dunque invitato i colleghi a una interpretazione «costituzionalmente orientata» della legge Gelmini: «Sarebbe irragionevole - scrive - sancire il divieto per gli affini entro il quarto grado e non per il coniuge». Al telefono, il professor Villani è ancora più esplicito: «Non posso chiamare in dipartimento il cugino di mia moglie, che magari non ho mai visto in vita mia, ma posso chiamare mia moglie. È una situazione assolutamente irragionevole, ed ecco perché mi sembrava giusto sollevare una questione che ha una indubbia rilevanza etica: per questo proponiamo una interpretazione della legge Gelmini che a noi pare giusta, ed è sostenuta da una sentenza del Consiglio di Stato». I giudici amministrativi hanno infatti annullato un assegno di ricerca che l’Università di Teramo aveva assegnato alla moglie di un ricercatore dello stesso dipartimento: «Se l’affinità presuppone il coniugio - hanno scritto i giudici -, la ragione di incompatibilità riferita all’affinità a maggior ragione vale per il coniugio»: in caso contrario, hanno avvertito, si rischia di istituzionalizzare «il biasimevole, ma non infrequente, fenomeno detto del familismo universitario». Ma per il momento il corpo docente barese si è mostrato scettico. Il codice etico, fanno notare in molti, è obsoleto (è stato emanato prima della legge 240, quando esistevano ancora le facoltà, e parametrava le incompatibilità ai settori scientifico-disciplinari), e spesso le relazioni personali tra colleghi nascono proprio in dipartimento. Altre Università (Milano Bicocca, Firenze, Venezia) hanno però emanato regolamenti che vietano anche mariti e mogli, seppur con sfumature diverse (in alcuni casi il divieto vale solo per i nuovi ingressi e non per le progressioni di carriera). Bari, invece, ha emanato un regolamento - non ancora in vigore - che richiama parola per parola il testo della legge Gelmini, e dunque salta a piè pari il problema dei coniugi. «Sono impegnatissimo a difendere il codice etico - dice il rettore Antonio Uricchio - ma quella del Collegio dei garanti non è una interpretazione univoca. Per questo motivo ho convocato per venerdì il Senato accademico, in quella sede il professor Villani rappresenterà le sue conclusioni e decideremo». È probabile che si arrivi a una votazione, ed a quel punto potrebbe accadere di tutto: anche che il Senato voti per ammettere ai concorsi mariti e mogli. Anche perché le prime 31 assunzioni secondo la legge Gelmini preludono a una successiva infornata di professori associati: se i vincitori dei concorsi (una procedura comparativa telematica) risulteranno già in servizio presso l’Università, infatti, i singoli dipartimenti potranno utilizzare le risorse economiche liberate per effettuare chiamate dirette a chi ha conseguito l’idoneità nel concorso nazionale. A Bari i casi di marito professore e moglie ricercatore nello stesso dipartimento (o viceversa) sono diverse decine. A Giurisprudenza, a Medicina, ma anche (e forse soprattutto) nelle facoltà scientifiche. La legge Gelmini ha eliminato la figura del ricercatore a tempo indeterminato, quelli che ci sono destinati a diventare tutti (prima o poi) professori. E c’è una vera guerra per chi deve entrare per primo. La questione è tutto sommato semplice, ma - qualunque sia la soluzione - si rischia di scontentare qualcuno. Venerdì il Senato accademico dell’Università di Bari, chiamata a reclutare 32 nuovi professori associati, dovrà scegliere come regolarsi sul caso dei coniugi che in queste ore sta spaccando la comunità accademica: se vietare l’assunzione di moglie e mariti - come chiede il garante del Codice etico, Ugo Villani - o se invece scegliere di adeguarsi al testo letterale della legge Gelmini che al proposito è vago, continua Scagliarini. Dopo i 32 bandi per associati, cui potrebbero far seguito un certo numero di chiamate dirette, arriveranno le assunzioni dei professori ordinari. E di coniugi che lavorano nello stesso dipartimento, a Bari ce ne sono tantissimi: quasi tutti, guarda caso, in possesso dell’abilitazione nazionale e dunque interessati agli imminenti bandi. Il direttore del dipartimento di Psicologia, Rosalinda Cassibba, è ad esempio moglie di Giuseppe Moro, professore associato di Sociologia. A Biotecnologie, la ricercatrice Grazia Paola Nicchia è sposata con il professore associato Antonio Frigeri (Fisiologia). Ad agraria, sono marito e moglie i ricercatori Agata Gadaleta e Giuseppe Ferrara. Il preside di Giurisprudenza, Massimo Di Rienzo, è il marito di Francesca Vessia, professore associato di Commerciale (in attesa di abilitazione). La legge 240 prevede il divieto di assumere nello stesso dipartimento «parenti o affini fino al quarto grado», senza far riferimento ai coniugi. Ma nella lettera che ha fatto scoppiare il caso, il professor Villani ha evidenziato che il rapporto di coniugio è alla base del concetto di affinità, e - soprattutto - che secondo il Consiglio di Stato il divieto va esteso anche a marito e moglie. Quello stesso divieto, peraltro, è contenuto anche nel Codice etico dell’Università di Bari, mentre il nuovo regolamento per le chiamate dei docenti non ne fa menzione: si limita a richiamare la norma di legge. È per questo che il rettore Antonio Uricchio ha demandato tutto al Senato che si riunirà venerdì. In quella occasione, dovrebbero essere votati i criteri delle assunzioni: la comunità accademica rischia dunque, indirettamente, di votare per l’assunzione di mogli e mariti. Il problema è che a Bari c’è un precedente, un precedente pesante. Nel precedente concorso per associati, a marzo 2013, uno dei 37 vincitori era la professoressa Stefana Santelia, moglie dell’allora rettore Corrado Petrocelli. All’epoca l’Università ha temporeggiato (l’assunzione di parenti del rettore non può avvenire in alcun dipartimento): la professoressa Santelia è stata chiamata a novembre 2013, dopo la scadenza del mandato di Petrocelli. Una procedura formalmente ineccepibile. Il problema è che la legge Gelmini era in vigore già allora, ma all’epoca nessuno si era posto il problema: e dunque c’è sul tavolo un precedente fortissimo.

Parentopoli in Ateneo, oltre venti cattedre per mogli e mariti prof. Scontro sul codice etico. Il presidente del Collegio dei garanti, Ugo Villani sarà ascoltato dal Senato accademico. "Il regolamento va modificato perché va prevista l'incompatibilità tra i coniugi", scrive Antonio Di Giacomo su “La Repubblica”. In pole position ci sarebbero circa venti docenti pronti a saltare in cattedra. Peccato, però, che sembra si tratti di mogli e mariti di professori già in servizio nell'Università di Bari. A meno che, venerdì prossimo, il Senato accademico durante la sua riunione straordinaria non accolga le sollecitazioni di Ugo Villani, presidente del Collegio dei garanti dell'Ateneo barese, che ha preso carta e penna e fornito chiare indicazioni sul regolamento per la chiamata dei professori di ruolo: "Il Collegio raccomanda al Senato accademico di modificare la normativa interna dell'Università di Bari per rendere esplicito divieto fondato sul rapporto di coniugio". Il peccato originale, infatti, è nell'articolo 18 della legge 240/10, meglio nota come riforma Gelmini, che fra le cause di esclusione dai procedimenti per chiamata dei professori, dal conferimento di assegni e dalla stipulazione di contratti considera incompatibili i parenti e affini anche non stretti (fino al quarto grado) e non il coniuge di "un professore appartenente al Dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero del rettore, del direttore generale o di un componente del Consiglio di amministrazione dell'Ateneo". Figli, cugini, nipoti, fratelli e sorelle no, insomma, ma mariti e mogli sì. Fatto sta che, sebbene curiosamente l'articolo 18 della Gelmini abbia lasciato proprio una finestra interpretativa aperta, il 15 settembre scorso il Senato accademico barese ha approvato un regolamento che richiama alla lettera la stessa legge. Superando così le più strette maglie del codice etico che pure l'Ateneo si era dato. Ma qui Villani invoca l'autorevole parere del Consiglio di Stato che, rispetto alle cause di esclusione, ha già parlato chiaro nella sentenza 1270 del 2013, giudicando "irragionevole considerare ai fini dell'incompatibilità, un rapporto di parentela e affinità anche non stretto (fino al quarto grado) ed escluderlo invece per il coniuge ". A meno che non si ritenga "che il biasimevole, ma non infrequente, fenomeno del familismo universitario, vada addirittura istituzionalizzato". Ed è appellandosi a questo pronunciamento che Villani, anche alla luce di una delibera assunta dal Collegio dei garanti lo scorso 21 ottobre, ha osservato, come sarebbe "irragionevole sancire il divieto per gli affini entro il quanto grado e non per il coniuge, essendo invero il rapporto di coniugio il presupposto giuridico della affinità". Ma qual è il parere della comunità accademica? Per Giovanni Lapadula, direttore del dipartimento di Medicina, "l'osservazione di Villani è giusta, visto che marito e moglie sono due persone inizialmente estranee fra cui si crea un legame affettivo forte che va poi sottoposto a valutazioni etiche quando si parla di carriere. Ma credo ci sia pure il problema di quei legami affettivi, come le convivenze, non registrati ufficialmente e che pure pongono questioni etiche, le convivenze nel quale non c'è vincolo matrimoniale ma lo stesso vincolo. Ritengo, quindi, che laddove ci siano dei dubbi debba poter esistere una commissione etica indipendente, costituita da componenti esterni all'Ateneo, perché i singoli casi siano analizzati con serenità ". Mentre Massimo Di Rienzo, direttore di Giurisprudenza, osserva che "escludere qualcuno da una procedura in assenza dei presupposti di legge significa adottare delle decisioni delle quali si può essere responsabili ai fini risarcitori. Le incompatibilità devono essere quelle stabilite dalle norme: ogni decisione non potrà che essere coerente al dettato legislativo". Non ha dubbi, invece, il Codau, l'associazione dei direttori generali delle università italiane che, richiamando il Consiglio di Stato, in un documento del novembre 2013 scrive: "Il rapporto di parentela e coniugio devono essere considerati tra le incompatibilità".

TANTO BRAVO DA INSEGNARE ALL’ESTERO? PENALIZZATO. Insegnavi a Yale? Mettiti pure in coda. All’Università del Salento più punti a chi ha avuto cattedre nei nostri atenei, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Vale di più una cattedra ad Harvard o all’ateneo di Villautarchia? Dipende. All’Università del Salento, pare impossibile, il concorso per assumere 16 professori riconosce più punti a chi ha già insegnato nelle nostre aule piuttosto che ai docenti di Berkeley o Yale. Che gli atenei italiani possano essere sottovalutati dalle classifiche mondiali, come sospirano i rettori, è possibile. Anche l’ultimissimo «World University Ranking» del Times Higher education vede nelle prime 200 addirittura 74 università statunitensi, 29 britanniche, 12 tedesche, 11 olandesi, 8 canadesi, 8 australiane, 7 svizzere, 7 francesi, 5 giapponesi, 4 turche (quattro!) e una sola italiana. Cioè la Normale di Pisa che si piazza al 63º posto e, nella classifica pro capite, tenendo conto del numero degli studenti, starebbe molto più in alto. Seguono, nella seconda fascia, l’ateneo di Trieste e la Bicocca di Milano: nelle prime 250, a dispetto di tutte le vanità sulla «patria della cultura», non abbiamo altro. Domanda: allora come mai, se le università italiane sono così scarse, i nostri ragazzi appena mettono il naso al di là della frontiera fanno spessissimo un figurone in tutto il mondo? Risposta: perché evidentemente, nonostante tutti i difetti, tutti i concorsi truccati, tutte le Parentopoli, nelle nostre aule si insegna e si impara meglio di quanto si pensi. Il problema della reputazione, però, resta. Ed è pesante: come possiamo rassegnarci ad avere tra le prime 400 università d’Europa solo 17 italiane? Fatto sta che, non contentandosi di contestare la sacralità di queste classifiche, l’Università del Salento ha deciso di andare oltre. E di valutare di più i curriculum «caserecci» che non quelli di profilo internazionale. Lo dice il bando di selezione «per la copertura di 16 posti di professore universitario di ruolo di 2ª fascia» firmato dal rettore Vincenzo Zara. Già il documento, va detto, è un capolavoro del delirio burocratese in cui affoga l’Italia: prima di arrivare al nocciolo, la delibera vera e propria, elenca infatti 42 «visto» e «vista» (da «vista la legge 23 agosto 1988 n.370 - esenzione dell’imposta di bollo...» a «vista la legge 9 maggio 1989 n.168-istituzione del ministero dell’Università...») più due «considerato» e un «ritenuto» per un totale di 189 righe di logorrea «codicillica». Il seguito, però, è perfino peggio. Già alla prima delle cattedre messe in palio, infatti, quella di Archeologia, il massimo riconosciuto per l’«attività di docenza svolte in Italia» è di 20 punti, quello per le «attività di docenza e attività di ricerca all’estero» compresi gli «incarichi o fellowship ufficiali presso atenei e centri di ricerca esteri di alta qualificazione» e la «partecipazione a convegni internazionali in qualità di relatore», solo di 4. Cinque volte di meno. Col risultato, ad esempio, che se un fuoriclasse celebre nel mondo come Andrew Stewart, specializzato in «Ancient Mediterranean Art and Archaeology», volesse prendersi lo sfizio di lasciare l’Università di Berkeley per venire a Lecce (ammesso che fosse accettato nonostante il passaporto straniero) avrebbe per la sua esperienza didattica 4 punti rispetto ai 20 riconosciuti a un ipotetico professor Tizio Caio che abbia insegnato in un’università telematica di Rocca Cannuccia. Assurdo. Tanto più di questi tempi, coi docenti delle «telematiche» che paiono (ma ci torneremo) moltiplicarsi miracolosamente. E se può essere spacciato come una scelta sensata lo squilibrio (16 punti agli «italiani», cinque agli «stranieri») per la cattedra di letteratura italiana contemporanea, anche se ci sono fior di stranieri che la conoscono meglio di tanti italiani, appare folle la sproporzione, ad esempio, per la cattedra di Econometria (20 punti a 10), di «Meccanica applicata alle macchine» (30 punti a 10), di Botanica (20 punti a 5) o di «Misure elettriche ed elettroniche» dove lo squilibrio è ancora quintuplo: 10 punti ai «casalinghi», 2 agli eventuali acquisti dall’estero. Un terzo del punteggio che l’aspirante professore potrebbe guadagnare dimostrando di sapere l’inglese! E non è tutto. Un ricercatore ha generalmente un punteggio uguale a quello del capo-ricerca e in alcune discipline perfino più alto. Peggio: a «Progettazione industriale» chi ha avuto la «responsabilità scientifica di progetti di ricerca, nazionali e internazionali ammessi al finanziamento sulla base di bandi competitivi» ottiene un punto. Chi ha solo partecipato ne ottiene nove! Che razza di criterio è? Per carità: evviva l’Italia ed evviva gli italiani! Ma se all’estero vanno a cercarli apposta gli stranieri (compresi moltissimi dei nostri, soprattutto giovani) per dotare il proprio ateneo di una classe accademica più variegata e internazionale e multiculturale possibile, perché mai noi dobbiamo fare il contrario? A Flavia Amabile che ne ha scritto nel blog de La Stampa, il direttore del dipartimento di fisica leccese ha spiegato che era importante «avere personale docente con esperienza didattica in Italia che possa da subito svolgere al meglio i corsi e, eventualmente, ricoprire cariche accademiche» (testuale!) e che c’era da «valorizzare i ricercatori (italiani e non) che in questi anni di blocco dei concorsi hanno consentito il normale svolgimento delle attività didattiche». Per carità, sarà anche vero... Ma all’estero come la vedranno, questa faccenda? Ci farà guadagnare o perdere altri punti nelle classifiche?

UNIVERSITA'. DOTTORATI DI RICERCA. ANCHE A SINISTRA ROBA NOSTRA? Dottorato di ricerca al figlio del senatore e il prof cambia la sim del cellulare. Nelle intercettazioni della Guardia di Finanza il ruolo di Loiodice per favorire Procacci (Pd), scrive Gabriella De Mattei e Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Non ci sono soltanto scambi di favore tra docenti per spartirsi le cattedre italiane. Nell’inchiesta Do ut Des - la maxi indagine della Guardia di Finanza sui concorsi italiani nelle facoltà di Giurisprudenza - ci sono anche nomi e favori ad alcuni politici. Tra gli indagati c’è l’ex ministro, Anna Maria Bernini, che aspirava a un posto da ordinario. Ma negli atti si parla anche di un ex senatore del Partito democratico, Giovanni Procacci, oggi dirigente regionale del partito, e di suo figlio, Pasquale. Il ragazzo (che non è indagato) secondo l’accusa sarebbe stato favorito dal professor Aldo Loiodice per superare una prova per il dottorato di ricerca in diritto Pubblico, con le prove svolte tra il 18 e il 22 dicembre del 2009. Nel fascicolo della Procura è ricostruita tutta la storia di questa prova. Non una qualunque non fosse altro perché, secondo la ricostruzione del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza, segna la rottura all’interno dell’organizzazione, e cioè tra il gruppo dei professori baresi e quella del ras della Giustino Fortunato, Angelo Colarusso. Secondo la ricostruzione, dopo le polemiche su alcuni concorsi sollevate da Repubblica, si erano creati due posti schieramenti, uno che faceva capo a Gaetano Dammacco e l’altro ad Aldo Loiodice. A svelare quello che accade è una cimice piazzata all’interno dello studio del professor Dammacco. Sia lui sia Loiodice sarebbero interessati a piazzare propri uomini all’interno della commissione. Dove, con un colpo di spugna, viene nominata il 17 dicembre del 2009 la figlia di Loiodice, Isabella, a scapito di due protetti di Dammacco. Che infatti si infuria sostenendo che si tratti di una grossa mancanza di rispetto nei suoi confronti. Da qui partono una serie di conversazioni tra il gruppo dei docenti pro Dammacco, che vedono minata la posizione della loro protetta. Non avevano tutti i torti. Il 18 dicembre la figlia di Loiodice, Isabella, chiama il padre aggiornandolo sulle procedure: gli dice che è stata fatta la prova scritta dove è avvenuta la prima scrematura e c’è un elenco di promossi all’orale. Tra loro c’è anche Procacci, come spiega la figlia al padre seppur con un linguaggio criptico. Gli investigatori ricostruiscono infatti i rapporti tra Loiodice e il senatore Procacci, sostenendo che i due fossero amici. E come si deduce dalle ambientali intercettate nello studio di Dammacco, Loiodice avrebbe apparecchiato la commissione soltanto per favorire il figlio del senatore. «Ti sto pensando» diceva l’amministrativista al suo allievo al telefono, utilizzando il solito linguaggio criptico. Loiodice sapeva dell’indagine. Ed era convinto di essere intercettato. Lo dimostra il fatto che a fine dicembre del 2009 attiva una nuova scheda sim, che utilizza soltanto lui, ma che viene intestata a un collaboratore di studio. Scheda che gli investigatori riescono comunque a intercettare. Tornando al concorso, si svolgono le prove orali. E le cose vanno come dovevano. È il 22 dicembre quando Giovanni Procacci, avendo saputo di aver passato la prova, chiama immediatamente il suo mentore Loiodice per ringraziarlo e gli preannuncia una visita allo studio insieme con il padre. Subito dopo Loiodice chiama Isabella facendo una telefonata, secondo gli investigatori da manuale: «Non sapevo niente le dice, in sintesi - non mi sono mai permesso di dire niente come sei eppure ora mi ha telefonato Pasquale Procacci per dirmi che aveva vinto. Sono proprio contento, vuol dire che il ragazzo è bravo». Questa parte del fascicolo di Do ut Des è quella che è rimasta a Bari. Mentre gran parte delle altre prove sotto inchiesta sono state spacchettate e mandate per competenza in altre procure: da Milano a Lecce, a troppi anni di distanza e nonostante il lavoro ciclopico del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza, c’è la prova di come i baroni italiani (molti ormai andati in pensione, altri che invece ricoprono gli stessi ruoli se non addirittura più prestigiosi) scambiavano l’Università pubblica per cosa loro, trasfor-mando le prove in qualcosa che nulla aveva a che fare per il merito. Un concorso per, appunto, un do ut des.

"Pronti a sospenderci dal Pd se Procacci non rimetterà il suo incarico e se Michele Emiliano, da segretario regionale, non sia lì a pretendere le sue dimissioni da coordinatore della segreteria". Lo afferma, a proposito del coordinatore della segreteria del Pd pugliese, Giovanni Procacci, questa mattina con una lunga nota su Fb l’assessore regionale e candidato alle primarie Guglielmo Minervini (Pd), a seguito dell’inchiesta sugli scandali che riguardano i concorsi all’Università di Bari, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. I nomi di Procacci, padre e figlio, - secondo quanto si è appreso da fonti giudiziarie – non risultano nell’elenco degli indagati, pur essendo menzionati in una intercettazione telefonica.  "Un partito di quelli che raccomandano i propri figli - aggiunge - è il principale avversario del cambiamento della Puglia. Procacci dovrebbe avvertire il bisogno di togliere il Pd dall'imbarazzo dimettendosi dall'incarico di rappresentanza. Il segretario regionale (Michele Emiliano, anche lui candidato alle primarie del 30 novembre ndr) spero glielo abbia chiesto. Altrimenti - aggiunge Minervini - ci sospenderemmo noi dal Pd. Su questo punto non si transige. Non si può transigere. Sulle questioni di fondo non si bara". "E' evidente – aggiunge – che il fesso sono io. Dieci anni assessore regionale, nientepopodimeno, e una figlia a Milano ancora a sbattersi in giro, con tutte le sue energie, per cercare uno stage non retribuito, dopo un lavoro precario in condizioni da sfruttamento". "In fondo, come ci ricorda Procacci, se sei un politico di punta basta una telefonata all’amico barone, et voilà, dottorato vinto per tuo figlio, primo passo – continua Minervini – di una carriera luminosa spianata in forza di un cognome che sfonda i traguardi come un ariete. Con buona pace di chi quel posto lo meritava davvero, ma essendo privo del supporto di una buona famiglia, si è visto sorpassato a destra: gli auguriamo, davvero di cuore, migliore successo. Quelle intercettazioni tra l’accademico e il coordinatore della segreteria regionale del PD, l’uomo più vicino di Michele Emiliano (anche lui in corsa nelle primarie del centrosinistra alla presidenza della Regione Puglia,ndr), sono una ferita profonda". "Ovviamente – aggiunge – non ci interessa il rilievo penale della vicenda ma esclusivamente i due nodi politici che solleva. Il primo riguarda la credibilità di una classe dirigente", il secondo riguarda il nepotismo e il clientelismo che "sono il male oscuro del paese". Sempre su Fb la replica di Procacci: "Caro Guglielmo, non pensavo che arrivassi a tanto, strumentalizzando una vicenda - afferma – che non mi vede minimamente coinvolto E» possibile che un figlio di persona nota sia capace e meritevole? O per forza i suoi traguardi sono dovuti all’influenza dei genitori? Anche un altro mio figlio sta facendo concorsi e andrà lontano, come è già avvenuto in passato". "Non ricopro ruoli istituzionali, e nel partito coordino la segreteria. Non esiterei un attimo a dimettermi se questo non dimostrasse una mia qualche colpevolezza. Hai scritto la tua nota – aggiunge Procacci – dimenticando che la mia vita pubblica è stata sempre esemplare. Non sono mai stato sfiorato da nessuna ombra e tu conosci bene la mia onestà e la mia correttezza". Il senatore del Pd Giovanni Procacci si è autosospeso dal ruolo di coordinatore regionale del partito "rimettendo la questione alla direzione regionale dopo le primarie", in relazione alle accuse mossegli dall’assessore regionale e candidato alle primarie del centrosinistra per la presidenza della Regione Puglia Guglielmo Minervini (Pd). Era stato quest’ultimo a chiedere ufficialmente che Procacci si dimettesse. I nomi di Procacci, padre e figlio, compaiono - ma senza che siano indagati, secondo fonti giudiziarie – in una intercettazione dell’inchiesta della procura di Bari su presunti favori nell’assunzione di docenti universitari. "Era per me impensabile – sostiene Procacci nella nota in cui comunica la decisione di dimettersi – che un amico con cui ho condiviso tante cose potesse strumentalizzare una vicenda del 2009 che non mi vede minimamente coinvolto nè sul piano giudiziario nè su altri piani attinenti le questioni dell’Università. Non ricopro ruoli istituzionali e il mio unico impegno, di mero volontariato, è quello di coordinare la segreteria regionale. Tuttavia – aggiunge – non posso neanche consentire che si strumentalizzi la mia persona per colpire obiettivi politici in vista delle primarie". Nella seconda parte della nota Procacci attacca il suo accusatore. "Minervini – dichiara il senatore – dovrà trovare altri argomenti per proseguire la sua campagna elettorale. Il tentativo di sciacallaggio di Minervini nei miei confronti ha un riscontro oggettivo: come mai Guglielmo non chiede le dimissioni di suoi colleghi di giunta che sono indagati e che - sinceramente spero di no! – potranno essere rinviati a giudizio? Le chiede a me, che non sono nemmeno indagato, solo perchè ho la colpa di sostenere Emiliano: una ferocia d’animo che non distingue più il piano della politica da quello dell’odio e del rancore personale". Procacci sostiene quindi che Minervini non avrebbe agito allo stesso modo se non ci fossero state le primarie e lo stesso senatore non avesse sostenuto Emiliano nella corsa alla candidatura per il centrosinistra alla presidenza della Regione Puglia". "Nè si è preoccupato di acclarare la verità – conclude Procacci riferendosi all’assessore – semplicemente non ha resistito alla ghiotta occasione di poter colpire attraverso di me il suo avversario, incurante delle ferite morali e psicologiche che avrebbe inferto a me ed alla mia famiglia".

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti. Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso? Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato. E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

«Vai in prigione, professore», scrive Domenico Battista il 28 Settembre 2017 su "Il Dubbio". “Cupola” dei professori: condanna definitiva, ma il processo deve ancora iniziare. In merito alla vicenda dei professori tributaristi, immediatamente è scattato il meccanismo: tutti certamente colpevoli, condanna già definitiva, si tratta soltanto di lasciare al giudice (quello vero!) un margine di discrezionalità per stabilire l’entità della pena (che comunque dovrà essere esemplare). Ognuno ha pensato «io lo sapevo- lo sapevano tutti», finalmente è arrivato un giudice che ha messo fine allo schifo. “Cupola” dei professori: condanna definitiva, ma il processo deve ancora iniziare. Premetto che conosco poco o nulla del procedimento pendente a Firenze, nel corso del quale il GIP ha emesso una lunga e complessa ordinanza di custodia cautelare nei confronti solo di alcuni dei numerosi indagati dei reati di «corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio» o per «induzione indebita» o ancora per «turbata libertà del procedimento di scelta del contraente». Non sono, quindi, in grado di dire se effettivamente siano giustificati i provvedimenti cautelari emessi dal GIP su richiesta dei pm fiorentini. Ma non è questo il tema del mio intervento: le ipotesi di reato, se troveranno conferma in sede processuale, sono certamente gravi ed è giustificato l’allarmismo e lo sconcerto che una notizia tanto clamorosa determina nell’opinione pubblica. Nelle aule giudiziarie si raccoglieranno le prove e si stabilirà se gli odierni indagati, forse un domani imputati, meritino o meno una condanna e se la qualificazione giuridica delle condotte loro attribuite sia corretta o meno. Giusto dunque informare e altrettanto legittimo commentare la notizia degli arresti. Ma nella vicenda fiorentina si è manifestato qualcosa di diverso e, a mio avviso, di preoccupante: siamo ormai tristemente abituati alla deriva dei cosiddetti processi mediatici, con trasmissioni televisive che si affannano non a svolgere una attività di supplenza dei pubblici ministeri e della polizia giudiziaria ( sulla quale ci sarebbe già molto da discutere) ma a sostituirsi ai giudici, anticipando, sulla base di qualche elemento sensazionale, certezze che tali non sono, ma che influenzano ed alimentano non la ‘ sete’ di giustizia, ma la ‘ voglia’ di vendetta di tanta parte degli spettatori. Creando talvolta situazioni paradossali, di vero e proprio tifo ultrà tra innocentisti e colpevolisti, i primi pronti a fischiare i giudici che, nelle sedi proprie e sulla base di regole che, come si conviene in uno stato di diritto, sono predeterminate, pervengono ad affermazioni di responsabilità. Gli altri pronti ad insultare e finanche aggredire i giudici che, sulla base di una diversa convinzione, non hanno aderito alle tesi accusatorie giungendo a decisioni assolutorie. E’ venuto fuori infatti un nervo scoperto e si sa che anche sfiorarlo determina un sussulto. E’ sensazione diffusa, ed aggiungo non ingiustificata, che il sistema universitario – ricco di quelli che in gergo definiamo sprezzantemente ‘ baroni’ ed altrettanto popolato da allievi pronti ad eventuali compromessi che consentano progressioni di carriera – sia affetto da una grave patologia, da forme di chiusura in un mondo di pochi eletti che spesso taglia le gambe ai più meritevoli e favorisce i più scaltri. D’altra parte se le cause sono tante, l’effetto è evidente: le Università, salvo come sempre poche ma esemplari isole felici, sono allo sfascio; ed il ‘ prodotto’ che sfornano ormai da molti anni, i laureati, quando va bene poco preparati, ma per tanta parte incolti e finanche ignoranti (e non solo nella materia prescelta!) sono sotto gli occhi di tutti. La notizia degli arresti e delle interdizioni è arrivata improvvisa, ma non inaspettata e non ha colto di sorpresa, per quella ‘ consapevolezza inconscia’, come la ha definita qualcuno, che il marcio esisteva e che finalmente il pozzo nero era stato scoperchiato. Coinvolgendo tutti: arrestati, interdetti e finanche solo indagati (nei confronti dei quali, quanto meno perché non raggiunti da alcun provvedimento anticipatorio – che, in concreto, significa carenza di gravi indizi e/ o di esigenze cautelari dovremmo essere indotti ad un minimo di maggior prudenza). Immediatamente è scattato il meccanismo: tutti certamente colpevoli, condanna già definitiva, si tratta soltanto di lasciare al giudice (quello vero!) un margine di discrezionalità per stabilire l’entità della pena (che comunque, per soddisfare il palato delle novelle tricoteuses, dovrà essere esemplare). Ognuno ha pensato «io lo sapevo, io lo sospettavo, lo sapevano tutti, lo sospettavano tutti», finalmente è arrivato un giudice (in questo caso a Firenze e non a Berlino) che ha messo fine allo schifo. Pochi hanno riflettuto che è difficile immaginare che oltre una cinquantina di persone sparse su tutto il territorio nazionale fossero tutte d’accordo, pronte a delinquere. Può darsi che sia effettivamente accaduto un tale inconsapevole accordo, ma il dubbio, evocato nella denominazione di questo giornale, non fa parte della coscienza collettiva di certa opinione pubblica. E siccome ognuno di noi ha ormai – ed è un bene anche se talvolta utilizzato male un nuovo mezzo di comunicazione immediata e diretta del proprio pensiero e delle proprie opinioni, i Social, la condanna mediatica ha già fatto il suo corso: paradossalmente è già passata in giudicato finanche prima ancora di conoscere le imputazioni e la loro complessa articolazione (imputazioni che, se lette, forse qualche dubbio almeno agli addetti ai lavori dovrebbero suscitare). Un tempo, senza internet, era più complicato: occorreva preparare un palco in piazza, allestire una gogna, far sfilare il malcapitato, colpevole o innocente che fosse, tra due ali di folla urlante e ringhiosa, e sottoporlo al pubblico ludibrio. In tempi più vicini, in un impeto di esaltazione collettiva, i maoisti inventarono una forma più raffinata di gogna, appendendo cartelli ed orecchie d’asino ai controrivoluzionari: ironia della sorte anche in quel caso si trattava di molti professori universitari; e chi di noi sotto sotto non odia o non ha odiato un professore….

Oggi tutto è più semplice, ma le conseguenze sono drammaticamente peggiori: per i diretti interessati, vittime della gogna mediatica, ma anche, mi sia consentito di dirlo, per la civiltà di un paese che dovrebbe aver messo al bando da molto tempo l’idea della vendetta e dell’odio per chi ha sbagliato (se ha sbagliato), scegliendo in modo definitivo la cultura del processo propria di uno Stato di diritto moderno e democratico. Leggere i giornali cartacei o on- line, ascoltare giornali radio non è sufficiente per rendersi conto di quanto sta accadendo: occorre fare un giro su Facebook, sulle studiate condivisioni di foto degli indagati, sui commenti al limite del sanguinario per scoprire od avere conferma della degenerazione in atto. Ma c’è qualcosa di nuovo e ‘ di più’ che ho notato rispetto a tanti altri casi di giustizia popolar- mediatica (antitesi della giustizia vera, a cui tutti dicono di volersi ispirare che in troppi disdegnano). Il nervo scoperto di un sistema universitario che, a voler essere buoni, constatiamo tutti essere non funzionante, ha aperto un nuovo cantiere giustizialista. Non basta spiegare che una ordinanza di custodia cautelare non equivale ad una sentenza di condanna, che i gravi indizi non sono equiparabili alle prove certe al di là di ogni ragionevole dubbio, che le prove devono essere raccolte in contraddittorio tra le parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale ( auspicabilmente un domani anche separato in carriera dal pm), che devono ancora essere espletati gli interrogatori di garanzia, che un indagato non soggetto a misure cautelari è in posizione processuale evidentemente diversa da altro indagato raggiunto da provvedimenti restrittivi o interdittivi. Tutto questo non interessa: alla condotta penalmente rilevante, agli elementi costitutivi di ogni reato, alla responsabilità penale necessariamente individuale (e non collettiva, salvo che nei casi di reati associativi, nel caso di specie non contestati) si è istantaneamente aggiunta una nuova categoria giuridica: la prassi. La prassi era quella, anzi è quella: lo sappiamo tutti quello che accade nei concorsi universitari, i favoritismi, il clientelismo, il nepotismo e via dicendo. Si è arrivati tardi, come hanno fatto i pm a non accorgersi prima che quella era la prassi e che quella andava e va punita? Ma il malcostume può da solo essere sufficiente a trasformare un comportamento scorretto in un condotta illegittima con caratteristiche tali da assumere rilevanza penale?

E’ un sofisma da giuristi o è un principio di civiltà prevedere che non qualsiasi condotta riprovevole, ma solo quella che integra gli elementi costitutivi di una fattispecie codificata costituisce reato? Si invoca tanto, e tante volte a sproposito, la Costituzione e poi ci dimentichiamo che esiste un sacrosanto principio, quello di legalità, sancito dall’articolo 25 della nostra Carta fondamentale, che a sua volta nasce da secoli e secoli di progressivo avanzamento della civiltà giuridica. Le prassi sono una cosa diversa; in certi casi, pur andando contro una specifica previsione normativa, possono finanche essere virtuose. Ma non è pensabile che possano assumere autonoma valenza penale e giustificare il pubblico ludibrio dell’intera classe di professori universitari. Attenzione a non cadere in questa ulteriore forma di populismo (già in parte coltivata dai nostri disattenti legislatori che sembrano fare a gara, per solleticare la pancia di un elettorato che sanno essere giustizialista e forcaiolo, ad inventare nuove imperdibili figure di reato destinate o a rimanere solo sulla carta, come altrettante grida manzoniane, o ad aggravare ulteriormente lo stato comatoso della nostra giustizia penale). Teniamo ben distinti, in conclusione, i giudizi morali dalle statuizioni penali: i primi sono del tutto soggettivi e, in quanto tali, possono essere privi di regole, ancorché necessariamente espressi nelle dovute forme, per non cadere nella diffamazione o peggio nella calunnia; le seconde necessitano di regole, di garanzie, di prove certe acquisite nel rispetto delle leggi, di aule giudiziarie dove non solo vengano celebrati processi, ma ‘ giusti processi’, come oggi ci impongono sempre di più non solo i principi costituzionali, ma anche quelli sanciti dalle carte sovranazionali e dalle Corti che ne sono i loro interpreti...

Crimini accademici senza pudore né pentimento, scrive Cosimo Loré, Docente universitario e scrittore, il 2 aprile 2011 su "Il Fatto Quotidiano". È di questi giorni la notizia che 22 docenti universitari in 11 città italiane siano stati indagati, perquisiti e accusati di aver gestito un sistema di concorsi nazionali truccati. Il primato più triste nel crimine universitario spetta all’ateneo di Siena, dove è stato chiesto il rinvio a giudizio di 27 persone per peculato, truffa e abusi. Non si attenda ora che la giustizia faccia il suo corso, lento e lungo com’è quando gli imputati con i soldi sottratti e i rapporti realizzati nel periodo aureo si possono poi permettere difese di lusso per prescrizioni di comodo! Borsellino docet: quanti disonesti non sono mai stati condannati perché mancavano le prove? Eppure gravi sospetti sul loro conto dovrebbero bastare a impedirne l’assunzione a incarichi che richiedono specchiata moralità. Su questo equivoco giocano soprattutto le toghe accademiche, dimostrandosi indegne di cattedre e non meritando neppure rispetto umano! Siena ne è l’esempio clamoroso e sconcertante: dopo tutto quello che è successo, nessuno dei rettori o presidi vecchi e nuovi ha speso una parola di ammissione di responsabilità proprie o altrui! E mi riferisco alle responsabilità ben più gravi di quelle di livello solo penale di coloro che hanno tentato di spacciare i criminali comportamenti in voga nel sistema senese per disattenzioni e banalità. Il presidente dei rettori italiani, una volta scoperto e smascherato, rimosso dalla forza pubblica per interdizione giudiziaria, rinviato a giudizio, condannato in un primo processo, ha la faccia di definire “disattenzioni” e “banalità” i reati all’origine dell’interdizione e della condanna, con oscena ostentazione della propria proterva persistente volontà di ripetere e pure offendere le vittime, oltre a chi, come il sottoscritto, andò per Procure a esporre il malaffare imperante sotto la rigida regia rettorale. Il clima nazionale, del resto, è quello di azzerare nei fatti ogni eccellenza, come quella di Francesco Lanzillotta, direttore d’orchestra italiano in Bulgaria, solo per citare l’ultima scoperta dalla stampa. Che testimonia la sfortuna di essere governati, a Siena e in Italia, da maldestri senza scrupoli legittimati da una casta accademica complice e corrotta e una popolazione italica di ignavi e indifferenti! E su chi osa gridare che il re è nudo incombono – per il gioco delle parti – danno e beffa aggiuntivi di pretestuose iniziative giudiziarie, perchè (Manzoni docet) “il prepotente offende e si ritiene offeso”! Così gli ex rettori Berlinguer e Tosi annunciano querela nei confronti di chi li ha coinvolti nel dissesto dell’Università di Siena. Minacciosi, disastrosi e incorreggibili questi signori e (ex) padroni dell’università italiana, certamente e tristemente da non inviare a trattamenti di recupero!

Soldi, sesso e ricatti: il lato oscuro delle università italiane. Dall'ordinanza di custodia cautelare della procura di Firenze esce uno spaccato inquietante sulle trame dietro ai concorsi. Lettere anonime, faide tra luminari e un suicidio: le carte dell'inchiesta, scrivono Alessandro Da Rold e Luca Rinaldi il 27 settembre su "Lettera 43". Sesso, ricatti, faide tra luminari del diritto, lettere anonime per infangare e mettere fuori gioco dai concorsi altri candidati a incarichi da professore. Persino il sospetto da parte degli inquirenti che le spartizioni baronali, con l'intento di favorire candidati associati agli studi legali, fossero un modo per qualificarli così da giustificare poi parcelle più onerose di svariate milioni di euro. In pratica, soldi, sesso e ricatti, come nei più classici romanzi di James Ellroy. E per di più l'ombra di un suicidio, causato da una fuga di notizie per informare uno degli indagati. Dall'ordinanza di custodia cautelare dell'inchiesta della procura di Firenze - che ha sgominato la presunta cricca di tributaristi che si spartivano i posti da professori nelle università italiane - emerge un quadro inquietante del mondo accademico.

L'indagine, partita grazie alle registrazioni con il cellulare del ricercatore Philip Jezzi Laroma, ha già portato agli arresti domiciliari sette professori, facendone interdire dalle lezioni altri 22. Le accuse sono di corruzione e abuso d'ufficio. Ma, in attesa del processo, gli strascichi rischiano di farsi sentire nel lungo periodo soprattutto nel mondo dei luminari del diritto tributario. Nelle carte firmate dal gip Angelo Palazzi c'è di tutto. Non solo le ormai note frasi del professore Pasquale Russo a Laroma, con i riferimenti nemmeno troppo velati a farsi da parte («È il mercato delle vacche» o «non fare l'inglese, fai l'italiano») abbandonando le speranze nella meritocrazia nostrana, ma c'è persino un caso di depistaggio organizzato ad arte durante un concorso universitario per screditare un altro candidato. Le parole pronunciate dal presidente della Commissione sono inequivocabili. Egli parla senza mezzi termini di "ricatto". C'è infatti una lettera anonima diretta a mettere in luce l'incompatibilità della candidata del professor Fabrizio Amatucci, ordinario di Diritto tributario a Napoli ai domiciliari, con l'accusa di corruzione. A farla preparare è il professor Adriano Di Pietro, presidente della commissione che deve decidere sulle candidature. E chi la prepara? Uno dei suoi candidati, Giangiacomo D'Angelo, perché da una parte lo stesso Amatucci ha «qualche debolezza, perché si dichiara a tempo pieno però lavora nello studio del padre», e poi «c'è una delle candidate che lavora sempre lì nel suo studio». Fatte verificare le informazioni dal proprio candidato, Di Pietro dà indicazioni perché lo stesso scriva una lettera e la faccia pervenire anonimamente al suo studio così da poterla aprire nel corso della seduta della commissione del primo aprile 2015. Una strategia che, dice Di Pietro intercettato, «fa parte del ricatto che devo fargli», altrimenti Amatucci si impunterà per l'abilitazione dei suoi. Annotano i magistrati: «Le parole pronunciate dal presidente della commissione sono inequivocabili. Egli parla senza mezzi termini di "ricatto"».

Di Pietro - scrivono i pm - ha pertanto bisogno di avere le informazioni richieste perché vuole ricattare Amatucci per ottenere che egli non si impunti per avere l'abilitazione dei candidati Selicato e Tundo. Dopo appena due giorni, il 28 marzo 2015, Di Pietro ottiene dal candidato D'Angelo le informazioni richieste. Quest'ultimo spiega al commissario: «Senta prof, io ho chiesto informazioni, ieri ho fatto qualche telefonata... sembrerebbe che la tipa in realtà collabora... collaborava con loro, veramente con un ruolo di sottordine, nel senso che... eh sì sì sì, ma con un ruolo di sottordine... portava delle cose, cioè non ha... non aveva.... era professionalmente soda/e, sostanzialmente... però senza un ruolo di...». Come se nulla fosse la lettera arriva a Di Pietro, viene aperta e mostrata ai commissari in coda alla riunione del primo aprile. Al termine della seduta mostra la lettera dicendo di averla aperta lì davanti a tutti. Giuseppe Cipolla, altro membro della commissione, dopo averla letta, la definisce «bruttissima». E, come previsto, mette in difficoltà Amatucci che nega ci siano incompatibilità con la candidata Ciarcia, segnalando che lui lavora a tempo pieno per l'università e che se anche la candidata collabora con lo studio del padre la cosa non lo riguarda. Seguendo la narrazione di Russo, l'abilitazione della ricercatrice sarebbe stata portata avanti quindi da Fransoni su richiesta di Boria, in assenza dei necessari requisiti.

Russo si distingue sempre per il modo di parlare. Annotano sempre gli inquirenti: il professore, senza mezzi termini, nel corso della telefonata del 4 aprile 2015, racconta a Di Pietro che la mancata abilitazione di Francesco Padovani, nel corso della prima tornata della commissione, è stato il «prezzo pagato» per «lasciare spazio come commissario» a Guglielmo Fransoni e per consentire, quindi, a quest'ultimo «di fare le porcherie per i candidati romani». Si ricorda che, una volta accertato che sussiste l'incompatibilità, Fransoni induce Padovani a ritirare la sua candidatura. Tra "i candidati romani", Russo annovera pure una delle ricercatrici del dipartimento di Diritto ed economia delle attività produttive de La Sapienza, a suo dire abilitata su richiesta di uno degli indagati, il professore ordinario di Diritto tributario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Roma Pietro Boria, nonostante la mancanza delle necessarie capacità. Russo si domanda quali meriti possa vantare la candidata («ehhhh che c'ha? Meriti fisici ehhh non lo so...») e rievoca il momento in cui lui le ha «bocciato» «la tesi in dottorato» dicendole: «Mi sembra modesta questa, questa tesi, mi sembra modesta, cerca di arricchirla, lavoraci un anno ancora». Russo continua il suo racconto dicendo: «Dopodiché, come parole al vento, dopo due mesi gliel'hanno fatta pubblicare, poi si è messa a scopare con Boria ed è diventata meritevole». Seguendo la narrazione di Russo, «l'abilitazione della ricercatrice sarebbe stata portata avanti quindi da Fransoni su richiesta di Boria, in assenza dei necessari requisiti». 

Una parte dell'ordinanza di custodia cautelare è dedicata a Gianni Zamperini, 42enne esperto di computer. Chiamato dagli amici BBK, e gestore del dominio salviniescalar.it utilizzato dallo studio professionale romano “Salvini - Escalared”, era amico di Livia Salvini, professoressa della Luiss, spesso ospite a Ballarò come esperta di tasse e già nel collegio sindacale del Pd. La guardia di finanza lo sente il 13 settembre, lui nega di aver avvisato la professoressa di indagini a suo carico, ma la polizia giudiziaria ritrova, sul suo apparecchio telefonico, delle comunicazioni con l'avvocato Liliana Spartera, amica sua e di Livia Salvini, nelle quali egli afferma con chiarezza di aver avvisato quest'ultima. Zamperini viene indagato per il reato previsto e punito dall'art. 378 del codice penale, cioè favoreggiamento. Il giorno dopo si suicida.

Si legge nell'ordinanza. «L'evento è stato comunicato a Livia Salvini da un tal Fabio. Costui, quando ha rinvenuto il cadavere di Gianni Zamperini, ha potuto prendere visione del decreto di intercettazione a carico di Livia Salvini. Dalla conversazione del 17 settembre 2014 si intuisce che Livia Salvini effettivamente sia stata rnessa a conoscenza della richiesta di intercettazione. Commentando con il compagno Eugenio il suicidio di Gianni Zamperini, ha affermato prima: "...magari era anche turbato da... da questa cosa della guardia di finanza" e poi: "...non posso fare a meno di pensare che é colpa mia" e "quanto meno sono stata l'occasione scatenante"». «Queste parole», scrivono gli inquirenti, «non avrebbero alcun significato se Livia Salvini non avesse saputo dell'intercettazione e sembrano confermare lo stato di disagio psicologico che possa essere provato il suo informatore dopo essere stato scoperto».

Concorsi truccati, Adi: "Succede in tutti i settori, dall'accesso al dottorato fino all'abilitazione". Il segretario nazionale dell'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani, Giuseppe Montalbano, non è sorpreso dalle rivelazioni dell'inchiesta partita dalla denuncia di un ricercatore di diritto tributario: "Sfogarsi cercando di restare è impossibile", scrive Giorgia Pacino il 26 settembre 2017 su "La Repubblica". "Succede in tutti i settori accademici in modo trasversale e in tutta la filiera del precariato della ricerca. Dall'accesso al dottorato fino all'abilitazione nazionale". Giuseppe Montalbano è segretario nazionale dell'Adi, l'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani. Non è sorpreso dalle rivelazioni dell'inchiesta sui concorsi truccati all'università, partita dalla denuncia di un ricercatore di diritto tributario.

Ha letto il racconto del ricercatore di Firenze?

"Una storia come quella non è affatto nuova, non è la prima volta che ci vengono segnalati casi di questo genere. Attenzione: non tutti i docenti sono baroni. Delle nicchie in cui prevale trasparenza e merito ci sono. È vero, però, che in molti settori avere un professore che ha seguito un candidato per anni e vuole investire su di lui costituisce un canale di accesso preferenziale".

Quant'è diffuso il sistema?

"Parecchio. È un problema con radici strutturali che affondano nella ricattabilità dei ricercatori precari, il prodotto di un sistema che come Adi denunciamo da sempre. La ricattabilità è stata introdotta con la riforma Gelmini, portata avanti con la promessa di sgominare i baroni. Non solo i baroni sono rimasti al loro posto, ma, introducendo una serie di figure contrattuali precarie, tagliando le risorse e dando più potere a chi tiene i cordoni della borsa e controlla l'accesso ai bandi - per di più limitati con il blocco del turn over - alla fine la riforma ha rafforzato quelle stesse baronie che a parole intendeva combattere".

Va cambiato il metodo di selezione?

"Un sistema così complesso, fatto di tanti indicatori e passaggi, è insufficiente rispetto alle necessarie garanzie di trasparenza. Va riformato coinvolgendo tutta la comunità accademica, a partire proprio dai segmenti meno tutelati come i ricercatori precari. Alla base, però, c'è sempre il sottofinanziamento che fa da cornice a tutto il resto. È giusto intervenire sui meccanismi di reclutamento e sulla trasparenza dei concorsi, ma bisogna prima affrontare il nodo del finanziamento e dello sblocco del reclutamento. Perché se i posti sono sempre meno e le opportunità per i giovani ricercatori si restringono, cresce la loro ricattabilità".

Allora aumentano i ricorsi?

"Per fortuna tanti colleghi, con parecchio coraggio, hanno la volontà di contestare decisioni di tipo arbitrario, spesso mettendo a repentaglio la loro stessa carriera. Si sta diffondendo una certa capacità di rispondere ai torti subiti, innanzitutto attraverso il ricorso. Di certo sono meno quelli disposti a denunciare alle autorità".

Il problema resta la prova.

"Quella spetta alle autorità. Consiglierei di prendere tutte le precauzioni possibili e raccogliere la la documentazione, anche attraverso strumenti come le registrazioni o altre modalità per dimostrare cos'è avvenuto. Sarebbe la prova migliore, certo, ma quando si fa un concorso dotarsi di microfoni non è la prima preoccupazione di un candidato. Riceviamo molte segnalazioni in forma confidenziale o anonima. Ma una cosa è una denuncia, un'altra una lettera di sfogo di chi magari decide di abbandonare il mondo dell'università. Il problema è che sfogarsi cercando di restare diventa impossibile".

Università: c'è corruzione nei concorsi per l'abilitazione all'insegnamento. Con questa accusa sette professori sono stati arrestati e 22 interdetti. Tutti i dettagli dell'indagine della Procura di Firenze, scrive il 25 settembre 2017 Nadia Francalacci su "Panorama". La meritocrazia? In Italia, in generale, è un vocabolo “poco conosciuto” ma in alcuni ambienti universitari, secondo quanto è stato accertato dalla Procura di Firenze, è stato addirittura “cancellato”. Ventinove professori, molti dei quali di diritto tributario con cattedra presso diversi atenei italiani e con incarichi di pubblici ufficiali in quanto componenti di Commissioni nazionali nominate dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, invece di valutare i candidati per meriti curriculari avrebbero assegnato l’Abilitazione Scientifica Nazionale all’insegnamento di Diritto tributario, secondo logiche di spartizione territoriale e in base a reciproci scambi di favori personali, professionali e persino associativi.  

Manette e interdizione all'insegnamento. Con l’accusa di corruzione, infatti, questa mattina la Guardia di Finanza del Nucleo di Polizia Tributaria del Comando Provinciale di Firenze, ha arrestato 7 professori universitari e ha fatto scattare l’interdizione allo svolgimento delle funzioni di professore universitario e di quelle connesse ad ogni altro incarico assegnato in ambito accademico, per la durata di 12 mesi, per altri 22 docenti. Altri 30 insegnanti, invece, sono attualmente indagati per aver usufruito e beneficiato delle 'agevolazioni' durante i concorsi pubblici. I 59 soggetti coinvolti a vario titolo dall'operazione della Finanza, risultano avere la cattedra o ruoli specifici in ambito accademico, in numerose e prestigiose università italiane. Quelle interessate dai provvedimenti restrittivi sono l'Università di Firenze (facoltà di Giurisprudenza), l'Università di Pisa, Siena, Cassino, Foggia e la Federico II di Napoli.  

Le pressioni sui candidati al concorso. A far scattare le indagini della Finanza sono state le “pressioni” subite da un ricercatore fiorentino “eliminato” perché "troppo bravo" e quindi "pericoloso". Alcuni professori universitari, oggi agli arresti domiciliari, avrebbero indotto il ricercatore universitario, candidato al concorso per l’abilitazione all’insegnamento del Diritto tributario, a “ritirare” la propria domanda per favorire un terzo soggetto in possesso di un profilo curriculare notevolmente inferiore, e gli avrebbero promesso che si sarebbero adoperati con la competente Commissione giudicatrice per la sua abilitazione in una successiva tornata.  Ma la successiva “tornata”, per i docenti e commissari in questione, si svolgerà in carcere o quanto meno nelle aule del Tribunale di Firenze.

Un giro di favori e incarichi. Gli approfondimenti investigativi, durati alcuni mesi, hanno consentito ai finanzieri di ricostruire tra i vari docenti di diritto tributario finiti in manette sistematici accordi corruttivi, scambi di favori ed incarichi sia in ambito accademico che nell’esercizio privato della professione.

“Non abbiamo riscontrato nel corso dell’inchiesta passaggi di denaro ma solo uno scambio di “favori” relativamente ai candidati che ciascun professore “promuoveva” - spiega a Panorama.it, il colonnello Adriano D’Elia, comandante del Nucleo di Polizia Tributaria di Firenze - ovvero si suddividevano i soggetti da abilitare in quella sessione d’esame oppure in quella successiva”. “Abbiamo esaminato i bandi di concorso per l’abilitazione relativi agli anni 2012-13 e 2016 e sono stati individuati i soggetti, attualmente indagati, che hanno beneficiato degli accordi - prosegue il colonnello della Finanza - accordi che “davano la precedenza” ai docenti che risultavano essere iscritti ad una associazione italiana specifica per docenti di diritto tributario”. Una sorta di “lobby” che avrebbe sponsorizzato chi apparteneva alla solita associazione e poteva contraccambiare il “favore”. Ma quali saranno, invece, i provvedimenti nei confronti di chi ha conseguito l’abilitazione attraverso l'eventuale "corsia preferenziale"? “Dipenderà dai provvedimenti disciplinari e amministrativi delle singole università - conclude il colonnello D’Elia - le quali sono risultate totalmente ignare alle attività corruttive messe in atto dai loro docenti. Saranno loro, assieme al Ministero, a stabilire se revocare o meno l’abilitazione all’insegnamento ai soggetti indagati”.

Concorsi truccati, retata di docenti. Le intercettazioni: «Qui il merito non esiste: questo è mio, questo è tuo», scrive Sara Menafra, Martedì 26 Settembre 2017, su "Il Mattino". Gli accordi partono persino prima che venga sorteggiata la commissione che «abiliterà» i professori universitari (l’abilitazione deve essere seguita dalla effettiva «nomina» da parte di un dipartimento, perché il candidato diventi effettivamente professore). E si trascinano, anno dopo anno, con riunioni ed accordi successivi, tanto che l’applicazione dell’intesa per i concorsi 2012 e 2013 si allunga fino al 2015. Al ricercatore universitario Philip Jezzi Laroma, da anni nel dipartimento fiorentino, che osa chiedere l’abilitazione, risponde esplicito il professor Pasquale Russo, ordinario di Foggia con incarico a Firenze: «Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano. Non siamo sul piano del merito! Non è che si dice “è bravo o non é bravo” no, si fa, questo è mio, questo è tuo.», dice registrato proprio da Laroma, che con le sue denunce ha dato il via all’inchiesta. Anche se il meccanismo alle spalle delle minacce al ricercatore, scoperchiato dal Nucleo tributario della Guardia di finanza, è ben più ampio. A guidarlo, spiega il gip Antonio Pezzuti nell’ordinanza, sarebbero nomi di primissimo piano: da un lato Augusto Fantozzi ministro del commercio con il governo Prodi ex professore di diritto tributario alla Sapienza, ora a capo dell’ateneo on line Giustino Fortunato. Dall’altro, Francesco Tesauro dell’università Milano Bicocca, definito «ukmariano» facendo riferimento al defunto Viktor Ukmar.

Università, concorsi truccati – “Se fai ricorso ti giochi la carriera”. La “logica di scambio” dei professori indagati. "Non è che si dice è bravo o non è bravo. No, si fa questo è mio, questo è tuo, questo è tuo, questo è coso, questo deve anda' avanti per cui..." diceva il professor Pasquale Russo al collega Guglielmo Fransoni, il primo docente di diritto Tributario a Firenze e il secondo ordinario dell'Università di Foggia e componente della commissione del Miur per l'abilitazione scientifica, scrive Giovanna Trinchella il 25 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il “prezzo da pagare”, “la logica di scambio”, “partite trasversali”. Tutte manovre da ordire sulla pelle di ricercatori meritevoli che dovevano perdere la loro possibilità di abilitarsi perché l’abilitazione scientifica fosse conseguita dai raccomandati di turno, raccomandati di professori che si scambiavano favori e cui la Procura di Firenze ha dato il nome di corruzione. A leggere le intercettazioni contenute nel provvedimento del gip di Firenze parlano come criminali questi i docenti, con le espressioni tipiche dei tangentari. Sono tutti finiti nel registro degli indagati della Procura di Firenze per corruzione e per sette di loro sono stati decisi gli arresti domiciliari.

 “Non è che si dice è bravo o non è bravo. No, si fa questo è mio, questo è tuo, questo è tuo, questo è coso, questo deve anda’ avanti per cui…” diceva il professor Pasquale Russo al collega Guglielmo Fransoni, il primo docente di diritto Tributario a Firenze e il secondo ordinario dell’Università di Foggia e componente della commissione del Miur per l’abilitazione scientifica. Conversazione di questo tenore sono state captate dagli uomini della Guardia di Finanza anche da altri protagonisti di questo scandalo partito dall’Università di Firenze e che si è allargato ad altri atenei e che sono contenute nell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato agli arresti domiciliari sette professori. Russo chiama la “scuola” la sua cerchia di allievi e che erano anche suoi associati nel suo studio professionale.

È del 14 aprile 2015 scorso invece la conversazione di Giuseppe Marino, che dopo aver raccontato a Claudio Sacchetto l’andamento dei lavori della Commissione, lo invita ad incontrare Adriano Di Pietro: “nno, no, no, no devi andare, guarda Claudio … ormai bisogna cioè partite trasversali lasciano un po’ il tempo che trovano. Quindi le partite sono Cipolla e l’innominato, punto. E poi ovviamente anche Fabrizio e, e Zizzo per dire: “Guarda io ho parlato con l’innominato e, ed ho dato precise indicazioni anche di, di attribuzione di, di gargliadetti cioè per, perché vada Marino cosa bisogna fare poi? Qual è il prezzo da pagare? Parliamone … e certo è una logica di scambio, c’è tutto l’internazionale, su Bologna probabilmente con la sua uscite, eh loro su questo avranno bisogno di una maggiore mano e gliela si darà”.

“Non siamo sul piano del merito, non siamo sul piano del merito, Philip”, “Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano”, “tu non puoi non accettare”, e “che fai? fai ricorso? … però ti giochi la carriera così…”. Le frasi registrate col telefono cellulare in un colloquio da uno degli studiosi cui era stato chiesto di ritirarsi, era il 21 marzo 2013. Jezzi Philip Laroma però non rinunciò e venne bocciato. Laroma, che allegò le conversazioni da lui registrate alla denuncia alle Fiamme Gialle, si sentì rispondere in questo modo dal professor Pasquale Russo. Laroma era andato a chiedere spiegazioni a Russo sul perché si dovesse ritirare e a favore di chi, scoprendo che nella lista c’era un associato dello studio di Russo, Francesco Padovani. “C’è una priorità che veniva da… tante cose”, spiegò Russo a Laroma e quindi “la scuola”, ossia la cerchia di allievi di Russo, aveva “deciso di portare avanti Francesco”. Alle insistenze di Laroma di non voler ritirare la domanda, il professor Russo gli spiega che ciò serve “per mantenerti integra la possibilità di farlo in un secondo momento, e quindi poter ripresentarla alla tornata successiva. “Ognuno ha portato i suoi … o dei suoi amici – aveva tentato di spiegare Russo – ciascuno ha chiesto e tutti hanno dato agli altri; insomma, quindi c’è stato un do ut des“. Del resto un altro concetto che appare chiaro è quello “dell’eredità” che si accumula tornata dopo tornata. E quindi se qualcuno da abilitare è rimasto indietro viene recuperato come eredità.

In un altro colloquio registrato col cellulare che le trattative tra i commissari sui nomi da favorire non lo hanno proprio riguardato perché escluso in partenza. “In realtà la negoziazione – dice Fransoni a Laroma che stava registrando – è stata legata esclusivamente al fatto che si doveva cedere qualche cosa per avere qualche cosa sulla tornata successiva, oppure persone che io non potevo proprio vedere, e che ho dovuto digerire come Comelli, oppure qualche altra situazione che si è cercato di sistemare e ci si è riusciti più o meno, ma nient’altro. Nient’altro. Perché gli schieramenti sono assolutamente chiari, erano assolutamente chiari”. E ancora il professar Russo non esitò a raccontare che, nel passato, anche lui “i principi” invocati dal suo interlocutore se li era messi “sotto i piedi” avendo favorito Francesco D’Ayala Valva (“l’ho fatto ordinario io”) nel tentativo di ottenere, successivamente, l’abilitazione dei candidati a lui riconducibili (“nella speranza poi di poter aver avere un po’ di spazio per i miei”. Mai in discussione bravura, la capacità, né titoli: “Non siamo sul piano del merito! non siamo sul piano del merito, Philip”. E invece lo studioso fece l’inglese e disse al professore che “se loro (le commissioni giudicatrici, ndr) gestiscono la cosa pubblica in questa maniera, penso che sia una cosa che interessi l’autorità giudiziaria”. Ed così che il ricercatore, che non rispettava “i criteri del vile commercio dei posti”, ha fatto partire l’inchiesta.

Ci sono nomi grossi, anche se magari sconosciuti al di fuori degli addetti ai lavori, tra le decine di professoroni indagati in quella che verrebbe da definire un’“Universitopoli”, scrive Stefano Sansonetti per La Notizia il 26 settembre 2017. Ovvero una specie di accordo corruttivo, almeno così ritiene la procura di Firenze, il cui principale ingrediente sarebbe stato un mix di concorsi alterati e spartizione di cattedre. Inutile nascondersi che il nome più rumoroso è quello di Augusto Fantozzi, già ministro delle finanze e del commercio estero negli anni ‘90. In tempi più recenti il giurista è assurto agli onori della cronaca per essere stato commissario straordinario dell’Alitalia. Spesso, però, si fatica a mettere a fuoco che Fantozzi occupa tutt’ora poltrone importanti, come quella di presidente del big dell’azzardo Sisal. Inoltre è fondatore e partner del mega studio tributario Fantozzi e Associati, presso il quale si sono forgiati giuristi poi diventati boiardi di Stato del massimo livello.

E’ il caso soprattutto di Ernesto Maria Ruffini, nello studio addirittura dal 1998 al 2015, ultimo amministratore delegato di Equitalia e oggi direttore dell’Agenzia delle entrate. Altro nome importante, all’interno del gruppone di accademici finiti nel mirino della magistratura, è quello di Roberto Cordeiro Guerra, ordinario di diritto tributario all’Università di Firenze e avvocato di clienti eccellenti. Tra questi c’è il gruppo farmaceutico Menarini, anch’esso con sede nel capoluogo toscano, che Cordeiro assiste da tempo nelle sue vicende giudiziarie e fiscali.

Ma Cordeiro ha assistito anche l’ex bomber Bobo Vieri in un’altra vertenza fiscale. L’avvocato, tra l’altro, proprio come Fantozzi non è estraneo al grande mondo dei consigli di amministrazione: da qualche mese, con Oscar Farinetti (il patron di Eataly) è entrato a far parte del Cda di Starhotels, catena alberghiera del lusso con sede legale a Milano ma anima fiorentina. In base allo stato attuale delle indagini, però, c’è una differenza tra la posizione di Fantozzi e quella di Cordeiro: il secondo è stato interdetto dall’insegnamento universitario per 12 mesi, mentre il primo al momento non è ricaduto nella misura (dovrà essere interrogato dal gip, che si è riservato la valutazione).

Tra gli indagati-interdetti c’è un terzo grosso nome. Si tratta di Livia Salvini, professoressa alla Luiss ma soprattutto numero uno del super studio legale-tributario Salvini Escalar e Associati. Quest’ultimo è noto tra gli specialisti per essere stato fondato da un altro ex ministro delle finanze, Franco Gallo, in passato anche presidente della Corte costituzionale.

La Salvini, tra l’altro, è probabilmente una delle figure con maggiore confidenza con poltrone in consigli di amministrazione e collegi sindacali. Al momento, infatti, risulta essere consigliere di amministrazione del Gruppo Sole 24 Ore (che fa capo a Confindustria), consigliere di amministrazione di Igd Siiq (società che si occupa di investimenti immobiliari, soprattutto in supermercati e centri commerciali in Italia e in Romania), presidente del collegio sindacale di Coopfond Spa (sulla carta il fondo mutualistico della coop rosse legate a Legacoop, nella sostanza una holding ormai accreditata di più di 200 partecipazioni) e sindaco effettivo di Atlantia (la holding della famiglia Benetton che tra le altre controlla Autostrade per l’Italia). Naturalmente rispetto a ciascuno di questi profili l’indagine dovrà fare il suo corso. E l’impianto accusatorio sarà tutto da dimostrare. Da ieri, però, si può dire che su alcuni dei fiscalisti più in voga del Paese si è acceso il faro della magistratura. Con quali esiti si potrà capire soltanto nei prossimi mesi.

Concorsi truccati all’università. “Diamo vita a una nuova cupola”. Così parlava l’ex ministro Fantozzi. Le intercettazioni dell’indagato: «Servono uomini di buona volontà». Ricatti, favori e corruzione. E spuntano pure viaggi premio a Venezia, scrive Grazia Longo il 26/09/2017 su "La Stampa". “La Stampa”. Professori apparentemente rivali, in realtà alleati per spartirsi la ricca torta delle cattedre universitarie. Prima ancora che venisse sorteggiata la commissione nominata dal Miur per l’abilitazione scientifica nazionale per cattedre universitarie di diritto tributario. Una maxi corruzione per truccare concorsi grazie a un sistema ai limiti del mafioso. Definito non a caso la «nuova cupola» da uno degli indagati più illustri, l’ex ministro Augusto Fantozzi. Un meccanismo che, come emerge dalle intercettazioni, ruotava intorno a un inossidabile gioco di favori, il «do ut des», la «logica di scambio», spietate «partite trasversali» e il «prezzo da pagare». Pur essendo schierati su due fronti distinti, l’Associazione italiana professori diritto tributario e la Società studiosi diritto tributario, i presunti professori corrotti, membri della commissione, stringevano inciuci a tutto spiano lasciandoli «in eredità» ai colleghi tra il 2013 e il 2015. Da una parte Fantozzi e la cordata «romana», dall’altro il gruppo di Francesco Tesauro dell’Università Milano Bicocca. Le 172 pagine dell’ordinanza firmata dal gip Angelo Antonio Pezzuti, sulla scorta dell’inchiesta del procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo e i pm Luca Turco e Paolo Barlucchi, ricostruiscono il sistema che il professor Fantozzi definisce «seppure in modo scherzoso, come la “nuova cupola”». Si legge che l’ex ministro (per il quale il gip si è riservato la valutazione dell’interdizione all’esito dell’interrogatorio) «trova dunque opportuno, se non necessario, che le future abilitazioni siano gestite, non dai commissari di volta in volta nominati, ma “da un gruppo di persone più o meno stabili”, da un gruppo di garanzia... uomini di buona volontà oltre che ...qualche, possano stare in una nuova cupola”». L’obiettivo, si legge nelle carte, è «precostituire le condizioni per far conseguire, in assenza di reale concorrenza, ai propri allievi e o associati i posti di professore ordinario o associato che sarebbero stati successivamente banditi dalle varie università in sede locale per partecipare ai quali costituiva requisito necessario la relativa abilitazione in prima o seconda fascia». Al bando la meritocrazia: il candidato Fabio Graziano pur avendo 193 pubblicazioni viene scartato. Funzionano solo spintarelle e corruzione. «Non è che si dice è bravo o non è bravo… Questo è mio, questo è tuo» afferma il professor Pasquale Russo al collega Guglielmo Fransoni, il primo docente di diritto Tributario a Firenze e il secondo ordinario dell’Università di Foggia e componente della commissione del Miur per l’abilitazione scientifica. L’orecchio investigativo della Guardia di Finanza di Firenze ha registrato questo e altro. «Qual è il prezzo da pagare? Parliamone…» chiede il 14 aprile 2015 Giuseppe Marino, che dopo aver raccontato a Claudio Sacchetto l’andamento dei lavori della Commissione, lo invita ad incontrare Adriano Di Pietro. Mentre di fronte al ricercatore Philip Laroma, escluso dal concorso e autore della denuncia da cui è partita l’inchiesta, il professor Pasquale Russo esclama: «Che fai ricorso? Però così ti giochi la carriera. Non siamo sul piano del merito, Philip. Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano». E a giustificazione della sua condotta afferma: «Anche io mi son piegato... a certi baratti per poter mandare avanti i miei allievi...», «ero ingenuo all’inizio» ma «la logica universitaria è questa... è un mondo di merda... è un mondo di merda... quindi purtroppo è un do ut des». Un altro docente sentenzia: «I miei principi? Sotto i piedi». Il merito non esiste, anzi si aiuta persino chi viene considerato un incapace. Il professor Giuseppe Cipolla, a proposito di un suo protetto dice: «Qui non c’è nessun merito, ognuno ha i suoi... Tra l’altro dico, vai a leggere pure il mio giudizio che si vede che quello è proprio disgraziato». Le strade della corruzione sono molteplici e varie. Per convincere Carlos Maria Lopez Espadafor, professore di Diritto tributario presso l’Università De Jean in Spagna, membro Ocse, quinto membro della commissione che ha concluso i lavori della tornata 2013, gli vengono offerti «un soggiorno a Venezia con falsa attestazione di una riunione accademica per coprire l’assenza in Spagna, la promessa di un aiuto per la revisione in italiano dei suoi articoli e un intervento in un incontro accademico da organizzare a Venezia, un incarico di visiting professor all’università di Bologna in cambio del proprio voto». Tra i docenti interdetti c’è anche Livia Salvini, della Luiss Guido Carli di Roma, nonché membro del Cda del Sole 24 Ore.  

Concorsi truccati all'università, le intercettazioni choc: "La nuova cupola". I professori al telefono: "Già scelto chi passa", scrive Stefano Brogioni il 26 settembre 2017 su "La Nazione”. La trattativa. Il compromesso. Il patto. I più illustri docenti universitari del Belpaese parlavano liberamente al telefono, s’accapigliavano se necessario e «svilendo la loro funzione» mutuavano pure i termini delle pratiche commerciali, ma alla fine riuscivano a spartirsi le cattedre di diritto tributario, secondo una logica di potere che risponde a due grandi e potenti associazioni accademiche o ai loro interessi privati. Una vera e propria «chiamata alle armi» per garantire potere e privilegi alla casta dei baroni, far andare avanti i propri allievi e garantire il prestigio degli studi professionali e onorari zeppi di zeri.

Appuntamento ai Parioli, la sera del 9 giugno del 2014, per una cena che, secondo le fiamme gialle in ascolto delle conversazioni, serve a «gestire» i concorsi del futuro. È l’ex ministro Augusto Fantozzi, che insegna a Benevento, a dettare la linea, a suggerire ai colleghi presenti (Pietro Boria, Andrea Fedele, Leonardo Perrone ed Eugenio Della Valle) di individuare «un gruppo di persone di garanzia» che non esita a definire, seppur in modo scherzoso – annota il gip – «la nuova cupola». "Non si può muovere una paglia se tu non sei d’accordo... nella tua metà campo che decidi te", captano ancora gli investigatori con le ambientali. "Se uno fa i concorsi così non ci sarà mai un minimo di... perché naturalmente nessuno ha la responsabilità di niente e ognuno va lì col coltello alla gola e dice ‘O mi dai quello o ... quindi voi capite...’". La cena del 9 giugno 2014 era servita anche a ristabilire armonia tra i baroni, dopo alcune frizioni per le candidature. Parlando di un aspirante professor, viene definito da Boria «al limite dell’impresentabilità». Ciononostante, annota il gip, questi «è pronto a promettere a Eugenio Della Valle» l’appoggio suo e del suo gruppo per consentire al medesimo l’abilitazione. «Ormai è andata, ammettiamo anche che vi sia stata una discriminazione... ma adesso… che possiamo fare? Vuoi che ci definiamo un pagherò? Se questo serve vediamo come farlo». Particolarmente significativa, scrive il gip Antonio Pezzuti nella sua ordinanza, una conversazione intercettata nel 2015 tra gli indagati Francesco Tesauro e Adriano Di Pietro dove Tesauro dice in riferimento a una commissione giudicante: «Ma lì poi... anche se io mi dimisi abbastanza presto... avevamo concordato chi doveva passare e chi non doveva passare». Il commissario Adriano Di Pietro anticipa, in un colloquio con il suo allievo Thomas Tassani, come intende valutare il candidato Paolo Puri. Dice che non voterà in suo favore salvo che non riceva «delle pressioni straordinariamente forti» oppure possa essere utilizzato come «merce di scambio». Tassani fa notare che alla ‘scuola romana’ Ssdt «ci tengono più a Puri che alla Rossi». Il prof risponde: «Allora hanno da capire che l’abbiamo messi noi». Sempre Di Pietro fa il resoconto al professor Giuseppe Maria Cipolla di un incontro avuto con Giuseppe Zizzo. «Giuseppe è inutile che ci nascondiamo, ciascuno di noi ha delle sollecitazioni, vediamo di metterle a confronto». Fabrizio Amatucci pone una proposta corruttiva al commissario Espadafor. «La Parlato tu sai che è figlia di Parlato, il professor di Palermo che è stato il mae… un po’ per certi versi, il maestro no, ma si è laureato Zizzo, cioè Zizzo è un po’ legato a Parlato, ma moltissimo è legato Parlato a Di Pietro. Di Pietro e Parlato sono sempre stati molto uniti. Quindi lui può essere che poi ad un certo punto, non lo farà all’inizio, farà il nome della Parlato che è debole, vatti a vedere il curriculum. Quindi non abbiamo un’altra arma se lui ci chiede la Parlato allora io gli comincio a chiedere di tutto perché vuol dire che il livello, hai capito? Scende. Il livello è basso».

E il prof disse: "Uno a uno e palla al centro". Così si spartivano le cattedre universitarie. Ecco le intercettazioni dell'inchiesta della Finanza sui concorsi truccati. Parlato voleva piazzare la figlia, Sammartino i suoi allievi. E fu scontro, scrive Salvo Palazzolo il 25 settembre 2017 su "La Repubblica”. Non usa mezzi termini il gip di Firenze Antonio Pezzuti nella sua ordinanza che mette sotto accusa il sistema delle abilitazioni per l’insegnamento all’università. Siamo di fronte «a un conflitto per la spartizione delle abilitazioni per le cattedre universitarie di diritto tributario». Le prime avvisaglie del caso siciliano arrivano il 3 marzo 2015. Sotto intercettazione telefonica c’è il professore Andrea Colli Vignarelli, che è stato componente della commissione nazionale. Dice al suocero, il professore in pensione Andrea Parlato, che il commissario Giuseppe Cipolla, palermitano pure lui ma docente a Cassino, è «totalmente dalla parte di Sammartino» e vuole favorire i suoi. A Palermo, lo scontro è fra Parlato e Salvatore Sammartino, ordinario ancora in servizio. Ognuno dei due vuole favorire i propri pupilli. E, adesso, sono indagati per concorso in corruzione. Parlato puntava tutto sulla figlia Maria Concetta; Sammartino sponsorizzava due suoi allievi, Filippo Alessandro Cimino e Daniela Mazzagreco. Sono «tutti d’accordo», dice Colli Vignarelli. E’ un allarme per l’anziano professore Parlato, che decide di agire. Va dritto al cuore del problema, uno dei componenti più influenti della commissione nazionale per le abilitazioni, Adriano Di Pietro. E non sospetta che è già entrato dentro il Grande fratello imbastito dalla procura di Firenze. Perché anche Di Pietro, docente a Bologna, è intercettato. «Senti, io ti dico… per telefono non si può dire, è chiaro no?». Parlato spiega perché ha preferito un incontro di persona. E giù con le accuse a Sammartino: «Sta per la Mazzagreco, divulgando la notizia che lui ha già il posto... lui pensa di sistemare per subito la Mazzagreco e ovviamente non Mariù, Mariù non lo farebbe un concorso là, perché lui l’aspetterebbe col cannone». Mariù è la figlia del docente palermitano. Scrive il giudice: «Parlato non intende arrendersi per la figlia». E accusa il suo “rivale” di sostenere un candidato poco preparato: «Per quando lui potrà fare le barriere, mettendosi in commissione, facendo venire chi vuoi tu, guarda che obiettivamente la Mazzagreco è debole, perché si presenta sempre lì, sempre col volume sullo Statuto, volume che lei ha rifatto in edizione provvisoria per partecipare al concorso di ricercatore». Parlato prova anche a piazzare l’assistente del genero, la ricercatrice Patrizia Accordino. Ma su questo aspetto Di Pietro è risoluto: «Non è disposto a fare entrare altri soggetti nelle trattative con gli altri commissari», scrive il gip. Ed emette la sua sentenza. «Così è il discorso - spiega - “uno a uno, palla al centro”». Ovvero, un nome sarà in quota Parlato, l’altro in quota Sammartino. Però, consiglia a Parlato di fare comunque un altro passaggio: dovrà rivolgersi anche al «padre di Fabrizio Amatucci e a un tale Gasparino»: «In maniera tale che facciamo fare pressioni sugli altri componenti della commissione».

"Uno a uno e palla al centro". Le intercettazioni dei prof siciliani, scrive Riccardo Lo Verso 1l 25 settembre 2017 su "Live Sicilia”. Sammartino e Parlato arrivarono allo scontro. Ecco la parte siciliana delle indagini di Firenze. Meriti e curriculum avrebbero avuto il valore della carta straccia. A giudicare dalle conversazioni telefoniche intercettate dai finanzieri l'unico criterio per l'abilitazione all'insegnamento di Diritto tributario nelle università italiane sarebbe stato “il vile commercio dei posti”. L'inchiesta della Procura di Firenze coinvolge anche gli atenei di Palermo e Messina. Gli atti giudiziari ricostruiscono lo scontro fra due cognomi pesanti nel mondo accademico siciliano. I professori Salvatore Sammartino e Andrea Parlato sponsorizzarono i loro candidati. Alla fine “l'abilitazione a coppie” accontentò entrambi i contendenti. L'inchiesta smaschera il principio del “do ut des” applicato su scala nazionale: i prof si scambiavano i favori. Oggi a me, domani a te. Chi faceva ritirare un candidato sapeva che l'anno successivo qualcun altro avrebbe fatto la stessa cosa, alimentando la catena di favori. La logica della spartizione avrebbe spazzato via ogni concorrenza. Sono quattro i docenti universitari sospesi dall'esercizio della professione con una misura interdittiva. Si tratta di Salvatore Sammartino, Daniela Mazzagreco e Maria Concetta Parlato dell'Università di Palermo e Andrea Colli Vignarelli dell'Università di Messina. Andrea Parlato, oggi in pensione, è solo indagato. Agli arresti domiciliari sono finiti altri due professori siciliani che insegnano lontano dall'Isola: il palermitano Giuseppe Maria Cipolla e il trapanese Giuseppe Zizzo. Il patto verrebbe già fuori nelle prime intercettazioni fra Vignorelli, sposato con Maria Concetta Parlato, e il commissario Gugliemo Fransoni, che gli spiegava: “Ma insomma, l'obiettivo non è proteggere me e te, l'obiettivo è proteggere il risultato del concorso per le persone che sono, di cui sappiamo... la trasparenza del procedimento mi sembra che sia un po' venuta meno in questo momento allora vorrei prima essere sicuro che il procedimento continui a svolgersi in modo trasparente, equo e corretto insomma avere una reiterazione dell'impegno presi in partenza”. A Palermo attendevano con ansia la nomina delle commissioni. Quando si seppe che la scelta era caduta su Cipolla e Zizzo qualcuno esultò. “Allora se le cose stanno così è un trionfo”, dicevano Filippo Alessandro Cimino e Daniela Mazzagreco, legati a Sammartino. Il professore tentò subito di mettersi in contatto, senza successo, con i commissari. Poi dettò a Cimino la lettera di congratulazioni per la nomina in commissione da indirizzare, in particolare, ad un commissario spagnolo. Le manovre erano iniziate, tanto da fare dire a Fabrizio Antonucci, altro commissario, sull'abilitazione di Mazzagreco che “ci tiene moltissimo Salvatore Sammartino”, che “ci ha sempre aiutato”. Nel marzo 2015 i finanzieri iniziarono a registrare lo scontro tutto siciliano. “L'abilitazione di una candidata di seconda fascia, Maria Concetta Parlato, moglie di Vignarelli, ex commissario e professore ordinario di Tributario a Messina, e figlia del professore Andrea Parlato, anch'egli a Messina - annotano gli investigatori - sconta l'avversità di Salvatore Sammartino che intendeva ottenere l'abilitazione dei suoi candidati Filippo Alessandro Cimino e Daniela Mazzagreco”. Andrea Parlato temeva il peggio e al genero Vignarelli raccontava che il commissario Cipolla era “totalmente dalla parte di Sammartino” e che “erano tutti d'accordo”. Non si poteva restare a guardare. E così Parlato contattò al telefono alcuni commissari, mentre altri li incontrò di persona. Il 16 marzo 2015 si trovava nell'ufficio del commissario Adriano Di Pietro in compagnia della figlia Maria Concetta: “Senti io ti dico... per telefono non si può dire, è chiaro no?”. Di Pietro sembrava avere recepito il messaggio. L'abilitazione di Maria Concetta sarebbe stata “scambiata” con quella di un candidato di Sammartino: “Così è il discorso, uno a uno e palla a centro”. Parlato non era tenero con il collega Sammartino che “sta per la Mazzagreco divulgando la notizia che lui ha già il posto. Cioè lui ha fatto, va bene, un concorso, che ha un certo ruolo nel suo dipartimento di Diritto tributario, dove lui pensa con ciò di sistemare subito la Mazzagreco, e ovviamente Mariù non lo farebbe un concorso là, perché lui li aspetterebbe con cannone proprio... parliamo chiaro il momento in cui bandisce un concorso a Palermo, 50 persone si presentano. Per quanto lui potrà fare le barriere, mettendosi lui in commissione, facendo venire chi vuoi, guarda che obiettivamente la Mazzagreco è debole, perché la Mazzagreco si presenta lì, sempre col volume sullo Statuto, volume che lei ha rifatto in edizione provvisoria per partecipare al concorso di ricercatore”. Parlato proseguiva le sue manovre chiamando Zizzo: “Poi tu comprendi che io ho pensato molto di chiamarti o no, poi ho ritenuto doveroso chiamarti, invece”. Zitto lo tranquillizzava: “Ma senta professore non c'era bisogno, certo”, e Parlato aggiungeva: “Poi ti chiamerà mio genero che ti vuole pure salutare”. In contemporanea anche Sammartino, secondo l'accusa, attivò quello che gli inquirenti definiscono un negoziato. Il 3 febbraio 2015 chiamò Antonucci: “È inutile dirti che conto su di te in maniera fortissima... diciamo nel senso che devi essere fermissimo perché la Commissione ha la sua composizione”. Il 25 febbraio il docente palermitano si spostò a Roma per incontrare Zizzo e quindi il professore spagnolo. Il messaggio da dare ai commissari doveva essere chiaro: “o passano questi o noi diciamo no a tutti ed allora gli altri doveranno per forza cadere”. E a Mazzagreco Sammartino spiegava come si era mosso. Parlava di "tattica” e “strategia”, aggiungendo che Zizzo era andato da Di Pietro per trovare "una linea comune”. Alla fine si trovò la quadra. Furono tutti abilitati nel 2015 agli esami di Bologna.

"Si è messa a scopare con lui ed è...". Concorsi truccati e baronato. Le intercettazioni choc dei prof, scrive il 26 Settembre 2017 su “Libero Quotidiano”. Sette docenti universitari, titolari di cattedre di diritto tributario in numerosi atenei italiani, finiti agli arresti domiciliari con l'accusa di corruzione e altri 22 docenti interdetti dallo svolgimento delle funzioni di professore universitario e di quelle "connesse ad ogni altro incarico assegnato in ambito accademico per la durata di 12 mesi".  In totale sono 59 le persone indagate per reati di corruzione, tra le quali figura anche l'ex ministro Augusto Fantozzi. Il Tempo pubblica una serie di intercettazioni nelle quali emergono anche i dubbi dei protagonisti, come chi "si è domandato quali meriti potesse vantare la candidata: Che c' ha? Meriti fisici". Del resto l'interlocutore ricordava il momento in cui un docente aveva bocciato la tesi della candidata: "Mi sembra modesta, cerca di arricchirla, lavoraci un anno ancora". "Dopo due mesi gliel'hanno fatta pubblicare, poi si è messa a scopare e con P.B. ed è diventata meritevole". Ecco come si ottengono i "criteri per far passare i nostri". Spesso però i rapporti si complicavano. Così Fantozzi suggeriva: "L'idea è quella di fare la prova di resistenza, cioè di dire se voi volete questi noi vogliamo questi e se non ci date questi non vi diamo quelli e non passa nessuno. Punto". E ancora: "Tu sai che abbiamo sempre rispettato una regola, la quale diceva che quando c'erano delle opportunità o delle scorciatoie da cogliere, esse venivano colte nell'interesse dei nostri", avrebbe detto Fantozzi, "specificando che ciò era già accaduto, nel passato, con riferimento ai professori Tremonti, Lupi e Fransoni". Alcuni docenti indagati "hanno condiviso l'intenzione di non parlare per telefono dei fatti inerenti l'abilitazione". "Il telefono è meglio abbandonarlo (...) perché non si sa mai, però insomma, con quello che sta succedendo, che è successo attorno ai concorso. Non penso che il giorno dopo in cui viene estratto, subito mettano di default il tuo telefono sotto controllo. Sarebbe, come dire, una cosa eccessiva, però..." E ancora: «Se dobbiamo parlare ci certe cose mi raccomando, solo su Skype..è meglio essere prudenti". "Se qualcuno un domani chiede l'accesso agli atti non possa andare a vedere tutta l'evoluzione".

Il ricercatore con il microfono che ha incastrato i baroni: "Se fai ricorso addio carriera". Philip Laroma Jezzi ha rifiutato di ritirarsi e ha mandato alla Finanza le registrazioni: "È il vile commercio dei posti", scrive Michele Bocci il 26 settembre 2017 su “L’Espresso”. Essere il migliore può rivelarsi non un pregio ma un difetto da penalizzare. Almeno nel mondo alla rovescia dell'università italiana. "Con che criterio sei stato escluso dal concorso? Col vile criterio del commercio dei posti". È quasi aulico il noto ex docente di diritto tributario Pasquale Russo, maestro di decine di colleghi e oggi dedito solo all'attività del suo studio fiorentino, quando spiega al ricercatore che vorrebbe diventare professore associato come funzionano le cose. "Non è che tu non sei idoneo, è che non rientri nel patto del mutuando". Russo non sa, quel 21 marzo del 2013, che chi sta ascoltando la sua lectio magistralis sul mondo dei concorsi dopo la riforma del 2010 ha acceso il registratore sul telefono. Sono proprio le parole memorizzate sul cellulare di Philip Laroma Jezzi a far partire l'inchiesta che ha travolto un intero settore scientifico di Giurisprudenza.

Laroma Jezzi è un tributarista con studio in un grande palazzo nel centro fiorentino, in via Maggio, che si è opposto alla strada segnata per lui e per tanti suoi colleghi dai professori della sua materia. Non solo ha registrato due conversazioni fondamentali, ha anche tenuto costantemente informati procura e Gardia di finanza su quello che avviene all'università, su bandi e concorsi. Già anni fa una sua segnalazione aveva dato il via a un'indagine della procura, quella sull'ex direttore provinciale dell'Agenzia delle entrate fiorentina Nunzio Gargozzo, poi condannato ben tre volte per corruzione. Prendeva mazzette e in cambio si prodigava per far risparmiare le imposte a imprenditori e professionisti colpiti da accertamenti fiscali.

Il 22 novembre del 2012, Laroma Jezzi presenta la domanda per l'abilitazione sia a professore associato che ordinario. Il 21 marzo del 2013 Pasquale Russo lo chiama e lo invita nel suo studio. L'ex professore sa bene chi ha davanti, tanto che a un collega, Adriano Di Pietro, spiegherà: "Laroma come intelligenza e come laboriosità vale il doppio" degli aspiranti associati che partecipano alla selezione. Bene, Russo cerca di convincere il migliore a ritirarsi dalla corsa dell'abilitazione, perché i vincitori sono già stati decisi e far passare lui potrebbe metterli in difficoltà quando ci saranno i concorsi. Il vecchio professore è consapevole di quanto sia pesante quello che chiede, e del resto l'altro minaccia di fare un esposto, ma aggiunge: "Come si fa ad accettare una cosa simile? Tu non puoi non accettare. Che fai, ricorso? Però così ti giochi la carriera. Qui non siamo sul piano del merito Philip. Smetti di fare l'inglese e fai l'italiano". Il riferimento è alla doppia nazionalità dell'interlocutore. "È stata fatta una lista e tu non ci sei", ribadisce Russo. Laroma Jezzi non ritira la domanda e a dicembre 2013 viene regolarmente bocciato. Fa ricorso al Tar e vince. Ora è abilitato come associato.

La prima registrazione è seguita da un'altra, nel gennaio 2014. In questo caso, oltre a Russo, il ricercatore incontra Guglielmo Fransoni, uno dei commissari che l'hanno bocciato, nonché socio di studio dello stesso Russo. Gli spiegano che un potente professore fiorentino, Roberto Cordeiro Guerra, è contro di lui perché vuole fargli passare avanti un suo discepolo a una nuova selezione. "Io non ho capito la tua scelta di restare dopo che ti era stato dato il messaggio di ritirarti - dice Fransoni - cioè se uno ti dà il messaggio il motivo c'era, una consapevolezza di com'era orientata la commissione".

È Russo a illustrare il meccanismo: "Funziona così: a ogni richiesta di un commissario corrispondono tre richieste provenienti dagli altri commissari: io ti chiedo Luigi e allora tu mi dai Antonio, tu mi dai Nicola e tu mi dai Saverio". È, appunto, tutto un do ut des tra i vari atenei. "Ogni professore aiuta l'altro - spiega poi Fransoni - perché è chiaro che se il prof di procedura civile dice: "Scegliamo il miglior tributarista in assoluto", rischia che poi il tributarista dica: "Scegliamo il miglior processualista in assoluto". Allora tutti quanti hanno convenienza a dire "no certo, il tributarista dev'essere il tributarista tuo", perché così il tributarista dirà: "no, certo, esimio collega, il processual-civilista sarà il tuo allievo", e così si aiutano a vicenda". Russo sintetizza alla perfezione: "Non è che si dice è bravo o non è bravo. No, si fa: questo è mio, questo è tuo, questo è tuo, questo è coso, questo deve andare avanti per cui...". Più chiaro di così.

Concorsi truccati, l’uomo della denuncia: «Raccontando tutto ho fatto la mia parte». Le parole del ricercatore Philip Laroma Jezzi, 49 anni, padre italiano, madre inglese, e lavora al dipartimento di Scienze Giuridiche all’università di Firenze. È stato lui, con la sua denuncia a far scattare l’inchiesta, gli arresti e le raffiche di avvisi di garanzia, scrive Marco Gasperetti il 25 settembre 2017 su “Il Corriere della Sera”. Il ricercatore da cui tutto è iniziato si chiama Philip Laroma Jezzi, 49 anni, padre italiano, madre inglese, e lavora al dipartimento di Scienze Giuridiche all’università di Firenze. È stato lui, con la sua denuncia e le sue registrazioni con il telefonino, a far scattare l’inchiesta, gli arresti e le raffiche di avvisi di garanzia.

Professore, come va? 

«Professore? Non scherziamo, sono e resto un ricercatore e dunque un dottore».

E a lui che hanno chiesto di ritirarsi da un concorso per diventare professore: ha rifiutato e ha deciso che era arrivato il momento di denunciare. Da anni è considerato uno dei migliori tributaristi fiorentini, già tra gli allievi di Pasquale Russo, luminare dell’università di Firenze che oggi appare nel registro degli indagati. Nello studio di Laroma Jezzi hanno iniziato il praticantato da avvocato la ministra Maria Elena Boschi e il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi. Lo troviamo mentre sta aspettando i figli davanti a scuola.

Dottor Laroma Jezzi, tutto inizia da lei. E sembra il classico vaso di Pandora. Crede ci saranno sviluppi?

«Guardi, la ringrazio per il suo interessamento ma oggi preferisco non parlare».

Qualche suo collega dice che lei è stato molto coraggioso...

«Ho raccontato tutto a investigatori e magistrati, ho fornito loro le prove sulle mie affermazioni e adesso mi voglio mettere da parte perché ho trovato persone straordinarie che stanno ancora lavorando e parlare adesso ai giornali mi sembrerebbe di fare loro un torto. Eventualmente ci sarà tempo».

Pochi mesi fa una ricercatrice dell’ateneo di Pisa ha denunciato presunte irregolarità in un concorso per diventare prof. Conosce il caso?

«Sì, l’ho seguito con interesse sui giornali, anche se mi sembra diverso da questa inchiesta».

La sua collega ha detto di voler fare la sua battaglia perché legalità e trasparenza siano imprescindibili nei concorsi pubblici...

«Io ho fatto la mia parte. Ho raccontato tutto a investigatori e magistrati. E adesso preferisco non parlare».

Ed effettivamente il dottor Laroma Jezzi, che amici e colleghi descrivono come un infaticabile studioso e uomo dalla schiena perennemente dritta, ne ha raccontate molte nella sua denuncia. Tra queste c’è il colloquio (che ha registrato con lo smartphone) con uno dei professori inquisiti che gli chiedevano di ritirarsi dal concorso. «Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano», perché se fai ricorso «ti giochi la carriera».

"Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano". In una frase, tutto il marcio del nostro Paese, scrive il 26 settembre 2017 Mauro Munafò su "L'Espresso". Credo che nessuno, dico nessuno, si stupisca particolarmente per la storia dei concorsi truccati all'Università che fino ad oggi ha portato a 7 arresti, 150 perquisizioni e indagati eccellenti come l'ex ministro Fantozzi. Il sospetto che la vittoria di un candidato rispetto a un altro sia motivata da ragioni clientelari piuttosto che da quelle di merito è stato confermato negli anni da decine di inchieste della magistratura, giornalistiche, denunce e libri. Quello che però in questo specifico caso salta agli occhi sono i dialoghi catturati e registrati dal ricercatore Laroma Jezzi, che ha denunciato tutto il sistema, e che potete leggere su Repubblica. È il ritratto di un sistema illecito talmente sicuro della sua inevitabilità che si lancia in riflessioni filosofiche, giudizi di merito, consigli. Una frase tra tutte mi ha colpito e, oserei quasi dire, indignato. È quando un vecchio professore cerca di spiegare al ricercatore a cui non permetteranno di ottenere l'abilitazione come funziona il mondo, come ci si comporta. Lo fa dicendo questo: «Che fai, ricorso? Però così ti giochi la carriera. Qui non siamo sul piano del merito Philip. Smetti di fare l’inglese e fai l’italiano». In questa battuta c'è sì un riferimento alla doppia cittadinanza di Laroma Jezzi, appunto inglese e italiana, ma c'è anche tutto un mondo. Un mondo che si divide tra i "precisini" inglesi, che fanno le cose secondo le regole, e gli "italiani" che invece fatta la legge trovano l'inganno e aggiustano le cose in base alla convenienza. Ho messo "italiani" tra virgolette perché questa è l'immagine e lo stereotipo che sistemi illeciti come questo contribuiscono e puntano a rafforzare. Sistemi in cui tutti sono complici di illegalità, incluse le vittime. Perché, non dimentichiamolo, se queste strutture baronali continuano a perpetrarsi è anche perché tanti giovani ricercatori si sottomettono al loro potere. Sono vittime anche loro ma, quando accettano certe regole non scritte, diventano un po' anche complici. La notizia che qualcuno si sia ribellato a questa cupola, abbia registrato ogni dialogo, abbia chiamato le forze dell'ordine e contribuito a smascherare questo marcio è una di quelle che ti restituiscono fiducia nelle persone. Il coraggio di parlare e rifiutare l'omertà che protegge questi meccanismi oggi è un atto rivoluzionario. E ogni ricercatore che contribuisce ad eliminare quelle virgolette intorno alla parola "italiani" merita tutto il nostro sostegno.

L'avvocato castiga-baroni con lo studio pieno di vip. Philip Laroma Jezzi è diventato un eroe dei social. In passato ha lavorato con illustri esponenti del Pd, scrive Nino Materi, Mercoledì 27/09/2017, su "Il Giornale". Il cosiddetto «popolo dei social» (entità quanto mai indeterminata) lo ha già incoronato «Il Volto Più Pulito Dell'Italia», con le iniziali tutte rigorosamente in maiuscolo. Dal web spunta addirittura un fan che lo candida a futuro ministro dell'Istruzione. E certo Philip Laroma Jezzi, qualche titolo accademico appena superiore a quelli che può vantare Valeria Fedeli, ce l'ha. Il 47enne avvocato anglo-italiano (come il pm Henry John Woodcock) che con la sua denuncia ha bombardato «Raccomandopoli» - per nulla ridente cittadella del nepotismo - ieri si è conquistato sul Fatto Quotidiano una paginata di complimenti. Elogi meritatissimi, considerato che grazie alle «registrazioni choc» di questo stimato avvocato tributarista con studio in Firenze, «la mafia dei baroni e dei concorsi universitari truccati» sarebbe stata smascherata. Intanto i 7 professori arrestati e i 59 indagati (tra cui l'ex ministro Augusto Fantozzi) ripetono il solito refrain difensivo in tre atti: 1) di «essere completamente estranei ai fatti contestati»; 2) di «avere piena fiducia nella magistratura»; 3) di «chiarire al più presto la propria posizione». Nel frattempo la bacheca Facebook dell'irreprensibile avvocato Laroma Jezzi è stata inondata da messaggi di sobrio incoraggiamento del tipo: «È lei l'italiano di cui il nostro Paese ha bisogno», «Le persone oneste sono tutte con te», «Stima e ringraziamenti sinceri. Da cittadino», «Sei un eroe»; «Sei un esempio che tutti i meritevoli dovrebbero seguire per non accontentarsi di una mediocrità imposta»; «Ho profonda stima di te...è l'ora di reagire perché in gioco c'è quello che siamo ed il nostro futuro... ti sono vicino». L'avvocato «gola profonda» - che assicura di «non voler assolutamente rilasciare dichiarazioni ai giornalisti» - ieri ha dichiarato al Corriere della Sera: «Io ho fatto la mia parte. Ho raccontato tutto a investigatori e magistrati». Un po' più ciarliero Philip si era mostrato invece l'anno scorso con il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, cui il 7 gennaio inviò una torrenziale mail nella quale dava conto di una sua denuncia che aveva portato all'arresto del direttore dell'Agenzia delle Entrate. A dimostrazione del carattere modesto e del tono per nulla autocelebrativo dello scritto, ricordiamo il seguente passaggio: «Io sono nato nel Regno Unito. Ho studiato (bene e tanto) sia in Italia che a Londra e quel mondo mi manca tanto. Ma piuttosto che fare l'italiano in Inghilterra ho preferito fare l'inglese in Italia. In questo modo riesco, con molta più facilità, a distinguermi, a essere eccentrico. Non ho bisogno di fare il punk, mi basta fermarmi alle strisce pedonali». Come dire: altro che voi automobilisti italiani, che davanti alle strisce pedonali accelerate per sturare i poveri pedoni. Parole, quelle dell'avvocato dal doppio cognome, che lasciano il segno, tanto che Il Fatto Quotidiano nella titolazione finisce anche per vantarsi di avere un siffatto lettore; occhiello in prima pagina: «Il blitz a Firenze su input di un abbonato al Fatto». Nessun accenno invece al fatto che nello studio Laroma Jezzi, ai tempi in cui Renzi era sindaco di Firenze, siano passati come praticanti illustri personaggi del «Giglio magico»: dalla ministra Maria Elena Boschi al tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi. Per non parlare dei vip, della bella gente e dei molti altri giovani rampanti vicini al «Matteo nazionale», arrivati a quell'indirizzo sicuramente senza nessuna raccomandazione. Del resto, se solo avesse sentito un vago odore di nepotismo, l'adamantino avvocato anti-baroni, li avrebbe sicuramente messi alla porta. O no?

Quel silenzio (complice) dei sindacati. Snals: «Danneggiati dallo scandalo. Faremo un comunicato molto duro», scrive Nino Materi, Mercoledì 27/09/2017, su "Il Giornale". C'è un silenzio assordante che sta accompagnando lo scandalo dei «professori imbroglioni» appena scoperchiato a Firenze, ma tristemente endemico in tutta Italia. I sindacati che operano nel mondo dell'istruzione, non hanno nulla da dire? Perché a 48 ore dal pentolone scoperchiato di «Universopoli» nessuno si è sentito in dovere di «diramare una nota» contro i baroni delle clientele? Lo Snals (il sindacato più rappresentativo nella scuola), interpellato dal Giornale, tiene a precisare di «sentirsi parte lesa e di essere al lavoro per stilare un comunicato molto duro». Se ciò accadrà, sarà sempre meglio tardi che mai. Si sbilancia un po' di più invece Giuseppe De Nicolao, in rappresentanza dell'associazione Roars composta da ricercatori e docenti universitari: «Il caso di Firenze non ci sorprende. I rettori sono dei piccoli monarchi. Il sistema italiano accentra il potere ed è aggirabile». Il tutto si inquadra in uno scenario drammatico, come evidenziano i professori Stefano Allesina e Jacopo Grilli: due ricercatori nostri connazionali autori (all'Università di Chicago) di uno studio sul nepotismo negli atenei del Belpaese. Allesina e Grilli si sono concentrati sulle facoltà di Medicina e Chimica, ma non sono nuovi a questo tipo di indagine: nel 2011 avevano pubblicato un altro dossier, dimostrando come alcune discipline (Giurisprudenza, Agraria e Ingegneria) mostrassero la «presenza sospetta di identici cognomi». Si tratta degli stessi cognomi relativi a rettori, professori e altre «figure apicali». «La ricerca aveva causato un certo scalpore in Italia - ricorda Allesina - anche perché la pubblicazione era avvenuta immediatamente dopo la riforma Gelmini». Sulla cui efficacia i giudizi restano però discordanti. «Oggi assistiamo a un fenomeno di vecchio malcostume combinato a una nuova forma di baronaggio accademico, cioè proprio quei bubboni cui la nostra riforma del 2010 aveva cercato di porre un freno», sottolinea l'ex ministro della Ricerca, Mariastella Gelmini. Ma, al di là delle buone intenzioni, il «virus del familismo» non è stato debellato. La conferma viene pure dal presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone: «Siamo subissati di segnalazioni su questioni universitarie, soprattutto sui concorsi con cui vengono distribuiti cattedre e incarichi. C'è un grande collegamento, enorme, tra fuga di cervelli e corruzione». Approvata durante il primo governo Berlusconi, la riforma Gelmini ha introdotto il divieto di assumere nello stesso dipartimento parenti e affini fino al quarto grado di docenti già in ruolo. Secondo il giudice Cantone, la riforma di sette anni fa avrebbe addirittura peggiorato le cose. Motivo? «Quel testo di legge è come se avesse istituzionalizzato il sospetto. Mi spiego meglio: l'idea che non ci possano essere rapporti di parentela all'interno dello stesso dipartimento, ha portato a situazioni paradossali». Un esempio? «In una università del Sud è stato regolarizzato uno scambio intollerabile: in una facoltà giuridica è stata istituita una cattedra di storia greca e in una facoltà letteraria una cattedra di istituzioni di diritto pubblico. Entrambi i titolari erano i figli di due professori delle altre università. Uno scandalo. L'ennesimo.

L'eroe anti-baroni «premier subito»? Ci stuferemmo presto. Sicuri di volere il ricercatore italo-inglese Jezzi, che ha combattuto i maneggi universitari, a capo dell'Italia? Il popolo del web (e non) reclamerebbe qualche messia da Bar sport. Nel quale è più facile riconoscersi, scrive Lia Celi su Lettera 43 il 27 settembre 2017. «A un antipode si colloca la separazione che potremmo chiamare “endosoggettiva”, ossia che non altera le imputazioni giuridiche delle situazioni avente contenuto patrimoniale…». Siamo sicuri che Philip Laroma Jezzi, l’avvocato e ricercatore italo-inglese che ha smascherato i maneggi dei baroni universitari, sia «l’uomo di cui il Paese ha bisogno», incoronato dai social come «piccolo eroe», tipo lo scrivano fiorentino celebrato da De Amicis?

RICERCATORE A 49 ANNI: SOLO IN ITALIA... Intanto: piccolo un corno, visto che ha 49 anni, età in cui solo in Italia si è ancora ricercatori. Secondo: questo signore è uno studioso di vaglia nel campo del diritto tributari, l’intimidatorio incipit è tratto dal suo saggio Separazione patrimoniale e imposizione sul reddito, acquistabile in rete su Amazon. Laroma Jezzi è uno che, potendo, si sarebbe risparmiato il ruolo di Masaniello dell’università italiana o, per usare un riferimento inglese, di Guy Fawkes che fa saltare in aria il castello di connivenze incrociate su cui si reggono i concorsi accademici, ma doversi mettere a pecora a cinquant’anni per far posto all’ennesimo raccomandato meno competente fa scattare l’«enough is enough».

INVESTITURA DA FAR INVIDIA A DI MAIO. Un telefonino acceso al momento giusto, una denuncia ai magistrati, un servizio al tiggì e lo sconosciuto tributarista diventa il premier che l’Italia social vorrebbe, con un’investitura digitale più limpida e cospicua di quella di Luigi Di Maio. Ma per piacere. Se mai approdasse a Palazzo Chigi una persona seria, preparata e allergica ai compromessi come Laroma Jezzi - un esperto di tasse, per di più, e che usa termini come «endosoggettivo» -, nel giro di una settimana il popolo del web e non del web chiederebbe la sua testa e reclamerebbe il ritorno di qualche messia da Bar sport con tutte le soluzioni in tasca (o sulla felpa), nel quale, alla fin fine, è più facile riconoscersi. È già molto che al coraggioso ricercatore anglo-toscano sia toccato il quarto d’ora di celebrità cui in Italia raramente hanno diritto quelli che non abbassano la testa e alzano la voce. Come Giulia Romano, economista e ricercatrice pisana che appena due mesi fa aveva denunciato alla magistratura, con tanto di registrazione, il bando per una cattedra confezionato su misura per un certo candidato, con il barone di turno che la invitava ad abbozzare per non rovinarsi la carriera. Uguale a Jezzi.

DATE A GIULIA LA VICE PRESIDENZA. Per Giulia, che ha «fatto l’inglese» pur essendo tutta italiana, dal web non sono arrivati osanna né «premier subito», ma un diluvio di commenti minimizzanti, «succede ovunque, sai che scoperta». Magari da parte degli stessi che oggi incensano Philip. Professor Jezzi, se mai diventerà presidente del Consiglio, per piacere, dia alla dottoressa Romano almeno la vicepresidenza. A meno che non la consideri l’ennesima raccomandazione.

«Concorso su misura? Questi erano gli accordi». Prof (registrato) nei guai. Il caso all’Ateneo di Pisa, la denuncia di una ricercatrice, scrive Marco Gasperetti il 26 luglio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Nei corridoi dell’università di Pisa da qualche giorno non si parla d’altro. E qualche «maligno» l’ha già ribattezzato il «bando fotografia», che in gergo significa un concorso, irregolare, realizzato ad hoc su una persona: il vincitore designato. Adesso però le cose si sono complicate e le ironie rischiano di trasformarsi in sospetti e tremori. Su quel concorso, per un posto di professore ordinario al dipartimento di Economia e management, è stata aperta un’inchiesta della procura di Pisa. Il sospetto è che la commissione d’esame avesse già deciso a priori chi far vincere e i magistrati vogliono capire se esiste un sistema di potere baronale che influisce sui concorsi pubblici. Sospetti generati da una registrazione clamorosa nella quale il presidente di una delle commissioni esaminatrici, uno stimatissimo professore universitario, sembra ammettere le presunte irregolarità. A registrarle il marito dell’esclusa, anche lui docente universitario, ma a Verona. La moglie ha poi presentato una denuncia alla procura allegando oltre alla registrazione altri documenti. Sul caso c’è anche un ricorso al Tar e l’avvio di indagini della commissione etica dell’ateneo pisano, considerato tra i più validi d’Europa, dove studiano oltre 50 mila studenti. Protagonista e presunta vittima della vicenda è Giulia Romano, tra le migliori ricercatrici del dipartimento di Economia e management. È stata lei a firmare la denuncia contro Luciano Marchi, presidente della commissione d’esame, Silvio Bianchi Martini, membro della commissione e direttore del dipartimento di Economia e management, e contro l’ex rettore Massimo Augello. Insieme ai documenti, Giulia Romano e il suo avvocato, Francesco Agostinelli del foro di Livorno, hanno prodotto le registrazioni avvenute tra il professor Marchi, presidente della commissione, e Andrea Guerrini, marito della ricercatrice. Registrazioni nelle quali, almeno apparentemente, Marchi ammetterebbe che il profilo del concorso era stato studiato per il vincitore precedentemente designato «perché rientrava negli accordi». Nella registrazione Marchi poi spiega che basta un semplice «litigio» con «chi conta» per essere tagliato fuori. E in tal caso, per continuare a sperare di far carriera all’interno dell’università, «è importante recuperare il rapporto». E chi osa opporsi e fare ricorso corre il rischio di rimanere ricercatrice a vita perché nessuno mai più l’avrebbe appoggiata, in quanto sarebbe come «dare un premio a chi ha remato contro». Perché «il rischio è quello dell’isolamento... in queste vicende una ha ragione, però appare come quella che rompe i cazzi e in questo caso tutto l’ateneo è coalizzato perché tu vai a rompere una logica». Già, la logica. Un sistema? È proprio quello che stanno accertando i magistrati. «Abbiamo sottoposto al vaglio della procura la registrazione — dice l’avvocato Agostinelli — che è una valida prova documentale, affinché verifichi la violazione delle norme che regolano il reclutamento del personale accademico. Nella denuncia si chiede inoltre che si verifichi l’esistenza o meno di sistematiche condotte discriminatorie per l’accesso alle cattedre. Ci auguriamo che venga fatta luce nel più breve tempo possibile. Non solo nell’interesse della mia assistita, ma per tutelare tutti quei candidati meritevoli che aspirano all’importante ruolo di professore nel prestigioso ateneo pisano». Il rettore dell’università, Paolo Mancarella, non ha voluto rilasciare dichiarazioni.

Il presidente di Asa fa il detective e smaschera il concorso contestato. Guerrini registra il colloquio con il presidente della commissione che parlerebbe di un bando truccato all'Università di Pisa: la moglie era in corsa per la cattedra e presenta denuncia, scrive Gianni Tacchi il 28 luglio 2017 su "Il Tirreno". Quando il presidente della commissione d’esame gli ha chiesto un incontro ed è andato addirittura nel suo ufficio di Verona, ha capito subito che quella poteva essere l’occasione giusta per smascherare un concorso dell’Università di Pisa che considerava già sospetto. Così Andrea Guerrini, presidente del consiglio di gestione di Asa dallo scorso novembre e anche docente universitario in Veneto, ha registrato con lo smartphone quel colloquio con il presidente della commissione, il docente di economia Luciano Marchi, che parlerebbe di un bando truccato e costruito praticamente su misura per un vincitore già designato. La moglie di Guerrini - la livornese Giulia Romano, ricercatrice di economia - sperava di conquistare un posto da docente ordinario tramite quel concorso, ma poi si è insospettita e quel file audio l’ha portata a presentarsi dai magistrati per denunciare tutto insieme al suo avvocato Francesco Agostinelli: la convinzione della ricercatrice è che ci fosse un patto tra il rettore dell’epoca Massimo Augello e i vertici del Dipartimento di economia e management dell’Università di Pisa per escluderla dalla corsa alla cattedra. E così la Procura, una volta ricevuto l’atto e la registrazione che era stata fatta nell’ufficio di Guerrini, ha aperto un’inchiesta su quanto accaduto. Gli indagati sono tre: oltre a Marchi e Augello, nel registro spunta anche il nome di Silvio Bianchi Martini, membro della commissione e direttore del dipartimento di Economia e management dell’ateneo pisano. La selezione risale a ottobre 2016 e Romano, in un primo momento, presentò un ricorso al Tar «per delle presunte contraddizioni rispetto a quanto prevede la legge Gelmini». Chiedeva l’annullamento, la ricercatrice livornese. Ma lo scorso marzo la vicenda ha cambiato decisamente faccia. «Dopo l’esclusione di mia moglie - ha raccontato Guerrini - il presidente della commissione (Marchi, ndr) è venuto a trovarmi e in quella occasione ha ammesso che il bando era stato fatto su misura. Ho registrato quella conversazione, durata oltre un’ora, e poi sono andato dall’avvocato insieme a mia moglie. E alla fine abbiamo presentato denuncia in Procura». Ma cos’avrebbe detto Marchi a Guerrini? Il presidente della commissione parlerebbe di un esito già scritto «perché rientrava negli accordi» e che ribellarsi non sarebbe servito a niente. Anzi, avrebbe sbarrato la strada alla moglie, con il rischio di una sorta di «isolamento» per lei all’interno dell’università. «In queste vicende una ha ragione - avrebbe detto Marchi - però appare come quella che rompe i c... e in questo caso tutto l’ateneo è coalizzato perché tu vai a rompere una logica». E questa registrazione è stata consegnata ai magistrati, facendo partire l’inchiesta. «Crediamo che quella sottoposta alla Procura sia una valida prova documentale - ha detto l’avvocato Agostinelli - nella denuncia chiediamo di verificare l’esistenza o meno di condotte discriminatorie sistematiche». L’indagine della magistratura su un presunto concorso truccato ha scatenato polemiche alimentato sospetti all’interno dell’ateneo pisano. E Romano, ricercatrice che si occupa di analisi dei gestori idrici, è sconvolta per quanto accaduto: «Ho letto alcuni commenti sul web e mi hanno sorpresa - ha detto - molti dicono che succede ovunque, che non è una novità. Cosa significa? Che dobbiamo arrenderci agli illeciti? La nostra Costituzione dice che quella dei concorsi è la strada per l’accesso agli incarichi nella pubblica amministrazione, quindi io mi attengo alla legge». E appena sentita la registrazione, ha informato il nuovo rettore Paolo Mancarella e ha denunciato subito il caso.

«Favorì il figlio di Zecchino». Indagato il rettore D’Alessandro. Suor Orsola, coinvolti tre professori. La replica: sono sereno, ho fiducia nei magistrati, scrive Titti Beneduce il 27 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Avrebbe favorito un figlio dell’ex ministro Zecchino nell’assegnazione di un posto di ricercatore alla facoltà di Lettere: Lucio d’Alessandro, rettore dell’università Suor Orsola, ha ricevuto un avviso di chiusura delle indagini preliminari per abuso di ufficio; oltre a lui sono indagati altri tre docenti: Giovanni Coppola, Anna Giannetti e Alessandro Viscogliosi. La notizia si è diffusa ieri sera, proprio mentre il professore d’Alessandro era ospite di Bruno Vespa a «Porta a porta» per commentare l’inchiesta della Procura di Firenze sulla spartizione delle cattedre.

La vicenda 13 anni fa. La vicenda al centro dell’interesse degli investigatori è abbastanza datata: risale infatti al 2004 ed è anche particolarmente complessa. Secondo la ricostruzione del pm Graziella Arlomede, che indaga con il coordinamento del procuratore aggiunto Alfonso D’Avino, tredici anni fa, quando era prorettore, d’Alessandro avrebbe formato una commissione ad hoc per agevolare Francesco Zecchino, figlio di Ortensio, docente del Suor Orsola e ministro dell’Università e della Ricerca scientifica tra il 1998 e il 2001, all’epoca dei governi D’Alema e Amato (padre e figlio non sono indagati). La commissione era composta da Giovanni Coppola, Anna Giannetti e Alessandro Viscogliosi; docenti molto vicini all’allora prorettore e a Zecchino: alcuni, infatti, condividono con loro anche l’impegno nel Cesn, il Centro europeo di studi normanni. Tra i vari candidati, il posto di ricercatore a Lettere andò al figlio del politico. La notizia, com’era prevedibile, suscitò polemiche e malumori nell’ateneo. Ci furono ricorsi e dalla faccenda si occupò la magistratura amministrativa con sentenze non favorevoli a Zecchino; nonostante tutto, però, il Suor Orsola non cambiò orientamento. Francesco Zecchino, come si legge sul sito del Suor Orsola, è tuttora ricercatore al corso di laurea in Conservazione e restauro dei Beni culturali, facoltà di Lettere.

E il rettore: «Sono sereno». Tredici anni dopo, quella vicenda diventa oggetto di un’indagine penale. Notificati gli avvisi di chiusura delle indagini preliminari, il pm della sezione reati contro la pubblica amministrazione si avvia dunque a chiedere il rinvio a giudizio per i quattro docenti, che hanno ora venti giorni di tempo per chiedere di essere interrogati o depositare memorie difensive. Il fatto che dal presunto illecito sia trascorso tanto tempo induce comunque a ritenere che presto sarà dichiarata la prescrizione. Il professore d’Alessandro, difeso dall’avvocato Vittorio Manes, che ieri sera ha preso parte alla trasmissione «Porta a porta» proprio per commentare il malcostume che emerge dall’inchiesta fiorentina sulle abilitazioni all’insegnamento universitario, non intende entrare nello specifico ma commenta: «È una vicenda molto vecchia e risalente nel tempo, sulla quale mi sento davvero sereno. Non desidero rilasciare dichiarazioni perché non intendo in alcun modo interferire con il delicatissimo lavoro della magistratura»...

Suor Orsola, indagato il Rettore: «Al concorso universitario favorito ​il figlio dell’ex ministro Zecchino», scrive Leandro Del Gaudio il 26 settembre 2017 su "Il Messaggero". Viene bollato come regista morale di una operazione finalizzata ad assicurare un posto di ricercatore al figlio dell’ex ministro della pubblica istruzione Ortensio Zecchino. Nel pieno dello scandalo nazionale sulle cattedre universitarie (parliamo dell’inchiesta nata a Firenze), non passa inosservata la svolta investigativa impressa di recente dalla Procura di Napoli: sotto inchiesta finisce il rettore dell’università Suor Orsola Benincasa Lucio D’Alessandro, che deve rispondere di un’ipotesi di abuso di ufficio; ma anche gli altri membri della commissione, vale a dire Giovanni Coppola, Anna Giannetti, Alessandro Viscogliosi, per i quali è ipotizzata anche l’accusa di falso. Ai quattro indagati è stato notificato un avviso di chiusa inchiesta, al termine delle indagini condotte dal pm Graziella Arlomede, magistrato in forza al pool guidato dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino. Una inchiesta che si insinua nel pieno di un contenzioso dinanzi al Tar aperto dal ricorso di una candidata al ruolo di ricercatore assegnato - nell’ormai lontano 2004 - a Francesco Zecchino. Né Ortensio Zecchino, né il figlio Francesco sono indagati, mentre l’iter amministrativo è approdato per due volte dinanzi al Tar e al Consiglio di Stato e non è ancora concluso. Ma entriamo nel merito dell’inchiesta sulla valutazione resa in questi anni da due commissioni di concorso in favore di Francesco Zecchino. In ballo il posto di ricercatore a Lettere (storia dell’architettura e storia dei giardini), in prima battuta la commissione premia Zecchino jr. Scatta il ricorso della competitor Maria Losito, per il quale sia il Tar che il Consiglio di Stato dichiarano la valutazione dei prof come un atto illegittimo, «in considerazione dell’evidente svalutazione dei titoli accademici e della prova d’esame della concorrente Maria Losito, di cui riconosceva la prevalenza». Siamo nel 2008, quando la stessa commissione, nonostante le pronunce del Tar e del Consiglio di Stato, si riunisce per confermare la prima valutazione: quel posto di ricercatore - insistono i giudici - deve andare a Francesco Zecchino. Scatta un nuovo ricorso, dal mondo degli studi e della ricerca scientifica, si passa di nuovo alla giustizia amministrativa, che dispone una nuova valutazione dei candidati da parte però di una diversa commissione, «sì da assicurare neutralità e imparzialità dei giudizi, invero carenti nella prima valutazione». Ed è a questo punto - siamo nel 2011 - che entrerebbe in gioco - come «concorrente morale» e come «regista» - il rettore D’Alessandro. Qual è l’accusa? Avrebbe individuato come nuovo commissario un docente del suo istituto - parliamo del professor Coppola - che è anche fondatore e componente di un organismo di studi che ha tra i suoi vertici sia Ortensio Zecchino, che il figlio Francesco. Una sorta di conflitto di interessi, secondo la Procura, che rileva che i criteri di imparzialità e neutralità del giudizi sono tutt’altro che garantiti. Scrivono i pm: «Coppola è fondatore e componente del consiglio direttivo del Cesn, Centro europeo di studi normanni di Ariano Irpino, istituto a cui partecipano il contro interessato Francesco Zecchino ed il padre di questi Ortensio, fondatore anch’egli e presidente del Consiglio di amministrazione dell’ente». Quanto basta, nell’ottica della Procura, ad ipotizzare la volontà di favorire il figlio dell’ex ministro. Di tutt’altro avviso docenti e commissari coinvolti. 

COME SI TRUCCA UN CONCORSO UNIVERSITARIO.

Concorsi truccati: revisori amici e bandi «ad personam». Così si ottiene una cattedra in ateneo. Dal sistema delle pubblicazioni ai candidati già scelti, ecco i metodi per condizionare i risultati delle prove, scrive Valentina Santarpia il 26 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Dopo lo scandalo cinque anni fa delle riviste improbabili selezionate dall’Anvur per valutare gli scritti degli aspiranti docenti, gli esperti hanno reso, almeno all’apparenza, molto più difficile conquistare quei punteggi necessari per candidarsi all’abilitazione scientifica nazionale, e quindi aspirare a un posto da professore all’università. Ma, come è noto, fatta la legge, trovato l’inganno. E così anche oggi il sistema di accreditamento ha le sue falle. A partire proprio dalle pubblicazioni. Se nelle materie scientifiche, da matematica a medicina, sono le citazioni dei propri lavori a contare, nelle materie umanistiche e in settori come giurisprudenza o economia valgono tre criteri: i libri scritti, le pubblicazioni, e quante di queste sono ospitate da riviste considerate di qualità. Servono almeno due elementi su tre. Come fa un aspirante professore a pubblicare? Prima di tutto deve mandare il proprio lavoro all’editor della rivista, che a sua volta lo sottoporrà ai revisori anonimi. Questo meccanismo è usato anche nelle riviste internazionali, dove però la revisione viene affidata a ricercatori, dottorandi o professori. In Italia si ritiene doveroso far valutare il testo solo ad un docente associato o ordinario. Ma c’è un’altra, più evidente differenza: in un ambiente ristretto come quello italiano è facile che revisore e direttore della rivista conoscano chi sta presentando il lavoro. La commissione indipendente è sicuramente una garanzia, ma deve tener conto dei criteri oggettivi delle citazioni e delle pubblicazioni. C’è sempre il controllo successivo degli atti, ma documenti e motivazioni restano online solo 60 giorni. In ogni caso, anche superata l’abilitazione, resta il concorso. Se il bando viene scritto a immagine e somiglianza del candidato prescelto, il posto è praticamente suo. E se si presenta qualcun altro? Come nel caso del ricercatore che ha fatto partire l’indagine, lo si dissuade dal partecipare. «Nel suo interesse», ovviamente.

Università: il ministero e i concorsi a fotografia, scrive Alessandro Figà Talamanca il 21 marzo 2014 su Roars. Siamo in regime di blocco del reclutamento universitario, ma qualche concorso viene ancora bandito. Si tratta di concorsi a posti di “ricercatore a tempo determinato” una nuova figura che, secondo la recente riforma dovrebbe costituire il canale principale di reclutamento dei giovani alla carriera universitaria. I concorsi dovrebbero essere aperti a tutti i giovani qualificati, ma molti professori, con il consenso delle università e del Ministero hanno trovato il modo di riservarli a priori ad alcuni predestinati. Lo strumento è ben noto, si tratta del cosiddetto “concorso a fotografia” per il quale nel bando viene disegnato un “profilo” del futuro vincitore che corrisponde esattamente al profilo scientifico del predestinato, ad esempio corrisponde al titolo e all’argomento della sua tesi di dottorato. Questa pratica furbesca che consente di prescindere dal merito scientifico dei concorrenti è talmente ben nota che la legge la proibisce esplicitamente.  La Legge 240 del 2010 stabilisce che un eventuale “profilo” può essere specificato “esclusivamente tramite indicazione di uno o più settori scientifico disciplinari”, per fare un esempio si potrà specificare che il candidato debba essere un esperto di “Probabilità e Statistica Matematica” ma non necessariamente un esperto di “Processi di diffusione negli spazi ultrametrici”. I bandi che non rispettano la legge dovrebbero essere censurati dal Ministero, ma questo non avviene; anzi il Ministero stesso incoraggia questo tipo di bando consentendo la descrizione del profilo nel sito ufficiale del Ministero. La violazione della legge potrebbe essere eliminata attraverso il ricorso di un candidato ai Tribunali Amministrativi, ma i ricorsi costano e nessuno può garantire che il ricorrente che ottenga dal tribunale la cancellazione del “profilo” dal bando, risulti poi vincitore. Complice il Ministero si sta diffondendo quindi una prassi illegale che può portare solo danni al sistema universitario. Naturalmente le scuse per violare la legge sono molte, ma tutte legate a una caratteristica negativa del sistema universitario e scientifico in Italia e cioè la sua struttura gerarchica, che prevede che gli argomenti e la direzione della ricerca siano indicati da un anziano “grande capo”, mentre i giovani nell’età più creativa vengono mantenuti in una situazione di dipendenza. Secondo questa prassi il posto di ricercatore appartiene quindi ad un “grande capo” che ha diritto di scegliersi il “collaboratore”. Localismo e nepotismo, i mali dell’università italiana sono casi estremi di questa assurda prassi.

Scandalo concorsi universitari, quel sistema che resta impunito. La vicenda che a Firenze ha condotto all’arresto di sette professori universitari è solo l’ultima di una lunga lista. Finirà con la solita prescrizione, dopo anni di processi? Scrive Gian Antonio Stella il 26 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Riusciranno i giudici a portare fino in fondo il processo ai baroni arrestati per l’ennesima «concorsopoli»? O finirà con la solita prescrizione dopo i soliti undici o dodici anni di lungaggini e rinvii? Ecco il dubbio. Perché, certo, di arresti ne abbiamo visti. Tanti. Ma le condanne per le troppe selezioni «pilotate» sono state più rare degli ippopotami nel Garda. Prendiamo solo uno degli ultimi casi. Ansa, giugno 2016: «Il Tribunale di Bari ha archiviato per prescrizione di tutti i reati una delle indagini sui presunti concorsi truccati alla facoltà di Medicina dell’Università...». L’inchiesta era «sui concorsi per ordinari in Medicina interna risalenti agli anni 2005-2007. Gli indagati, tutti docenti universitari, rispondevano di associazione per delinquere, falso, interesse privato in atti pubblici e abuso d’ufficio...». Titoloni sparati in prima pagina all’inizio, titolini se non il silenzio assoluto col passare delle settimane, dei mesi, degli anni... Con la rimozione totale, spesso, di documenti, testimonianze, intercettazioni che da soli, al di là del profilo penale e processuale, sarebbero stati sufficienti, in una università seria, a espellere persone chiamate a «educare» generazioni di ragazzi avvelenati dall’elogio della furbizia.

Intimidazioni. Basti ad esempio la sfuriata del rettore di Tor Vergata, Giuseppe Novelli, vicepresidente della Conferenza dei rettori (sic...), contro Giuliano Grüner, uno dei due ricercatori (con Pierpaolo Sileri) che avevano ricorso al Tar per la «chiamata» di colleghi che, scrisse Il Fatto, erano «senz’altro titolati ma incidentalmente figli di professori di Tor Vergata». Ecco stralci della registrazione, purgata delle parole più «esuberanti» del Magnifico: «Lei sta sputando nel piatto in cui mangia! Sta facendo una causa contro il suo rettore, (censura)! Non è mai accaduto! Quando mi chiamava il mio rettore io tremavo (censura)!». «O ritira il ricorso oppure noi qui non ci parliamo! Per i prossimi anni per quello che mi riguarda si cerchi un altro Ateneo! Finché faccio io il rettore, lei qui non sarà mai professore!».

Omertà diffusa. Un caso isolato? Per niente. Lo dicono le storie di ordinari passati dopo quattro giudizi negativi su cinque e altri bocciati da commissari con molte meno pubblicazioni. O quella di Maria Luisa Catoni, che dopo esser stata fellow a Berlino e senior fellow alla Columbia e aver presieduto (unica donna italiana) una commissione dell’European Research Council è stata scartata per «poche esperienze internazionali»...Un’Ansa del dicembre 1991 racconta «le vicende di due concorsi di ematologia e di pediatria invalidati per volontà del ministro della università Antonio Ruberti, dopo che su una rivista scientifica erano state pubblicate le prove dei “brogli”». Indimenticabili i commenti. «È vero, in Italia per diventare professore d’università bisogna aver un padrino», si sfogò la docente di pediatria Luisa Busingo confidando il senso di umiliazione, «io stessa, se sono associato lo devo a un padrino. Se morisse lui avrei la certezza di non diventare mai di ruolo». «Il problema è l’omertà», accusarono Antonio Fantoni e Ferdinando Aiuti, famosi per le ricerche sull’Aids, «tutti i docenti sanno che le cose funzionano così ma la maggior parte dei nostri colleghi non protesta perché è d’accordo con questo sistema». Fenomenale l’intervento di Luigi Frati: «È un problema di moralità che non riguarda solo i concorsi universitari, ma la società intera». Pochi anni dopo, eletto rettore, si sarebbe circondato di tutta la famiglia: moglie, figlio, figlia...

Cervelli fuggiti. «Nonostante la retorica dei “pochi episodi di malcostume”», ha scritto Roberto Perotti nel libro L’Università truccata, «tutti i professori dell’università italiana sanno di decine di concorsi truccati, e moltissimi vi hanno partecipato, spesso acconsentendo loro malgrado a promuovere il protetto del barone locale per riuscire a promuovere in cambio almeno un candidato serio». Una scusa per tacitare la coscienza. «Come nelle società mafiose, l’omertà e la connivenza di fatto imposte alla maggioranza degli onesti non sono percepite come atto di complicità, ma come sacrificio personale per evitare guai peggiori ad altre persone». Ma perché tante università, con luminose eccezioni, ovvio, si sono riempite negli anni di figuri di statura modesta o modestissima invece che di fuoriclasse, costretti a emigrare all’estero? Possibile che un giovane cervello come Clemente Marconi, come ha raccontato il nostro Marco Imarisio, riceva lo stesso giorno un rifiuto («Gentile collega, siamo giunti alla conclusione che Lei non possiede i requisiti...») dall’ateneo di Palermo e la lettera di assunzione della Columbia di New York? Perché per anni troppe università, per fare un paragone calcistico, hanno rinunciato a prendere Ronaldinho preferendogli un brocco tirato su nel cortile di casa?

Villautarchia. La risposta, spiegano ne Lo splendido isolamento dell’università italiana Stefano Gagliarducci, Andrea Ichino, Giovanni Peri e ancora Perotti, è questa: «La “squadra” di Villautarchia non gioca un campionato, ma solo amichevoli, spesso truccate; riceve un contributo fisso dalla federazione indipendentemente dai risultati; e gli spettatori di Villautarchia non hanno alternative: o vanno allo stadio locale, o non vedono partite di calcio. Prendere Ronaldinho scombussolerà la tranquilla vita dei giocatori, che si allenano solo una volta alla settimana; toglierà la leadership della squadra al vecchio capitano quarantenne; e farà risaltare l’inadeguatezza dell’allenatore... Perché crearsi tutti questi problemi, quando prendendo un giocatore di serie C si fa piacere a un dirigente locale, che è amico del sindaco in scadenza e che farà vincere il presidente del Villautarchia alle prossime elezioni comunali?».

Impuniti. Fatto è che il nuovo scandalo è sale sulle ferite di tantissimi ordinari, associati, ricercatori perbene che fanno il loro mestiere davvero con dedizione, disciplina, onore e vivono malissimo questi scandali. Tanto più che anche chi viene condannato se la cava con un buffetto. Il caso simbolo è quello di un concorso per Otorinolaringoiatria. Bandito nel 1988, vinto da sedici parenti o raccomandati, sanzionato da condanne in Assise, in Appello e in Cassazione (tredici anni dopo i fatti) non fu mai seguito da provvedimenti seri. Non solo restarono tutti impuniti sulle loro cattedre (nonostante le «plurime e prolungate condotte criminose» denunciate nelle sentenze) ma qualche anno dopo il direttore generale del Miur, Antonello Masia, mise per iscritto che «l’annullamento di un atto non può fondarsi sulla mera esigenza di ripristino della legalità, ma deve tener conto della sussistenza di un interesse pubblico». Tutti salvi. Chi ha dato ha dato, chi avuto avuto, scurdammoce ‘o passat’...

Concorsi truccati, Adi: "Succede in tutti i settori, dall'accesso al dottorato fino all'abilitazione". Il segretario nazionale dell'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani, Giuseppe Montalbano, non è sorpreso dalle rivelazioni dell'inchiesta partita dalla denuncia di un ricercatore di diritto tributario: "Sfogarsi cercando di restare è impossibile", scrive Giorgia Pacino il 26 settembre 2017 su "La Repubblica". "Succede in tutti i settori accademici in modo trasversale e in tutta la filiera del precariato della ricerca. Dall'accesso al dottorato fino all'abilitazione nazionale". Giuseppe Montalbano è segretario nazionale dell'Adi, l'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani. Non è sorpreso dalle rivelazioni dell'inchiesta sui concorsi truccati all'università, partita dalla denuncia di un ricercatore di diritto tributario.

Ha letto il racconto del ricercatore di Firenze?

"Una storia come quella non è affatto nuova, non è la prima volta che ci vengono segnalati casi di questo genere. Attenzione: non tutti i docenti sono baroni. Delle nicchie in cui prevale trasparenza e merito ci sono. È vero, però, che in molti settori avere un professore che ha seguito un candidato per anni e vuole investire su di lui costituisce un canale di accesso preferenziale".

Quant'è diffuso il sistema?

"Parecchio. È un problema con radici strutturali che affondano nella ricattabilità dei ricercatori precari, il prodotto di un sistema che come Adi denunciamo da sempre. La ricattabilità è stata introdotta con la riforma Gelmini, portata avanti con la promessa di sgominare i baroni. Non solo i baroni sono rimasti al loro posto, ma, introducendo una serie di figure contrattuali precarie, tagliando le risorse e dando più potere a chi tiene i cordoni della borsa e controlla l'accesso ai bandi - per di più limitati con il blocco del turn over - alla fine la riforma ha rafforzato quelle stesse baronie che a parole intendeva combattere".

Va cambiato il metodo di selezione?

"Un sistema così complesso, fatto di tanti indicatori e passaggi, è insufficiente rispetto alle necessarie garanzie di trasparenza. Va riformato coinvolgendo tutta la comunità accademica, a partire proprio dai segmenti meno tutelati come i ricercatori precari. Alla base, però, c'è sempre il sottofinanziamento che fa da cornice a tutto il resto. È giusto intervenire sui meccanismi di reclutamento e sulla trasparenza dei concorsi, ma bisogna prima affrontare il nodo del finanziamento e dello sblocco del reclutamento. Perché se i posti sono sempre meno e le opportunità per i giovani ricercatori si restringono, cresce la loro ricattabilità".

Allora aumentano i ricorsi?

"Per fortuna tanti colleghi, con parecchio coraggio, hanno la volontà di contestare decisioni di tipo arbitrario, spesso mettendo a repentaglio la loro stessa carriera. Si sta diffondendo una certa capacità di rispondere ai torti subiti, innanzitutto attraverso il ricorso. Di certo sono meno quelli disposti a denunciare alle autorità".

Il problema resta la prova.

"Quella spetta alle autorità. Consiglierei di prendere tutte le precauzioni possibili e raccogliere la la documentazione, anche attraverso strumenti come le registrazioni o altre modalità per dimostrare cos'è avvenuto. Sarebbe la prova migliore, certo, ma quando si fa un concorso dotarsi di microfoni non è la prima preoccupazione di un candidato. Riceviamo molte segnalazioni in forma confidenziale o anonima. Ma una cosa è una denuncia, un'altra una lettera di sfogo di chi magari decide di abbandonare il mondo dell'università. Il problema è che sfogarsi cercando di restare diventa impossibile".

"Università, altro che merito. E' tutto truccato. Vi racconto come funziona nei nostri atenei". Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati. Un dottore di ricerca spiega nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra raccomandazioni e correnti di potere. E qualcuno non vuole che il libro in cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato, scrive Maurizio Di Fazio il 16 marzo 2015 su "La Repubblica". Non è un Paese per giovani docenti universitari. E' quanto ha scoperto sulla sua pelle da Matteo Fini, classe 1978, appena riemerso da quasi dieci anni di esperienza accademica come dottore di ricerca in statistica nel Dipartimento di scienze economiche dell’Università degli studi di Milano. “Tante illusioni svanite via via nel nulla”. Alla Statale si occupava di metodi quantitativi per l’economia e la finanza. “In pratica facevo tutto: lezioni, ricerca, davo gli esami, mettevo i voti – ci dice Fini – Ero un piccolo professore fatto e finito, senza titolo. E questa è una roba normalissima”. La sua è la storia di un giovane italiano che non ce la può fare nonostante tutto. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano” aggiunge. E ne esce, e pensa di raccontarlo. Di dissacrarlo. Ne fa la sostanza del suo libro: la vita accademica vista dall’interno, nei suoi gangli ordinari. Episodi quotidiani che non danno scandalo abbastanza se presi singolarmente. Comincia a scriverlo, e ne posta qualche estratto su Facebook. Un giorno riceve una diffida legale, girata anche all'editore con cui aveva già fatto un libro ("Non è un paese per bamboccioni"), che gli intima di non pubblicare e di eliminare tutti i post “allusivi” dal social: tra questi, una citazione di Lino Banfi/Oronzo Canà. “I post non li ho affatto tolti, e tra l’altro erano generici e astratti – racconta Matteo Fini –. Questa è censura preventiva”. Il libro è pronto, anzi c’è tutta una piccola community sul web che ne attende l’uscita; ma non si sa più quando, né con chi vedrà la luce. Abbiamo incontrato l’autore per saperne di più di questo suo pamphlet arrabbiato, rimandato a settembre per “condotta”. L’inizio del percorso da ricercatore universitario è comune a tutti. “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato e la strada si fa cieca”. Al “meccanismo” ci si abitua subito. Prendere o lasciare. I più, prendono, compreso Matteo Fini. “Ho capito subito che c’erano delle regole bislacche, ma le ho accettate: sai benissimo che lì dentro funziona così, è un sistema che non puoi cambiare, immutabile, e sai anche che la tua carriera è totalmente indipendente da quello che dici o che fai: conta solamente che qualcuno voglia spingerti avanti”. Anche Matteo ha il suo protettore. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Va avanti così per anni. Ma le cose non sono eterne. “All’improvviso la sua attenzione si è completamente spostata altrove. Dal chiamarmi quattro volte al giorno, l’ultimo anno è scomparso. Fino al gran finale: il dipartimento bandisce il concorso per il posto a cui lavoravo da otto stagioni, “che avrei dovuto vincere io”. Lui nemmeno me lo comunica. Io ne vengo a conoscenza e partecipo lo stesso, pur sapendo che, senza appoggi, non avrei mai vinto. In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. In questo volume intra–universitario che non c’è, ma c’è, Fini spiega gli ingranaggi universitari più comuni. Talmente elementari che nessuno aveva mai pensato di raccontarli. Sfogliamolo virtualmente. Concorsi, primo esempio. Il blu e il nero. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo. A me una volta è capitato che a metà prova si siano accorti che alcuni stavano scrivendo in blu e altri in nero. A quel punto ci hanno consegnato delle penne uguali per tutti, e siamo ripartiti daccapo. A fine prova mi sono accorto che c'erano degli stranieri che avevano scritto nella loro lingua natìa... Ma con la penna uguale alla nostra, eh!”. Concorsi, secondo esempio. Gli ultimi saranno i primi. “M’iscrissi al bando e mi presentai al test d’ammissione che era composto esclusivamente da un colloquio orale in cui si ripercorreva la carriera dei candidati. Era un concorso per titoli. I candidati erano tre: io, una ragazza del sud di trentun’anni neolaureata e una ragazza del nord che stava discutendo la tesi. I posti erano sei, le borse di studio in palio due. Indovinate in graduatoria in che posizione mi piazzai? Esatto, terzo. E ultimo. In un concorso esclusivamente per titoli, cioè non vi erano delle prove d’esame che avrebbero potuto mostrare la preparazione di un candidato piuttosto che l’altro, contava solo il curriculum vitae; in un concorso per titoli tra due neolaureate, o quasi, e io che una laurea, come loro, ce l’avevo e che possedevo anche un titolo di dottore di ricerca, pubblicazioni scientifiche, manuali didattici e un’esperienza di oltre cinque anni in accademia tra lezioni, lauree, seminari e convegni, ecco in gara con loro due mi classifico terzo, dietro di loro…”.Concorsi, terzo esempio. La salita è in discesa. “Qualche anno fa sono andato a fare un concorso per un contratto di un anno fuori sede. Fuori sede lo dico perché ogni ricercatore, o simile, è come affiliato al dipartimento di provenienza, ogni volta che prova a partecipare a un concorso in un altro ateneo è come se andasse in guerra. Con lo scudo e la fionda contro i fucili e i cacciabombardieri. Il posto era per un assegno di ricerca in Economia e gestione delle imprese. Ci presentiamo in tre. Il vincitore, il fantoccio e io. C’è sempre un fantoccio. Quello che deve fare presenza, ma perdere. Per non dare l’idea che il concorso sia ad personam. Purtroppo per loro però, inavvertitamente, mi ero iscritto pure io. E risultavo tremendamente più titolato degli altri due, vincitore compreso. Questo capitava non perché io fossi particolarmente genio, ma perché, essendo ormai da anni attorcigliato nel meccanismo universitario senza sbocchi in attesa del posto mio, mi ritrovavo a partecipare a concorsi per retrocedere. Scendi di categoria, e sembri un fenomeno. Così succede che devono trovare un modo per fermarmi. E non potendo dire che non ho i titoli o che il mio curriculum mal si relazioni col loro progetto di ricerca. Sapete cosa s’inventano? Provano con la psicologia. Anzi la psicologia inversa, il metagame. “Tu sei un ricercatore affermato, ormai hai anni di esperienza, il nostro progetto dal punto di vista quantitativo non presenta una sfida entusiasmante, saranno sì e no due calcoletti, per cui non credo che questo sia il posto adatto a te... E così ho perso un’altra volta”.

Concorsi, per concludere. Così fan tutti.“E così risulta penalizzato anche chi vince perché è più bravo e perché se lo merita. Chi vincerebbe un concorso anche in una molto ipotetica gara alla pari. Senza padrini. Pensate a quanto possa essere frustrante, anche per loro, sapere che nonostante gli anni di studi, i sacrifici, nonostante siano pronti, in realtà si sono ritrovati vincitori perché qualcuno ha deciso così. Per delle logiche che continuano a esulare dalla loro preparazione e ricerca. Tutti penseranno che tu, come tutti, il posto non te lo sei guadagnato. Puoi urlarlo forte quanto vuoi, ma nessuno ti crederà. Tutti ti vedranno come l'abusivo, il solito infame”.

Assegnazione dei fondi. Specchietti per le allodole. “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto alimentato dal blasone dei docenti unitisi (professori che magari fino al giorno prima neanche si salutavano). Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie (pubblicazioni, acquisto di pc all’ultima moda ecc.). Che fine fanno i ragazzi coinvolti? Bene che vada si spartiscono le briciole”.

Libri universitari. Self–publishing. “Molti docenti scrivono libri che poi adottano a lezione, naturalmente, e molto spesso gli editori glieli fanno pagare fino all’ultimo centesimo, della serie “Ti pubblico, ma tu devi comprarne 5 mila copie”. Ma mica li acquistano con portafogli personali, i suddetti saggi; no, ordinari e associati amano invece attingere liberamente dai fondi di dipartimento, che pure magari erano destinati a qualche ricerca seria e pluripremiata”.

Cultore della materia. Il purgatorio dei tuttologi. “Più in basso ancora di assegnisti e dottorandi, c'è la figura del “Cultore della materia”: per permetterti di affiancare un Prof. in università se non hai titoli tuoi, questo ti fa "cultore", e tu così guadagni il diritto di aiutarlo in aula con gli esami o addirittura di fare lezione. La cosa divertente è che la decisione del docente è insindacabile. E così se un domani il tuo supervisor decide che tu debba essere un cultore in Fisica applicata o Letteratura greca medievale, e lo fa soltanto perché gli servi… il giorno dopo tu sarai legittimato ad andare in Aula a parlarne. Anche se non ne sai un fico secco”.

Didattica. Il fanalino di coda. “Viene vista come un fastidio. Un intralcio. È che da noi diventi docente solo dopo aver fatto il ricercatore. Ma il ricercatore dovrebbe fare ricerca, e il docente insegnare. Ci vorrebbe una separazione delle carriere. Un ottimo ricercatore può essere un pessimo docente, e viceversa”.

Seminari e riviste. Tutto fa brodo. “Spesso i dipartimenti organizzano seminari (sempre coi soldi dei fondi) il cui unico scopo è quello di presentare i propri lavori, perché così quel lavoro finirà dritto ne "gli atti del convegno", che è una pubblicazione, e che quindi va a curriculum, fa massa, valore, prestigio, carriera, altri soldi. C’è una lunga teoria di riviste che esistono solo per pubblicare gli atti di questi convegni: periodici clandestini, che pubblicano indiscriminatamente. Ci sono poi dipartimenti che le riviste se le creano da sé. È un circuito drogato, che lievita, ma su impasti veramente fragili. Basti vedere i curriculum dei docenti italiani: le pubblicazioni sulle riviste internazionali, quando ci sono, sono messe in bella mostra, mentre quelle sulle riviste nazionali vengono liquidate sotto la dicitura “altre pubblicazioni”... Come se ce se ne vergognasse”.

E poi avviene l’apoteosi dell’ipocrisia. Marmaglia di italiani, vincitori di concorsi truccati ed abilitati con esami di Stato truccati, che inneggiano alla legalità.

Concorsi truccati, la Rete incorona l’uomo della denuncia: «È l’italiano di cui il Paese ha bisogno». Philip Laroma Jezzi, 49 anni, è il ricercatore dell’università di Firenze che ha fatto scoppiare il caso. Sui social Network decine i commenti di ringraziamento e ammirazione. E c’è anche chi lo propone come ministro dell’Istruzione, scrive Paolo Decrestina, su "Il Corriere della Sera" il 26 settembre 2017. La Rete lo ha scelto come l’italiano di cui l’Italia ha bisogno. La sua denuncia e le sue registrazioni, che a Firenze hanno dato il via all’inchiesta per i concorsi truccati e le assegnazioni di cattedre, hanno mosso l’interesse e il sentimento di “onestà” del web. Perché Philip Laroma Jezzi, il ricercatore che ha fatto esplodere il caso, è oggetto da qualche ora di commenti e ringraziamenti sui social network.

I commenti su Facebook. Dopo gli arresti di sette docenti il ricercatore ha preferito non parlare dei dettagli del caso. Neanche in Rete, per il momento, ha pubblicato qualcosa in merito. Ma la sua pagina Facebook riceve comunque decine commenti, e tutti pubblicati nelle ultimissime ore. Al post più recente, che è dello scorso 12 settembre (una petizione che non ha nulla a che fare con Firenze) stanno arrivando risposte che invece si riferiscono proprio alla denuncia e al suo “coraggio”. «Grazie Philip! L’Italia ha bisogno di cittadini come te», scrive Andrea. «Le persone oneste sono tutte con te! Hai tutta la mia stima e te lo dice uno che ha pagato sulla sua pelle comportamenti come il tuo», commenta Vito. E poi ancora: «Stima e ringraziamenti sinceri. Da cittadino», «Ho profonda stima di te... è l’ora di reagire perché in gioco c’è quello che siamo ed il nostro futuro..ti sono vicino».

Su Twitter. Philip Laroma Jezzi, 49 anni, padre italiano, madre inglese e un posto al dipartimento di Scienze Giuridiche all’università di Firenze, non ha un personale profilo su Twitter. Ma anche l’altro colosso dei social network, come Facebook, lo celebra. L’inchiesta di Firenze è tra le più discusse, tanto che l’hashtag #concorsitruccati è tra i trend topic di Twitter. Il ricercatore viene definito “piccolo eroe”, “un esempio che tutti i meritevoli dovrebbero seguire per non accontentarsi di una mediocrità imposta”; c’è anche chi azzarda un #jesuisphilip e chi lo propone come prossimo ministro dell’Istruzione.

Concorsi truccati, arrestati 7 docenti universitari. Indagato anche Fantozzi. Chi sono i professori sotto accusa. Ventinove provvedimenti cautelari personali nei confronti di docenti universitari: ci sono anche 52 indagati, fra cui alcuni interdetti allo svolgimento delle funzioni di professore, scrive Fiorenza Sarzanini il 25 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Spartizione di cattedre universitarie e concorsi truccati: con l’accusa di corruzione sono stati arrestati e messi ai domiciliari sette docenti di importanti atenei italiani. Fra gli indagati anche l’ex ministro Augusto Fantozzi. I professori finiti in manette sono residenti uno a Milano, uno a Livorno, tre a Roma, uno a Bologna e uno a Napoli e sarebbero titolari di cattedre nelle università di Siena, Napoli, Cassino, Bologna e Castellanza (Varese). L’inchiesta, condotta dalla Procura di Firenze, guidata da Giuseppe Creazzo, è stata svolta dalla Guardia di Finanza, che all’alba di oggi ha eseguito le misure cautelari. Oltre ai 7 agli arresti domiciliari, ci sono 52 indagati e interdetti allo svolgimento delle funzioni di professore universitario e di quelle connesse ad ogni altro incarico assegnato in ambito accademico per la durata di 12 mesi) per reati di corruzione. Più di 150 perquisizioni domiciliari sono state eseguite presso uffici pubblici, abitazioni private e studi professionali. È il bilancio di un’operazione della Guardia di Finanza di Firenze che ha dato esecuzione ad una vasta operazione di polizia giudiziaria su tutto il territorio nazionale. Nei confronti di altri 7 docenti universitari, il gip di Firenze si è riservato la valutazione circa l’applicazione della misura interdittiva all’esito dell’interrogatorio degli stessi. Le misure coercitive sono state disposte dal gip del Tribunale di Firenze, Angelo Antonio Pezzuti, su richiesta della locale Procura della Repubblica, a seguito di articolate investigazioni svolte dai finanzieri del nucleo di Polizia tributaria di Firenze, coordinate dal procuratore aggiunto Luca Turco e dal sostituto procuratore Paolo Barlucchi. Il contesto investigativo dell’operazione denominata «Chiamata alle armi» ha preso le mosse dal tentativo di alcuni professori universitari di indurre un ricercatore universitario, candidato al concorso per l’Abilitazione Scientifica Nazionale all’insegnamento in Diritto tributario, a «ritirare» la propria domanda, per favorire un terzo soggetto in possesso di un profilo curriculare notevolmente inferiore, promettendogli che si sarebbero adoperati con la competente Commissione giudicatrice per la sua abilitazione in una successiva tornata. Gli approfondimenti investigativi hanno consentito di accertare sistematici accordi corruttivi tra numerosi professori di diritto tributario - alcuni dei quali pubblici ufficiali in quanto componenti di diverse commissioni nazionali (nominate dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) per le procedure di abilitazione scientifica nazionale all’insegnamento nel settore scientifico diritto tributario - finalizzati a rilasciare le necessarie abilitazioni secondo logiche di spartizione territoriale e di reciproci scambi di favori, con valutazioni non basate su criteri meritocratici bensì orientate a soddisfare interessi personali, professionali o associativi. I sette docenti di diritto tributario finiti agli arresti domiciliari sono: Guglielmo Fransoni, tributarista di uno studio fiorentino e professore a Lecce; Giuseppe Zizzo (Università Carlo Cattaneo di Castellanza, Varese); Fabrizio Amatucci, professore a Napoli; Alessandro Giovannini (Università di Siena); Giuseppe Maria Cipolla (Università di Cassino); Adriano Di Pietro (Università di Bologna); Valerio Ficari (professore a Sassari, supplente a Tor Vergata-Roma).

Firenze, concorsi truccati: arrestati sette docenti universitari. Maxi operazione per un'inchiesta della procura: 150 perquisizioni in tutta Italia. Per altri 22 professori è scattata l'interdizione dall'insegnamento per un anno. L'ipotesi d'accusa è corruzione. Tra gli indagati anche l'ex ministro Fantozzi. L'elenco completo dei 44 nomi, scrivono Massimo Mugnaini e Franca Selvatici il 25 settembre 2017 su "La Repubblica", ha collaborato Gerardo Adinolfi. “Sistematici accordi corruttivi tra professori di diritto tributario finalizzati a rilasciare le abilitazioni all'insegnamento secondo logiche di spartizione territoriale e di reciproci scambi di favori, con valutazioni non basate su criteri meritocratici bensì orientate a soddisfare interessi personali, professionali o associativi”. Sulla base di questa ipotesi accusatoria della procura di Firenze, i finanzieri hanno eseguito stamani 29 misure cautelari a carico di altrettanti docenti universitari di diritto tributario su tutto il territorio nazionale: 7 sono finiti agli arresti domiciliari, 22 interdetti dall'attività per 12 mesi, quindi non possono insegnare. Tra loro anche dei componenti delle commissioni ministeriali nominate dal Miur per i concorsi in quella disciplina giuridica. Per altri 7 docenti il gip Angelo Antonio Pezzuti valuta altre misure cautelari. Eseguite anche 150 perquisizioni da parte di 500 finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Firenze. Gli indagati sono complessivamente 59. L'accusa per tutti è corruzione. Tra gli indagati anche l'ex ministro Augusto Fantozzi. "Il professore è completamente e indubitabilmente estraneo ai fatti in contestazione in primo luogo perché era già andato in pensione all'epoca degli avvenimenti oggetto di indagine. La sua integrità è altresì testimoniata da una limpida e unanimemente apprezzata carriera accademica", ha affermato l'avvocato Antonio D'Avirro, difensore di Fantozzi. "Il professore - prosegue l'avvocato - sarà lieto di fornire tutti i chiarimenti necessari nell'incontro con i magistrati, che auspica possa avvenire il prima possibile". L'indagine, spiegano gli inquirenti, è nata a Firenze dal tentativo di alcuni professori universitari di indurre un ricercatore, candidato al concorso per l’abilitazione all’insegnamento nel settore del diritto tributario, a “ritirare” la propria domanda, allo scopo di favorire un altro ricercatore in possesso di un profilo curriculare notevolmente inferiore, promettendogli che si sarebbero adoperati con la competente commissione giudicatrice per la sua abilitazione in una successiva tornata. E' stato il ricercatore universitario a far partire l'inchiesta con la sua denuncia. I vincitori del concorso nazionale venivano scelti con una "chiamata alle armi" tra i componenti della commissione giudicante, e non in base a criteri di merito. Secondo quanto emerso, in un'intercettazione uno dei docenti, componente della commissione giudicante, affermerebbe di voler favorire il suo candidato, contrapposto a quello di un collega, esercitando la sua influenza con una vera e propria "chiamata alle armi" rivolta agli altri commissari a lui più vicini. "Fatto sorprendente che deve far riflettere sulla situazione dell'Università oggi", ha detto il sindaco di Firenze Dario Nardella.

I docenti arrestati. I sette arrestati sono Guglielmo Fransoni, tributarista dello studio Russo di Firenze e professore a Foggia ma anche ex collaboratore di Stefano Ricucci, Fabrizio Amatucci, professore di Napoli, Giuseppe Zizzo, dell'università Carlo Cattaneo di Castellanza (Varese), Alessandro Giovannini, dell'università di Siena, Giuseppe Maria Cipolla dell'università di Cassino, Adriano Di Pietro dell'università di Bologna, Valerio Ficari, ordinario a Sassari e supplente a Tor Vergata a Roma. 

I docenti interdetti Massimo Basilavecchia dell'Università Luiss di Roma, Mauro Beghin dell'Università di Padova, Pietro Boria della Sapienza di Roma, Andrea Carinci dell'Università di Bologna, Andrea Colli Vignarelli dell'Università di Messina, Roberto Cordeiro Guerra, ordinario di diritto tributario a Firenze e nel cda di Starhotels, Giangiacomo D'Angelo dell'Università di Bologna, Lorenzo Del Federico dell'Università di Chiati, Eugenio Della Valle dell'Università Sapienza di Roma, Maria Cecilia Fregni dell'Università di Modena e Reggio Emilia, Marco Greggi dell'Università di Ferrara e consulente ufficiale della commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna nonché docente presso la Scuola superiore della Magistratura, Giuseppe Marino dell'Università di Milano, delegato di Confindustria presso l'Ocse, Daniela Mazzagreco dell'Università di Palermo, Francesco Padovani dell'Università di Pisa, Maria Concetta Parlato dell'Università di Palermo, Paolo Puri dell'Università del Sannio, Livia Salvini della Luiss Guido Carli di Roma, Salvatore Sammartino dell'Università di Palermo, Pietro Selicato della Sapienza di Roma, Thomas Tassani dell'Università di Bologna, Loris Tosi dell'Università di Venezia Ca' Foscari, Francesco Tundo dell'Università di Bologna. 

I docenti per i quali il gip si è riservato la valutazione dell'interdizione all'esito dell'interrogatorio. Augusto Fantozzi, ex ministro e dal 2009 rettore dell'Università Giustino Fortunato di Benevento. Andrea Fedele, Giovanni Eugenio Marongiu, Andrea Parlato, Pasquale Russo, Francesco Tesauro, Carlos Maria Lopez Espadafor.

I docenti indagati per i quali il gip ha rigettato la richiesta di misure cautelari. Roberta Giuseppina Antonietta Alfano, Angelo Contrino, Manlio Ingrosso, Giuseppe Marini, Andrea Mondini, Maria Pia Nastri, Giovanan Petrillo, Claudio Sacchetto.

Nell'inchiesta era coinvolto anche il professor Victor Uckmar, che è morto alla fine del 2016 e quindi è uscito dalle indagini.

Dall'ex collaboratore di Ricucci agli avvocati delle grandi aziende: chi sono i sette docenti arrestati per i concorsi truccati. Il più noto alle cronache è Guglielmo Fransoni, avvocato d'affari e collaboratore di Stefano Ricucci. Nell'elenco anche docenti di Bologna, Cassino, Tor Vergata e Napoli, scrive il 25 settembre 2017 "La Repubblica". Tra i sette arrestati nell'inchiesta della procura di Firenze sui concorsi truccati all'Università il più noto alle cronache è probabilmente Guglielmo Fransoni, 53 anni, professore ordinario all’università di Foggia. Laureato in giurisprudenza oltre che in economia e commercio, Fransoni, avvocato d'affari, è stato uno dei più stretti collaboratori di Stefano Ricucci: nel febbraio 2005 il professore fu bloccato al confine con la Svizzera, a Ponte Chiasso, mentre in compagnia di Luigi Gargiulo, altro stretto collaboratore di Ricucci, cercava di portare in Italia una valigetta piena di titoli e di documenti relativi alle società off shore dell'immobiliarista romano.

Alessandro Giovannini, laureato all'università di Pisa, a Siena è professore universitario di diritto tributario, ha scritto otto monagrafie, oltre a saggi e voci di enciclopedie del settore, svolge libera professione e siede in consigli di amministrazione di aziende di primo piano. Così come del resto fanno anche gli altri arrestati.

Giuseppe Maria Cipolla è avvocato e professore ordinario di diritto tributario presso la facoltà di giurisprudenza dell’università degli studi di Cassino dove insegna anche sistemi fiscali comparati e di diritto tributario degli enti locali. Nel curriculum, oltre a pubblicazioni e vari incarichi, annovera l’esperienza di membro della commissione esaminatrice del concorso per il conferimento di 162 posti di dirigente nel ruolo del Ministero delle finanze e delle commissioni di esami istituite dal Ministero della Giustizia per l’abilitazione all’esercizio della professione di dottore commercialista e per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato.

Fabrizio Amatucci svolge la libera professione ed è professore ordinario di diritto tributario presso la Seconda università di Napoli, incaricato di diritto finanziario nella facoltà di Giurisprudenza dell’università di Napoli Federico II. E’ stato direttore del dipartimento di scienze giuridiche della seconda università di Napoli II. Alberto Di Pietro, anche lui campano, è ordinario di diritto tributario alla facoltà di giurisprudenza dell'Alma Mater Studiorum dell’università di Bologna e docente nel Master in diritto tributario dell'università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Ordinario di diritto tributario presso l'Università di Sassari e supplente presso l'Università di Roma "Tor Vergata", Valerio Ficari è autore di numerose monografie. Ha redatto circa centocinquanta tra articoli, note e sentenze in materia tributaria, oltre a essere curatore di opere collettanee in materia tributaria.

Infine Giuseppe Zizzo, avvocato tributarista con studio a Milano in zona Conciliazione e professore ordinario di diritto tributario all'Università Liuc di Castellanza (Varese).

Università, concorsi truccati a Firenze. Arrestati sette docenti, 22 interdetti, scrive il 25 settembre 2017 Il Secolo XIX. Sette docenti universitari sono stati arrestati per reati corruttivi dalla Guardia di Finanza di Firenze, nell’ambito di un’inchiesta su concorsi truccati. Le misure sono scattate a seguito di un’ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari, disposta dal gip su richiesta dei pm fiorentini Luca Turco e Paolo Barlucchi. Sei indagati anche a Bologna. Oltre all’arresto del professor Adriano Di Pietro, insegnante di diritto tributario e finanziario, ai domiciliari, i finanzieri della polizia tributaria hanno eseguito anche due misure interdittive a carico di altrettanti docenti dell’ateneo. Una decina le perquisizioni, tra abitazioni, studi e uffici universitari. Secondo quanto spiegato, le indagini sono partite dal presunto tentativo da parte di alcuni professori universitari di indurre un ricercatore, candidato al concorso per l’abilitazione scientifica nazionale all’insegnamento nel settore del diritto tributario, a ritirare la propria domanda, allo scopo di favorire un altro ricercatore, in possesso di un curriculum notevolmente inferiore, promettendogli in cambio l’abilitazione nella tornata successiva. Le indagini, spiega la GdF in una nota, hanno consentito di accertare «sistematici accordi corruttivi tra numerosi professori di diritto tributario», - alcuni dei quali pubblici ufficiali poichè componenti di diverse commissioni nazionali nominate dal Miur -, finalizzati a rilasciare abilitazioni «secondo logiche di spartizione territoriale e di reciproci scambi di favori», per soddisfare «interessi personali, professionali o associativi». Questa mattina i finanzieri hanno eseguito oltre 150 perquisizioni domiciliari in uffici pubblici, abitazioni private e studi professionali. Per 7 docenti che figurano tra gli indagati il gip Antonio Pezzuti si è riservato la valutazione circa la misura interdittiva dalla professione all’esito dell’interrogatorio. Ai domiciliari sono finiti Fabrizio Amatucci, docente alla Federico II di Napoli, Giuseppe Maria Cipolla (Università di Cassino), Adriano di Pietro (Università di Bologna), Alessandro Giovannini (Università di Siena), Valerio Ficari (Università di Roma 2), Giuseppe Zizzo (Università Carlo Cattaneo di Castellanza, Varese), Guglielmo Fransoni (Università di Foggia). Tra i 59 indagati, invece, anche l’ex ministro Augusto Fantozzi. Per Fantozzi, anche lui docente di diritto tributario, i pm Paolo Barlucchi e Luca Turco hanno chiesto l’interdizione e il gip, Antonio Pezzuti, si è riservato la decisione all’esito dell’interrogatorio, che verrà fissato nei prossimi giorni. Altri 22 sono stati colpiti dalla misura dell’interdizione dalle funzioni di professore universitario e da quelle connesse ad ogni altro incarico accademico per la durata di 12 mesi. Nell’inchiesta, che riguarda tutto il territorio nazionale, risultano indagate complessivamente 59 persone.

La “regola del do ut des”: ovvero lo scambio di favori. Sarebbero stati scelti in base alla regola del “do ut des”, uno scambio di favori tra commissari, i vincitori del concorso per l’abilitazione scientifica nazionale all’insegnamento nel settore del diritto tributario. Secondo quanto emerso, intercettazioni eseguite nel corso delle indagini condotte dalla guardia di finanza, che hanno portato all’arresto di 7 docenti, tra i commissari vigeva un «patto», un accordo per scambiarsi reciprocamente i voti e favorire i candidati sponsorizzati da ciascuno.

Le intercettazioni. «Non è che non sei idoneo... Non rientri nel patto», questa la frase, secondo quanto si legge nelle carte dell’inchiesta, che un ricercatore dell’Università di Firenze, la cui denuncia ha fatto scattare le indagini, si sarebbe sentito rivolgere da un docente dell’Ateneo fiorentino, che lo invitava a ritirarsi dal concorso, il cui superamento è necessario per l’accesso ai bandi da docente di prima e seconda fascia. In cambio sarebbe stato promosso alla tornata successiva. «Non sei nella lista», afferma il professore durante il colloquio, invitando il ricercatore a ritirare la candidatura e spiegandogli che non sarebbe stato comunque scelto. «Non siamo sul piano del merito - spiega -, ognuno ha portato i suoi». Il docente accusa poi il ricercatore di non rispettare «il vile commercio dei posti». Dalle indagini emerge che l’esito dei concorsi sarebbe stato regolato da una mera logica di spartizione territoriale: commissario riceveva l’ok all’abilitazione del proprio protetto - di solito un allievo o associato del proprio studio professionale - solo promuovendo i candidati sponsorizzati dagli altri.

Firenze, concorsi truccati: ecco come funziona l'abilitazione scientifica nazionale. A giudicare i candidati è una commissione di cinque membri sorteggiati tra i professori ordinari di quel settore, scrive Valeria Strambi il 25 settembre 2017 su "La Repubblica". Alcuni professori avrebbero indotto un ricercatore dell'Università di Firenze a ritirare la propria domanda di partecipazione al concorso per l'abilitazione scientifica nazionale all'insegnamento di diritto tributario per fare posto a un altro candidato. Ma come funziona il meccanismo dell'abilitazione? Se in passato esistevano concorsi a livello locale, ora la procedura è nazionale. Esistono due fasce distinte, sia quella per il passaggio da ricercatore a professore associato, sia quella per passare da associato a ordinario. La commissione che decide se un candidato ha diritto o meno all'abilitazione viene individuata attraverso un sorteggio tra i professori ordinari di tutta Italia che operano in quel preciso settore. Per poter essere sorteggiato occorre avere un curriculum di un certo livello e aver soddisfatto determinati criteri (ad esempio aver pubblicato un numero minimo di articoli entro un periodo di tempo). Una volta entrati nella lista dei sorteggiabili, avviene l'estrazione e si formano le commissioni, composte da cinque docenti. A questo punto i candidati interessati a ottenere l'abilitazione presentano la domanda corredata da curriculum. La commissione valuta i titoli e poi indica, con un "sì" o con un "no" i nomi di coloro che sono abilitati. Non c'è un limite di abilitati, in teoria tutti, se hanno i requisiti, possono superare la prova. Ma non è finita: il ricercatore che ha in tasca l'abilitazione, che comunque ha una scadenza e non dura per sempre, se vuole ottenere un posto da professore in un'università deve partecipare a un concorso, che può essere chiuso e quindi solo tra interni a quell'ateneo, oppure aperto anche a candidati esterni che si sono abilitati in altre università. I finanziamenti sono limitati e i posti disponibili sono sempre pochi. C'è quindi il rischio che l'abilitazione ottenuta scada prima che il ricercatore sia riuscito a entrare.

Università e concorsi truccati: inchiesta sui “cinque saggi”, scrive il 5 ottobre 2013 Il Secolo XIX. Avrebbero pilotato decine di concorsi universitari dal 2006 al 2011 creando una sorta di circoli privati all’interno dei quali si decideva il destino degli aspiranti docenti attraverso accordi, scambi di favori, sodalizi e patti di fedeltà. L’inchiesta della procura di Bari è ormai alle battute finali dopo l’informativa conclusiva depositata dalla Guardia di Finanza nel maggio scorso e ora al vaglio dei pm Renato Nitti e Francesca Romana Pirrelli. Negli atti dei finanzieri spuntano i nomi di noti costituzionalisti, di un ex ministro, dell’ex garante della Privacy e di cinque dei “saggi” incaricati di supportare il governo nella definizione delle riforme costituzionali. Il loro coinvolgimento emergerebbe dal contenuto di alcune intercettazioni telefoniche. Nel dettaglio, risulterebbero coinvolti l’ex ministro Anna Maria Bernini, l’ex Garante della Privacy Francesco Maria Pizzetti, e i “saggi” Augusto Barbera, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar e Lorenza Violini. Sono 38, complessivamente, i docenti universitari di cui parla l’informativa della Gdf con riferimento a decine di concorsi per docenti di prima e seconda fascia in diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. Nel fascicolo, aperto nel 2008 e vicino alla chiusura - l’ultima proroga delle indagini risale al 21 dicembre 2012 - la Procura di Bari ipotizza, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere, corruzione, abuso d’ufficio, falso e truffa. Nell’ambito di questa indagine, nel marzo 2011 sono state eseguite perquisizioni in 11 città (Milano, Bari, Roma, Napoli, Bologna, Firenze, Piacenza, Macerata, Messina, Reggio Calabria e Teramo), a carico di 22 docenti. Gli accertamenti della Gdf si sono, però, avvalsi soprattutto di intercettazioni telefoniche. Da alcune di questa sarebbe emersa persino l’intenzione, da parte di alcuni indagati, di esercitare pressioni sull’allora ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, Mariastella Gelmini, per ostacolare la riforma dell’Università, poi approvata in via definitiva nel dicembre 2010. Dell’opportunità di “convincer” il Governo a rivedere quella riforma, i docenti avrebbero parlato tra di loro al telefono, ignari che ad ascoltarli ci fossero i militari della Guardia di Finanza. La riforma universitaria cui si fa riferimento è quella che riguardava, tra le altre cose, l’adozione di un codice per evitare incompatibilità e conflitti di interesse legate a parentele. La riforma modificava, inoltre, le procedure di valutazione degli aspiranti professori universitari di prima e seconda fascia e dei ricercatori attraverso l’introduzione di criteri di sorteggio per i membri delle commissioni esaminatrici, con lo scopo -dichiarato - di impedire la rideterminazione dell’esito dei concorsi. Gli accordi tra i “baroni” sarebbero avvenuti, stando sempre alle intercettazioni telefoniche, anche durante congressi nazionali in cui i referenti di ciascun ateneo potevano incontrarsi e dare indicazioni su svolgimento ed esito delle prove. Non un’unica cabina di regia, dunque, ma una rete di favori incrociati.

Scambio di favori tra docenti. Cattedre e concorsi truccati, scrive il 31 marzo 2011 Il Secolo XIX. Favori, sodalizi e «patti di fedeltà», in cambio di cattedre ottenute truccando i concorsi. Così funziona la lobby affaristica di docenti universitari sulla quale la Procura di Bari ha aperto un’inchiesta. Nel mirino dei magistrati - che ieri hanno emesso i primi avvisi di garanzia - non ci sono però solo professori pugliesi.

Le perquisizioni dei finanzieri, incaricati dalla Procura, hanno riguardato docenti delle più prestigiose università d’Italia. Tra questi Giuseppe Ferrari, ordinario di Diritto pubblico e comparato dell’Università Bocconi, e Giuseppe Casuscelli e Enrico Vitali, entrambi docenti di Diritto canonico ed ecclesiastico all’Università Statale di Milano. Mentre risultano indagati, quattro docenti che insegnano a Milano, tre a Napoli, due a Roma, due a Piacenza e due a Reggio Calabria; uno a Bologna, a Firenze, Macerata, Teramo e Messina. Tutti i professionisti finiti sotto inchiesta - secondo quanto ipotizzato dai pm Renato Nitti e Francesca Romana Pirrelli - avrebbero manipolato «l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche bandite» attraverso «accordi, scambi di favore, sodalizi e patti di fedeltà». I docenti baresi (componenti delle commissioni giudicatrici), destinatari dell’avviso di garanzia, sono invece Aldo Loiodice, docente di diritto costituzionale alla facoltà di giurisprudenza; Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Roberta Santoro della facoltà di Scienze politiche e Maria Luisa Lo Giacco, ricercatrice di diritto ecclesiastico. Ventidue gli avvisi di garanzia notificati nella ieri e decine di perquisizioni in uffici e abitazioni private sono state eseguite dalla guardia di Finanza nella facoltà barese di Giurisprudenza e poi ancora negli Atenei di mezza Italia. Pesanti le contestazioni dei magistrati: associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, falso ideologico e abuso d’ufficio. I fatti riguarderebbero la presunta manipolazione di concorsi pubblici dal 2006 ad oggi per docenti di prima e seconda fascia. Le indagini sono partite nel 2008 in seguito alla denuncia di una ricercatrice che non superò il concorso. Da qui si sono addensati sospetti sulle prove di diritto ecclesiastico e diritto costituzionale. L’indagine è solo alla battute iniziali. Si tratta della tranche di una più ampia inchiesta che coinvolge altri Atenei. Lo scandalo dei concorsi truccati e della compravendita di esami a Bari fece clamore due anni fa con il caso battezzato Esamopoli scoppiato nella facoltà di Economia e commercio. Il 12 gennaio di quest’anno è cominciato il processo: 32 imputati. Tra loro ci sono docenti, dipendenti, studenti e genitori. Le indagini avrebbero accertato l’esistenza di un’organizzazione gestita soprattutto dai bidelli, che ritiravano le bustarelle dagli studenti e facevano da tramite con i professori. Un giro d’affari da 50mila euro in 8 mesi, con un costo tra i 700 e i 3.000 euro per ogni esame superato. Clienti tipo erano studenti fuori corso o stranieri, soprattutto greci, che per concludere in breve gli esami avrebbero preferito comprarli.

Le indagini sono state fatte dalla Guardia di Finanza…

Allievo maresciallo GdF: «Trucco il concorso se mi dai 40 mila euro». Intercettazioni: qui si entra solo così. Cinque persone arrestate: due sottufficiali della Guardia di Finanza, due imprenditori e un dipendente della scuola nazionale dell’amministrazione di Caserta, scrive Titti Beneduce il 24 marzo 2015 su "Il Corriere della Sera". Promettevano il superamento del concorso in cambio di denaro. Con quest’accusa sono stati arrestati un sotto ufficiale ed un ex sotto ufficiale della Guardia di Finanza. Per altre due vicende illecite sono finiti in manette anche due imprenditori e un dipendente della scuola nazionale dell’amministrazione di Caserta. Tre, dunque, gli illeciti accertati. Il più grave è relativo al concorso per allievi marescialli della Guardia di Finanza dello scorso anno. I due sottufficiali arrestati, Bruno Corosu e Ciro Del Giudice, ex militare della Gdf, ex assessore al Comune di Pozzuoli, oggi ristoratore, avrebbero ricevuto 40.000 euro dal padre di un candidato in cambio del superamento del concorso. La Procura aveva ipotizzato la corruzione, ma secondo il gip si tratta di millantato credito. Le indagini sono state svolte dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza con il coordinamento del procuratore aggiunto Fausto Zuccarelli e dal sostituto Henry John Woodcock. L’inchiesta è partita da un servizio televisivo delle Iene: nel ristorante che Del Giudice gestisce a Pozzuoli, un giornalista si finse aspirante finanziere e chiese aiuto al ristoratore il quale accettò di intervenire in cambio di denaro.

Riforma Gelmini, inefficace contro i concorsi accademici truccati, ma almeno utile contro parentopoli? Macchè!! Da “Il Messaggero” e dal “Il Corriere della Sera” un ampio resoconto.

Per qualcuno potrebbe essere l’ultimo colpo di coda di parentopoli. Per altri la continuazione di una saga inarrestabile che si tramanda di padre in figlio passando per i nipoti (rare volte spingendosi fino ai trisavoli). E’ successo, dunque a poche ore dalla verosimile approvazione da parte del Senato della legge Gelmini che prevede la proibizione di chiamate universitarie per parenti di dirigenti accademici fino al IV grado.

Università Roma 2, Ateneo di Tor Vergata, quello della spianata, che ospitò la Giornata mondiale della gioventù nel Giubileo 2000. La grande croce è sempre lì. Il rettore no, è cambiato. Da quasi due anni c’è Renato Lauro, 71 anni, preside della Facoltà di Medicina eletto con 727 preferenze. La stessa università che ha chiamato come professore associato alla cattedra di Malattie dell’apparato respiratorio la dottoressa Paola Rogliani. Chi è? E’ la nuora del rettore. Il posto che arriva in zona Cesarini delimita un’epoca. A ridosso del Natale, sotto l’albero, riunisce suocera, figlia e nuora, in pratica mezza famiglia. Nella stessa facoltà e nello stesso dipartimento infatti c’è anche il marito della signora, nonché figlio del rettore, Davide Lauro, 41 anni, professore ordinario di Endocrinologia, cattedra detenuta prima di lui dal padre. E ci sarebbe anche il “nipote”, il dottor Alfonso Bellia, ricercatore di medicina interna. Ma il Magnifico nega quest’ultimo ramo di parentela. «Con il professor Bellia - chiarisce una volta per tutte - non c’è nessun legame neanche leggero di parentela, mi viene attribuito solo perché è siciliano come me». Già. In fatto di parentopoli non esiste una geografia. I legami travalicano qualsiasi confine, le nostre regioni, così diverse tra loro, nel malcostume etico si somigliano più o meno tutte. Renato Lauro, preside della facoltà di Medicina dal 1996 al 2008, oltre a essere rettore e anche direttore del dipartimento clinico di Medicina, quello nel quale lavorano i suoi congiunti, del Policlinico Tor Vergata. La nuora chiamata in cattedra in extremis. Come lo spiega? «Lei scherza? Sono concorsi regolarmente banditi nel 2008, quando io non ero ancora rettore. Inoltre, faccio notare che la legge Gelmini, non ancora approvata, non abolisce i professori, stabilisce solo che i ricercatori sono una qualifica ad esaurimento». «Per gli stessi bandi - continua il rettore - sono stati chiamati già una ventina di vincitori di concorso. Ma vincere non vuol dire prendere servizio visto che ci sono, come è noto, problemi di budget».

In altri punti la legge Gelmini potrebbe prestarsi ad interpretazioni.

Su questo punto è chiara: prevede che nelle assunzioni per ordinario e associato siano esclusi i consanguinei dei professori appartenenti al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata. Di docenti ma anche di rettori, direttori generali e consiglieri di amministrazione. E fissa anche un limite per i rettori: potranno rimanere in carica un solo mandato, per un massimo di 6 anni. Nel caso di Tor Vergata, se approvata la legge, Renato Lauro potrebbe avere una proroga di 2 anni dell’incarico rettoriale e restare in carica dunque fino alla quasi venerabile età di 74 anni. Di lui si parlò come «lo zio» cui faceva riferimento nelle intercettazioni l’ex direttore dei Lavori pubblici Angelo Balducci finito in carcere per gli appalti del G8 alla Maddalena. Finito in pasto ai taccuini in quei giorni “caldi”, Lauro rispose: «E allora? Sì, sono io “lo zio” di cui si parla nelle intercettazioni, ma io sono un medico, non sono Provenzano». Durante un incontro con il corpo accademico dell’Ateneo romano, il rettore era stato duramente contestato. E già in passato era finito nell’elenco dei parentopolati per la chiamata del figlio Davide, vincitore, circa 4 anni fa, di un concorso di professore ordinario, non di Medicina interna, ma di tecnologie biomediche, poi passato in endocrinologia. Lauro commenta: «Mio figlio se n’era andato negli Usa a studiare e lì stava benissimo. Basta guardare il suo curriculum per mettere tutti a tacere. Stesso dicasi per gli altri professori associati che hanno vinto i concorsi del 2008: controllate, sono tutti figli di nessuno».

Vigilia dell'approvazione della riforma Gelmini, ultimi colpi di coda dei Baroni. Infatti ecco che spuntano nuove assunzioni e promozioni di parenti negli atenei La Sapienza e Tor Vergata. I protagonisti: i familiari dei rettori: Luigi Frati e Renato Lauro. A poche ore dall'approvazione del ddl università, che impone lo stop alle parentopoli (purtroppo solo attraverso un emendamento dell'ultim'ora) che vieta a padri, figli e parenti di stare negli stessi dipartimenti, sembrerebbe che nei due atenei capitolini si pensi di più a sistemare le famiglie che ai problemi dell'università.

SAPIENZA - Alla Sapienza, Giacomo, 36 anni appena, figlio del rettore Luigi Frati, sta passando da professore associato a quello di ordinario. Le procedure formali sono andate in porto il 19 novembre 2010. Appena in tempo per schivare l'approvazione del ddl. Giacomo Frati, dunque, sarà ordinario a Medicina, la stessa facoltà dove fino a poco tempo fa insegnava la madre e dove insegna anche la sorella Paola, ordinario, laureata in Giurisprudenza. Stessa facoltà di cui il padre è stato preside per anni. Stessa facoltà dove fino a poco tempo fa, prima di andare in pensione, insegnava Storia della medicina la madre di Giacomo e Paola. Cioè Luciana Rita Angeletti, professoressa ordinaria moglie del Magnifico Frati. Proprio lei che prima di approdare nell'università del marito per occuparsi di Storia della medicina, insegnava Lettere al liceo. Quindi ci fu un momento in cui Luigi, Rita, Giacomo e Paola lavoravano allo stesso indirizzo. Anzi festeggiavano il matrimonio di quest'ultima nell'aula Grande di Patologia Generale. Oggi tutta la famiglia Frati può fregiarsi dello straordinario titolo di ordinario.

TOR VERGATA - A Tor Vergata sarebbe stata assunta come professore associato alla cattedra di malattie dell'apparato respiratorio la dottoressa Paola Rogliani, nuora del rettore Renato Lauro, 71 anni, ex preside di Medicina e Chirurgia (stesso percorso di Frati), che respinge le accuse spiegando che i concorsi sono stati banditi «nel 2008», molto prima delle norme anti-parentopoli della Gelmini. Il rettore ha anche il figlio Davide, 41 anni, ordinario di Endocrinologia. Come il padre prima di lui.

I PRECEDENTI - Prima di Lauro era stato Magnifico per 12 lunghi anni Alessandro Finazzi Agrò che si ritrovava nella solita facoltà di Medicina e Chirurgia del suo ateneo non solo il figlio Enrico (professore associato) ma anche i nipoti di primo grado Calogero Foti e Gaetano Gigante (entrambi professori di Medicina riabilitativa con tanto di cattedra e primariato al Policlinico Tor Vergata). Mentre l’altro figlio, Ettore, è ordinario alla facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, tanto per dare il quadretto familiare al completo. Il binomio padri-figli non è però un'innovazione introdotta dagli ultimi rettori. Alla Sapienza Frati ha illustri predecessori: Renato Guarini prima (con le figlie Maria Rosaria e Paola Paola, e il genero Luigi Stedile nei ruoli tecnici) e prima ancora Giuseppe D’Ascenzo (con il figlio Fabrizio) tenevano famiglia in università. Insomma una tradizione che si tramanda da generazioni rettoriali.

Su "Repubblica", su "L'Espresso", su "Panorama" e su altri organi di stampa non si fa che approfondire il fenomeno del nepotismo accademico. Di seguito il riporto delle varie inchieste. Il 13 Settembre 2010 a Palermo, un ragazzo, un cervello italiano, è volato dall'ultimo piano della facoltà di Filosofia. Si è suicidato. Aveva 27 anni, si chiamava Norman Zarcone, era un dottorando in Filosofia del linguaggio e, racconta il padre, da qualche tempo era particolarmente deluso, depresso: gli avevano fatto capire, senza mezzi termini, che per lui non c'era spazio nell'università italiana. Qualche mese prima un altro ragazzo, cinque anni più giovane, Gianmarco Daniele, aveva presentato a Bari, capitale del nepotismo accademico italiano, una tesi di laurea: "L'università pubblica italiana: qualità e omonimia tra i docenti", una ricerca nata per raccontare come le università italiane siano in mano a un gruppo di famiglie. E per documentare come esista un nesso scientifico tra nepotismo e il basso livello della didattica e della ricerca. Daniele ora è all'estero, con una borsa di studio europea. Ma davvero nell'università italiana non c'è spazio per questi talenti, solo per i parenti? Quali sono le grandi dinastie di casa nostra? E a due anni dalla "svolta anti-baroni" annunciata dal ministro Maria Stella Gelmini - che ora torna a invocarla per giustificare nuovi tagli - i baronati stanno davvero segnando il passo? O sono ancora loro a comandare?

LA TOP TEN

A Bari, nella facoltà di Economia, la stessa dove si è laureato Daniele, è cambiato poco. L'economista Roberto Perotti, italiano formatosi al Mit di Boston, in un saggio del 2008 "L'università truccata" (Einaudi) aveva indicato quello come il caso limite, "tanto incredibile da raccontare in tutto il mondo". A Economia 42 docenti su 176 hanno tra loro legami di parentele, il 25 per cento, record assoluto in Italia. I leader indiscussi a Bari e in Italia nella classifica delle famiglie restano così i Massari. Commercialisti affermati, con un passato nel Partito socialista di Craxi, in cattedra hanno almeno otto esponenti, tutti economisti. Uno di loro doveva essere anche in commissione durante la laurea di Daniele, peccato che quel giorno avesse un impegno. "Abbiamo vinto tutti concorsi regolarissimi", rispondono loro, quando vengono tirati in ballo. I capostipiti della dinastia sono i tre fratelli, Lanfranco, Gilberto e Giansiro, che hanno in mano il dipartimento di Studi aziendali e giusprivatistici e, seppur nell'ombra, l'intera facoltà. Le nuove leve sono invece Antonella (ordinaria a Lecce), Stefania, Fabrizio (tutti e tre figli di Lanfranco), Francesco Saverio e Manuela. A fare concorrenza ai Massari, in facoltà, c'è la famiglia Dell'Atti (6) e quella dell'ex rettore Girone, con cinque parenti in cattedra: ci sono Giovanni e la moglie Giulia Sallustio, ormai in pensione, il figlio Gianluca, la figlia Raffaella e il genero Francesco Campobasso. A Foggia conta ancora molto la dinastia dell'ex rettore, Antonio Muscio, secondo con 7 parenti nella top ten nazionale con la new entry Alessandro, assunto nell'ultimo giorno di rettorato del papà e nella sua stessa facoltà, Agraria. Nell'ateneo lavoravano anche mamma Aurelia Eroli (dirigente amministrativa, ora in pensione), la figlia Rossana, la nipote Eliana Eroli, il genero Ivan Cincione e la sorella Pamela. A Roma le grandi casate sono due: i Dolci e i Frati. Un figlio di Giovanni Dolci, uomo chiave dell'odontoiatria italiana, è Alessandro, ricercatore a Tor Vergata. La moglie, Alessandra Marino, è ricercatrice alla Sapienza. Dove lavora anche il genero di Dolci, Davide Sarzi Amedè, marito di Chiara, a sua volta odontoiatra al Bambin Gesù. Un altro figlio di Dolci, Federico, lavora a Tor Vergata, mentre Marco è ordinario a Chieti. Accanto a papà Frati invece c'è sua moglie Luciana Angeletti e sua figlia Paola (insegnano a medicina, ma non sono medici) e il figliolo Giacomo. Sempre molto forti le famiglie a Palermo, come aveva avuto modo di accorgersi Norman Zarcone. Il record è dei Gianguzza, cinque tra Scienze e Medicina. Ma le dinastie palermitane sono cento, sparse in tutte le facoltà, per un totale di 230 docenti "imparentati". Economia è il regno dei Fazio (Vincenzo, Gioacchino, Giorgio), a Giurisprudenza ci sono i Galasso (Alfredo, il figlio Gianfranco, la nuora Giuseppina Palmieri), a Lettere i Carapezza (i fratelli Attilio e Marco, ora associato, il cugino Paolo Emilio, suo figlio Francesco), a Ingegneria (18 famiglie, 38 parenti) i Sorbello o gli Inzerillo, a Matematica i Vetro (Pasquale, la moglie Cristina, il figlio Calogero), Agraria è nelle mani di 11 nuclei familiari. Coincidenze statistiche? Davvero è così nel resto d'Italia e in tutta Europa?

LA RICERCA

Secondo i dati raccolti nella tesi di Daniele, no. Lo studente ha infatti sviluppato un indice medio che misura la percentuale di omonimia in ogni facoltà di ogni ateneo e la percentuale media di omonimia in campioni della popolazione italiana in numero uguale ai docenti presenti nella facoltà osservata. Il risultato è incontrovertibile: in quasi tutti gli atenei l'indice di omonimia è più elevato rispetto alla media nazionale. Dieci volte di più a Catania, poco meno a Messina. Molto superiori alla media sono anche la Federico II di Napoli, Palermo, Bari, Caserta, Sassari e Cagliari. Le più virtuose sono invece Trento, Padova, il Politecnico di Torino, Verona, Milano Bicocca. Certo: non sempre avere lo stesso cognome significa essere parenti. Ma considerando anche che spesso molti familiari di professori hanno cognomi diversi, il dato è un'attendibile quantificazione statistica, per approssimazione, della diffusione del nepotismo. Anche perché gli atenei segnati con la penna rossa da Daniele sono proprio quelli al centro delle inchieste giornalistiche e della magistratura. "Il dato italiano - spiega Daniele - è in controtendenza con il resto d'Europa: quasi ovunque il tasso di omonimia nelle università è minore della media nazionale. Gli atenei tendono ad attrarre docenti da fuori, con cognomi diversi da quelli locali". Lo studio confronta poi i dati sulle omonimie con le valutazioni del Censis sulla qualità delle università. E in media gli atenei con più omonimi sono quelli che producono meno e viceversa. Ma davanti a questi numeri, la politica e il mondo accademico come si comportano? Sono nemici o complici delle grandi famiglie che hanno in mano l'università italiana?

LA RESISTENZA

"Ci prendono in giro", ha tuonato il presidente della conferenza dei Rettori, Enrico Decleva, la cui moglie Fernanda Caizzi è stata condannata in appello, e poi prescritta, per aver pilotato un concorso a Siena nel 2001. "Il qualunquismo sulle parentopoli è una giustificazione per uccidere l'università pubblica". La legge Gelmini approvata al Senato a luglio prevede un codice etico obbligatorio per tutti. Ma a Bari (il primo ateneo ad approvarlo, quattro anni fa) gli escamotage fanno scuola. Virginia Milone è stata assunta quando il padre si è impegnato a trasferirsi nella sede decentrata di Taranto. "Capirai: la nostra facoltà è diventata la valvola di sfogo dei parenti", dice il rappresentante degli studenti Francesco D'Eri.

La docente Maria Luisa Fiorella, otorino come il padre, era stata respinta dalla facoltà (a scrutinio segreto). Ora, con un colpo di coda, i baroni vogliono tornare a votare: con l'alzata di mano. Il codice è servito solo a Farmacia: Giulia Camerino ha rinunciato al concorso da ricercatrice bandito nel dipartimento della madre. "Ho studiato tutta una vita, non volevo vivere con un bollino che non meritavo". "Se parliamo di baronati è tutto come prima - dice Mimmo Pantaleo, segretario nazionale della Flc della Cgil - E se le università non bandiscono concorsi, a pagare sono solo i ricercatori figli di nessuno". Il ministro Gelmini promette di trasformarne, con il nuovo piano di programmazione, diecimila in associato. Vuol cambiare la progressione di carriera con un contratto triennale, una successiva valutazione, e quindi un ulteriore contratto triennale per diventare associato. Ma per ora quelli che salgono di grado hanno sempre cognomi pesanti: a Cagliari è appena stato promosso ordinario Francesco Seatzu, figlio d'arte sardo. A valutarlo, in commissione, c'era Isabella Castangia, con la quale Seatzu ha lavorato gomito a gomito negli ultimi anni. "Tutto è come prima, più di prima", attacca Tommaso Gastaldi, professore di Statistica alla Sapienza, instancabile fustigatore del malcostume universitario.

L'ultimo esempio, racconta, è la nomina di due docenti: lui aveva previsto i loro nomi già nel 2008. I soliti noti, nonostante i proclami del Governo, continuano a comandare. E non vogliono lasciare il campo ai giovani. Che si ribellano: l'Air, l'associazione italiana dei ricercatori, ha indetto una petizione per bloccare "l'eccessiva "discrezionalità" nei criteri di valutazione dei concorsi universitari".

GLI OVER 70

Molti docenti con più di 70 anni ricorrono ai tribunali amministrativi per posticipare il loro pensionamento, accelerato da una norma voluta dall'ex ministro Fabio Mussi. Vuole rimanere in servizio Emilio Trabucchi, ordinario di Chirurgia e presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Nipote dell'omonimo luminare della Biomedicina e deputato Dc morto nel 1984, Trabucchi ha due nipoti nell'università, Emilio Clementi, straordinario nel dipartimento di Scienze precliniche "Lita Vialba", e Francesco Clementi, ordinario di Farmacologia. "Abbiamo specializzazioni diverse. E in tutti i casi parlano le pubblicazioni", precisa Trabucchi. Ha scelto di ritirarsi, invece, Vittorio La Grutta, nobiltà accademica palermitana: medico il nonno, professore il padre, rettore il fratello (dell'ultima leva è rimasta la figlia, Sabina, psicologa). "Quando siamo saliti in cattedra, eravamo orfani. Ma ce l'abbiamo fatta lo stesso, senza favori". Diverso il destino dei Cannizzaro, altra famiglia storica siciliana. "Stanislao, il grande chimico, era un mio avo - racconta Gaspare, che ora è in pensione ma ha due figli docenti - ma io non sono figlio d'arte. In famiglia c'è sempre stato interesse per la scienza: è una tradizione". A Sassari resistono al pensionamento Mariotto Segni (il cui padre, Giovanni, oltre che presidente della Repubblica è stato rettore) e Giulio Cesare Canalis, il papà della showgirl Elisabetta, direttore della Clinica radiologica. Ma soprattutto l'ex rettore Alessandro Maida, tuttora potentissimo - spinge per bandire 52 concorsi - e ancora per un po' collega dei figli Carmelo e Ivana, piazzati nella sua facoltà, Medicina, del cognato, Giorgio Spanu, della moglie Maria Alessandra Sotgiu, e di altri nipoti e cugini. A Udine, dopo la fusione tra ospedale e università, sono stati nominati i nuovi direttori di dipartimenti. Nessuna sorpresa: i manager, ben pagati, sono tutti baroni di lungo corso come l'ultrasettantenne Fabrizio Bresadola, che ha piazzato il figlio Vittorio, la nuora Maria Grazia Marcellino e un altro figlio, Marco.

Laureato in Filosofia ma non per questo escluso: insegna storia della Medicina.

Quattro pronostici azzeccati sui primi cinque concorsi per ricercatore universitario presi in esame da Andrea, il curatore del sito pronosticailricercatore.blogspot.com. Giovane studioso di matematica espatriato per carenza di cattedre (o forse di sponsor adeguati), Andrea ha lanciato il totoconcorsi delle selezioni accademiche svolte con il nuovo sistema. Naturalmente può trattarsi di una coincidenza, o forse i vincitori sono davvero i candidati più qualificati, pertanto non era difficile indovinarne i nomi. Sta di fatto che, esattamente come accadeva con il vecchio sistema, le selezioni accademiche non riservano sorprese.

Per sgombrare il campo da sospetti di combine e favoritismi, la riforma Gelmini del reclutamento universitario (la legge è la numero 1 del 2009) aveva introdotto il principio di casualità nella composizione delle commissioni universitarie. Ovvero, i quattro commissari esterni (due per i ricercatori) non vengono scelti più tramite elezione, ma con un sorteggio tra i primi dodici più votati (i primi sei tra i ricercatori).

Eppure anche in questo caso bisogna registrare un'anomalia. Dal Corriere della Sera si viene a sapere che nelle 1786 commissioni formate per sorteggio per i concorsi da ordinario e associato, si sono dimessi 342 commissari. In sostanza, uno ogni cinque commissari, ed è stato perciò necessario procedere alla sostituzione. In passato le rinunce erano nell'ordine delle decine. Come mai si è arrivati a un tasso di morbilità che sfiora il 20%?

Naturalmente perché prima le nomine venivano «concordate», e in qualche caso pilotate. Oggi, invece, è possibile ritrovarsi commissario anche contro la propria volontà. Ma c'è anche chi avanza un altro sospetto: «Una scuola forte, in cui ci sono gruppi di potere consolidati – spiega Giovanni Grasso, docente e animatore del blog Il Senso della misura - può anche condizionare le dimissioni, magari per favorire commissari più malleabili.

Sono tanti con lo stesso nome. Troppi. E anche quando non si chiamano nello stesso modo, spesso sono parenti. Mogli, nipoti, cugini, cognati. Sono loro i padroni dell´Università.

Solo Napoli eguaglia la capitale della Sicilia in questa performance. Palermo è davanti a Catania e a Messina, a La Sapienza di Roma, a Torino, a Milano e a Bari. E il luogo di provenienza dei docenti, come spiega il professore della Bocconi Roberto Perotti nel suo libro «L´università truccata» (Einaudi), è il principale metodo «per quantificare più sistematicamente, anche se indirettamente, il ruolo del nepotismo e delle connessioni nell´università italiana».

L´altro metodo consiste nello studiare la frequenza dell´omonimia.

Se in vita vostra avete solo collaborato a un lavoro «scientifico» di una pagina (una!) scritto con altre cinque persone e presentato a un convegno, ma mai pubblicato su una rivista internazionale, non disperate: potete sempre vincere un concorso universitario - dice Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera" - basta esser nati sotto la giusta congiunzione astrale. Come successe al «professor» Giovanni Lanteri. Che vinse appunto un posto da «associato» all'Università di Messina presentando 2 pubblicazioni. La prima («Studio preliminare sull'espressione immunoistochimica dell'Eritropoietina...») fu subito scartata dagli stessi commissari: «Non venga presa in considerazione ai fini della presente valutazione». La seconda («A new outbreak of photobacteriosis in Sicily») è finita nel fascicolo dell'inchiesta giudiziaria col giudizio del Ministero dell'Università consultato dai magistrati: «Priva di rigore metodologico. Non è possibile individuare il singolo apporto di ciascuno dei sei autori».

L'episodio, sconcertante, è uno dei tantissimi raccolti da Nino Luca, un giornalista del «Corriere.it», in un libro edito da Marsilio: «Parentopoli». Quando l'università è affare di famiglia. Un reportage durissimo e spassoso su uno degli aspetti più controversi dell'università, quello dei concorsi sospetti. Che troppo spesso finiscono col consegnare la cattedra a mogli, figli, cognati, amici e amici degli amici. Immaginiamo già l'obiezione: non ci son solo i baroni e le clientele e le apocalittiche classifiche internazionali! Giusto. È vero che la situazione «cambia drasticamente se si concentra l'analisi sulle singole aree disciplinari» (come ricorda Domenico Marinucci, direttore del Dipartimento di Matematica di Tor Vergata, 19° in Europa tra le eccellenze del settore e meno afflitto dalla cronica povertà di docenti stranieri), vero che nelle «hit parade» avulse la «Normale» è stabilmente nelle prime venti al mondo, vero che tanti ragazzi usciti dai nostri atenei vanno alla conquista del mondo.

Il reportage di Nino Luca, però, proprio per l'abbondanza di episodi così incredibili da risultare irresistibilmente comici, mette spavento. A partire dalla disinvolta e allegra spudoratezza con cui tanti rettori irridono alle perplessità di chi non riesce a capacitarsi di come, ad esempio, possano essere circondati da tanti parenti. Come Gennaro Ferrara, da 22 anni alla guida della Parthenope di Napoli: «Ma lei vuole fare un articolo serio o un articolo scherzoso? No, perché se lei vuole fare un articolo scherzoso, io ci sto». Come mai ha portato con sé all'università la seconda moglie, il di lei fratello, la figlia e i mariti delle due figlie? La risposta: «Se trattiamo “parentopoli” in termini scandalistici non va bene». Poveri figli, poi...«Devono dimostrare ogni giorno di valere...». Alcuni casi raccontati sono noti, come quello d'una torinese bocciata a un concorso che mesi fa si sfogò con «La Stampa» d'esser stata trombata, scusate il bisticcio, perché non aveva «più voluto compiacere sessualmente» il direttore della scuola di specializzazione. O quello della famiglia Massari che «porta l'Università di Bari nel Guinness dei primati» grazie al piazzamento nei dintorni della facoltà di economia di otto-Massari-otto: Antonella, Fabrizio, Francesco Saverio, Gian Siro, Gilberto, Lanfranco, Manuela e Stefania. O quello del preside di Medicina e rettore della «Sapienza» Luigi Frati («Parentopoli? Voi giornalisti sapete fare solo folclore!», ha urlato a Luca), un uomo tutto casa e ufficio dato che nella sua facoltà lavorano la moglie Luciana Angeletti, il figlio Giacomo e la figlia Paola, che nell'aula magna di Patologia ha fatto la festa di nozze. Altri casi sono meno conosciuti. Come quello di un recentissimo concorso per due posti alla Facoltà di Medicina e Chirurgia della Bicocca di Milano con cinque soli concorrenti tra i quali tre figli (due vittoriosi, ovvio) di docenti della stessa Facoltà di Medicina e Chirurgia. O quello della condanna a un anno di reclusione per abuso d'ufficio (pena sospesa) e a uno d'interdizione dai pubblici uffici (per aver danneggiato la professoressa Antonina Alberti durante un concorso) di Fernanda Caizzi Decleva, moglie del presidente in carica della Crui, la conferenza dei rettori.

La cosa più interessante del reportage, però, al di là della sottolineatura di certe bizzarrie (come quella che riguarda l'ex rettore di Bologna Fabio Roversi Monaco, che ha incassato 11 lauree honoris causa da vari atenei mondiali distribuendone in parallelo 160 a gente varia, da Madre Teresa di Calcutta a Valentino Rossi), sono le chiacchierate tra l'autore e alcuni dei protagonisti del mondo accademico italiano. Come quella con Augusto Preti, che diventò rettore a Brescia nel lontanissimo 1983, quando erano ancora vivi Garrincha e David Niven, e scherza: «Io sono il potere assoluto». O Pasquale Mistretta, il rettore di Cagliari, secondo il quale «molti figli illustri, proprio a causa dei complessi d'inferiorità verso i padri, a volte si sono smarriti: alcuni sono finiti anche nel tunnel della droga», quindi forse «quando un padre va in pensione, come un tempo succedeva in banca o all'Enel, è logico che ci sia un occhio di riguardo» per i figli. Il meglio, però, lo dà il professore Giuseppe Nicotina spiegando come il suo Ludovico avesse vinto in solitaria un concorso per ricercatore: «I figli dei docenti sono più bravi perché hanno tutta una "forma mentis" che si crea nell'ambito familiare tipico di noi professori». Insomma: è una questione quasi genetica. Se poi una spintarella aiuta la forma mentis...

CONCORSI TRUCCATI: DIMOSTRAZIONE MATEMATICA

Del prof. Quirino Paris, University of California,

Introduzione

Nella relazione intitolata “L’Università vive il Paese” (20 settembre 2005), il professor Piero Tosi, rettore dell’Università di Siena e presidente della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) ha scritto che i concorsi-truffa sono solo degli episodi nella vita dell’università italiana (pagine 10-11). Il professor Tosi ha ripetuto questa sua affermazione in una trasmissione radiofonica sui concorsi truccati il giorno 21 settembre 2005 durante la quale il sottoscritto ha sostenuto la tesi opposta, vale a dire che i concorsi truccati costituiscono un fenomeno generale del reclutamento universitario italiano. Se così non fosse, non si capirebbe la necessità di riformare ancora una volta la procedura del reclutamento universitario. A dimostrazione della mia tesi, presento in questo articolo un’analisi matematico-statistica di tutte le votazioni nei concorsi di prima fascia del settore AGR/01 (economia ed estimo rurale) tenutisi tra il 1999 e il 2003. Le votazioni per professore associato e per ricercatore mostrano un andamento identico. L’analisi matematico-statistica può essere estesa facilmente a tutti gli altri settori disciplinari, dato che in quasi tutte le votazioni per le commissioni di concorso si sono ottenuti risultati simili a quelli evidenziati nel settore AGR/01.

Concorsi di Prima Fascia in Economia Agraria

Le votazioni per i membri delle commissioni di valutazione comparativa di prima fascia del settore disciplinare AGR/01, condotte nel periodo 1999-2003, mostrano risultati strabilianti. Negli ultimi anni, i professori di prima fascia votanti in queste elezioni sono stati all’incirca un centinaio. In tutte le 27 votazioni (nel 2004 e 2005 altre votazioni mostrano lo stesso andamento), solo i quattro membri eletti hanno ricevuto un consistente numero di voti, e questi voti sono divisi tra i quattro componenti eletti secondo una distribuzione quasi uniforme. Questi risultati, ripetuti per commissione dopo commissione, suggeriscono l’ipotesi che le votazioni siano state rigidamente pilotate: non solo che esista la comunicazione a tutti i cento professori da parte del “pilota” dei quattro nomi da votare; ma anche che i cento professori ordinari (di prima fascia), pur non comunicando tra di loro, abbiano votato disciplinatamente le indicazioni del “pilota” distribuendo i loro voti in modo quasi uguale tra i quattro candidati.

Come argomenteremo dettagliatamente nel corso dell’articolo, i risultati di questo tipo di votazioni attestano la presenza di un disegno da parte di “un’unica fonte” e di un sistema di ferrea disciplina per convincere/costringere i cento professori ordinari a votare secondo le indicazioni fornite dalla “fonte unica” che ha anche determinato quanti e quali voti vadano a ciascun candidato. Dato che ciascun votante ha a sua disposizione un solo voto, i risultati si possono ottenere solo se la “fonte unica” fornisce a ciascun elettore il nome da votare e se costui esegue l’ordine disciplinatamente.

Il motivo ultimo (o primo) del pilotaggio di tutte le votazioni per le commissioni di concorso corrisponde all’obiettivo della “fonte unica” di far dichiarare idonei individui selezionati e predeterminati vincitori (inclusi figli, figlie, mogli, nipoti, fedelissimi, ecc.) prima ancora che tali concorsi siano stati banditi. Tutto questo è avvenuto e tutt’ora avviene in Italia e potrebbe costituire una violazione dell’articolo 97 della Costituzione italiana e dell’articolo 323 del Codice Penale.

La dimostrazione matematico-statistica dell’esistenza di un ferreo disegno di pilotaggio sarà fatta secondo tre distinte argomentazioni:

1. La presentazione dei risultati delle 27 votazioni in forma di istogrammi. Questa discussione fornisce una prima indicazione di tipo informale (ad occhio) della natura improbabile dei 27 eventi (votazioni).

2. La seconda argomentazione si fonda sull’indice di Gini (famoso statistico italiano che ha lavorato nei primi decenni del secolo scorso). L’indice di Gini misura il grado di concentrazione (dispersione) caratteristico di una distribuzione empirica, come è appunto la distribuzione dei voti in una elezione.

3. La terza argomentazione è la più formale dal punto di vista matematico-statistico.

Calcoleremo, infatti, la probabilità che, date le indicazioni di votare per quattro candidati (come si fa nelle liste elettorali di un partito), gli N votanti (che non comunicano tra di loro per ovvie difficoltà di collegamento) distribuiscano i loro voti in modo tale che i quattro eletti ricevano all’incirca lo stesso numero di voti.

Conclusione

L’evidenza matematico-statistica presentata in questo studio per tutti i 27 concorsi di prima fascia del settore AGR/01 (economia ed estimo rurale) tenutisi nell’arco di tempo 1999-2003 conferma l’ipotesi di un disegno preciso e di un ferreo pilotaggio delle votazioni al fine di dichiarare idonei dei già predeterminati candidati. Tra queste votazioni ci sono anche quelle che interessano i parenti e i fedelissimi dei numerosi membri di commissione che compaiono come commissari un numero di volte sproporzionato rispetto a quello di molti altri professori eleggibili.

Il dato matematico-statistico dimostrerebbe come il pilotaggio sia stato preordinato in modo evidente ai fini dell’abuso e per avvantaggiare nel percorso accademico persone di famiglia ed associati privilegiati e prestabiliti al fine di ottenere ingiusti vantaggi.

Per questo motivo, il dato matematico-statistico e le formule/istogrammi che precedono servono a corroborare l’elemento soggettivo del dolo e dunque l’intenzionalità di chi ha manovrato tutto il sistema per avere commissioni ben orchestrate per suonare uno spartito ben preciso, senza mai che vi sia stata una nota stonata. La dimostrazione scientifica serve per indicare gli strumenti dell’abuso nella formazione delle commissioni che sono “mezzo” per giungere al “fine”. Sembra quindi di poter concludere con un alto grado di fiducia, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il pilota e il gruppo dei suoi compiacenti collaboratori nelle commissioni di valutazione comparativa del settore AGR/01 si sarebbero procurati ingiusti vantaggi e avrebbero causato danni ingiusti per un lungo periodo di tempo e su tutto il territorio della Repubblica Italiana.

Non riesce proprio a farsene una ragione, l'oncologo Massimo Federico. "E' come se un calciatore avesse vinto la coppa Davis", dice. A Modena è accaduto di recente un fatto assai curioso: un professore associato in dermatologia è diventato ordinario in una prova bandita dal corso di laurea in odontoiatria. L'idoneo ha 36 anni e si chiama Giovanni Pellacani. E' il figlio del rettore, Giancarlo Pellacani (che ha anche un altro figlio docente a Giurisprudenza).

Durante la seduta per la chiamata, tre professori hanno votato contro. Uno di questi è l'ex preside della facoltà di Medicina, Maurizio Ponz de Leon: "Non si è mai verificato, almeno negli ultimi trent'anni di storia della nostra facoltà, che un ricercatore riuscisse a diventare ordinario in soli 6 anni e 4 mesi dalla nomina a ricercatore. Certo, potrebbe avvenire per meriti eccezionali. Ma, come visto dall'esame del curriculum, questi meriti non esistono".

Il docente insegna da sei anni, ha un'esperienza all'estero di soli due mesi e i suoi punti di Impact factor (il riscontro dell'attività di ricerca nelle pubblicazioni scientifiche), riguardano solo la dermatologia: non il Med50, il settore, cioè, per il quale ha vinto il concorso. Altra stranezza: "Il concorso non ha visto la partecipazione di nessuno degli associati e dei ricercatori della nostra facoltà". Federico dal canto suo fa osservare che "in Italia esistono 26 professori associati" di quel settore ma nessuno ha fatto domanda. E aggiunge: "Data la delicatezza della decisione, trattandosi di un procedimento che riguarda il rettore, chiedo che la votazione avvenga dopo che la facoltà sia stata edotta delle conseguenze di una chiamata che potrebbe rientrare nel campo della presunzione di nepotismo".

Federico chiede informazioni su dodici punti e qualche settimana dopo, non ottenendo risposte, denuncia tutto alla Procura. Da allora sta perdendo ogni incarico: dalla presidenza della commissione contratti e contenzioso alla direzione della scuola di oncologia. Una convenzione con l'Istituto superiore di sanità, che ha promesso 148mila euro all'università per le ricerche da lui coordinate, è bloccata. E persino nel giornalino dell'università si evita accuratamente di parlare della pur prolifica attività di Federico e dei suoi collaboratori. Il professore, però, non molla. E pochi giorni fa è tornato a chiedere le dimissioni del rettore.

Il magnifico, dal canto suo, reagisce: ha querelato il professore ribelle, che aveva illustrato, in un incontro pubblico, le analogie tra le sue ricerche sulle sindromi familiari e "l'albero genealogico della famiglia Pellacani".

Quello di Modena è solo uno dei tanti fronti caldi della protesta contro i presunti casi di nepotismo nelle università. L'altro è la Sapienza di Roma, dove le polemiche per il mancato incontro con papa Benedetto XVI sono riuscite a far passare in secondo piano la bufera che s'era addensata sul rettore, Renato Guarini. Pochi giorni prima dell'invito del pontefice, Guarini è stato iscritto nel registro degli indagati per abuso d'ufficio: la procura di Roma indaga su un possibile scambio di favori con l'architetto Leonardo di Paola, docente di Estimo ma anche presidente della Cpc, la società che si è aggiudicata i lavori (8,8 milioni di euro) per la realizzazione del parcheggio della città universitaria.

Di Paola è anche il presidente della commissione che ha promosso Maria Rosaria Guarini, figlia del rettore, a ricercatrice in Estimo.

Anche in questo caso la denuncia è partita da un docente universitario, Antonio Sili Scavalli, già autore di un'altra denuncia sull'intreccio tra cattedre e appalti.

Alla Sapienza insegna anche Tommaso Gastaldi, ricercatore di Statistica. Mesi fa previde: una rivoluzione sta per scuotere l'università italiana. "Si sta creando un incredibile fronte compatto di persone di buona volontà che va da Napoli a Siena... Possiamo veramente creare un'onda sismica... - scrisse nel suo blog, Concorsopoli". I casi di Modena e Roma mostrano che il terremoto è già in atto: è la rivolta contro il sistema di cooptazione dei professori universitari, spesso assimilato all'affiliazione mafiosa.

Dopo i primi scandali di Bari, Bologna, Firenze, Siena, Macerata, Messina e le inchieste che sono seguite, la parola d'ordine è attaccare la "razza barona", la casta che manda in cattedra figli, nipoti, cugini e amanti - ma anche amici e compagni di partito, frammassoni, colleghi di cordata.

Siti come quello di Gastaldi (che ha creato un osservatorio per segnalare in anticipo i concorsi sospetti) si moltiplicano. Si chiamano Ateneo pulito, Malauniversitas, Università degli orrori, Ateneo palermitano. Diari dell'indignazione accademica curati da chi non regge più lo strapotere degli ermellini.

Il pretesto può essere anche un convegno, come quello che si terrà sabato a Pisa, organizzato dalla massoneria toscana. Su Il Senso della misura, il blog curato dal docente Giovanni Grasso, si fa notare che "a Roma e a Pisa l'università si apre al mondo in modo diverso. Credete che la libertà di parola dei massoni sarà messa in discussione a Pisa? Credete che frange estremistiche si ricorderanno che la Toscana è stato il cuore territoriale, quanto meno, della P2?".

Nel suo Universitopoli, Marco Lanzetta, primo chirurgo italiano ad aver effettuato un trapianto di mano, ha pubblicato invece la sentenza del consiglio di Stato che lo proclama finalmente vincitore contro l'università di Varese. "I giudici riportano la legalità nei concorsi universitari", scrive. La sua, alla vigilia della riforma del sistema concorsuale - annunciata dal ministro Fabio Mussi per le prossime settimane - è una convinzione diffusa. E così il Tar di Palermo ha restituito a Maria Rita Gismondo, microbiologa della clinica Sacco di Milano, il posto da ordinario che le era stato soffiato da docenti che, è risultato poi, avevano spacciato per pubblicazioni scientifiche dei semplici atti congressuali. Lo stesso è successo a Bari, dove alcuni docenti di Diritto si sono presentati a un concorso, vincendolo, con fotocopie "edite" da un'anonima stamperia di Benevento. Sempre a Bari è stato necessario l'intervento del Tar perché un professore di biochimica ottenesse il laboratorio che gli spettava, negatogli dall'endocrinologo Francesco Giorgino, peraltro indagato dalla procura, insieme al padre, per il suo concorso da ordinario, grazie al quale ha ereditato la direzione del reparto.

Molti docenti "arrabbiati", ora, cercano di organizzarsi in un network. Fanno il tifo per i magistrati e trovano alleati anche oltre gli atenei.

Come Paolo Padoin, prefetto di Padova, che alle nefandezze universitarie dedica una sezione del suo sito Rinnovare le istituzioni, scrivendo: "Manteniamo fiducia nell'azione della magistratura che, anche se in tempi biblici, dovrebbe arrivare alla definizione delle tante azioni penali pendenti in diverse sedi universitarie. Soprattutto la vicenda di Trieste, nella quale sono coinvolti quasi tutti i big di agraria, denunciati dal professor Quirino Paris... ".

Paris, docente della University of California: è emigrato lì dopo un feroce scontro con i suoi colleghi italiani proprio sulle procedure di selezione. Ha inventato un modello matematico delle parentopoli italiane e lo ha fatto pubblicare su una rivista on line americana.

Ovunque si grida alla prova truccata. I professori scrivono ai magistrati, avvertono carabinieri e finanzieri: la vita accademica procede per via giudiziaria. Chiami un docente e ti risponde: "Non posso parlare, sono in procura". Un ricercatore romano segnala in continuazione al ministero - che le gira ai pm - le sue previsioni sui vincitori dei concorsi. "In questo momento - anticipa - ce ne sono in corso due a Roma. In uno è stato richiesto, addirittura, che i candidati presentassero solo tre pubblicazioni. Una follia: significa tagliar fuori chi vanta decine di pubblicazioni internazionali".

Il Tar di Palermo, del resto, ha già sentenziato che non si può scendere, per decenza, sotto una soglia minima di dieci pubblicazioni. A Messina, l'università dove si sono laureati molti figli della 'ndrangheta, non si riesce invece a concludere un concorso di audiologia, in gestazione dal 2002. Tra i candidati, quattro nomi eccellenti: i due fratelli Motta, figli dell'otorinolaringoiatra napoletano Giovanni, e i due fratelli Galletti, figli dell'otorino messinese Cosimo.

Due di loro (uno per famiglia) sono vincitori del famigerato concorso del 1988 annullato dalla Cassazione perché sfacciatamente truccato.

A giudicarli, in commissione, saranno tre professori universitari messi in cattedra dai loro genitori. Intanto, nel capoluogo siciliano s'indaga su un altro concorso, quello di Veterinaria, per il quale un gip ha deciso di sospendere il rettore Tomasello. A Siena, invece, una docente, assistita dall'avvocato Massimo Rossi, ha fatto aprire una nuova inchiesta: le è bastato allegare alla denuncia una mail, da lei intercettata, scambiata tra i commissari di un concorso. "Non mi sono sentita in imbarazzo nell'avanzare la proposta di scorrimento della professoressa T. a professore di prima fascia. La candidata ha un curriculum serio".

In effetti, otto mesi dopo la professoressa ottiene lo "scorrimento" a professore ordinario. Ma in Italia divinare il nome del vincitore è quasi la norma: il nome dell'idoneo è deciso in anticipo dalla facoltà nel momento in cui "chiede" il posto. Tutto il resto (pubblicazione del bando in gazzetta ufficiale, elezione dei commissari, loro convocazione nella sede con relativa ospitalità in albergo, prove scritte e orali) è un'inutile messa in scena che per ogni "valutazione comparativa" costa, in media, 20mila euro alle casse dello Stato.

Mentre l'università vive la sua "Mani pulite", i concorsi languono. I posti da associati e ordinari non si bandiscono da maggio del 2006, quelli per ricercatore sono stati, nel 2007, 1188 contro i 1618 del 2006 e contro i 2514 del 2005. Ora, però, stanno per ripartire: Mussi ha stanziato 40 milioni di euro e ha varato un nuovo regolamento che dovrebbe limitare la sfera d'influenza dei commissari, sottoponendo in prima battuta tutti i candidati al giudizio di revisori anonimi. E si torneranno anche ad assumere associati e ordinari. Ma non con il vecchio sistema di concorsi, considerato "un atto di ostilità che ha devastato qualità e bilanci": la riflessione è di Pier Ugo Calzolari, rettore di Bologna, e apre un altro sito di "controinformazione" sugli scandali accademici, Scienzemedicolegali.

L'ateneo bolognese è stato il primo a tentare di reagire agli scandali con un codice etico per prevenire le assunzioni di parenti negli stessi dipartimenti, molto frequenti durante il rettorato precedente del potentissimo Fabio Roversi Monaco. In Paesi come la Nuova Zelanda o il Canada norme di questo tipo già da anni correggono i conflitti d'interesse non solo tra parenti ma anche tra amici o tra colleghi di studi professionali privati che insegnano nell'università. Lo rivendicano anche molti docenti che vogliono il cambiamento.

A Bari, per esempio, è la battaglia del magistrato (e docente di diritto canonico) Nicola Colaianni e dell'associato Carlo Sabbà, che ha fatto aprire, con le sue denunce, l'inchiesta sui concorsi pilotati a Medicina interna nella quale figurano, tra gli indagati - oltre all'ordinario di Medicina interna Giuseppe Palasciano - anche nomi eccellenti, come il milanese Pier Mannuccio Mannucci. Nel capoluogo pugliese, però, dove famiglie come i Massari o i Girone hanno fatto il pieno di cattedre e dove i baroni avevano, fino a poco tempo fa, persino i posti barca gratuiti sul lungomare, le resistenze sono ancora fortissime. Una prima bozza, però, è stata approvata a dicembre e vieta esplicitamente l'assunzione di parenti e altri docenti all'interno delle facoltà. Forse qualcosa cambierà.

«Che faccia i nomi!», protestarono i rettori quando il ministro della Salute Girolamo Sirchia osò osservare come a Medicina e Chirurgia imperassero baroni e nepotismo, «in cattedra vanno tuttora i figli e i cognati». Eppure non era difficile, basta guardarsi un po’ attorno. L’ultima viene del Tar della Sardegna, la sentenza depositata il 9 settembre ha annullato il decreto di nomina a professore associato di Roberto Puxeddu, firmato dal rettore il 7 agosto 2001, e condannato l’Università di Cagliari a 3000 euro di spese legali. I giudici, accogliendo il ricorso d’un candidato escluso, parlano di «illegittimità conseguente a difetto di imparzialità». Il fatto è che nella commissione c’erano due professori, Antonino Roberto Antonelli (ordinario a Brescia) e Alberto Rinaldi Ceroni (Bologna), che il papà di Puxeddu, Paolo, oggi ordinario nella stessa università di Cagliari, aveva promosso in un concorso bandito il 4 agosto ’88, un concorso truccato. I casi della vita: allora Paolo Puxeddu era presidente della commissione e nel frattempo è stato condannato in via definitiva a un anno per falso e abuso d’ufficio. La sentenza d’appello del Tribunale di Roma, citata dal Tar, parlava di «delirio di potere», «interessi sfacciatamente nepotistici e di rafforzamento del potere personale o della fazione di appartenenza», «feudi baronali di famiglia» e «Repubblica delle banane» ma condannati e beneficiati sono al loro posto, stanno nelle commissioni giudicatrici e si presentano pure ai concorsi di altre cattedre perché non si sa mai, con la sentenza definitiva potrebbero perdere la loro.

Storia vecchia, almeno nel campo dell’Otorinolaringoiatria, che in compenso regala ogni giorno delle novità. Nel concorso dell’88 c’erano in palio sedici cattedre e passarono figli di papà e protetti. Bisogna partire da qui, dal padre di tutti gli imbrogli, per capire cosa sta succedendo ancora adesso, come in un gioco di specchi, da Cagliari a Messina, da Roma a Napoli. Lo scandalo scoppiò solo nel ’95, al processo furono condannati cinque docenti, tre della commissione più due padri di candidati. Altri tre professori, per abuso d’ufficio e violenza privata, furono riconosciuti colpevoli per un concorso del ’92, nove cattedre. La pena più alta, un anno e otto mesi, toccò a un luminare dell’Otorinolaringoiatria, Giovanni Motta, ordinario a Napoli e definito dai giudici «despota» della specialità; alla fine vinse anche suo figlio, Gaetano Motta, tuttora ordinario alla seconda università di Napoli. Le condanne della Corte d’Appello, il 1° dicembre 2000, sono state confermate in Cassazione 5 novembre 2001. Il ministero ha chiesto un parere al consiglio di Stato che ha risposto il 20 marzo 2002: il concorso dell’88 è nullo. E allora perché non succede niente?

«Semplice: perché la Corte d’Appello deve annunciare l’annullamento a tutti e 16 i docenti promossi col trucco, solo che a febbraio non erano arrivate quattro notifiche, non li avevano trovati!», sospira il professor Giorgio Molinari, uno dei candidati bocciati nell’88. Ora ha sessantotto anni, «ero associato di Audiologia a Padova e tre anni fa me ne sono andato in pensione anticipata, sapevo che avrebbero continuato a bocciarmi e dopo l’88 non mi sono più presentato ai concorsi da ordinario, non ne potevo più di vedermi passare davanti giovincelli che non avevano un decimo dei miei titoli». I sedici promossi di allora, finché c’è tempo, stanno cercando di risistemarsi. «Gaetano Motta, per dire, quest’anno è stato membro di commissione al concorso di Audiologia a Napoli e al contempo candidato a Catania e Messina».

A Messina, in particolare, è stato bandito un posto da ordinario di Audiologia a cui partecipano due dei «figli di» promossi nel famoso concorso dell’88: oltre a Gaetano Motta, il figlio di Giovanni, c’e Francesco Galletti, figlio del professor Cosimo Galletti. Ebbene, tra i commissari d’esame sono stati nominati Raffaele Luciano Fiorella (ordinario a Bari) e Alberto Rinaldi Ceroni (Bologna), promossi docenti nello stesso concorso truccato dell’88. Altri due commissari, Desiderio Passali ed Enzo Mora, furono invece promossi dai papà Motta e Galletti in un concorso precedente, nell’84, peraltro regolare. Giorgio Molinari, sempre lui, ha presentato una dettagliata domanda di ricusazione dei commissari al rettore dell’università di Messina. Respinta.

Anche Paolo Puxeddu, tuttora ordinario a Cagliari, non s’è perso d’animo. Prima che arrivasse il Tar, il 29 gennaio 2003, si è dimesso con annesse maiuscole da «Direttore della Scuola di Specializzazione in Otorinolaringoiatria» per «scadenza dei termini», e al suo posto è stato nominato il figlio Roberto, quello promosso associato dai due professori promossi dal papà nell’88. Nel verbale del consiglio docenti della scuola di specializzazione si legge che «il professor Alessandro Riva, proposto dal consiglio della scuola, dichiara la propria indisponibilità», quindi interpella un paio di candidati che rifiutano e finalmente fa il nome di Roberto Puxeddu, «il consiglio approva all’unanimità», da verbale risulta presente anche il padre.

A Roma insegna invece Marco De Vincentiis, ordinario di Otorinolaringoiatria alla Sapienza, anche lui promosso in cattedra nell’88 e figlio del professor Italo, altro papà condannato a un anno. Anche lui rischia di perdere la cattedra ma qualche mese fa ha vinto l’idoneità a Firenze e intanto potrebbe ottenere un altro posto sempre a Roma, presto si riunirà il consiglio di facoltà. Nella stessa facoltà lavora come ordinario di Audiologia anche Mario Fabiani, 55 anni, uno dei bocciati dell’88, «mi ribocciarono nel ’92 e alla fine ho vinto l’idoneità nel 2000, non ci speravo più», sorride, «anche se credo d’essere l’unico ordinario d’Italia che non è primario, al Policlinico Umberto I faccio ancora i turni di notte».

L'UNIVERSITA', AFFARE DI FAMIGLIA. Di Attilio Bolzoni

La stanza numero 24 è quella del professore Giovanni Tatarano, ordinario di Diritto privato. Suo figlio Marco insegna lì accanto, nella stanza numero 4. Sua figlia Maria Chiara riceve gli studenti proprio di fronte a papà, nella stanza numero 12. Tutta la famiglia in un corridoio. E non come quegli altri, che si sono sparpagliati invece su quattro piani e sopra cinque cattedre. Quegli altri che si chiamano Dell'Atti, tutti parenti, tutti docenti.

Ma mai tanti e mai tanto esimi come i Massari, nove tra fratelli e nipoti e cugini, probabilmente la tribù accademica più numerosa d'Italia.

Benvenuti all'Università di Bari, benvenuti nella città dove in pochi intimi si spartiscono il sapere e il potere.

Buongiorno, dov'è la stanza del professore Girone? "Girone chi?", risponde spazientito il vecchio custode di Economia e Commercio. Girone Giovanni il Magnifico Rettore o Girone Raffaella che è sua figlia?, Girone Gianluca che è suo figlio o Girone Sallustio Giulia che è sua moglie? In ordine, stanza numero 3, stanza numero 26, stanza numero 58, stanza numero 13. E aggiunge, sempre più infastidito il custode: "Poi se vuole parlare con un altro parente stretto dei Girone, ci sarebbe pure il dottore Francesco Campobasso, associato di statistica, che è il marito della professoressa Raffaella, quinto piano, stanza numero 19".

E' cominciato così il nostro viaggio in quel labirinto che è l'Ateneo pugliese, concorsi pilotati, test truccati, esami comprati e venduti, tentate estorsioni e una Parentopoli che è ormai al di là del bene e del male. Lo scandalo sta dilagando. E a Bari, per la prima volta la razza barona trema. Sussurri, voci, grida. Si sta scoprendo un vero verminaio nell'Università dalle più antiche tradizioni delle Puglie. Facoltà dopo facoltà, dipartimento dopo dipartimento. E anche sotto la spinta di una valanga di anonimi.

Sono tanti i Corvi che volano nel cielo di Bari in queste settimane di paura. Raccontano di tutto e di tutti, spiegano in lunghe lettere (con tanto di allegati grafici e di alberi genealogici) come una mezza dozzina di clan accademici hanno allungato le mani sull'Università. "Arrivano ogni mattina sulle scrivanie dei sostituti con la posta prioritaria", confessa il procuratore aggiunto Marco Dinapoli, il magistrato che coordina le indagini sulla pubblica amministrazione.

Denunce di combine nelle commissioni esaminatrici, nomi, cognomi, favori incrociati per piazzare di qua e di là consanguinei o amanti, fidanzati e generi. Ci sono inchieste aperte dappertutto. A Veterinaria e a Matematica, a Scienze delle Comunicazioni, a Cardiologia, a Ginecologia, a Genetica, al Politecnico. Ma è Economia e Commercio - dove il rettore Giovanni Girone è ordinario di Statistica - che è il cuore della razza barona barese, è in quell'edificio grigio a cinque piani il suq delle cattedre.

Sono tutte qui le grandi famiglie accademiche, tutte super rappresentate a cominciare da quella del Magnifico fino agli illustrissimi Massari, tre fratelli - Giansiro, Lamberto e Lanfranco - e poi un nugolo di figli ricercatori. Concorsi a regola d'arte, carte naturalmente sempre a posto come vuole la legge. Tanto a vincere sono soprattutto i parenti. Il preside della facoltà si chiama Carlo Cecchi e allarga sconsolato le braccia: "A me i professori me li regalano le commissioni aggiudicatrici dei concorsi: cosa posso fare io? Io non sono mai stato nelle commissioni di esami".

Senza vergogna e senza pudore una dozzina di clan accademici, anno dopo anno, si sono impadroniti dell'Ateneo. "E' come se ci fosse stata una competizione tra alcuni professori a chi riusciva a collocare più membri del proprio gruppo familiare", commenta Nicola Colaianni, ex magistrato di Cassazione, il docente di Diritto pubblico nominato dal senato accademico a presiedere una commissione d'inchiesta sui buchi neri dell'ateneo. La sua relazione finale l'altro ieri è finita dritta dritta alla procura della Repubblica.

Ci sono i clan ad Economia e Commercio e ci sono quelli al Policlinico, altro girone infernale della cultura universitaria pugliese. Clan e ancora clan, lo scambio di promesse per un posto di ricercatore o di associato, i figli e i nipoti tutti specializzandi, sempre gli stessi nomi che occupano le stesse cattedre: i Ponzio a Lingue, i Foti al Politecnico e via via tutti gli altri. Fino alle grandi famiglie dei "professori" del Policlinico. Quasi tutti hanno trovato un dottorato di ricerca o un incarico nella stessa clinica del padre o dello zio o del cugino. A Psichiatria. A Ortopedia. A Neurochirurgia. A Endocrinologia. A Chirurgia generale. Un elenco infinito. Con il 40 per cento circa dei figli dei primari nella stessa facoltà dei padri e, molto spesso, nella stessa struttura operativa. Con l'età dei "fortunati" parenti a volte molto sospetta, mediamente dieci anni più bassa di quella dei loro colleghi senza blasone.

Privilegi di casta e anche qualcosa di più. Come quell'holding che gestiva concorsi con il trucco a Cardiologia, il fondatore della scuola barese Paolo Rizzon arrestato per associazione a delinquere "finalizzata al falso e alla corruzione", secondo i giudici un componente di rango di una sorta di Cupola che "dirigeva" gli affari della cardiologia. E non solo in Puglia. O come il primario di Ginecologia e ostetricia Sergio Schonauer, indagato per avere votato una commissione che avrebbe dovuto giudicare suo figlio Luca per un posto di ricercatore nella sua stessa clinica. E' la prepotente "normalità" di questa Bari universitaria che si sente impunita, è l'intrigo alla luce del sole, l'omertà delle complicità estese.

Rettore, ma cos'è questa sua Università, una sola grande famiglia? Prima Giovanni Girone travolge con la sua mole un gruppo di giornalisti e si fa sfuggire un magnifico "vaff...", poi si scusa, minaccia la solita querela a chiunque parli o scriva dei suoi e degli altri parenti cattedratici, finalmente si placa e ci fa entrare nella sua stanza. Alle sue spalle due grandi foto, una di Padre Pio e l'altra di Aldo Moro. E alla fine Girone sospira: "I nomi non c'entrano, i concorsi o sono corretti o non sono corretti. E nel caso di mia moglie e dei miei figli è stato tutto regolarissimo: quel che conta è soltanto la produzione scientifica". Così parla il Magnifico rettore dell'Università di Bari, l'ateneo delle grandi tribù.

Una Cupola dotta si spartisce il sapere di Palermo. Sono cento le famiglie che hanno l'Università nelle loro mani, cento clan accademici fatti di figli che salgono in cattedra per diritto ereditario, fratelli e sorelle che succedono inevitabilmente ai loro padri e ai loro zii, nipoti e cugini immancabilmente primi al pubblico concorso. Regnano in ogni facoltà. Si riproducono nell'omertà. Docenti parenti. Cinquantotto a Medicina. Ventuno a Giurisprudenza.

Ventitré su appena centoventinove professori ad Agraria, la roccaforte dei patti di sangue.

Se l'Ateneo di Bari è diventato famoso in Italia per la compravendita di esami e per i test superati in cambio di sesso, quello di Palermo ha un primato assoluto che spiega come i "soliti noti" spadroneggino in ogni disciplina. Ordinari, associati, ricercatori: tutti legati uno all'altro da un intreccio parentale. In totale sono almeno 230. Cento famiglie.

Un altro record solo apparentemente innocuo di questa Università è per esempio il luogo di nascita dei suoi docenti: il 54,7 per cento sono palermitani. Più della metà sono di qui e due su tre vengono dalla provincia. Soltanto Napoli eguaglia la capitale della Sicilia in questa performance. Ma il numero che svela fino in fondo la Palermo cattedratica è quell'altro sui legami familiari. Sono piccoli grandi eserciti dislocati dipartimento dopo dipartimento, materia per materia.

Somiglia tanto a un'occupazione militare, chi non fa parte di un clan resta quasi sempre fuori. E tutto nel rispetto della legge e delle procedure. La regola per conquistare un posto in università è solo una: non parlare. Qualcuno - è chiaro - si ritrova suo malgrado in questo elenco nonostante meriti e titoli. Per molti però quello che conta è solo il nome che portano.

Ci sono delle vere e proprie dinasty anche a Scienze, ad Architettura, a Economia. In ogni facoltà ci sono ceppi familiari dominanti, aule e laboratori di ricerca popolati solo da rampolli. Uno scandalo dopo l'altro soffocati nel silenzio.

A Medicina le famiglie che comandano sono 24. Si ramificano dappertutto. Una è la famiglia Cannizzaro. Il padre Giuseppe è ordinario di Scienze farmacologiche, nel suo dipartimento c'è anche il figlio Emanuele (ricercatore), la cognata Luisa Dusonchet (associata) e la figlia Carla che insegna a Farmacia. Ordinario di Scienze stomatologiche è Domenico Caradonna, i figli Carola e Luigi fanno i ricercatori nello stesso dipartimento. Ordinario di Scienze biochimiche è Giovanni Tesoriere, la moglie Renza Vento è a Biologia, la figlia Zeila è entrata in Architettura dove c'è anche suo marito Renzo Lecardane. Zeila è stata nominata a soli 37 anni come associata "per chiamata diretta", il marito - che da un anno era impiegato al Comune di Palermo dopo un'esperienza all'estero - ha conquistato un posto grazie alle norme sul "rientro dei cervelli". Altri nomi eccellenti di Medicina con parenti al seguito: i Salerno (Biopatologia), i Canziani (Neuropsichiatria infantile), i Ferrara (Otorinolaringoiatria), i Piccoli (Neuroscienze cliniche). Dopo i parenti ci sono naturalmente schiere di compari. Li piazzano per grazia ricevuta. A un favore fatto ne corrisponde sempre un altro. E' una catena interminabile, un giro chiuso. Le carte sono sempre a posto, i concorsi a prova di codice penale, un altro discorso è la decenza.

Come a Economia, il reame dei Fazio. Il capostipite è Vincenzo, ordinario di Scienze economiche, aziendali e finanziarie. Nello stesso suo dipartimento ci sono altri due Fazio: i suoi figli, Gioacchino associato e Giorgio ricercatore. Insegnano la stessa materia di papà. Il preside di Economia si chiama Carlo Dominici, suo figlio Gandolfo è anche lui in facoltà per istruire gli studenti in Scienze economiche. Poi ci sono i due Bavetta, Sebastiano ordinario e Carlo associato, figli di Giuseppe che lì a Economia c'era fino a qualche tempo fa. Ora è in pensione. Un ultimo caso di padre e figli di quella facoltà: il docente di economia aziendale Carlo Sorci e sua figlia Elisabetta - ricercatrice - che insegna Diritto commerciale.

A Giurisprudenza i docenti sono 137 e i nuclei familiari che dettano legge 10. Alfredo Galasso è ordinario di Diritto privato, suo figlio Gianfranco insegna la stessa materia, nello stesso dipartimento c'è anche Giuseppina Palmeri che è la moglie del fratello di Gianfranco. Anche Savino Mazzamuto (Diritto privato, ora trasferito a Roma 3) ha lasciato un posto in eredità a suo figlio Pierluigi. La figlia di Aurelio Anselmo, Alice, ha trovato sistemazione all'Università di Trapani: ricercatrice di Diritto pubblico. Salvatore Raimondi, nome pesante, amministrativista di grido ingaggiato per i suoi "pareri" anche dalla Regione siciliana, ha nel suo dipartimento di Diritto pubblico il figlio Luigi. E Rosalba Alessi, ordinario di Diritto privato - e soprattutto potente commissario degli enti economici siciliani, una carica che vale come tre assessorati importanti - ha nello stesso suo dipartimento il nipote Enrico Camilleri.

Ad Architettura c'è una grande famiglia, quella dei Milone. Il preside Angelo è in compagnia del fratello Mario (che è anche vicesindaco di Palermo e - attenzione - assessore ai rapporti con l'Università) e due figli che sono ricercatori: Daniele e Manuela. A Lettere, i Carapezza sono 4. I fratelli Attilio e Marco, il primo che insegna Scienze delle Antichità e il secondo Filosofia e teoria dei linguaggi. Il loro cugino Paolo Emilio è ordinario di Musicologia, suo figlio Francesco è ricercatore nello stesso dipartimento di Attilio. Poi ci sono i Buttita. Nino, il vecchio, antropologo, è stato preside di Lettere. Il figlio Ignazio insegna all'Università di Sassari ma ha supplenze a Palermo. La moglie Elsa Guggino è ordinaria nella stessa facoltà.

L'elenco dei padri e dei figli continua a Ingegneria, 18 famiglie e 38 parenti. Filippo Sorbello e il figlio Rosario, Michele Inzerillo e la figlia Laura, Stefano Riva Sanseverino (cognato di Luca Orlando) e la figlia Eleonora. A Scienze Matematiche Fisiche e Naturali si contendono il numero dei parenti i Gianguzza e i Vetro. Mario Gianguzza, ordinario di Biopatologia a Medicina, a Scienze ha come colleghi i fratelli Antonio (Chimica inorganica) e Fabrizio (Biologia cellulare) e la figlia Paola (Ecologia). Uno dei loro nipoti, Salvatore Costa, è anche lui in Biologia cellulare. L'altra famiglia, i Vetro, è tutta appassionata di matematica. Pasquale Vetro, matematico. La moglie Cristina Di Bari, matematica. Il loro figlio Calogero, matematico.

La facoltà più piena di mogli e mariti e figli è però quella di Agraria. Su 129 docenti 23 sono parenti. Un quinto. Divisi in 11 nuclei familiari. Il preside Salvatore Tudisca ha lì dentro come associata sua moglie Anna Maria Di Trapani. L'ordinario Antonino Bacarella ha la figlia Simona e il nipote Luca Altamore. L'ordinario Giuseppe Chironi ha la figlia Stefania, l'ordinario in pensione Giuseppe Asciuto ha suo figlio Antonio, l'ordinario in pensione Carmelo Schifani ha il figlio Giorgio, l'ordinario Salvatore Ragusa ha il figlio Ernesto, l'ordinario Luigi Di Marco ha la moglie Antonietta Germanà, l'ordinario Vito Ferro ha la moglie Costanza Di Stefano, l'ordinario Antonio Motisi ha la moglie Maria Gabriella Barbagallo, l'ordinario Riccardo Sarno ha il figlio Mauro, l'ordinario Claudio Leto ha la moglie Teresa Tuttolomondo. Cento famiglie. Di queste ce ne sono sessanta con "residenza" fissa in uno stesso dipartimento. E' praticamente casa loro.

PARLIAMO DEL CONCORSO PUBBLICO PER DIVENTARE DOCENTI.

Maestri diplomati e il concorso farsa. Senza bocciati il merito dov’è? L’emendamento della maggioranza e quel «concorso non selettivo» pensato per stabilizzare le maestre senza laurea. Ma se vengono tutti promossi che concorso è? Scrive Orsola Riva il 26 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Chissà se il deputato grillino Luigi Gallo ha voluto davvero ispirarsi a Winston Churchill o è stato un caso. Per lui il Decreto dignità è come l’ora più buia (the “finest hour”, nelle parole dell’uomo che a un certo punto della Storia si ritrovò quasi solo a fare muro contro le potenze del Male). «Questa è l’ora delle norme giuste, equilibrate, costituzionali e che non cadano davanti al primo ricorso. Fino ad oggi i politici hanno scritto le norme in maniera oscena e hanno diviso il mondo della scuola in categorie da aizzare l’una contro l’altra. Non cascateci più». Così, il deputato cinquestelle ha perorato in Aula la causa dell’emendamento di maggioranza che prevede l’ennesima stabilizzazione di massa di docenti - in questo caso principalmente maestre senza laurea. Una grana che il governo gialloverde ha ereditato dai suoi predecessori ma la cui soluzione non appare certo improntata a quello spirito nuovo e diverso dalla «vecchia politica» di cui M5S si è fatto paladino. Come risolvere la questione di questi quasi 50 mila insegnanti di vecchio conio che si erano rivolti a un giudice per farsi assumere (e in alcuni casi avevano anche già ottenuto il posto con riserva) salvo poi essere bocciati dalla Consulta? Semplice. Prima si fa un decreto ad hoc che prevede di rinviare l’esecuzione della sentenza di 4 mesi. Poi, adesso, spunta un emendamento che, in nome della continuità didattica (quella stessa di cui il governo non si è ricordato quando ha tirato un frego sulla norma che prevedeva l’obbligo per tutti gli insegnanti di restare almeno per tre anni nella stessa scuola), garantisce loro di stare al proprio posto fino alla fine dell’anno come supplenti per poi salire in cattedra dal 2019 grazie a un «concorso straordinario» che di straordinario non ha nulla salvo il fatto di non essere un concorso. Ma che concorso è quello in cui tutti entrano e nessuno resta fuori? Mistero. L’unica condizione per passare è aver prestato almeno due anni di servizio negli ultimi 8: il che esclude dalla gara-non gara i maestri laureati di più fresco conio che non hanno al loro attivo abbastanza supplenze. E pazienza se magari sarebbero stati più qualificati loro di molti semplici diplomati magistrali per insegnare ai nostri figli a leggere scrivere e far di conto. Per loro presto sarà bandito un nuovo concorso. Perché loro sì che devono essere selezionati. Ma siccome al peggio non c’è mai fine, lo stesso emendamento prevede anche la stabilizzazione di tutti i cosiddetti idonei del concorso 2016. Maestre, maestri, ma anche professori e professoresse delle scuole medie e superiori che non hanno vinto il concorso, si sono solo «qualificati». Del resto con la norma di cui sopra entreranno alle elementari anche quelli che sono stati bocciati, quindi che problema c’è? Per il nuovo concorso per i giovani insegnanti con tanto di tirocinio ci sarà ancora molto anzi moltissimo da aspettare.

Diplomati magistrale, l’emendamento al decreto dignità scontenta tutti, scrive Dino Caudullo il 27/07/2018 su "Tecnicadellascuola.it". Il Governo scioglie i nodi per i diplomati magistrale, prevedendo il più grave licenziamento di massa di pubblici dipendenti della storia italiana. Ecco i brevissima sintesi il contenuto dell’emendamento al DL 12 luglio 2018 approvato. L’esecuzione delle sentenze che verranno via via emesse avverrà nei seguenti termini:

– nei confronti dei docenti immessi in ruolo con riserva, il contratto a tempo indeterminato verrà risolto e trasformato in contratto fino al 30 giugno 2019;

– nei confronti dei docenti destinatari di incarico annuale, lo stesso verrà trasformato in contratto fino al 30 giugno 2019;

Verrà bandita una procedura riservata per le immissioni in ruolo dei laureati in Scienze della formazione e dei diplomati magistrale.

Le assunzioni. Per le immissioni in ruolo, i posti verranno così ripartiti:

il 50% alle Graduatorie ad esaurimento;

il restante 50% verrà così ripartito;

con priorità alle graduatorie di merito del concorso ordinario 2016 fino al termine di validità delle stesse i posti rimanenti verranno così assegnati:

il 50% al concorso straordinario riservato da bandire su base regionale;

i posti rimanenti al concorso ordinario a cattedre da bandire con cadenza biennale.

Il concorso straordinario per i diplomati magistrale. Riguarderà i posti di scuola primaria e dell’infanzia, compresi il potenziamento ed i posti di sostegno e vi potranno partecipare:

– gli abilitati in Scienze della formazione primaria, anche con titolo equipollente conseguito all’estero, con almeno due anni di servizio specifico negli ultimi otto anni, anche non continuativo, su posto comune o di sostegno presso scuole statali;

– i diplomati magistrale entro l’a.s. 2001/2002, anche con titolo equipollente conseguito all’estero, con almeno due anni di servizio specifico negli ultimi otto anni, anche non continuativo, su posto comune o di sostegno presso scuole statali;

– per i posti di sostegno occorrerà il possesso, oltre ad uno dei predetti titoli, anche del titolo di specializzazione, o titolo equipollente conseguito all’estero.

I dubbi. Durante le ultime udienze innanzi al Tar Lazio, la quasi totalità dei ricorsi chiamati per la decisione sono stati rinviati a data da destinarsi, in attesa del preannunciato ricorso per motivi aggiunti avverso il DM 506/2018 di aggiornamento annuale delle Gae. Probabilmente, quindi, non tutti i ricorsi pendenti verranno decisi nel merito entro il corrente anno; in questo caso, nel silenzio della norma (l’emendamento nulla dice in proposito), i docenti inseriti con riserva nelle Gae avranno titolo a rimanervi, tuttavia non è chiaro se potranno essere destinatari di incarico di supplenza. Altro dubbio, questa volta di legittimità dell’emendamento, riguarda gli aventi titolo a partecipare alla procedura riservata. Ci chiediamo infatti per quale motivo si intende restringere il campo degli aventi titolo a partecipare, richiedendo, oltre al possesso del titolo (laurea in SFP o diploma magistrale), anche un requisito di servizio. Questa decisione lascerebbe fuori migliaia di docenti: sia coloro i quali sono stati inseriti con riserva nelle Gae in virtù di provvedimenti giurisdizionali, ma che non hanno maturato due anni di servizio, sia coloro i quali, pur non avendo mai proposto ricorso per l’accesso alle Gae, in quanto inseriti nella III fascia delle graduatorie di istituto, hanno comunque lavorato per meno di due anni, in virtù del possesso del diploma magistrale. Dal testo approvato restano infine fuori gli abilitati mediante Pas e Tfa che resteranno fuori dalle Gae.

In sintesi, tutti scontenti.

Concorso docenti abilitati, la denuncia di una candidata: “Una farsa, tutti promossi”, scrive Andrea Carlino il 09/04/2018 su "Tecnicadellascuola.it". Il concorso per docenti abilitati è la prima delle tre selezioni che il Miur sta avviando in base a quanto previsto dal Decreto Legislativo 13 aprile 2017 n. 59 che introduce un nuovo modello di reclutamento per la scuola secondaria. La selezione sarà aperta a chi ha una abilitazione o è specializzato sul sostegno. Le graduatorie di merito saranno regionali e formate sulla base di una prova orale (massimo 40 punti) e del punteggio derivante dai titoli e dal servizio pregresso (massimo 60 punti). Le Commissioni di valutazione sono presiedute da un professore universitario o da un direttore di una istituzione AFAM o da un dirigente tecnico o dirigente scolastico e sono composte da due docenti. Al Corriere della Sera, parla una delle 50mila aspiranti che parteciperanno al concorso. Eleonora, 38 anni, docente precaria: “Non studierò disperatamente. Non serve a niente. Nessuno di noi sta studiando, promuoveranno tutti: questo concorso è una farsa”. “Sono anni che studio, mi preparo, faccio sacrifici per avere una cattedra. Ho cambiato non so quanti licei, ho continuato a studiare e lavorare con un bambina piccola, non mi sono mai arresa perché il mio sogno era insegnare. Da sempre. Ma negli anni ho assistito a promesse non mantenute, a ingiustizie continue: chi si era abilitato con la Sis (la Scuola di specializzazione superiore, ndr) è entrato in prima fascia e ha avuto diritto al ruolo, chi invece aveva preso il Tfa come me è rimasto indietro. Ho visto colleghi con meno esperienza e punteggi scavalcarmi a forza di ricorsi, ho visto graduatorie stravolte. Invece devono mettere su tutto questo carrozzone: stanno cooptando i commissari, e non si sa se ce la faranno perché sono sottopagati; le date dei colloqui dovevano essere fissate per aprile, ma non c’è ancora nessun annuncio ufficiale; poi dovranno farci fare un anno di tirocinio per la definitiva messa in ruolo. E magari imbarcheranno anche migliaia di insegnanti che non servono, come con la Buona Scuola: insegnanti intendo di arte o diritto, mentre mancano tantissimi prof di matematica e fisica, come dimostra il fatto che io ho sempre lavorato”. Alla candidata sempre “tutto finto”: “Un’altra fregatura di questo concorso? Fanno punteggio solo le supplenze di 180 giorni consecutivi in uno stesso istituto: che non sono così scontate da avere perché spesso i nostri contratti vengono interrotti a Natale. Come non è normale che il ministero spenda tutti questi soldi per allestire un concorso di cui non c’è bisogno, bastava aggiornare la graduatoria e immettere tutti in prima fascia, col diritto alla cattedra nel momento in cui ci sono i posti liberi”.

Concorso 2018 abilitati, tutti promossi. Corriere: “pazienza se in alcuni casi si tratterà di docenti già bocciati nel 2016”, scrive il 20 dicembre 2017 "Orizzontescuola.it". Il decreto legislativo n. 59 del 13 aprile 2017 prevede una fase transitoria destinata ai docenti già in possesso di abilitati. Il decreto, già firmato dal Ministro Fedeli, prevede la formazione – su richiesta degli interessati – di una graduatoria di merito regionale per ogni classe di concorso della scuola secondaria. La collocazione in questa graduatoria avverrà per il 60% (massimo) sulla base di titoli e servizio e per il 40% (massimo) sulla base di un colloquio – una prova metodologico – didattica non selettiva. Seguirà l’ammissione al terzo anno di FIT, anno di formazione iniziale e tirocinio, durante il quale il docente sarà sottoposto a visite in classe per verificarne l’attitudine alla professione. L’anno si concluderà con una valutazione che, se positiva, porterà all’immissione in ruolo definitiva. Pertanto la vera selezione potrebbe spostarsi in questo segmento della procedura.  Il requisito di ammissione alla procedura è il possesso dell’abilitazione entro il 31 maggio 2017. “E pazienza – commenta Orsola Riva su Corriere.it– se in alcuni casi si tratterà degli stessi docenti che sono stati bocciati al concorso del 2016″. Un concorso, lo ricordiamo, in cui c’è stata una fortissima selezione dei candidati, ma per la quale è impossibile fornire delle spiegazioni oggettive. La prova scritta infatti per la prima volta è stata computer based, con prove complesse da svolgere in un tempo limitato, sicuramente non il tempo che ciascun docente utilizza, nella pratica quotidiana, per l’organizzazione di tale lavoro. I commissari hanno parlato di “maestre che non conoscono la grammatica” Concorso docenti. Il commissario “Le maestre? Le prime a non conoscere la grammatica”. In Veneto 50% di bocciature ma la situazione non è chiara. Anzi, dagli accessi agli atti spesso i docenti hanno avuto modo di appurare che il voto era risultato al di sotto della soglia minima per accedere all’orale a causa della valutazione negativa alla voce “originalità”, termine vago e altamente soggettivo. L’articolo del Corriere non pone una soluzione alternativa, dal momento che questi docenti – in virtù dell’inserimento in II fascia delle graduatorie di istituto – continuano ad insegnare, e sono il nucleo delle 85.000 supplenze assegnate quest’anno.

C'erano una volta, una quarantina di anni fa ormai, i concorsi pubblici per diventare docenti, scrive Giuseppe Verde. Infatti i concorsi per docenti sono stati aboliti. Nozionistici e spesso scorretti nelle procedure, in sostanza non potevano fornire dei docenti adeguati alle nuove sfide della società complessa, ma solo tecnici aventi diritto, incapaci di comprendere la persona che sta dentro ogni studente. Nacquero così le SSIS: numero programmato, preselezione, due anni di approfondimenti e di formazione (didattica, pedagogia e psicologia), tirocinio ed esamone finale con valore abilitante e concorsuale. Centinaia di migliaia di giovani superdocenti, pluriabilitati, vennero sfornati dalle università italiane per diffondere la luce della didattica del nuovo millennio. Purtroppo, però, nessuno si rese conto del fatto che, per i primi tre\quattro anni di vita, le SSIS non fecero altro che riabilitare sic et simpliciter gli ex concorsisti, né che si stavano formando nuove graduatorie, parallele, certo (GaE, di terza fascia), ma pur sempre concorrenti alle vecchie (di prima fascia). Né nessuno si rese conto che le SSIS non bocciavano, non chiudevano, non negavano mai a nessuna facoltà una cinquantina di nuove abilitazioni all'anno. Il risultato? Una guerra fra centauri sparsi nelle diverse graduatorie, una guerra di venti anni, combattuta su una terra che nel frattempo diventava povera e sterile di lavoro, in uno Stato che non assumeva più nessuno. Precariato per l'una e per l'altra fazione. Finalmente, negli anni Dieci del nuovo millennio, la fazione degli ex concorsisti andava estinguendosi e i pensionamenti sembravano potessero aprire un varco: qualche guerriero torna a casa e le GaE scompaiono. E invece cosa si scopre? Le SSIS sono un fallimento! Gli specializzandi si sono tramandati per generazioni gli elaborati, i professori delle università hanno riproposto cose già stantie e le stesse assunzioni tramite le GaE sono incostituzionali. Quindi TFA: un anno stretto stretto di ex SSIS e poi concorsone, il tutto con procedure preselettive, selettive e accertative iperdrastiche, ovviamente sulla carta. Risultato? Parte il concorsone per coprire i pensionamenti (che però sono meno del previsto, e in alcune regione è un'ecatombe di cervelli), e vi possono accedere tutti: i semplici laureati, gli ex concorsisti ancora precari, gli abilitati SSIS, ma non gli abilitati TFA. Durante le procedure, il caos, ci vorrebbe un articolo a parte per raccontare tutto! Per quello che riguarda il nostro discorso, poche decine di posti per migliaia di aspiranti, molti dei quali già aventi diritto, in un modo o in un altro. Gli altri? Futuri aventi diritto. Infatti il concorso non prevede graduatorie, si assume in base ai posti messi a bando, ma di fatto è abilitante, quindi se ne assumono 10 ma se ne possono abilitare altri 1000 (è questa l'opinione dei disinteressati sindacati che già parlano di graduatorie di merito triennali), senza che abbiano frequentato né SSIS né TFA, ma solamente avendo studiato da autodidatti. Intanto i TFA si concludono, e cosa chiedono allo Stato gli abilitati? Il secondo concorso che era stato loro promesso? No, quello di entrare nelle GaE, cioè fregare i sissini, acquisendone gli stessi diritti, ma con un anno in meno di sacrificio (economico e psico-fisico). Del resto molti TFA sono anche ex sissini, quindi… tutto torna, o quasi. Sì, perché in Italia ci sono anche le graduatorie di Istituto, quelle dei tappabuchi e degli incapaci ovvero quelli secondo cui il lavoro è un diritto a prescindere dal merito. Gente che oltre all'esame di laurea non ha mai superato nessuna preselezione né acquisito nessun titolo. Lavoratori onestissimi (quasi tutti), per carità, ma che evidentemente sono frutto della trascuratezza\corporativismo del sistema italiano, perché un sistema serio, con migliaia di abilitati a spasso, avrebbe dovuto sfruttare\valorizzare loro piuttosto che permettere a gente senza qualifica di svolgere un lavoro per il quale è richiesta un'abilitazione professionale. Ebbene costoro, in base a una normativa europea, che evidentemente non tiene conto delle anomalie italiane (perché impensabili in un normale paese civilizzato), hanno diritto ad essere automaticamente abilitati dopo tre anni di lavoro a scuola: nascono, quindi, i PAS. Ottantamila o forse più baldi\blandi intellettuali che, senza essersene mai fregati gran che di quello che accadeva nel mondo, accontentandosi di quello che cadeva dal cielo, senza superare nessuna preselezione, senza nessun presumibile sforzo intellettuale e a prescindere dalla loro preparazione, tra un anno avranno in tasca lo stesso pezzo di carta e quindi gli stessi diritti dei TFA, che nel frattempo, quasi sicuramente, avranno ottenuto gli stessi diritti delle SSIS, che a loro volta avevano ottenuto gli stessi diritti dei Concorsi pubblici che oggigiorno, indetti senza criteri stabiliti cioè a discrezione del MIUR, possono annullare in ogni momento ogni precedente e permanente graduatoria. Insomma, gran soddisfazione per tutto il popolo italiano! A Settembre, strutture murarie e Spread permettendo, tra esuberi DOP, concorsisti (vecchi e nuovi), sissini e abilitati in vario modo, avremo sicuramente il paese pieno di docenti qualificati. Discenti forse pochi, dato che non si fanno più figli. Ma a giugno tutte le strutture balneari sicuramente saranno già piene. Infatti, credo, molti cari colleghi di ruolo, figli del boom economico e della Guerra fredda, che di solito a causa di qualche dirigente troppo zelante o qualche collega invidioso hanno difficoltà ad evitare tutto il lavoro sporco (gli esami di Stato, i corsi di recupero e gli esami di agosto), quest'anno potranno godersi lunghe ferie con più serenità, cioè con un certificato medico più leggero e una lista precari più lunga.

E CHE DIRE DEL CONCORSO TRUCCATO PER DIRIGENTE SCOLASTICO?

Nuove sul concorso per presidi, respinte le richieste di archiviazione, scrive “Blog Sicilia” l'1/09/2016. Respinte le richieste di archiviazione. Bisogna continuare ad indagare sul concorso “truccato” per i presidi. Per gli indagati il gip Fernando Sestito ha stabilito che bisogna continuare nelle indagini. Il giallo sul concorso ruota attorno ad un file formato Excel: una lista di candidati dell’ultimo concorso per diventare presidi e accanto un’annotazione a penna. «Da aiutare». Ecco perché è stata rigettata la richiesta di archiviazione della procura per i tre indagati, tre commissari del concorso iniziato nel 2011. Salvatore D’ Agostino, Roberto Tripodi e Orazio Lombardo, i primi due devono difendersi dall’ accusa di abuso d’ ufficio, il terzo dal falso ideologico. Il sostituto procuratore ha cinque mesi di tempo per svolgere le nuove indagini disposte dal gip. Intanto, il 4 ottobre, un altro commissario d’ esame dovrà già presentarsi all’udienza preliminare: l’ex dirigente scolastica di Altofonte Irene Iannello, nel 2012 candidata alle primarie Pd per l’Ars, aveva dichiarato di non essere in alcuna situazione di incompatibilità con il suo ruolo di commissario. Ovvero, di non aver preparato alcun candidato agli esami. Ora è accusata di falso ideologico. Il gip chiede di indagare proprio sui commissari che avrebbero preparato alcuni candidati, così come sollecitava l’esposto dell’avvocato Giovanni Rizzuti, che assiste una cinquantina di esclusi al concorso. Sono stati loro a far scattare l’inchiesta della Digos. Anche se poi il concorso è andato avanti e le nomine sono state fatte. Ma gli esclusi sperano ancora nell’annullamento di tutte le prove: «Confidiamo che le nuove indagini possano acclarare le ipotesi di reato», dice Rizzuti. Il giudice Sestito chiede in particolare alla procura di «acquisire l’elenco dei partecipanti al master organizzato dall’ università di Catania, di cui era tutor Lombardo, al fine di verificare se taluni di questi soggetti fossero tra coloro indicati nel file come presumibilmente da aiutare». È ormai il concorso delle polemiche, si è chiuso con la nomina di 176 nuovi dirigenti scolastici, a fronte di 4 mila candidati. Prima il “quizzone” di 100 domande a risposta multipla, uguale per tutto il territorio nazionale. Poi, le prove scritte, che hanno visto solo 260 idonei, per 237 posti, ma gli esclusi sono stati tanti. E adesso, ipotizza un giudice, su quel concorso torna l’ombra di pesanti raccomandazioni. E soprattutto di tanti affari, attraverso costosi corsi di formazione.

Concorso truccato, dalle intercettazioni spunta l'ex ministro Nicolais, scrive Simone Di Meo su “Il Sole 24ore”. «Tu lo sai, io vado a trovare a Gino, lo vado a trovare sempre, anche perché... è l'unica speranza insomma». Gino è il nomignolo dell'ex ministro della Funzione pubblica Luigi Nicolais, attuale direttore del Cnr. A parlarne è Pietro Esposito, ex provveditore degli studi della Campania indagato (e intercettato) nell'inchiesta della Procura di Napoli sul presunto concorso truccato per 224 dirigenti scolastici. Esposito, al suo interlocutore, a un certo punto della conversazione, fa riferimento pure alla moglie di Nicolais, Donatella Valentino, insegnante «distaccata presso il Miur» (scrive la Guardia di finanza nell'informativa). Lei «ha fatto il concorso a preside, e penso che quando finirà il concorso, la teniamo in regione...» I coniugi Nicolais non sono indagati nel procedimento, ma i militari del gruppo di Torre Annunziata (agli ordini del comandante Carmine Virno) che si sono imbattuti nei loro nomi, monitorando l'utenza dell'ex dirigente dell'Ufficio scolastico regionale, hanno comunque ritenuto di approfondire lo spunto. Lavorando, anzitutto, sull'identificazione dei due soggetti. Le intercettazioni Scrivono le Fiamme gialle: «L'intercettato faceva riferimento a un certo "Gino" che abita ad Ercolano, la cui moglie lavora al ministero e sarà una delle candidate vincenti del predetto concorso». Gli investigatori, dopo aver accertato che si tratta proprio dell'ex ministro del Governo Prodi, scoprono poi che «Luigi Nicolais, su pressanti richieste di Pietro Esposito, intercederà presso il responsabile di un progetto universitario per l'assegnazione di un contratto a progetto a favore di Dario Marchese (genero di Pietro Esposito)». Vicenda, questa, anch'essa trattata nell'informativa della Guardia di finanza. C'è però da sottolineare una cosa: gli elaborati della professoressa Valentino non sono stati sequestrati né i magistrati titolari del fascicolo (pm Ida Frongillo, procuratore aggiunto Alfonso D'Avino) le contestano alcunché, così come nulla viene contestato all'ex ministro Nicolais. Si tratta, con tutta evidenza, di un approfondimento svolto nell'ambito di un più ampio scenario investigativo che, per ora, contempla i reati di abuso di ufficio, falsità ideologica e truffa aggravata, ma che dall'analisi del materiale fin qui raccolto (soprattutto le intercettazioni telefoniche) potrebbe ben presto evolvere in tutt'altra direzione. Uno degli indagati, infatti, al cellulare avrebbe parlato di cifre importanti (fino a 100mila euro) per superare il concorso e conquistare la direzione di un istituto scolastico. «Amici» in commissione L'attività dei pm, al momento, si è concentrata in particolare su commissioni e sottocommissioni, la cui modalità di composizione sarebbe stata «eterodiretta» anche da politici. E, proprio la nomina di alcuni membri della commissione esaminatrice «amici» avrebbe consentito ai candidati di conoscere con largo anticipo i quesiti della prova preselettiva. Contando su questo aggancio, gli aspiranti dirigenti scolastici avrebbero fatto pervenire ai componenti collusi degli organismi di valutazione le frasi iniziali e finali degli elaborati (che ora sono finiti sotto sequestro, in forza di un decreto emesso dal pubblico ministero) così da eludere l'anonimato delle prove scritte. È la prima volta che, per vicende del genere, l'ufficio giudiziario partenopeo ipotizza l'«esistenza di una vera e propria organizzazione in grado di condizionare con mezzi illeciti tutti i settori della pubblica amministrazione che ricadono nell'ambito dell'Ufficio scolastico della Campana». Il pm parla esplicitamente di «associazione» i cui componenti agiscono, con «assoluta determinazione», per «condizionare» gli esiti di una selezione pubblica che ora, proprio a seguito dell'intervento dell'autorità giudiziaria, è stata congelata. Nei brogliacci, come sponsor per i commissari d'esame, sono spuntati i nomi di Valentina Aprea (ex parlamentare Pdl, oggi assessore in Regione Lombardia) e Giovanna Petrenga (attuale deputata casertana).

Scuola, concorso per dirigente truccato: 25 avvisi di garanzia a Napoli, scrive Leandro Del Gaudio “Il Mattino”. Concorso per presidi: blitz nell'ufficio regionale scolastico. La procura di Napoli indaga sull'ultimo concorso per preside in Campania. Associazione per delinquere, abuso d'ufficio e falso, la Procura punta a fare chiarezza sulla gestione del concorso per dirigenti scolastici, notificando in queste ore decreti di perquisizione, ordini di esibizione e alcuni avvisi di garanzia. Indagine delegata alla Guardia di finanza di Torre Annunziata, sono in corso accertamenti e acquisizioni di documenti, sotto i riflettori l'ufficio regionale scolastico. Sono venticinque gli indagati, otto dei quali sono docenti vincitori di concorso dopo l'ultima prova scritta (all'inizio di febbraio) per l'accesso a un posto di dirigente scolastico. Gli altri indagati sono commissari di esame, un ex dirigente dell'ufficio regionale scolastico e sindacalisti. La guardia di finanza di torre annunziata ha anche trovato compiti scritto già fatti in una sede del sindacato. Dalle indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Alfonso D'Avino e dal sostituto Ida Frongillo, è emerso che gli indagati avevano creato un meccanismo per favorire alcuni candidati al concorso. In particolare, sarebbe stata pilotata la nomina di alcuni membri della commissione esaminatrice, grazie ai quali i candidati erano riusciti a conoscere con largo anticipo i quesiti della prova preselettiva. Inoltre - secondo l'accusa - si era riusciti a eludere l'anonimato delle prove scritte facendo pervenire ai componenti collusi della commissione giudicatrice gli incipit e le frasi finali dei candidati da favorire. Il materiale concorsuale di sei candidati è stato sequestrato.

Per anni hanno controllato gli studenti, e i loro sotterfugi per tentare di copiare i compiti in classe, ma a loro volta sono stati “beccati” a far man bassa su testi e “pizzini” al concorso per dirigenti scolastici: cinque docenti lucani e quattro componenti della commissione sono indagati nell’ambito di un’inchiesta della Procura della Repubblica di Potenza, che ha inviato gli avvisi di conclusione delle indagini, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La notizia ha trovato conferme in ambienti giudiziari. Secondo quanto si è appreso, alcune risposte del concorso cominciato nel 2011 sarebbero state interamente copiate dai concorrenti dai libri di testo (in un caso si tratterebbe anche di argomenti che riguardano la responsabilità dei presidi). Uno dei componenti della commissione, durante il concorso, avrebbe anche scoperto degli appunti nel vocabolario di un concorrente: non vi sarebbe stata l'esclusione del docente dalla prova, ma solo il “sequestro” dei foglietti dattiloscritti. Secondo gli investigatori, infine, anche una delle griglie di valutazione delle prove sarebbe stata già pronta. Tre dei cinque docenti indagati (le accuse, a vario titolo, sono di falso, abuso in atti d’ufficio e concorso in falso ideologico) avrebbero vinto il concorso, con l'assegnazione a un istituto, due invece sono risultati idonei nella graduatoria di riferimento. Le indagini, svolte dai militari della sezione di polizia giudiziaria dei Carabinieri, sono cominciate alla fine del 2011, con la verifica delle prove e il controllo dei testi a cui si sarebbero “ispirati” i concorrenti: in alcuni casi i paragrafi riportati nelle prove sarebbero pressochè identici nelle risposte di alcuni degli indagati.

I CANDIDATI BOCCIATI PER IL CONCORSO DI DIRIGENTI SCOLASTICI CERCANO SANTI IN PARADISO.

I candidati al Concorso per dirigenti scolastici, bocciati inopinatamente ed a tutela delle loro ragioni non ricevendo giustizia dagli Organi Istituzionali terreni, chiedono aiuto a San Giuda Taddeo. Il Santo Patrono delle Cause Perse.

A questo siamo ridotti. Povera Italia. Sono milioni gli italiani vittime di un sistema concorsuale aberrante: selezione naturale, sì, col trucco. Le vittime aivoglia cercare aiuto presso le istituzioni. Lettera morta.

Ma andiamo con ordine. Dopo oltre un anno di attesa e mille anticipazioni, lo scorso 13 luglio 2011 è stato bandito il concorso per reclutare 2.386 nuovi dirigenti scolastici. Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca indiceva una procedura concorsuale per esami e titoli per il reclutamento di dirigenti scolastici per la scuola primaria, secondaria di primo grado, secondaria di secondo grado e per gli istituti educativi, per 2386 posti complessivi, di cui 224 per la Campania. Il bando di concorso, per sfoltire il gruppo di oltre 42 mila candidati che hanno presentato istanza prevede una preselezione attraverso un questionario a risposta multipla, simile a quello per accedere alle facoltà a numero programmato. La prassi, in questi casi, è quella di rendere nota la batteria di test dalla quale saranno sorteggiate le domande per il concorso alcune settimane prima. Il Ministero dell'Istruzione ha pubblicato la batteria di 5.750 test dai quali saranno sorteggiati i 100 quiz che saranno sottoposti ai 42 mila aspiranti ad una poltrona di preside. Ma qualcuno ha già "confessato" di essere venuto in possesso delle domande almeno un giorno prima. Non mancano errori. E la polizia postale avvia un'indagine. Tra fughe di notizie ed errori nei test il concorso per dirigente scolastico rischia di naufragare prima ancora di iniziare. Così, forum, blog e siti internet specializzati sono stati sommersi dai post dei candidati che segnalano errori, incongruenze, inesattezze nelle domande e che non nascondono la preoccupazione di trovarsi di fronte, dopo avere studiato per mesi, ad una selezione "addomesticata". La Polizia postale avvia un'indagine per individuare i responsabili della fuga di notizie. "C'è la violazione del segreto d'ufficio - ipotizzano gli inquirenti - e questo avrebbe arrecato un ingiusto vantaggio sugli altri concorrenti". A conoscere in anticipo i test ci sono senz'altro coloro che hanno partecipato materialmente alla stesura delle domande e delle risposte. Ma il loro numero è anche questo un mistero. Secondo fonti sindacali sarebbero almeno una sessantina gli esperti che si sarebbero dilettati nel confezionamento dei quiz. Secondo fonti interne allo stesso ministero dell'Istruzione sarebbero al massimo una quindicina le persone in possesso di una batteria di circa 400 test ciascuno. Circostanza che giustificherebbe in parte gli errori contenuti nei test. Ma a proposito delle tracce d’esame. Spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito. Quando a Bari era facile essere ammessi a Medicina. I test di ingresso alla Facoltà pugliese finirono al centro di una brutta vicenda: docenti e studenti avevano messo su un lucroso giro per superare i difficili quiz. I rinvii a giudizio furono 127. Nel 2007 a finire sotto la lente di ingrandimento della magistratura è il test di ammissione a Medicina. In quella tornata di test di ammissione anche altri atenei finiscono nella rete degli investigatori: Chieti, Foggia, Ancona. In tutto, sono stati rinviati a giudizio ben 127 persone per quella che il pm Francesca Romana Pirrelli non ha esitato a definire come vera e propria "organizzazione criminale". E poi Roma, Latina e Salerno: corruzione alle elementari. Quello dei dirigenti scolastici non è l'unico scandalo che ha riguardato i concorsi. Per ottenere il posto alle elementari si usavano gioielli, foulard, maglioni e perfino profumi. Nel 2000 il concorso di scuola elementare è stato funestato da una serie di inchieste, con rinvii a giudizio e arresti a raffica. A Roma, Latina e Salerno i commissari d'esame del concorso bandito nel 1999 si sono fatti corrompere, in alcuni casi anche da una bottiglia di profumo. Due i filoni di inchiesta. In quella laziale due precarie non ammesse allo scritto fanno ricorso e scoprono che nella busta col loro nome e cognome ci sono altri compiti, pieni di errori, e denunciano il fatto. Dalle indagini si scopre che i compiti delle due insegnanti escluse, corretti e che avrebbero determinato il passaggio dell'esame, sono andati a finire nelle buste di altre due colleghe. Che interrogate, dapprima negano, e dopo un po' confessano la corruzione: gioielli, foulard, maglioni e perfino profumi per ottenere il posto. I tre insegnanti dall'altra parte della barricata, reclutati come commissari d'esame, erano tutte e tre donne. Per i carabinieri trovare il corpo del reato è stato facile, perché a casa delle tre insegnanti sapevano cosa cercare. A Latina, per lo stesso concorso invece i commissari d'esame hanno chiesto fino a 10 milioni delle vecchie lire e gioielli che sono stati trovati nella cassaforte di uno degli inquisiti. A Salerno finisce sotto inchiesta, per scarsa trasparenza, anche il concorso per la scuola materna.

Torniamo al nostro concorso a dirigente scolastico. Procedure regolari, o no? A fine 2012 si concludono, con lo svolgimento delle prove orali e la definizione delle graduatorie di merito, i concorsi regionali per il reclutamento dei dirigenti scolastici. Ma, qua e là nel Paese, dopo le critiche alla prova preselettiva dello scorso ottobre (domande errate, librone da consultare, ritardo nell’inizio della prova, ecc.), continuano a manifestarsi dubbi sulla regolarità delle procedure seguite dalle Commissioni esaminatrici, soprattutto in merito alla correzione delle prove scritte.

39 mie amiche campane, candidate bocciate al famigerato concorso pubblico chiedono il mio aiuto per far conoscere la loro storia, non avendo trovato riscontro mediatico in quella zona da parte dei giornalisti locali. Motivi di doglianza sono quelli usuali di tutti i ricorsi al Tar per ogni concorso od esame pubblico: illegittimità della composizione delle commissioni (nello specifico, incompatibilità funzionale, in particolare e soprattutto perché in alcune commissioni figurerebbero esponenti di sigle sindacali, fortissime da un punto di vista rappresentativo nel comparto-scuola. Un conflitto di interessi neanche così velato. Stato di coniugio tra commissario e candidata ed addirittura dichiarazioni di presenza di commissari che al contempo si trovavano in altri posti. Novelli San Pio con il dono dell’Ubiquità); correzione degli elaborati, dichiarata come tale ma non avvenuta e riscontrata con mancanza di tempo per effettuarla; impedimento al diritto di difesa con la visione di elaborati di terzi per la comparazione e mancanza di conoscenza dei criteri di giudizio e valutazione degli elaborati. La gente deve sapere che attivarsi presso un organo giudiziario, in questo caso amministrativo, è un terno al lotto. Per il ricorso al Tar contro il giudizio negativo reso all’esame i motivi sollevati sono identici, le risultanze no! Incide molto l’essere rappresentati da onerosi principi del Foro, che molti non possono permettersi. Ergo: non vale la forza della legge e della ragione provata, ma vale la legge del più forte. Per gli effetti del ricorso N. 03864/2013 REG.PROV.COLL., N. 00441/2013 REG.RIC., il Tar di Napoli il 24/07/2013 respinge. Sia chiaro. Per i magistrati il ricorrente è un numero di fascicolo. Vincitore o soccombente ad un concorso pubblico  pari sono: uno vale l’altro. Fa niente se l’interesse pubblico preme affinchè dal concorso pubblico emerga il valore: il merito. In un altro mondo forse, in Italia no! Le tapine già hanno peccato a non presentarsi con un principe del Foro locale. Sia mai che vi sia amicizia che possa favorire l’esito della causa. E questo è un aspetto che può incidere sul suo esito. In questa sede esuliamo dal prospettare disquisizioni linguistiche o dottrinali di stampo giuridico. Come sempre dico: la prassi fotte la legge. E l’appellativo dato agli operatori del diritto è veritiero. Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste. Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3° dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati? Ed ogni riferimento ai fatti di causa è puramente causale!!

Già, perché per motivi meno appariscenti del nostro ricorso in Molise, ad esempio, il concorso è stato sospeso a seguito di un ricorso presentato da candidati esclusi dalle prove orali (Ordinanza Tar Molise n. 77/2012). Il concorso del Lazio è stato oggetto di due interrogazioni parlamentari, relative soprattutto alla costituzione della commissione esaminatrice, i cui componenti sarebbero rappresentanti sindacali – motivo, questo, di esclusione dalle procedure di nomina. Anche per il concorso in Friuli Venezia Giulia è stata presentata una interrogazione parlamentare per verificare “che lo svolgimento dell'attività della commissione sia stato conforme ai principi di efficacia, trasparenza ed efficienza, nel pieno rispetto delle normative vigenti". In Calabria i ricorsi hanno riguardato la mancata correzione della seconda prova scritta nel caso in cui la prima fosse stata valutata negativamente dalla Commissione; in questo caso, però, il TAR ha respinto i ricorsi, ritenendo che non vi fosse l’obbligo di correggere entrambe le prove. Ultima, in ordine di emanazione, una ordinanza del TAR Lombardia, che prima di decidere definitivamente sul ricorso di alcuni candidati esclusi dalla prova orale, ha chiesto all’Ufficio scolastico regionale di “acquisire le buste contenenti le prove di concorso dei ricorrenti”. Pioggia di ricorsi al Tar per il concorso da dirigenti scolastici. Quaranta aspiranti presidi hanno fatto istanza al tribunale amministrativo di Bari contro l’esclusione dalla prova orale. Dopo gli esiti dell’esame, in tanti hanno fatto appello ai giudici per essere riammessi. Il concorso indetto dal ministero dell’Istruzione e dall’ufficio scolastico regionale, mira a reclutare 236 dirigenti scolastici in tutta la Puglia, in scuole primarie e secondarie. I ricorrenti hanno sostenuto a giugno 2012 un test scritto al quale non sono risultati idonei. Questo vuol dire che non potranno accedere alla prova orale. Le udienze sono state fissate infatti a fine settembre 2012. Concorso per preside tra accuse e sospetti. Un bel giallo tra i presunti brogli coinvolto un foggiano. Secondo la legge doveva essere fuori dal concorso, invece non solo l'ha superato ma si ritrova a un passo dalla nomina. Denunce, dimissioni e sospetti di brogli: c'è un piccolo giallo nella procedura per il concorso da presidi (236 posti in Puglia) sulla quale da qualche indaga la procura della Repubblica. Uno degli 867 candidati ammessi alla prova scritta del maxi concorso per dirigenti scolastici, un professore «comandato» presso gli uffici della direzione regionale di Foggia, sarebbe stato pizzicato durante il primo giorno di prova con alcuni foglietti in un vocabolario. Tale episodio sarebbe avvenuto nella scuola «Elena di Savoia» in via Caldarola, al rione Japigia, uno degli istituti di Bari in cui si sono tenute le prove scritte, il 14 e 15 dicembre scorso. E a conferma che qualcosa non sia andato per il verso giusto, ci sono anche le dimissioni - avvenute pochi giorni fa - dei segretari delle due sottocommissioni, arrivate proprio adesso a concorso ormai ultimato (sono attese le prove orali). A denunciare tutto il docente Gerardo Troiano. Almeno un milione di euro la spesa per i contribuenti a causa del “concorso-farsa”. Contabilità (per difetto) del presidente Anief, Marcello Pacifico, un’associazione sindacale in rappresentanza di docenti e personale scolastico. Tra l’incarico dato a Formez (centro-studi del dipartimento della Funzione Pubblica) per l’elaborazione dei test e la retribuzione per i centinaia di commissari e presidenti del concorso per dirigenti scolastici. Il Miur di recente ha comunicato le cifre dei compensi elargiti ai componenti delle commissioni. Compensi irrisori, avrebbero accusato alcuni. Eppure si parla di un “compenso base” da 251 euro per il presidente e 209,24 per ogni componente, più un integrativo di 50 centesimi per ciascun elaborato o candidato esaminato. In ogni caso – ha comunicato il Miur – “non possono eccedere i 2.051,70 euro”, con l’eccezione dei presidenti per i quali l’importo va incrementato del 20%. Considerando che le commissioni sono sparse in tutta Italia il conto per lo Stato supererebbe il milione di euro. Concorso per il quale ha chiesto lumi anche l’onorevole del Pd, Antonio Russo, con un’interrogazione parlamentare al ministro (che tuttavia non ha ancora risposto). Soprattutto perché in alcune commissioni figurerebbero esponenti di sigle sindacali, fortissime da un punto di vista rappresentativo nel comparto-scuola. Un conflitto di interessi neanche così velato. E che dire del concorso nell’insegnamento all’estero. Il concorsone pubblico per insegnanti all'estero si trasforma in una vicenda grottesca con tanto di polizia e sospensione della prova. Erano migliaia stamattina ad affollare lo spazio antistante l'hotel Ergife di Roma sulla via Aurelia, arrivati da tutta Italia per sostenere la prova di lingua del concorso per il reclutamento del personale docente e Ata destinato agli istituti scolastici stranieri. Al bando, gestito dall'agenzia Formez per il ministero degli Esteri, hanno partecipato oltre 36mila persone da tutta Italia. Ma qualcosa è andato storto: "Quando ci hanno presentato la prova -- ha raccontato la concorrente Loredana Tonni -- ci siamo accorti che era una presa in giro: ognuno di noi doveva rispondere ai 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto -- conclude -- nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre". Fatti i conti: rispondere a ogni quesito in poco più di un minuto. La protesta dei partecipanti si è fatta subito sentire. La commissione è stata subissata di lamentele. A quel punto sono state chiamate le forze dell'ordine. Il presidente della commissione di concorso ha deciso così di sospendere la prova, assicurando "che la prova stessa si ripeterà entro questa sera con gli stessi quesiti, come se nulla fosse successo". "Le modalità di questo concorso sono fuori da ogni legalità -- ha aggiunto Tonni -- chi è entrato a sostenere la prima prova conosce già tutti i quesiti delle successive e può preparare l'esame all'esterno consultando il volume che la commissione ha permesso di portare con sé". Intanto nelle caselle di posta dei giornali, arrivano decine di mail, molte con questo contenuto: "Il concorso è da annullare, siamo stati presi in giro, abbiamo studiato mesi per la selezione".

Tutto questo ambaradan, giusto per dire alle mie amiche di Napoli, ignorate dai media locali, di non disperare e provare a Roma. Al Consiglio di Stato. Giusto per rispondere a tutti coloro che gridano “le sentenze non si criticano: si rispettano e si applicano”. Questi signori, sicuramente ignoranti, almeno in Diritto, dovrebbero sapere che l’Ordinamento giuridico prevede l’istituto del gravame. Il termine gravame viene utilizzato come sinonimo di impugnazione o, con significato più specifico, per indicare un particolare tipo di impugnazione, che mira al completo riesame della controversia, in modo da giungere ad un nuovo giudizio in sostituzione di quello contenuto nella sentenza impugnata, ritenuto ingiusto. Presupposto del gravame è la soccombenza. Lo scopo è quello di provocare un nuovo giudizio. La parte fondamentale del gravame è la critica mossa alla sentenza ritenuta errata ed ingiusta. Oppure si provi la tutela penale e civile del diritto leso. Sia mai che a presentare un esposto penale, non ci sia un magistrato di buon cuore che stabilisca una volta per tutte che almeno colui che ha il dono dell’ubiquità, qualche reato lo ha commesso e deve risarcirne i danni. E fa niente che era obbligo dei componenti del Tar, quali pubblici ufficiali, presentare denuncia penale. Obbligo disatteso ed impunito. Nei tribunali non vince chi ha ragion, ma chi ha maggior forza dirompente. E lo so io che quei tribunali ben conosco e me la fanno pagare. Vale per loro, care amiche care quel famoso detto… “Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente.”. Se non avete Santi in Paradiso, né in terra (specialmente in Parlamento), chiedete di San Giuda Taddeo, sarà felice di annoverarvi tra le sue fila: Tutti coloro che son vittime di cause perse.

Questo anche perché colei che ha chiesto di dare voce a questa storia, mi ha implorato terrorizzata di omettere il suo nome e quello dei suoi avvocati. Bella Roba. Ecco perchè si ha gioco facile.

CORREZIONI IN POCHI MINUTI: OMBRE E DUBBI SUL CONCORSO PER DIRIGENTI SCOLASTICI

Per i presidi vincitori del concorso annullato dal Cga è arrivata la sanatoria. Scrive Salvo Intravaia su "La Repubblica". Una contromisura preparata in gran fretta dal Parlamento per fugare i timori dei duecento dirigenti scolastici siciliani reclutati con le prove selettive del 2006. Nel maggio 2009 il Consiglio di giustizia amministrativa si è pronunciato a favore di due aspiranti presidi (Maria Antonietta Cucciniello e Giuseppina Gugliotta) estromessi agli scritti. Motivo? Le due sottocommissioni avrebbero «proceduto alla correzione di moltissimi elaborati con una commissione incompleta, in quanto nell’una o nell’altra era assente il presidente». A correggere i compiti erano spesso due soli commissari, perché il presidente era in comune e poteva essere presente soltanto in una delle due sottocommissioni che procedevano in contemporanea. Ecco perché gli atti relativi alle prove scritte sono stati annullati dal Cga.

Per eseguire la sentenza il direttore dell’Ufficio scolastico regionale, Guido Di Stefano, ha nominato una nuova commissione, che riesaminasse i compiti dei due esclusi. Circostanza che ha fatto correre un brivido sulla schiena dei presidi in sella ormai da tre anni. Prove censurate per numerose e singolari anomalie. Dalle due sentenze emerge che «il tempo medio di correzione di ogni singolo elaborato si aggirava sempre intorno ai due minuti e 30 secondi, insufficiente per la correzione di compiti composti da otto o dieci facciate». Ma non solo: «L’elaborato numero 1003 è stato valutato positivamente, nonostante fosse costellato di errori grammaticali e di sintassi» e altri tre «sono stati valutati positivamente, nonostante contenessero chiari segni di identificazione, per cui i candidati che li avevano redatti avrebbero dovuto essere esclusi dal concorso».

La complessa vicenda è chiusa da una leggina. Un emendamento proposto da 15 deputati, quasi tutti siciliani e del Pdl, che sembra nato per vanificare la sentenza del Cga. «L’annullamento di atti delle procedure concorsuali ordinarie e riservate a posti di dirigente scolastico (…) non incide - afferma l’emendamento  - sulle posizioni giuridiche acquisite dai candidati dei predetti concorsi che (…) sono stati assunti in servizio». Chi ha superato il concorso, in pratica, rimarrà al proprio posto. E gli aspiranti presidi che hanno vinto il ricorso? Saranno nominati sui posti vacanti «a decorrere dall’anno scolastico 2010-2011».

«È tutto spaventosamente incostituzionale», commenta Caterina Giunta, l’avvocato che assieme al collega Francesco Tinaglia ha patrocinato i due ricorsi. «La sentenza del Cga - sostiene il legale - ha annullato l’intero concorso». Invece il provvedimento ha avuto un’applicazione soft.

INSEGNANTI E DIRIGENTI SCOLASTICI (Presidi), concorso col trucco.

Così l’inchiesta di Salvo Intravaia su “La Repubblica”. Il Ministero dell'Istruzione ha pubblicato la batteria di 5.750 test dai quali saranno sorteggiati i 100 quiz che saranno sottoposti ai 42 mila aspiranti ad una poltrona di preside. Ma qualcuno ha già "confessato" di essere venuto in possesso delle domande almeno un giorno prima. Non mancano errori. E la polizia postale avvia un'indagine. I quiz in anticipo su internet, "E sono anche pieni di errori". In palio ci sono 2.386 posti di responsabili di istituto. Le 5.750 domande sulle quali prepararsi sono state messe in linea dal candidato "Preoccupato" almeno 24 ore prima del tempo. Protesta e timori: "E se altri le hanno avute prima?". Tante risposte sbagliate.

Il ministero minimizza e nega la fuga di notizie. Tra fughe di notizie ed errori nei test il concorso per dirigente scolastico rischia di naufragare prima ancora di iniziare. Lo scorso primo settembre 2011, il Ministero dell'Istruzione ha pubblicato la batteria di 5.750 test dai quali saranno sorteggiati i 100 quiz che saranno sottoposti ai 42 mila aspiranti ad una poltrona di preside. Ma qualcuno ha già "confessato" di essere venuto in possesso delle domande almeno un giorno prima. Così, forum, blog e siti internet specializzati sono stati sommersi dai post dei candidati che segnalano errori, incongruenze, inesattezze nelle domande e che non nascondono la preoccupazione di trovarsi di fronte, dopo avere studiato per mesi, ad una selezione "addomesticata". Ma andiamo con ordine. Dopo oltre un anno di attesa e mille anticipazioni, lo scorso 13 luglio 2011 è stato bandito il concorso per reclutare 2.386 nuovi dirigenti scolastici. Il bando di concorso, per sfoltire il gruppo di oltre 42 mila candidati che hanno presentato istanza prevede una preselezione attraverso un questionario a risposta multipla, simile a quello per accedere alle facoltà a numero programmato. La prassi, in questi casi, è quella di rendere nota la batteria di test dalla quale saranno sorteggiate le domande per il concorso alcune settimane prima.

Durante la conferenza stampa del 31 agosto a Palazzo Chigi, il ministro Gelmini ha annunciato che il giorno dopo sarebbero stati pubblicati i test. Ma non sapeva che mentre lei parlava con i giornalisti qualcuno inviava a un candidato il prezioso file. E che ci sarebbe un "giro di raccomandati" che si sta adoperando per superare il concorso in tutti i modi. La notte tra il 31 agosto e il primo settembre, nel forum aperto sul sito mininterno.net un docente dall'insolito nickname di "Preoccupato" confessa di avere ricevuto un file con le domande "ufficiali" ma di non potere essere sicuro della loro autenticità. Poco prima dell'una e mezza del primo settembre, alcuni candidati con problemi di insonnia si scambiano informazioni in attesa della pubblicazione dei test. E all'una e 46 compare sul web il contributo di "Preoccupato" che scrive: "C'è davvero di che essere preoccupati. Leggete i seguenti quesiti: si tratta dei primi 3 di ciascuna area. Appuntate la data e l'ora di questo post. Domattina capirete che ho scelto bene il mio nick!".

"Scusa sono quelli ufficiali?", chiede l'incredula Carmenb. E "preoccupato" risponde: "Ebbene sì!!! (domattina verificherete). Li sto spulciando dalle ore 13.30, quando ne sono venuto in possesso. Li trovo belli tosti. Non posso dire altro, ma questa cosa pone inquietanti interrogativi. Uno tra tutti: se la cosa si ripetesse con i fatidici 100 'sorteggiati'?". In pochissimo tempo si scatena la caccia al file. "O sei un raccomandato o stai sognando nel bel pieno della notte!!", commenta Imma8 e lui risponde: "1) Non sono raccomandato. 2) Come ho già scritto, non c'è alcun link, in quanto li ho ricevuti per e-mail in modo assolutamente casuale: sono del tutto fuori da quel giro. 3) Preferirei stare sognando, poiché mi sentirei più garantito. Su questo punto rinviamo il giudizio a domattina, cioè fra poche ore insonni. Se non si riveleranno quelli giusti sarò molto più soddisfatto: mi saranno serviti da esercitazione. Se saranno quelli giusti sarò sempre più preoccupato". Dopo alcuni botta e risposta sempre più inquieti i partecipanti al forum decidono di inondare di e-mail il sito del ministero dell'Istruzione. A viale Trastevere, sede del ministero dell'Istruzione, non riescono a nascondere l'imbarazzo per un concorso che sembra nato sotto cattivi auspici. Ogni giorno che passa, i candidati scoprono e segnalano domande o risposte errate. L'ultima in ordine di tempo pervenuta la domanda 191 dell'area 5: "Ai sensi del decreto legislativo n. 150/2009, con quale preavviso ....", recita la domanda. "Chi ha preparato la seguente domanda e risposta, relativa al decreto legislativo 165/01, art. 19, comma 1-ter, evidentemente non sa che lo stesso comma è stato abrogato e sostituito dal decreto legge 78/10 art. 9, comma 32!", commenta un docente. Dal ministero minimizzano. "Gli errori sono fisiologici in un numero di domande così elevato", fanno sapere da viale Trastevere che nega la fuga di notizie del 31 notte. Dal primo settembre le 5.750 domande costituiscono il passatempo migliore per migliaia di candidati al concorso: i quiz sono corredati dalle risposte e occorre memorizzarne il più possibile per avere qualche chance di successo. Scorrendole sono saltati fuori già diversi errori che hanno indotto l'Associazione docenti italiani a scrivere al ministro Gelmini e al capo dipartimento, Giovanni Biondi. "Da un primo esame della batteria di quesiti pubblicata" il primo settembre "risultano diversi dati preoccupanti: un numero rilevante di errori nelle risposte indicate come esatte, domande prive di contestualizzazione alle quali è pertanto impossibile dare risposta, riferimenti a norme non più in vigore assunte come vigenti, domande incomprensibili o illogiche, inadeguatezza e incoerenza di numerosi quesiti rivolti a un concorso per l'area V della dirigenza". Ci sono anche alcune domande che lasciano perplessi. Quanto è importante per un preside sapere che la "tecnologia controllata dal tocco del dito o altro materiale conduttore di elettricità?" si definisce "touch screen capacitivo", anziché il "touch screen resistivo"? "Non vorremmo che gli errori fin qui commessi comportassero un pregiudizio per la regolarità del concorso - scrive la presidentessa Alessandra Cenerini - e una facile occasione per un contenzioso giudiziale". Molti candidati "studiano da anni per questo concorso, hanno svolto master e dottorati e ora sono sconcertati di fronte a tale situazione".

Il concorso si svolge in ambito regionale - sono stati messi in palio un tot di posti per ogni regione - e coloro che supereranno la preselezione dovranno svolgere due scritti, un periodo di formazione e un esame orale. La speranza, come ha avuto modo di dichiarare il presidente della commissione Cultura della Camera, Valentina Aprea, "è che alla fine vengano reclutati dirigenti scolastici più giovani del precedente concorso: al di sotto dei 45 anni". Il concorso per presidi fa ancora discutere. Dopo la denuncia di RE LE INCHIESTE, la postale avvia un'indagine per individuare i responsabili della fuga di notizie. "C'è la violazione del segreto d'ufficio - ipotizzano gli inquirenti - e questo avrebbe arrecato un ingiusto vantaggio sugli altri concorrenti". La fuga di notizie sui quiz del concorso per preside produce una prima denuncia. Dopo avere verificato quanto scritto nell'inchiesta pubblicata da RE LE INCHIESTE, è l'Associazione nazionale dei funzionari di polizia ha fare la prima mossa: un esposto-denuncia ai colleghi della Polizia postale per quanto accaduto la notte tra il 31 agosto e il primo settembre. "Sulla regolarità dello svolgimento del concorso pubblico di dirigente scolastico - dichiara Enzo Letizia, segretario nazionale dell'associazione - non possono esserci dubbi. Quanto è apparso sul sito mininterno.net impone di verificare con scrupolo come sia potuto accadere che venissero pubblicati dei quiz prima della diffusione ufficiale da parte del ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca". Secondo Letizia, "vanno, perciò, seguite a ritroso le tracce lasciate nella rete per risalire alla verità dei fatti e accertare responsabilità penali". Con l'esposto presentato giovedì 9 settembre, la questione comincia a farsi seria. Secondo i funzionari di polizia, gli eventuali responsabili della fuga di notizie sarebbero responsabili del reato di violazione del segreto d'ufficio e potrebbero andare incontro a guai seri, anche perché, ipotizzano, che "si sarebbe così offerto ad un numero indeterminato di persone un ingiusto vantaggio sugli altri concorrenti del concorso". Un vantaggio, quello di conoscere in anticipo la batteria di test dai quali verranno sorteggiati i 100 oggetto della prova di preselezione non da poco, che "sarebbe ancora più grave qualora, come ipotizzato dal sedicente 'Preoccupato', si trattasse di 'bozza', perché significa che sin dai primi lavori della commissione è iniziata la diffusione clandestina del materiale". La storia comincia il 13 luglio, quando il ministero pubblica il bando per reclutare 2.386 nuovi dirigenti scolastici. Le domande che vengono presentate sono 42 mila e per sfoltire il gruppo degli aspiranti presidi, il bando prevede un test di preselezione su 100 quiz a risposta multipla. Come ormai avviene in quasi tutte i concorsi pubblici che prevedono un test di ammissione, il bando prevede anche che venga pubblicata in anticipo la batteria di test dai quali verranno pescate le domande per il concorso. A questo punto, cominciano a circolare mille voci: i sindacati comunicano in un primo momento che la batteria di 5.750 test verranno pubblicate a metà agosto. Data che slitta al 26 agosto e successivamente al primo settembre. Ma nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre accade una cosa inquietante: un candidato, partecipando ad una discussione presso un forum on line, pubblica le prime tre domande, con relative risposte, di tutte e sei le aree previste dal concorso. E si scatena il putiferio.

"Preoccupato", questo è il suo nickname, dice di non essere sicuro che quelle siano le domande ufficiali e di averle ricevute per caso. Salvo scoprire l'indomani che si trattava proprio delle domande che sarebbero state pubblicate il primo settembre alle 9. Come era possibile che qualcuno avesse ricevuto le domande in anticipo? Il ministero, sulla questione, nega che possano esserci state fughe di notizie. E tre giorni fa, invia alle agenzie un comunicato stampa, che però si occupa soltanto dell'altra questione che monta in queste ore: gli errori contenuti in parecchie domande e risposte. "In merito alle segnalazioni pervenute fino ad oggi al Miur riguardo a refusi presenti nei quesiti del concorso per dirigenti scolastici, il ministero precisa che tali imprecisioni riguardano pochissime domande e non avranno comunque alcuna conseguenza sulla prova d'esame". Ma poi spiega che "La pubblicazione, un mese prima dello svolgimento delle prove, delle 5.750 domande dalle quali saranno estratte le 100 oggetto della prova, garantisce che questa estrazione avvenga all'interno di un set di domande ampiamente verificate". E che, continua il comunicato, "l'estrazione delle 100 domande potrà avvenire il giorno stesso della prova d'esame, in tempo reale, assicurando in questo modo la massima trasparenza allo svolgimento del concorso. Fino a pochi istanti prima della prova non esisteranno infatti copie dei quesiti sorteggiati". Ma quanti candidati sono riusciti a mettere le mani in anticipo sui test e quanto tempo prima della pubblicazione? Quali sono le domande effettivamente circolate in anticipo: un paio di migliaia o tutto il blocco? Mentre lo scorso 4 settembre 2012, Gennaro Sorrentino, pubblica sulla Tecnica della scuola che "il dirigente scolastico di un istituto superiore di Napoli ha consegnato a tutti i suoi corsisti per la prova di preselezione al concorso a dirigente scolastico i file contenenti tutti i circa 7.500 quesiti, ben prima della pubblicazione del Miur".

Un mitomane? "La fuga di notizia a Napoli - continua Sorrentino - è stata immediata. Io li ho avuti sulla mia posta elettronica prima del 1° settembre 2011. Posso provarlo in qualsiasi momento. Ma questo è niente rispetto alle schifezze che stanno succedendo su questo concorso. Dovrebbe intervenire la Magistratura per far luce su questa triste vicenda". Viale Trastevere invece comunica che "il Miur, per il concorso, ha adottato le stesse modalità e procedure già sperimentate negli ultimi anni in occasione dell'ultimo concorso alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, al Consiglio di Stato, alla Presidenza del Consiglio e all'ISTAT". A conoscere in anticipo i test ci sono senz'altro coloro che hanno partecipato materialmente alla stesura delle domande e delle risposte. Ma il loro numero è anche questo un mistero. Secondo fonti sindacali sarebbero almeno una sessantina gli esperti che si sarebbero dilettati nel confezionamento dei quiz. Secondo fonti interne allo stesso ministero dell'Istruzione sarebbero al massimo una quindicina le persone in possesso di una batteria di circa 400 test ciascuno. Circostanza che giustificherebbe in parte gli errori contenuti nei test. A proposito di test. Quando a Bari era facile essere ammessi a Medicina. I test di ingresso alla Facoltà pugliese finirono al centro di una brutta vicenda: docenti e studenti avevano messo su un lucroso giro per superare i difficili quiz. I rinvii a giudizio furono 127. Nel 2007 a finire sotto la lente di ingrandimento della magistratura è il test di ammissione a Medicina. A Bari si registra uno strano fenomeno: parecchi ragazzi riescono a risolvere "troppi" quesiti e riescono a totalizzare punteggi di gran lunga superiori agli studenti che nello stesso momento sostenevano gli esami negli altri atenei. Gli esclusi denunciano la cosa alla magistratura che comincia ad indagare e scopre che un docente, in collaborazione con altri colleghi, dipendenti dell'ateneo pugliese, genitori, studenti e perfino il figlio e la moglie avevano allestito una macchina quasi perfetta: da due diversi punti partivano e arrivavano sms con domande e risposte corrette, che venivano poi dirottati agli studenti. Così, superare il test di ammissione diventava un gioco da ragazzi. Ma, resosi conto che la situazione era degenerata, il rettore dell'ateneo decide di annullare il test. Dopo quattro anni, a Bari, 32 indagati per quella vicenda chiedono il patteggiamento della pena, mentre in 14 optano per il rito abbreviato. In quella tornata di test di ammissione anche altri atenei finiscono nella rete degli investigatori: Chieti, Foggia, Ancona. In tutto, sono stati rinviati a giudizio ben 127 persone per quella che il pm Francesca Romana Pirrelli non ha esitato a definire come vera e propria "organizzazione criminale". E poi Roma, Latina e Salerno: corruzione alle elementari. Quello dei dirigenti scolastici non è l'unico scandalo che ha riguardato i concorsi. Per ottenere il posto alle elementari si usavano gioielli, foulard, maglioni e perfino profumi. Nel 2000 il concorso di scuola elementare è stato funestato da una serie di inchieste, con rinvii a giudizio e arresti a raffica. A Roma, Latina e Salerno i commissari d'esame del concorso bandito nel 1999 si sono fatti corrompere, in alcuni casi anche da una bottiglia di profumo. Due i filoni di inchiesta. In quella laziale due precarie non ammesse allo scritto fanno ricorso e scoprono che nella busta col loro nome e cognome ci sono altri compiti, pieni di errori, e denunciano il fatto. Dalle indagini si scopre che i compiti delle due insegnanti escluse, corretti e che avrebbero determinato il passaggio dell'esame, sono andati a finire nelle buste di altre due colleghe. Che interrogate, dapprima negano, e dopo un po' confessano la corruzione: gioielli, foulard, maglioni e perfino profumi per ottenere il posto. I tre insegnanti dall'altra parte della barricata, reclutati come commissari d'esame, erano tutte e tre donne. Per i carabinieri trovare il corpo del reato è stato facile, perché a casa delle tre insegnanti sapevano cosa cercare. A Latina, per lo stesso concorso invece i commissari d'esame hanno chiesto fino a 10 milioni delle vecchie lire e gioielli che sono stati trovati nella cassaforte di uno degli inquisiti. A Salerno finisce sotto inchiesta, per scarsa trasparenza, anche il concorso per la scuola materna. Concorso a dirigente scolastico. Procedure regolari, o no? A fine 2012 si stanno concludendo, con lo svolgimento delle prove orali e la definizione delle graduatorie di merito, i concorsi regionali per il reclutamento dei dirigenti scolastici. Ma, qua e là nel Paese, dopo le critiche alla prova preselettiva dello scorso ottobre (domande errate, librone da consultare, ritardo nell’inizio della prova, ecc.), continuano a manifestarsi dubbi sulla regolarità delle procedure seguite dalle Commissioni esaminatrici, soprattutto in merito alla correzione delle prove scritte. In Molise, ad esempio, il concorso è stato sospeso a seguito di un ricorso presentato da candidati esclusi dalle prove orali (Ordinanza Tar Molise n. 77/2012). Il concorso del Lazio è stato oggetto di due interrogazioni parlamentari, relative soprattutto alla costituzione della commissione esaminatrice, i cui componenti sarebbero rappresentanti sindacali – motivo, questo, di esclusione dalle procedure di nomina. Anche per il concorso in Friuli Venezia Giulia è stata presentata una interrogazione parlamentare per verificare “che lo svolgimento dell'attività della commissione sia stato conforme ai principi di efficacia, trasparenza ed efficienza, nel pieno rispetto delle normative vigenti". In Calabria i ricorsi hanno riguardato la mancata correzione della seconda prova scritta nel caso in cui la prima fosse stata valutata negativamente dalla Commissione; in questo caso, però, il TAR ha respinto i ricorsi, ritenendo che non vi fosse l’obbligo di correggere entrambe le prove. Ultima, in ordine di emanazione, una ordinanza del TAR Lombardia, che prima di decidere definitivamente sul ricorso di alcuni candidati esclusi dalla prova orale, ha chiesto all’Ufficio scolastico regionale di “acquisire le buste contenenti le prove di concorso dei ricorrenti”. Pioggia di ricorsi al Tar per il concorso da dirigenti scolastici. Quaranta aspiranti presidi hanno fatto istanza al tribunale amministrativo di Bari contro l’esclusione dalla prova orale. Dopo gli esiti dell’esame, in tanti hanno fatto appello ai giudici per essere riammessi. Il concorso indetto dal ministero dell’Istruzione e dall’ufficio scolastico regionale, mira a reclutare 236 dirigenti scolastici in tutta la Puglia, in scuole primarie e secondarie. I ricorrenti hanno sostenuto a giugno scorso un test scritto al quale non sono risultati idonei. Questo vuol dire che non potranno accedere alla prova orale. Le udienze sono state fissate infatti a fine settembre. Concorso per preside tra accuse e sospetti. Un bel giallo tra i presunti brogli coinvolto un foggiano. Secondo la legge doveva essere fuori dal concorso, invece non solo l'ha superato ma si ritrova a un passo dalla nomina. Denunce, dimissioni e sospetti di brogli: c'è un piccolo giallo nella procedura per il concorso da presidi (236 posti in Puglia) sulla quale da qualche indaga la procura della Repubblica. Uno degli 867 candidati ammessi alla prova scritta del maxi concorso per dirigenti scolastici, un professore «comandato» presso gli uffici della direzione regionale di Foggia, sarebbe stato pizzicato durante il primo giorno di prova con alcuni foglietti in un vocabolario. Tale episodio sarebbe avvenuto nella scuola «Elena di Savoia» in via Caldarola, al rione Japigia, uno degli istituti di Bari in cui si sono tenute le prove scritte, il 14 e 15 dicembre scorso. E a conferma che qualcosa non sia andato per il verso giusto, ci sono anche le dimissioni - avvenute pochi giorni fa - dei segretari delle due sottocommissioni, arrivate proprio adesso a concorso ormai ultimato (sono attese le prove orali). A denunciare tutto il docente Gerardo Troiano. Almeno un milione di euro la spesa per i contribuenti a causa del “concorso-farsa”. Contabilità (per difetto) del presidente Anief, Marcello Pacifico, un’associazione sindacale in rappresentanza di docenti e personale scolastico. Tra l’incarico dato a Formez (centro-studi del dipartimento della Funzione Pubblica) per l’elaborazione dei test e la retribuzione per i centinaia di commissari e presidenti del concorso per dirigenti scolastici.

Sarebbe questo il danno erariale (proprio Anief ha presentato un esposto alla Corte dei Conti e per il quale si esprimerà anche il Tar il prossimo 22 novembre 2012) di una procedura concorsuale ora a forte rischio di annullamento per presunte irregolarità durante i test pre-selettivi. Un “carrozzone” che il 12 ottobre scorso ha messo in movimento oltre 32 mila docenti che aspirano a diventare personale dirigenziale (ma le domande giunte al ministero dell’Istruzione sono state circa 40 mila) e che in alcune regioni ora è giunto alle prove orali, nonostante su di esso penda la spada di Damocle di migliaia di ricorrenti ai tribunali amministrativi (con il supporto di alcune sigle sindacali, come Cisl Scuola Lazio che ha provveduto ad individuare uno studio legale per supportare chi ha impugnato il concorso). Ricorrenti che hanno contestato l’irregolarità di circa 30 domande sui mille quiz elaborati da Formez per le prove pre-selettive a causa di risposte “equivocabili”. E ora – al netto delle decisioni che prenderanno Tar e Consiglio di Stato – resta la sensazione che il caos provocato da questo concorso, nato sotto l’egida del precedente ministro della Pubblica Istruzione, Mariastella Gelmini e la sua scelta di affidare l’incarico a Formez (e non ad Invalsi, come chiedevano diversi addetti ai lavori) – stia provocando un danno incalcolabile allo Stato, proprio in tempi in cui si fa un gran parlare di Spending Review. Il Miur di recente ha comunicato le cifre dei compensi elargiti ai componenti delle commissioni. Compensi irrisori, avrebbero accusato alcuni. Eppure si parla di un “compenso base” da 251 euro per il presidente e 209,24 per ogni componente, più un integrativo di 50 centesimi per ciascun elaborato o candidato esaminato. In ogni caso – ha comunicato il Miur – “non possono eccedere i 2.051,70 euro”, con l’eccezione dei presidenti per i quali l’importo va incrementato del 20%. Considerando che le commissioni sono sparse in tutta Italia il conto per lo Stato – in caso di annullamento di concorso – supererebbe il milione di euro. Concorso per il quale ha chiesto lumi anche l’onorevole del Pd, Antonio Russo, con un’interrogazione parlamentare all’attuale ministro Francesco Profumo (che tuttavia non ha ancora risposto). Soprattutto perché in alcune commissioni figurerebbero esponenti di sigle sindacali, fortissime da un punto di vista rappresentativo nel comparto-scuola. Un conflitto di interessi neanche così velato. E che dire del concorso nell’insegnamento all’estero. Il concorsone pubblico per insegnanti all'estero si trasforma in una vicenda grottesca con tanto di polizia e sospensione della prova. Erano migliaia stamattina ad affollare lo spazio antistante l'hotel Ergife di Roma sulla via Aurelia, arrivati da tutta Italia per sostenere la prova di lingua del concorso per il reclutamento del personale docente e Ata destinato agli istituti scolastici stranieri. Al bando, gestito dall'agenzia Formez per il ministero degli Esteri, hanno partecipato oltre 36mila persone da tutta Italia. Ma qualcosa è andato storto: "Quando ci hanno presentato la prova -- ha raccontato la concorrente Loredana Tonni -- ci siamo accorti che era una presa in giro: ognuno di noi doveva rispondere ai 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto -- conclude -- nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre". Fatti i conti: rispondere a ogni quesito in poco più di un minuto. La protesta dei partecipanti si è fatta subito sentire. La commissione è stata subissata di lamentele. A quel punto sono state chiamate le forze dell'ordine. Il presidente della commissione di concorso ha deciso così di sospendere la prova, assicurando "che la prova stessa si ripeterà entro questa sera con gli stessi quesiti, come se nulla fosse successo". "Le modalità di questo concorso sono fuori da ogni legalità -- ha aggiunto Tonni -- chi è entrato a sostenere la prima prova conosce già tutti i quesiti delle successive e può preparare l'esame all'esterno consultando il volume che la commissione ha permesso di portare con sé". Intanto nelle caselle di posta dei giornali, arrivano decine di mail, molte con questo contenuto: "Il concorso è da annullare, siamo stati presi in giro, abbiamo studiato mesi per la selezione". Intanto alle 19 di questa sera è previsto che ricomincino le prove, anche se numerose sono le proteste di chi chiede che venga tutto annullato, anche perché i partecipanti in nessun modo possono portare all'esterno testi siglati dal Formez che hanno a che fare con i quiz e più di qualcuno giura di aver visto persone sottrarre i libri, tanto che alcuni di questi sono stati ritrovati abbandonati all'esterno della sala d'esame. Il concorso prosegue con ritardi e lamentele. Si sono svolte nel tardo pomeriggio le prove di tedesco e di inglese, durante le quali una nuova commissione di esame ha annunciato ai partecipanti che le prove di francese e di spagnolo sono state spostate a martedì 6 dicembre. I protestanti hanno alzato nuovamente la voce ma non è stato proclamato alcun annullamento: "Membri della commissione -- racconta una partecipante -- mi hanno detto che il ragazzo che stamani ha dato vita alla contestazione è stato denunciato insieme ad altre persone".

PARLIAMO DI INSEGNANTI DI SOSTEGNO AI DISABILI.

Un'inchiesta sul Corriere della Sera di Gian Antonio Stella si intitola "La fabbrica delle cattedre al Sud con i «furbetti del sostegnino».

In quindici anni i docenti per i ragazzi con difficoltà sono triplicati.

«Vogliamo più disabili!». L’invocazione surreale che spinse un gruppo di precari ad assediare il Provveditorato di Caserta chiedendo un aumento degli insegnanti di sostegno appare esaudita: la crescita dei portatori di handicap è dieci volte superiore a quella degli studenti. Una notizia da brividi se non ci fosse un sospetto. Che l’impennata sia dovuta alla scoperta da parte di chi aspira alla cattedra di un’equazione: più handicappati, più assunzioni. Soprattutto nel Mezzogiorno.

La clamorosa denuncia è contenuta in un dossier di Tuttoscuola.

«Nell'anno scolastico 2009-10 gli alunni disabili inseriti nelle scuole statali di ogni ordine e grado hanno superato le 181 mila unità (il 2,3% della popolazione studentesca), con un incremento di oltre 5 mila rispetto all'anno precedente», scrive la rivista diretta da Giovanni Vinciguerra. Peggio: «Negli ultimi cinque anni sono aumentati del 12,3%, mentre nello stesso periodo la popolazione scolastica aumentava dell'1,2». Un decimo. Sgomberiamo subito il campo: quello dei portatori di handicap, come dimostra tra gli altri il libro di Matteo Schianchi, "La terza nazione del mondo — I disabili tra pregiudizio e realtà", è un tema serissimo. Che toglie il sonno ai genitori dei ragazzi affetti da qualche disabilità, costretti ad affrontare il percorso scolastico troppo spesso senza un'assistenza adeguata.

Proprio perché il problema esiste, però, suona offensivo il modo in cui alcuni ne approfittano. Come accadde tempo fa ad Agrigento, dove il Circolo della legalità mandò una lettera al ministero sottoscritta da 550 addetti e un esposto alla Finanza per denunciare l'abuso della legge 104. Legge che, a tutela dei dipendenti che abbiano invalidità superiori a un certo limite o debbano farsi carico di un parente disabile, dice che hanno la precedenza in graduatoria per avere un posto più vicino a casa. Norma giusta. Ma utilizzata, stando alla denuncia, da troppi furbi: «Praticamente il 100% dei posti nelle "materne" è stato assegnato negli ultimi tempi grazie alla legge 104. C'è una dilagante e prepotente disonestà che coinvolge non solo chi usufruisce dei benefici della Legge, ma anche chi consente queste pratiche fraudolente». Di più: «Il sistema sta dilagando». Dice oggi il dossier Tuttoscuola che «nel 1995-96, con una popolazione scolastica complessiva superiore a quella attuale, gli alunni con disabilità erano 108 mila. In quindici anni sono aumentati di quasi il 70%. I docenti di sostegno, che in quell'anno erano 35 mila, sono diventati ora più di 90 mila». Quasi il triplo: «Allora vi era un docente di sostegno ogni tre alunni disabili; oggi c'è un docente ogni due». Sia chiaro: è bene che i ragazzi più sfortunati vengano aiutati. E sotto questo profilo la legge italiana è migliore di tante altre al mondo. E lo riconosce anche la rivista di Vinciguerra: «È cresciuto molto negli ultimi 10-15 anni lo sforzo dello Stato verso un settore che sotto molti aspetti rappresenta un fiore all'occhiello» della nostra scuola.

Ormai «l'Italia investe circa 3 miliardi di euro l'anno solo per il personale di sostegno». E quell'esercito di 90 mila insegnanti specializzati è maggiore più di tutti gli psicologi (70 mila) e i pediatri (14 mila) messi insieme. Che ci sia qualcosa che non va lo dice la mappa, da cui emergono squilibri sorprendenti»: «Ci sono più studenti disabili al Centro e nel Nord Ovest, ma lo Stato destina gli insegnanti di sostegno (a tempo indeterminato o precari) soprattutto al Sud e nelle Isole. E tra questi offre posti stabili (immissioni in ruolo a tempo indeterminato) molto di più proprio al Sud e nelle Isole che nel resto del Paese: il 52% dei posti fissi sono assegnati infatti nel Meridione». Dove vive circa il 27% degli italiani e dove risultano (sulla carta) il 40% degli alunni bisognosi di un appoggio. Dice la legge che ogni 100 insegnanti di sostegno 70 devono essere stabili ma questa percentuale sale all'89% in Campania e in Sardegna e crolla al 56% in Lombardia e in Veneto, si impenna al 91% in Basilicata e precipita al 55% in Emilia Romagna. Perché differenze così abissali? Tuttoscuola risponde che dipende «probabilmente in buona misura dai diversi criteri utilizzati dalle Asl per la valutazione delle disabilità» e questo nonostante «la legge richieda l'utilizzo dei parametri internazionali dell'Organizzazione Mondiale per la Sanità: e non a caso la manovra finanziaria di inizio estate ha introdotto la responsabilità per danno erariale da parte dei medici preposti». Quanto al «numero di docenti di sostegno e, tra questi, di quanti sono assunti stabilmente, si tratta di decisioni prese dal Ministero dell'istruzione».

Di più: la sproporzione negli ultimi anni «si è accentuata». La spiegazione è una sola: c'è qualcuno negli uffici assai disponibile a fare piacerini agli amici e agli amici degli amici. C'è chi dirà che anche qui si tratta di un «risarcimento» al Mezzogiorno, come lo chiamava Mastella. Ma che c'entra il riscatto del Sud coi «furbetti del sostegnino»? Spiega il dossier che il posto d'insegnante di sostegno è in realtà una scorciatoia, tanto più in questi tempi di magra e di riduzione del personale, per la conquista della cattedra a vita. Basti dire che «dei 10 mila posti di docente per le nuove immissioni in ruolo 2010-11, più della metà (5.022) sono per posti di sostegno». Posti che dopo 5 anni, una volta guadagnata l'assunzione, si possono abbandonare per «passare all'insegnamento tradizionale». Ma come si diventa insegnanti di sostegno? Penserete: chissà quanti studi! No: basta frequentare «un semestre aggiuntivo all'università, per 400 ore totali. E non sempre la preparazione è all'altezza: per gli alunni con disabilità visiva, ad esempio, non è raro imbattersi in docenti di sostegno che non conoscono l'uso del Braille, la scrittura per ciechi».

BIDELLOPOLI E SUPPLENTOPOLI

L'Italia è il Paese della ''pubblica distruzione'', dove ci sono più bidelli nelle scuole che carabinieri per le strade a garantire la sicurezza dei cittadini. ''Uno scandalo'' denunciato dal quotidiano ''Libero'', che il 23 settembre 2008 ha pubblicato un'inchiesta sul personale non docente e docente delle scuole italiane, riferendo gli ultimi dati Ocse che sottolineano come ''in Italia c'è un insegnante ogni undici alunni. In Gran Bretagna ne hanno uno ogni venti. La media europea è uno ogni sedici''.

''Sono 167mila i non docenti degli istituti italiani, mentre gli agenti dell'Arma non arrivano a 118 mila. Sono 15,6 bidelli per scuola materna o elementare, praticamente 2,2 per classe''.

Citando i dati di ''Tuttoscuola'', del Ministero dell'Istruzione e i dati di  ''Education at a Glance'', Ocse 2008, il quotidiano sottolinea che in Italia, nelle scuole, sono impiegati 167.000 bidelli per 7.751.356 alunni, mentre i Carabinieri in servizio nel nostro Paese, inclusi quelli impegnati nelle missioni all'estero, sono solo 118.000, ben 49.000 in meno dei bidelli.

''Il costo complessivo di questi 'collaboratori scolastici' (la qualifica politicamente corretta) è - scrive il quotidiano di Feltri - di 4 miliardi di euro l'anno. Il 60% sono di 'ruolo', quanto dire super garantiti. E questo dopo una riduzione senza la quale nei prossimi cinque anni la spesa sarebbe salita a 20 miliardi''.

E tra gli sprechi citati da Libero anche ''i 60 milioni di euro che ogni anno si spendono per telefonate e telegrammi per convocare supplenti che, residenti su tutto il territorio nazionale spesso rifiutano''.

Non è tutto. Dopo quelle di Torino, anche a Napoli si scoprono graduatorie scolastiche truccate e manomesse per vie informatiche e - di conseguenza - supplenze, nomine e immissioni in ruolo del tutto arbitrarie. Qualcuno, dotato della password necessaria, è entrato nel sistema del Provveditorato e ha modificato il file relativo.

Trecento, forse quattrocento tra insegnanti e bidelli, potrebbero non essere in regola.

La traccia del fenomeno è in una lettera-denuncia del segretario regionale della Cisl scuola, Vincenzo Brancaccio, al suo leader nazionale Francesco Scrima, «Caro segretario - dice la missiva del 12 maggio 2008  - sono costretto a chiederti un intervento urgente presso la Signora Ministro della Pubblica Istruzione per ripristinare legalità e certezza del diritto nella scuola campana. Sarai stato certamente informato sulle graduatorie falsate dei collaboratori scolastici (bidelli - ndr) dell'ufficio scolastico di Torino, secondo gli articoli apparsi su "La Stampa"  del 7 maggio 2008 - ricorda Brancaccio - Bene: in Campania la situazione è drasticamente più grave».

Liste manomesse

Nella provincia di Napoli, per esempio - secondo l’ipotesi su cui sta lavorando la magistratura allertata dall’Ufficio scolastico regionale - le graduatorie truccate sarebbero tre. O, almeno, tre sarebbero quelle su cui sono state rilevate delle manomissioni ma, forse, il fenomeno potrebbe essere ben più esteso e riguardare anche altre province. Occorre ricordare che, per sanare una volta per tutte il fenomeno del precariato e iniziare un nuovo sistema di reclutamento del personale, le graduatorie della scuola sono «ad esaurimento», e quindi bloccate da sette anni. Eventuali novità nei nomi o modifiche dei dati, quindi, sono facilmente rilevabili, anche se comportano l’oneroso lavoro di monitorare circa 90 mila nomi. Tuttavia le magagne sono venute a galla.

La prima, nella provincia di Napoli, ha riguardato i docenti inseriti negli elenchi delle «abilitazioni speciali». Spieghiamo: l’abilitazione all’insegnamento, oggi, si può ottenere in due modi: o frequentando le Siss (le scuole biennali di specializzazione) oppure dimostrando di aver insegnato per almeno 360 giorni nella scuola statale. Questo secondo canale consente l'immissione nella graduatoria definita, per l’appunto, delle «abilitazioni speciali».

I professori

Alcune denunce hanno consentito di rilevare che, all’interno di questa graduatoria, che costituisce un trampolino di lancio nell’insegnamento di ruolo, sono stati inseriti dei nomi di persone che non ne avrebbero avuto titolo e che avrebbero fornito «false certificazioni». Si parla di «decine» di nomi, ma il materiale ancora da esaminare è sterminato. Per intanto la Guardia di Finanza ha sequestrato gli atti.

Secondo filone. Nelle graduatorie della scuola d’infanzia ed elementare è stato appurato che «almeno» 42 docenti avrebbero visto il proprio punteggio lievitare repentinamente, da un minimo di otto a un massimo di 64 punti, come dire che a qualche docente sono stati attribuiti cinque anni di lavoro in più. L’esame della graduatoria non è ancora concluso e altri nomi potrebbero emergere.

La madre di tutte le truffe

E poi c’è la madre di tutte le truffe: la «bidellopoli» che, dopo quella torinese, ora è in salsa napoletana. Centinaia (il numero è in continuo aumento e non ancora definitivo) sarebbero gli aspiranti bidelli catapultati in graduatoria «non avendone neppure i titoli», cioè mancando perfino della licenza media. Anche qui ci sarebbero false certificazioni prodotte da diplomifici privati o da sedicenti scuole paritarie.

PARLIAMO DEL CONCORSO PER IL CORPO FORESTALE.

E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

PARLIAMO DEL CONCORSO AL MINISTERO DELLA DIFESA.

E ancora lo scandalo al Ministero della Difesa. Esami truccati e favoritissimi: l'inchiesta interna voluta da La Russa e pubblicata da "Il Giornale" il 9 agosto 2010 smaschera il sistema per assumere i parenti. I raccomandati ricevevano le risposte ai quesiti prima degli esaminatori. Coinvolti diversi funzionari ma anche alcuni direttori generali. La Difesa innanzitutto. Sì, soprattutto quella di figli, figlie, zie, nipoti e nuore, che al giorno d’oggi un lavoro debbono pur averlo. Tutti affettuosamente insieme sotto il tetto del ministero della Difesa, grazie ad un sistema di favori incrociati degno di una cricca: tu promuovi mio figlio al concorso X, io faccio passare il tuo al concorso Y, mia moglie viene promossa al concorso X e poi io faccio assumere tuo nipote nel bando Z. E così alla fine, tra una spintarella qui e un aiutino ricambiato di lì, la somma è questa: 18 tra figli e figlie, due nipoti, una nuora, quattro mogli e un fratello, tutti assunti o in procinto di esserlo in quanto vincitori di concorsi presso l’amministrazione civile della Difesa. Il meccanismo, degno di una commedia all’italiana se non ci fosse di mezzo la legge, è raccontato nei particolari da una relazione riservata a cui il Giornale ha avuto accesso. Il documento è frutto del lavoro di una commissione d’inchiesta istituita dal ministro della Difesa Ignazio La Russa nel novembre dell’anno scorso, dopo una segnalazione anonima ma ben informata che raccontava una serie di «favoritismi e irregolarità incrociate» in altrettanti concorsi banditi dall’Amministrazione civile della Difesa tra il 2005 e il 2008. La commissione d’inchiesta convocata da La Russa si è messa allora all’opera, raccogliendo una cinquantina di scatoloni contenenti tutti gli atti e i documenti relativi ai concorsi degli anni sospetti.

Concludendo poi amaramente che «in caso di relazioni di parentela tra candidati e componenti di commissioni esaminatrici di altri concorsi e tra candidati e dipendenti dell’Amministrazione civile della Difesa» si è accertato che «tali candidati sono quasi sempre risultati non solo idonei ma anche vincitori di concorso», benché alcuni non ancora assunti per ragioni formali. Miracoli dell’amore parentale. Sì ma anche gravi irregolarità di cui si sono resi protagonisti tra l’altro non personaggi esterni o seconde file del ministero, ma direttori generali, dirigenti di prima e seconda fascia, al minimo funzionari. Insomma le alte sfere della Direzione generale per il personale civile (Persociv) e della Direzione generale delle pensioni militari (Previmil), che avevano escogitato questo semplice trucco per sistemare al ministero i loro parenti. Siccome la legge vieta che nelle commissioni esaminatrici dei concorsi pubblici possa sedere un parente fino al quarto grado di un candidato, mentre lascia alla coscienza personale la valutazione dei casi in cui si esaminano figli di colleghi, per aiutare il bravo figliolo o il solerte nipote ad avere un posto al ministero l’unica è di darsi una mano a vicenda, tanto una mano poi lava l’altra. Così, grazie all’intervento del più alto in grado, che disponeva in totale autonomia circa la nomina dei commissari d’esame, a presiedere una commissione per l’esame di vari candidati tra cui un parente del dirigente X, veniva indicato un dirigente Y il quale poi, guarda il caso, aveva un proprio parente come candidato in un altro concorso e, sempre per casualità, come presidente di quella commissione proprio il dirigente X, che in precedenza aveva avuto il proprio parente promosso dal dirigente Y. Uno di favori, ma su scala molto ampia, che coinvolge una ventina di alti dirigenti dell’amministrazione della Difesa, quasi tutti ancora al loro posto, insieme ai parenti assunti, finché la magistratura non deciderà altrimenti. La relazione è stata infatti portata all’attenzione della Procura di Roma, a cui già erano stati segnalati alcuni evidenti casi di irregolarità riscontrate negli atti delle prove d’esame. Perché, per far assumere figli, mogli e nipoti, non era sufficiente la presenza di un presidente di Commissione amico, e in più una selezione di commissari ben disposti. Spesso era necessario un aiutino in più. Così, nel documento dell’organismo ispettivo, si racconta di candidati che sapevano la soluzione della prova orale prima che il quesito gli fosse stato posto. Poi, «relativamente a cinque candidati, gli elaborati delle due prove scritte sono stati redatti con grafia apparentemente diversa». In un altro caso invece si è scoperto che la Commissione aveva attribuito un bel voto ad un compito scritto, però mai consegnato dal candidato. Un’altra volta ancora, un candidato dal cognome giusto si è visto attribuire un punteggio per una risposta scritta che non aveva mai compilato (a cui toccherebbe quindi un bello zero). In un altro caso la risposta orale di una candidata era l’esatta fotocopia (nei contenuti e nell’ordine logico) della «soluzione d’ufficio» compilata dalla Commissione. Che qualcuno gliel’abbia allungata prima dell’esame? Chissà, ma è molto probabile. In ogni caso, poi, il voto della Commissione esaminatrice (quella composta dagli amici) era superiore al voto dato dall’esperto nominato dal ministero (una sorta di giudice terzo). E qui, guarda caso, molto spesso la differenza tra i due voti era esattamente la cifra sufficiente per non far escludere il candidato dal concorso. Oppure, il voto dei commissari era superiore rispetto a quello dell’esperto addirittura di 24 punti (che è come passare dall’insufficienza all’ottimo). Le promozioni, anche. Quando si aiutano i figli o i fratelli giusti, stranamente arrivano con grande rapidità. Così è successo ad un dipendente della Direzione pensioni militari, messo a presiedere una commissione d’esame in cui siedeva il figlio del suo direttore generale. Ebbene, durante le fasi del concorso, il bravo dipendente ha avuto casualmente «una promozione ad un incarico di livello retribuivo superiore». Il record di «parentaggine» spetta però ad un concorso a 60 posti per Operatore di amministrazione, svolto tra il 2006 e il 2007. Presidente, il dott. Gianfranco C., capo del VI reparto di Persociv, padre di Eleonora C, già vincitrice di un concorso, e zio di Alessandro C., già vincitore di un altro concorso.

Segretario di quella commissione, il signor Francesco P., funzionario in servizio all’Arsenale militare, padre di Annalisa P., già vincitrice di concorso, e di Alberto P., anche lui già assunto dopo concorso. In quel concorso, con siffatta commissione, sono stati assunti tre figli e una nuora di altrettanti dirigenti e illustri colleghi. Che si aggiungono a tutti gli altri già introdotti tramite «concorso famigliare». Quando si dice la Difesa.

INCHIESTA ESCLUSIVA. PARLIAMO DELLE RIFORME CHE NESSUNO VUOLE.

LIBERALIZZAZIONI FARLOCCHE E TUTELA DI CASTE E LOBBIES.

ELETTORI. ATTENTI AL TRUCCO. ALZATE LA TESTA.

Tra liste bloccate per amici e parenti e boutade elettorali, ogni nuova tornata elettorale, come sempre, non promette niente di nuovo: ergo, niente di buono. I vecchi tromboni, nelle idee più che nell’età, minacciano il nostro futuro - dice il dr Antonio Giangrande, scrittore dissidente e presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie ( www.controtuttelemafie.it ) - Nomi e numeri: al 15 agosto 2012 il parlamentare con maggiore permanenza (40 anni) alla Camera è Giorgio La Malfa, ex ministro negli anni 80, tra i leader del Partito Repubblicano, di cui suo padre Ugo è stato uno storico dirigente: il suo debutto da onorevole risale al 1972. Al secondo posto Mario Tassone, (Udc) deputato da 34 anni e 14 giorni. Quindi Francesco Colucci (PdL) 33 anni e 34 giorni. Al quarto posto, appaiati, due "big" della scena politica nazionale: i presidenti della Camera Gianfranco Fini (Fli) e il leader Udc Pier Ferdinando Casini, entrambi con 29 anni e 32 giorni. ln Senato è il presidente della Commissione Antimafia Beppe Pisanu ad essere saldamente al primo posto: 38 anni e 128 giorni per lui. Il secondo, Altero Matteoli del Pdl, è staccato di ben 9 anni, come il collega di partito Filippo Berselli. La presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro è all'ottavo posto con 25 anni e 42 giorni, più di Emma Bonino (21 anni e 90 giorni), ma soprattutto più di Franco Marini: 20 anni e 111 giorni. Maurizio Gasparri e i leghisti Roberto Calderoli e Roberto Castelli sono parlamentari da 20 anni. E Pedica? Lui, che ha fatto le pulci ai suoi colleghi, stilando la classifica dei vecchi, non lo scrive ma, eletto la prima volta alla Camera il 6 giugno 2006 (ora è al Senato), finora ha trascorso da onorevole 6 anni e 71 giorni.

Paolo Del Debbio che su Rete 4 ha condotto la prima puntata di Quinta Colonna in risposta ai cittadini in esterna a Roma che dicevano che i politici erano tutti uguali e che dovevano andare a casa ha risposto: “ma li vota la gente, li votate voi”. Bene. Questi giornalisti pagati dalla politica e dall’economia se nei loro salotti, anziché ospitare le solite litanie di vecchi tromboni con idee vetuste sulla società, invitassero qualcuno con idee innovative, forse sì che si farebbero le riforme.

RIFORME VERE, NON ARTEFATTE E MILLANTATORIE.

Per esempio vi ricordate delle liberalizzazioni di Bersani? Dopo due decenni alla voce carburanti i rincari più pesanti: +170%. Ma anche l'assicurazione non scherza: i costi sono triplicati.

Per esempio sui concorsi pubblici a 13 anni dall'ultima selezione per esami e titoli - che si è svolta in ambito regionale soltanto per alcune classi di concorso - e dopo 22 anni da quella precedente, ancora valida per le materie d'insegnamento con le graduatorie più affollate, è facile immaginare che le persone interessate al concorso di insegnante sono davvero parecchie. La dichiarazione più autorevole è quella dello stesso Ministro dell’Istruzione Francesco Profumo che parla di concorso destinato a coloro che sono già abilitati. In questo caso potrebbero partecipare tutti gli inclusi nelle graduatorie ad esaurimento dei precari e tutti coloro che, pur non essendo inclusi in queste liste, si sono abilitati attraverso i precedenti concorsi a cattedre. Insomma, chi lo dice ai candidati che questo non è un concorso, ma una sanatoria al precariato.

Ora parliamo delle riforme forensi ed in particolar modo di accesso alla professione. Tralasciando le innumerevoli interrogazioni parlamentari che denunciano le anomalie e l’irregolarità di un concorso che tutti sanno essere truccato ed impunito, passiamo all’analisi politica dell’approccio al problema. Con l’avvento di Berlusconi con le sue abbindolanti promesse di libertà si ebbe l’illusione che l’Italia delle professioni stesse per cambiare.

L’on. Luca Volontè, (UDC) alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Propose il doppio binario di abilitazione: esame ed al suo superamento l’abilitazione ovvero patrocinio legale di 6 anni ed al termine l’abilitazione. Nel 2003 (Legge 180, conv. Dl 112) si è partorito dalla mente geniale dei leghisti l’obbrobrio della pseudo riforma razzista dei compiti itineranti. Il 12 luglio 2011 sulla strada dell’approvazione della finanziaria il governo ha vissuto una giornata incandescente. Questa volta non si è trattato di proteste dell’opposizione o di leggi ad personam del premier. Il caso è esploso all’interno del Popolo della libertà. Perché diversi esponenti del partito hanno alzato le barricate contro una norma sulla liberalizzazione degli ordini professionali. Dopo una raccolta di firme di parlamentari del Pdl, è arrivata la retromarcia dell’esecutivo, con il ministro per i Rapporti con le Regioni Raffaele Fitto che ha spiegato: “E’ stata raggiunta l’intesa tra maggioranza e governo sull’emendamento relativo alla liberalizzazione delle professioni”. L’annuncio dopo un incontro tra il presidente del Senato Renato Schifani, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e altri membri del governo. Nella nuova versione della norma dovrebbe esserci una distinzione tra gli ordini professionali che sostengono l’esame di Stato e quelli che non lo sostengono. Il governo ha concesso le modifiche all’emendamento dopo che 22 senatori del Pdl avevano inviato una lettera ai presidenti del Senato, del gruppo Pdl e della Commissione Bilancio di Palazzo Madama per esprimere la loro netta opposizione alla liberalizzazione degli ordini professionali. E dopo che all’interno del partito era iniziata una raccolta di firme. Tra gli ordini colpiti ci sarebbe stato quello degli avvocati: secondo il disegno del governo per esercitare la professione di avvocato in futuro sarebbe stato sufficiente avere conseguito la laurea e avere svolto il praticantato. “Fino a quando non verrà tolta la norma che abolisce gli ordini professionali, noi il testo – assicurava un avvocato del Pdl – non la voteremo mai dovesse anche cadere Tremonti”. Gli avvocati del Pdl sono 44, 13 i medici, un solo notaio. A difesa della posizione degli avvocati del Pdl, si era schierato forse il più noto tra loro: Ignazio La Russa. “Da avvocato ritengo che sia una norma che merita un approfondimento ulteriore. Non mi sembra materia da inserire in un decreto. Ritengo che la protesta degli avvocati – conclude La Russa – non sia affatto irragionevole”. Un’altra presa di posiziona, che rende l’idea del caos nel partito, è stata quella del capogruppo al Senato Maurizio Gasparri, secondo il quale il tema dell’abolizione degli ordini professionali “non sussiste. La formulazione del tema è già superata. Molti reagiscono a un testo che non c’è. Comunque ne stiamo parlando”.

Da qui si è capito che il centro-destra vuol tutelare gli ordini, quindi le lobbies. Da loro non arriveranno mai riforme. Della serie: i raccomandati alla riscossa.

Conosciute le pubbliche virtù del centro destra, si sperava nel centro sinistra, che a parole sono contro i poteri forti. L’On. Mario Lettieri (Margherita) presenta alla Camera una proposta di legge, n. 4048/03, contro gli abusi a danno dei Praticanti Avvocato, prevedendo la remunerazione per gli stessi e l’abolizione dell’esame. I Democratici di Sinistra, invece, chiedono un accesso alla professioni forense più rigoroso - si parla addirittura di concorso, non di esame di abilitazione - si schierano contro l'abolizione delle tariffe minime e massime che favorirebbero i Giovani Avvocati ed i praticanti abilitati e ripropongono quell'aberrazione rappresentata delle scuole di formazione forensi e post-universitarie a pagamento ed obbligatorie per potere sostenere l'esame forense.

Relazione introduttiva di Massimo Brutti (Responsabile DS Giustizia). Dal Convegno "Giustizia: voltare pagina; Il contributo dei Ds a un nuovo programma di governo" (30 giugno 2005) [.............] L'accesso alla professione va reso maggiormente selettivo e il concorso (nazionale o decentrato in più sedi, ma non certo presso ogni distretto) deve rappresentare il compimento di un complesso percorso di professionalizzazione, a cui dovrebbero contribuire Università, scuole comuni di formazione e scuole forensi.[.............]

Non basta: dello stesso parere il Senatore Guido Calvi DS che nello stesso convegno si è scagliato anche contro il numero eccessivo e patologico di avvocati e contro l'esame troppo facile.

La Proposta dei DS sulla Giustizia. 2 Novembre 2005. Commissione progetto DS. Area Istituzioni e Pubblica amministrazione. Le politiche istituzionali...............D’altro canto, gli abnormi numeri dell’avvocatura italiana (quasi 160.000 avvocati) ci dicono che il problema non è affatto, come per altre professioni, quello di una maggiore apertura alla concorrenza, ma di come garantire l’indipendenza, la professionalità e la responsabilità di professionisti così decisivi per la tutela di diritti primari dei cittadini..............La professionalità deve essere assicurata sia attraverso una maggiore selezione all’accesso, sia attraverso verifiche periodiche. In proposito, possibili strade appaiono: a) una selezione di merito nell’accesso a scuole post-universitarie obbligatorie e al tirocinio, ...............Proponiamo una liberalizzazione delle tariffe relative alle consulenze ed alle attività extra-giudiziarie............... (quindi non abolizione di quelle giudiziali che più interessano ai praticanti abilitati ed ai Giovani Avvocati).

Relazione di Massimo Brutti alla conferenza nazionale dei DS. 13 Gennaio 2006. Giustizia uguale per tutti e tutela dei diritti................. Numeri: quasi 160.000 avvocati. Il problema non è affatto, come per altre professioni, quello di una maggiore apertura alla concorrenza,................La professionalità deve essere assicurata sia attraverso una maggiore selezione all’accesso, sia attraverso verifiche periodiche. In proposito, le vie da seguire sono: a) una selezione di merito nell’accesso a scuole post-universitarie obbligatorie e al tirocinio pratico,.................
Proponiamo una liberalizzazione delle tariffe limitatamente alle consulenze ed alle attività extra-giudiziarie........

Donatella Ferranti, capogruppo dei democratici in Commissione Giustizia, in riferimento al ritardo nel 2011, lamentato dall’avvocatura, nell’esame del disegno di legge di riforma dell’ordine forense, sottolineava come “l’avvocatura necessiti di un ordinamento nuovo, volto alla verifica degli accessi, a garanzia della qualità e della professionalità”.

La senatrice Donatella Poretti, PD (in realtà Radicale) ha presentato in parlamento il ddl S.2994. Annunciato nella seduta pom. n. 632 del 26 ottobre 2011. L’«uovo di Colombo» – capace di aumentare, e di non poco, le entrate dello Stato – è quello di eliminare il limite di sei anni: si verrebbe così a creare una figura intermedia di professionista, il patrocinatore legale, che aprirebbe le porte al mondo del lavoro a circa 30.000 giovani, senza contrastare l’articolo 33 della Costituzione. Il patrocinatore legale potrebbe quindi decidere se rimanere tale (con limiti di materia e territorio) ovvero tentare, senza assilli, la strada che lo abiliti al pieno esercizio della professione. Se solo i 30.000 patrocinatori legali che si verrebbero così a creare versassero allo Stato la media di euro 1.000 annue, l’Italia incasserebbe 30.000.000 di euro in più, a partire da subito. Altra positiva innovazione che si propone, è che, sempre in campo forense, finito il tirocinio, risultino abilitati ipso iure i diplomati post-laurea alla scuola di specializzazione per le professioni legali istituita secondo quanto previsto dall’articolo 17, commi 113 e 114, della legge 15 maggio 1997, n. 127, e dall’articolo 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, emanato in base alla delega conferita dal citato articolo 17, comma 113: l’ingresso in detta scuola è a numero programmato, è biennale e sono previsti tirocini. Si consideri infatti che il diploma (attualmente) esonera da un anno di pratica forense.

Alla luce di questa proposta si deve sapere che i progetti e le proposte di legge ogni fine legislatura decadono, quindi sono poco credibili quelle presentate artificiosamente nell’imminenza delle nuove elezioni.

Da qui si è capito che anche il centro-sinistra vuol tutelare gli ordini, quindi le lobbies. Da loro non arriveranno mai riforme. Della serie: i raccomandati alla riscossa.

Per dare spazio alla meritocrazia basta eliminare gli Ordini di costituzione fascista. (Ordinamento Forense, regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36). Oppure basterebbe togliere gli esami, che si truccano, o fare almeno gli esami per test attitudinali. Tutto il resto è truffa. Così come è stata l’ultima pseudo riforma. Non ci sarà alcuna cancellazione degli ordini professionali: il Consiglio dei ministri si è limitato a riorganizzarli. La questione era aperta da più di un anno, con la Casta fortemente contraria alle liberalizzazioni. Ma dopo i provvedimenti del governo, che non portano a grandi stravolgimenti, alcune categorie professionali lamentano una scarsa attenzione da parte dell’Esecutivo.  Obbligo per i professionisti di stipulare polizze assicurative a tutela del cliente, formazione continua, durata massima del tirocinio a 18 mesi, separazione all’interno degli Ordini fra le funzioni disciplinari e quelli amministrative, sì alla pubblicità informativa: sono i contenuti principali della riforma delle professioni che dopo un lungo percorso è stata approvata lo scorso 3 agosto 2012. Il Dpr “Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali, a norma dell’articolo 3, comma 5, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148” è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 14 agosto ed è in vigore dal giorno successivo. Per alcune norme (es.: obbligo assicurativo e formazione continua) ci sono ancora 12 mesi di tempo. Vediamo in sintesi i principali punti della riforma delle professioni.

Ambito di applicazione. Il regolamento riguarda solo le professioni regolamentate il cui esercizio è consentito a seguito dell’iscrizione a ordini e collegi. Significa che il decreto non riguarda gli iscritti ad albi o elenchi tenuti da amministrazioni pubbliche (precedenti stesure del provvedimento inglobavano invece anche queste professioni).

Tirocinio. L’obbligatorietà del tirocinio, o praticantato, continua a essere stabilita dall’Ordine (ci sono professioni che non prevedono un periodo di praticantato obbligatorio, e questo continuerà ad essere possibile). Per le professioni che prevedono il praticantato, la durata massima è fissata in 18 mesi (quindi gli Ordini che prevedono praticanti più lunghi dovranno uniformarsi). E’ previsto che il tirocinio possa essere svolto, per un periodo massimo di sei mesi, presso enti o professionisti abilitati di altri paesi. Prevista anche la possibilità di effettuare i primi sei mesi di praticantato nel corso dell’ultimo anno di università, oppure dopo la laurea presso una pubblica amministrazione. In entrambi i casi, è necessaria un’apposita convenzione fra Ordine e ministero. Questo non riguarda le professioni sanitarie.

Pubblicità. La pubblicità informativa relativa a esercizio dell’attività, titoli, studio professionale e tariffe è ammessa «con ogni mezzo». Deve essere «veritiera e corretta», non deve violare il segreto professionale, non può essere «equivoca, ingannevole o denigratoria». Le violazioni rappresentano illecito disciplinare.

Assicurazione. E’ una delle novità introdotte dal decreto: il professionista ha l’obbligo di stipulare un’assicurazione per i danni derivanti al cliente dall’esercizio dell’attività professionali, anche relativi a custodia di documenti e valori. L’assicurazione può essere stipulata attraverso convenzioni collettive degli Ordini o degli Enti Previdenziali di categoria. Questa disposizione diventa obbligatoria entro 12 mesi dall’entrata in vigore del decreto, quindi dal 15 agosto 2013. L’obbligo di assicurazione non riguarda i giornalisti. La violazione rappresenta illecito disciplinare.

Formazione continua. Anche questa è una novità introdotta dalla riforma, e per dare il tempo di adeguarsi è previsto che entri in vigore entro 12 mesi: il professionista ha l’obbligo della formazione continua, attraverso corsi di formazione che possono essere organizzati da Ordini e Collegi, associazioni di iscritti all’Albo o altri soggetti autorizzati dagli Ordini. Sono gli Ordini che, entro un anno dal decreto (quindi entro il 15 agosto 2013) dovranno emanare i regolamenti per prevedere modalità è condizioni dell’aggiornamento professionale obbligatorio, requisiti minimi dei corsi, valore dei crediti professionali. Prevista la possibilità di convenzioni con le università.

Procedimenti disciplinari. Viene stabilita l’incompatibilità fra le cariche relative all’esercizio dei poteri disciplinari e quelle amministrative: prevista l’istituzione dei consigli di disciplina territoriali, composti da persone diverse dai consiglieri dell’Ordine.

Ma nel Governo dei tecnici che ha partorito una riforma, che non riforma un bel niente, non vi era quel presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, che diceva: «Sarebbe ora che gli Ordini professionali riconoscessero l'aleatorietà di quegli esami. Si tratta di prove che spesso non premiano il merito. Meglio prevedere percorsi più selettivi all'università e poi un quinto anno che serva da tirocinio o praticantato. E poi subito l'ingresso nel mondo del lavoro».  

Alle prossime elezioni, prima di andare a votare si sappia prima e bene chi vuole veramente riformare questo paese allo sfascio.

Dr Antonio Giangrande

Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia

www.controtuttelemafie.it e www.telewebitalia.eu

099.9708396 – 328.9163996

 

IMMERITOCRAZIA: LO SCAVALCO IMMERITATO

 

INNOCUA RACCOMANDAZIONE

O CONCORSO PUBBLICO TRUCCATO E REATO IMPUNITO?

 

ANTONIO GIANGRANDE: VI SPIEGO COME IN ITALIA SI TRUCCANO I CONCORSI PUBBLICI.

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l'incompetenza e l'imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

IL VADEMECUM DEL CONCORSO PUBBLICO TRUCCATO.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). Spesso le commissioni d'esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d'esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l'età di iscrizione all'albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell'albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell'albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell'albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall'entrata di professionisti più bravi e più competenti».

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l'INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l'Ente.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati, dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina),  ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all'estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutto gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

·            apertura della busta grande contenente gli elaborati;

·            lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

·            correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

·            richiesta di chiarimenti, valutazione dell'elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

·            consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

·            apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

·            redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati "non idonei" e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l'esame di ammissione all'albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un'agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su "Il Giornale". Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l'unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All'improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull'elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di PresidenzaCpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove.

Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente!

Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. Ed ho anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato o assunzione per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui.

E' da vent'anni che studio il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ho fatto. In video http://www.youtube.com/user/CONTROTUTTELEMAFIE ed in testo http://www.controtuttelemafie.it/testimonianze%20concorsi%20pubblici.htm . Se non basta ho scritto un libro, tra i 40, da leggere gratuitamente http://www.controtuttelemafie.it/libro%20concorsi.htm o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non mi rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitarmi, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ho perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: so tutto mi, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. Ripeto. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco. Ho costituito un gruppo facebook per “ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LA LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI", in quanto parlare di liberalizzazione e di purificazione dell’esame di abilitazione o di accesso alle carriere pubbliche solo con i praticanti non porta da nessuna parte. Come sempre.

AVVOCATI DELLO STATO: COL TRUCCO.

Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. E le istituzioni. Beh, loro non fanno nulla, anche perchè sono proprio loro ad essere reclutati con il trucco. Bene. Allora cosa si pensa delle continue cronache di malaffare che danno ragione a colui che denunciando è vittima di ritorsioni. Certo, un episodio del genere non sorprende poi molto in Italia, nazione bella, ricca di cultura e con un patrimonio artistico non indifferente, ma piena di raccomandati e con un nepotismo senza eguali. La giornata del 12 giugno 2012 è stata caratterizzata dall’agitazione al concorso per l’Avvocatura di Stato a Roma, che è stato sospeso. Molti candidati hanno iniziato a protestare, dopo aver constatato che molte persone avevano con sé codici commentati, mentre altri copiavano indisturbati. Tantissimi gridi e fischi in aula, tanto da rendere necessario l’intervento delle forze dell’ordine per riportare la calma. Prova annullata... per proteste. E' successo all'Ergife Palace Hotel di Roma, dove martedì 12 giugno 2012 si è tenuto il concorso per l'avvocatura dello Stato: un migliaio di aspiranti per tre posti da procuratore. Per sedare il parapiglia, scoppiato a causa di presunte irregolarità, sono dovute intervenire le forze dell'ordine... Alcuni partecipanti denunciano: c'è stata poca vigilanza, dei candidati sono entrati con i codici commentati, che non sono ammessi. Già nel 2008 c'era chi puntava il dito contro le irregolarità all'esame da avvocato: rossellaemichela hanno caricato diversi video su YouTube... La cosa che più mi imbestialisce - scrivono - è la presa per i fondelli da parte delle istituzioni e l'omertà di tutti coloro che sanno, vivono certe situazioni e non denunciano per paura di cosa non si sa...

Dal “Corriere della Sera”, l’ennesima prova di come si cooptano i candidati nei concorsi pubblici. Tensioni e proteste al concorso per l'avvocatura di Stato a Roma poi sospeso dalla stessa Commissione. Diversi candidati, dopo l'inizio della prova che si stava svolgendo all'Hotel Ergife, hanno protestato contro «irregolarità nelle procedure e poca vigilanza perché - hanno detto - c'era gente che copiava». Durante le proteste, oltre a fischi e urla, alcuni aspiranti avvocati si sono alzati intonando l'inno di Mameli. Il trambusto ha avuto inizio intorno alle 15.30 ed è andato avanti per un paio d'ore fino a quando non sono intervenuti polizia e carabinieri per sedare gli animi. A detta di alcuni partecipanti dentro l'Ergife diversi candidati sono riusciti a portare codici commentati (vietati) con tanto di timbro dell'avvocatura, altri hanno denunciato di non aver avuto le buste prima della dettatura delle tracce. Così dopo due ore di trattative la commissione ha annullato d'ufficio la procedura. «Al concorso è scoppiata praticamente la rivoluzione, quando si è scoperto che alcuni candidati erano entrati con i codici "commentati", che non sono ammessi: abbiamo cominciato a chiederci quanti altri candidati fossero riusciti ad aggirare i controlli ed è successo il finimondo». A raccontarlo è uno dei partecipanti al concorso. «Il culmine - aggiunge - è stato quando si è scoperto che alcuni candidati, tra cui la figlia di un avvocato dello Stato, il giorno prima erano riusciti a far entrare un codice "commentato". La contestazione è diventata non più arginabile, il presidente non riusciva più a parlare perché costantemente sovrastato dalle proteste e dai candidati che intonavano l'inno di Mameli. È arrivata la polizia che ha iniziato a spingere e strattonare alcuni dei concorsisti, con maniere anche brusche, tanto che viene preso in mezzo pure un disabile. Intorno alle 15.45 - conclude - hanno finalmente deciso di annullare la prova nonostante il presidente avesse dettato una traccia che nessuno era riuscito neppure a sentire». «Già dopo l'identificazione - hanno spiegato alcuni candidati - sui banchi non abbiamo trovato nessuna delle due distinte buste: doveva essercene una con il nome del candidato, l'altra con l'elaborato». Inoltre, mentre la commissione si era ritirata per un'ora a redigere le tracce dei temi, alcuni candidati passeggiavano per i corridoi e addirittura uscivano dalle porte di sicurezza nonostante avessero i sigilli». «Quando - hanno proseguito nel racconto della giornata - dopo un'ora, verso le 13, la commissione è rientrata tra le nostre proteste, ha informato il servizio sicurezza che c'erano circa 200 persone che cercavano di non far proseguire la prova, chiedendo l'annullamento concorso per gravi irregolarità. Ormai quasi nessuno era d'accordo alla prosecuzione e c'erano difficoltà anche per reperire dei volontari tra i candidati per l'estrazione della busta contenente le tracce». L'Avvocato Generale dello Stato, Ignazio Francesco Caramazza, specifica in una nota che la decisione di sospendere ed annullare la prova in corso è stata presa a causa di «gravi disordini inscenati da una minoranza di candidati che protestavano in modo esagitato contro i tempi eccessivi trascorsi prima dell'inizio della prova (tempi in massima parte dovuti all'appello di ben 975 candidati) allegando anche altre pretestuose lamentele». «La prima prova scritta del concorso a tre posti di procuratore dello Stato bandito con D.A.G. in data 23.11.2011 e che avrebbe dovuto svolgersi in Roma nelle sale dell'Hotel Ergife in data 12.6.2012 - è scritto nella nota - è stata sospesa ed annullata dalla Commissione esaminatrice attesi i gravi disordini inscenati da una minoranza di candidati che protestavano in modo esagitato contro i tempi eccessivi trascorsi prima dell'inizio della prova (tempi in massima parte dovuti all'appello di ben 975 candidati) allegando anche altre pretestuose lamentele. Gli stessi impedivano così il regolare svolgimento della prova nonostante l'intervento delle forze dell'ordine. L'Avvocatura dello Stato si riserva di esperire ogni utile azione contro i responsabili che sono stati identificati».

Dello stesso tenore “La Repubblica”. Proteste al concorso degli avvocati. Prova annullata per irregolarità. Durante l'esame per l'avvocatura di Stato all'Hotel Ergife, alcuni candidati si sono alzati in piedi intonando l'inno di Mameli. "C'era gente che copiava". "Una ragazza era in possesso di Codici non ammessi dal bando". E' stata sospesa la prova per l'avvocatura dello Stato tenuta oggi all'Hotel Ergife. L'avvocato Generale dello Stato, Ignazio Francesco Caramazza, ha detto che la decisione di sospendere ed annullare la prova è stata presa a causa di "gravi disordini inscenati da una minoranza di candidati che protestavano in modo esagitato contro i tempi eccessivi trascorsi prima dell'inizio della prova - tempi in massima parte dovuti all'appello di ben 975 candidati - allegando anche altre pretestuose lamentele". Durante l'esame però la tensione c'è stata, e numerose sono state le proteste che sono culminate nella sospensione, ad opera della stessa Commissione. Diversi candidati, dopo l'inizio della prova, in cui erano presenti più di novecento persone, hanno protestato contro "irregolarità nelle procedure e poca vigilanza, perché c'era gente che copiava". Secondo alcuni candidati all'interno dei bagni sarebbero stati trovati dei Codici commentati con i timbri della Commissione. I Codici commentati non erano però ammessi all'interno della struttura e questo ha fatto gridare al concorso truccato. Durante le proteste, oltre a fischi e urla, alcuni aspiranti avvocati si sono alzati intonando l'inno di Mameli. Sul posto sono intervenuti polizia e carabinieri per sedare gli animi. "La situazione era strana fin dall'inizio. All'ingresso non c'erano controlli, mentre di norma si devono depositare i propri effetti personali. Poi, quando sono entrata, sui banchi già c'erano i fogli timbrati. La prova, dal momento in cui sono entrata, alle otto e mezza, è stata sospesa alle tre e mezza" ha detto S. V., una candidata. "Quando hanno estratto la materia d'esame, diritto e procedura civile, è passata un'ora e mezza durante la quale i commissari hanno elaborato la traccia. In quel lasso di tempo ci hanno permesso anche di andare al bagno. Quando hanno finito di elaborarla, è cominciata la distribuzione delle buste. In quel momento si è levato un brusio nelle prime file, un centinaio di persone che protestavano per presunti brogli. Urlavano che le buste andavano distribuite prima" ha continuato. "A un certo punto è stato fatto il nome di una ragazza al megafono, e secondo alcuni candidati, lei era già in possesso del Codice commentato dalla giurisprudenza al posto del Codice semplice. Per bando possono essere ammessi solo alcuni tipi di Codici, non quello che aveva lei - ha terminato la ragazza -. Da lì è scoppiata la rivolta. Il 70 per cento dei candidati era in piedi a cantare l'inno di Mameli ma il presidente ha cominciato a dettare la traccia comunque. Nel delirio più generale, la gente ha cominciare a fare il compito collettivamente. Ho parlato con il servizio d'ordine perché non riuscivo a sentire la traccia ma non hanno potuto fare niente".

CONCORSO TRUCCATO NEL NOTARIATO.

Via i notai! Matteo Renzi si scaglia contro gli interessi costituiti che bloccano la modernizzazione di questo paese, scrive Mino Vianello su “Notizie Radicali”. Gli propongo una sfida: cancellare una delle corporazioni più agguerrite che, proprio perché numericamente piccola ed omogenea per formazione culturale e tecnica, si presenta compatta e in grado d’intervenire efficacemente su tutte le forze politiche. Nessuno finora ha osato attaccarla, pur essendo evidente l’impatto negativo ch’essa ha sulla vita economica del paese: la corporazione dei notai. La scusa ch’essa esiste in diversi altri stati non giustifica la sua sopravvivenza come professione “privata”, a parte la considerazione che le norme che la governano nei paesi dell’Europa continentale (in Gran Bretagna come negli Stati Uniti non esiste proprio) sono ben diverse da quelle che nel nostro paese le consentono di accumulare come forse nessun’altra ricchezza e potere. Le giustificazione da essa addotte ricordano quelle messe avanti da un’altra anomalia italiana: quella della corporazione dei farmacisti, che si richiamano con sfacciataggine unica alla tutela della salute pubblica (quasi che nei paesi anglosassoni, dove la vendita dei farmaci è assimilata alla vendita di qualsiasi altro prodotto, non sia tutelata). Le giustificazioni addotte dai notai si riassumono sostanzialmente in due. La prima riguarderebbe la fiducia cui può abbandonarsi chi, per esempio, compra un immobile, che deriverebbe dall’ imparzialità del notaio, da una preparazione giuridico-fiscale di alto livello a seguito di un concorso severo, dalla sua natura di pubblico ufficiale, che, malgrado si presenti come un privato professionista, lo rende garante della veridicità e della legalità degli atti (senza con questa accorgersi dell’incoerenza d’una commistione, “privato professionista con funzioni di pubblico ufficiale”, da Ancien Régime, cui la Rivoluzione Francese aveva messo fine). La seconda giustificazione che ha dell’incredibile serve a giustificare le tariffe e consiste nel fatto che il notaio, esercitando la sua funzione non da dipendente statale, ma come libero professionista, deve affrontare notevoli spese per assicurare ai clienti rapidità nella predisposizione degli atti e delle formalità richieste e nella loro trasmissione per via telematica ai pubblici registri, per cui deve fare investimenti molto costosi in personale e in strumenti informatici: il tutto, sempre, per dare garanzia di sicurezza e di efficienza al cittadino. Ne consegue che è giusto che si faccia pagare profumatamente. Ovviamente, tra le attività importanti da loro svolte, vengono elencate, oltre alle immancabili successioni, la compra-vendita di beni immobili: case, uffici, terreni, capannoni, navi e automobili (classificati paradossalmente come “beni immobili”, perché forniti d’un tetto!...) e i passaggi più rilevanti relativi alla costituzione di società commerciali. Le obiezioni vengono alle labbra immediate. Perché mai ci sarebbe bisogno d’un servizio che costa fior di quattrini ai contraenti, quando i mezzi oggi a disposizione consentono di collegarsi in tempo reale, per esempio, con gli uffici competenti per accertare l’esistenza d’un’eventuale ipoteca sul bene che si vuole acquistare? Perché un pubblico ufficiale può celebrare un matrimonio e non, invece, ricevere e certificare un testamento? Non può l’acquirente, magari tramite un’agenzia come si fa per i passaporti, provvedere direttamente alla registrazione presso l’Ufficio della Motorizzazione Civile (come avviene, per esempio, negli Stati Uniti)? Perché per avere un conto corrente in banca basta un funzionario della banca stessa, mentre per ottenere un mutuo c’è bisogno d’un notaio? Per accendere l’ipoteca? E’ ovvio che oggi, con i mezzi tecnici di cui disponiamo che riducono al minimo il rischio d’imbrogli, questa funzione può essere espletata dalla banca stessa, sottoponendo l’atto alla convalida d’un pubblico ufficiale così come si fa per la registrazione dei matrimoni. Ci sono certo negozi giuridici che richiedono esperienza, come la costituzione d’una società commerciale: ma perché, in questi casi, non fare ricorso al commercialista o all’avvocato, che poi può provvedere a registrarne l’atto? Vuole Matteo Renzi aiutare i cittadini ad aumentare gli investimenti e i consumi? Ecco un modo semplice per metter a loro disposizione fior di quattrini: perché tutti sappiamo a quanto ammontino le tariffe notarili che, malgrado le tasse versate allo stato e le spese fisse che un’operazione deve affrontare, pesano vistosamente sulle loro borse. Ma non basta. Ciò che fa emergere chiaramente la fisionomia medievale che accomuna questa all’altra corporazione esistente in Italia, quella dei farmacisti, è il numero programmato sul territorio, che assicura ad ambedue una posizione monopolistica, garanzia, oltre che d’una rendita cospicua, d’una posizione feudale che facilita la trasmissione familiare della licenza. Così, nelle grandi città del nostro paese la licenza per una farmacia vale svariati milioni di euro, di cui difficilmente dispone un laureato in farmacia che non provenga da una famiglia facoltosa. E la licenza per uno studio notarile vale incomparabilmente di più. Partirà la lancia in resta il cavaliere senza macchia e senza paura? C’è il dubbio che l’armatura di cui si ricopre sia quella del Cavaliere della Mancha: che alla fine, rivelatasi di latta, gli fece fare brutta figura. Le lobbies sono attive e potenti in tutte le forza politiche. Lo ancora nel nuovo PD come lo erano nel vecchio? O sarà questo disposto a fornirgli altra più robusta corazza?

Parliamo del notariato. Notai, quante strane sviste nel concorso. Svarioni e cantonate, alcune anche molto gravi: ma i candidati sono promossi lo stesso. Sull'esame per entrare nell'Ordine si allungano ombre, scrive Francesca Sironi il 19 dicembre 2016 su “L’Espresso”. È lo sbarramento all’ingresso dell’ultima ambizione di casta. Il passaggio obbligato per l’accesso a una categoria che - seppur lamenti crisi - rimane in testa alle classifiche di reddito, con 200 mila euro all’anno dichiarati in media dai suoi professionisti. È il traguardo di lunghi studi e dura gavetta, ma soprattutto la prova che tributa il ruolo di pubblico ufficiale a chi firmerà atti, registri e documenti sancendone l’autenticità con il sigillo della Repubblica. Sul concorso notarile si addensano quindi molte speranze. Ma ora anche nuove domande. Almeno a leggere quanto rileva una denuncia che ipotizza reati sul bando per 300 nuovi notai indetto nel settembre del 2014 - di cui gli esami scritti si sono svolti l’anno scorso, e gli orali sono andati avanti fino allo scorso 6 dicembre. Dopo aver chiesto l’accesso alle correzioni d’esame, a cui aveva partecipato lei stessa, l’autrice dell’esposto si è trovata tra le mani decine di compiti in parte irregolari, testi redatti con imprecisioni tali, segnala nell’esposto, da renderli nulli secondo la legge in almeno dieci casi, ma a cui sono stati assegnati ugualmente voti sufficienti a traghettare i candidati verso il traguardo della nomina a notai, ormai prossima. Nell’elenco ci sono inciampi evidenti anche per chi non ha dimestichezza con gli strumenti del mestiere - come un atto in cui un sordomuto, «legge ad alta voce» le proprie disposizioni per l’eredità - e altri più tecnici, ma significativi per chi proprio in quella tecnica fa risiedere parte della specificità di un ruolo ancora saldamente nelle mani di meno di cinquemila persone nell’intero paese. Fra gli altri, un candidato sarebbe stato ammesso all’orale pur avendo all’interno del proprio elaborato una pagina scritta a mano con una calligrafia diversa da tutto il resto del suo testo.

Stesso compito, due grafie completamente diverse. L’indagine giudiziaria avviata in seguito alla denuncia è stata chiusa nell’arco di pochi mesi, e i pm della procura di Perugia titolari dell’inchiesta e competenti perché coinvolti otto magistrati romani che fanno parte della commissione, hanno chiesto al gip l’archiviazione. Decisione alla quale si è opposta la denunciante che ha segnalato al giudice, che ancora deve decidere, altri errori presenti negli elaborati. E pure nuovi quesiti sulla validità di giudizi formulati dalla commissione del concorso.

Il concorso notarile è «una delle selezioni più serie e meritocratiche d’Italia», afferma Gianluca Abbate, consigliere nazionale dell’ordine: «Lo monitoriamo perché il numero di professionisti resti limitato». E spiega: «Ci stiamo adeguando alle norme sulla concorrenza che prevedono l’ingresso di altri 800 notai in ruolo attraverso gli ultimi due esami». E aggiunge che vengono selezionati in modo «del tutto imparziale, come ora accade». L’esame per entrare nella ridotta schiera è un test in cui bisogna «dimostrare una perfetta conoscenza delle tecniche redazionali dell’atto pubblico, oltre che della teoria legale», spiegava il notaio Lodovico Genghini ai suoi studenti. «Io stesso la prima volta sono stato bocciato perché avevo dimenticato un formalismo», racconta Ludovico Capuano, ex presidente dei giovani notai: «Certo, non era una questione di contenuto, solo un dettaglio. Ma rendeva il documento invalido nella sua ufficialità. Per cui hanno fatto bene a rimandarmi». Se lo dice lui, che ha rappresentato la categoria al Senato nella discussione per l’ultimo decreto legge sulla concorrenza, è così che andrebbero allora lette le irregolarità evidenziate nella relazione sul bando del 2014. Nella denuncia alla procura di Perugia viene fatto riferimento a oltre dieci elaborati che andrebbero considerati nulli perché inciampano in errori evidenti, si spiega nell’esposto, se confrontati con la legge notarile. E invece hanno ricevuto voti di 35, 37, 38 punti ciascuno, abbastanza da portare i candidati all’orale. Altri 70 presenterebbero insufficienze meno gravi, ma comunque rilevabili.

Il cliente sordomuto "ha dato lettura ad alta voce". Alcune si concentrano sulla traccia con la quale i commissari chiedevano ai duemila partecipanti al concorso di sviluppare le volontà sul testamento di un ricco possidente, un uomo che non aveva la possibilità di udire e parlare. Ed ecco: c’è chi dimentica di citare subito l’interprete, scrivendo che «il comparente dichiara di essere sordomuto e di saper leggere e scrivere»; chi scorda di far sottoscrivere l’atto anche al testimone-traduttore; chi pur spiegando che «d’ora in poi ogni dichiarazione resa e ricevuta dal signor T. s’intende effettuata a mezzo dell’interprete», ci tiene a precisare quella lettura "ad alta voce" nelle battute finali. Altre inesattezze riguardano invece la liquidazione di un patrimonio immobiliare: in diversi compiti mancano, o sono errati, i riferimenti a planimetrie e catasto. Per una «parziale omissione» simile a quella in cui cadono alcuni dei candidati promossi, per dire, un notaio di Roma ha dovuto subire a giugno una sanzione disciplinare da 214 mila euro, per 415 atti zoppi. Formalismi?

Sulla denuncia (rivelatasi così accurata da far riconoscere ai commissari, ad esempio, la trascrizione sbagliata di un voto, che è stato poi corretto al ribasso nel verbale) viene avviata un’indagine. Gli investigatori prendono copia dei compiti. E interrogano il vicepresidente della commissione, un consigliere della corte d’appello, che alle domande sugli errori evidenziati nell’esposto risponde: «Non posso escludere che possano esservi state sviste, o interpretazioni non perfettamente collimanti», ma sulla valutazione delle stesse, dice, andrebbe sentito un notaio, e lui non lo è. L’indagine viene chiusa presto, senza che nessun notaio venga sentito, e viene richiesta l’archiviazione; ora è stata depositata un’opposizione alla decisione della procura. Intanto, i praticanti promossi stanno per diventare effettivi notai. Fra loro non mancano i “figli di” - «questa della casta ereditaria è una leggenda», ribatte, sul tema, il Consiglio dell’Ordine: «L’82 per cento dei notai non è figlio di notaio» - fra i promossi con le presunte irregolarità l’erede di un celebre notaio non manca. Come d’altronde fra gli esaminatori. «È stata una bella esperienza, far parte della commissione, ma mi sono stancata molto», racconta un notaio che faceva parte della squadra dei valutatori. «Siamo stati tutti molto attenti a che non ci fossero pressioni», dice, su eventuali favoritismi. «Sono andata proprio per verificare questo», aggiunge. «Certo, può capitare che qualcuno ce l’abbia fatta e qualcun altro no, pur con lo stesso errore, magari», precisa. «Ma se è successo è stato per stanchezza e per stress: ci hanno messo molta pressione sul far presto. Io sono stata accurata al massimo, ma non sempre alla fine della giornata riesci ad avere la stessa lucidità». Insomma, sarebbe stato solo affaticamento da controllo - in 12 mesi - di mille e trecento elaborati, dice il commissario. Tale da non far riconoscere imprecisioni sulle quali «non c’è spazio interpretativo», secondo la candidata che ha denunciato: «Perché la legge notarile a riguardo è incontrovertibile». Sui forum dei praticanti notai rimbalzano nel frattempo i dubbi di sempre. Tra la frenesia per gli scritti che si sono appena conclusi in vista dell’ingresso di altri 500 notai, l’entusiasmo, gli auguri. E le memorie dei test precedenti.

Un compito con omissione dell'ora di sottoscrizione. «Io c’ero, certo, e chi se lo dimentica», ricorda il giovane notaio Capuano. Il riferimento è al concorso del 2010, quando l’intera platea dei candidati si sollevò perché una delle tracce assegnate ai presenti era simile, troppo simile, a un tema già sottoposto ai propri studenti da una scuola notarile di Roma. Gli scritti vennero sospesi. Le prove ri-assegnate. Polemiche, dibattiti, ricorsi. Poi, più nulla. Di nuovo, nel 2013, un notaio che era stato nominato commissario d’esame venne sostituito dopo un commento su Facebook in cui aveva scritto: «Ne ho già le scatole piene»; aggiungendo: «Però non è che passa così, succede un casino che il tifone delle Filippine è una tenera brezza», e a un ragazzo che gli chiedeva notizie su quei messaggi di rabbia rispondeva: «Bisogna dare le tracce per le teste di c…, io sono di impiccio», e ancora: «Dico solo che deve essere utilizzata una pista da spazzaneve, io non faccio al caso, rompo troppo i c...». Ora nessuno si è esposto in questi termini. Ma quelle sviste, tali da rendere, nella pratica legale, l’atto “nullo”, sviste rilevate ad alcuni, mentre ad altri no, restano indicate nell’esposto. «Occorre distinguere la fortuna dalle scorciatoie», scriveva in Rete un avvocato. A chiedere invece agli interessati cosa dovrebbe cambiare, di questo titanico esame, tutti sollevano in primo piano la questione del limite di tre consegne a persona: ogni aspirante notaio infatti può tentare il concorso, consegnando gli scritti, soltanto tre volte, oltre che prima dei 50 anni. È un modo, spiegano, per selezionare meglio i partecipanti ed evitare correzioni-monstre di elaborati imprecisi: solo l’organizzazione delle abilitazioni forensi e del concorso per notaio nel 2014 è costata al ministero della Giustizia un milione e 500mila euro. Il limite dei tre tentativi andrebbe tolto, però, dice ad esempio il consigliere Abbate, per dare maggiore serenità agli studenti. «Meglio sostituirlo con cinque partecipazioni», commentano i giovani. Mentre il notaio Genghini arriva a proporre la correzione dei compiti in teleconferenza, per non obbligare i singoli commissari a muoversi ogni volta. Ma soprattutto una correzione dei compiti in forma pubblica, accessibile a tutti. Farebbe bene ai notai, dice. E alla trasparenza. 

Il concorso dei notai è sospetto, ma i vincitori entrano in ruolo. Il Gip di Perugia ha invitato la procura ad approfondire le indagini sull'esame nel 2014. Ma nel frattempo tutto è andato avanti come se nulla fosse. Mentre gli aspiranti continuano a chiedere più trasparenza, scrive Francesca Sironi il 26 settembre 2017 su "L'Espresso". Fiducia, e certezze. Sono le due parole chiave che traballano nel rapporto fra cittadini e tribunali, come raccontato dall'inchiesta de l'Espresso del 24 settembre, dedicata ai tempi geologici dei processi e alle contraddizioni del sistema giudiziario italiano, che pur migliorando in diversi aspetti - come la gestione degli arretrati - continua a respingere troppo spesso la domanda di giustizia del paese. Accade anche con i professionisti stessi della certezza, del rigore, della verità formale. Ovvero i notai. In questione c'è ancora il concorso del 2014 per 300 nuovi notai. Dopo l'esposto di una candidata, che attraverso una richiesta di accesso agli atti aveva segnalato infatti decine di sviste e errori nei risultati, a volte tali da rendere nulli atti passati invece fra le prove di persone ammesse all'orale (errori che in altri casi avevano portato a bocciature), si era mossa la procura di Perugia. Con un'indagine contro ignoti finita in brevissimo tempo in una richiesta di archiviazione. All'opposizione dell'aspirante notaio (che nel frattempo aveva constatato molte altre irregolarità), a giugno il giudice per le indagini preliminari aveva chiesto ai pm di approfondire le indagini sui test. Ma in attesa delle nuove mosse della procura, il concorso ha seguito indenne la sua strada. E i 252 nuovi notai promossi, fra cui alcuni di quelli indicati nell'esposto come autori di inciampi grossolani o di pagine dalla grafia tanto diversa da sollevare dubbi sull'attribuzione, sono stati nominati ed entrati di ruolo. Ufficialmente. Come ricordava il sindacato di categoria in una nota di qualche mese fa, il concorso per assumere la funzione da numi dei registri pubblici che i notai difendono come baluardo contro i tentativi di liberalizzazione, non è affatto un gioco. È al contrario uno scoglio su cui gli aspiranti anche più preparati investono dai sei agli otto anni dopo la laurea. Proiettando soldi, tempo e speranze nella fiducia che verrà riconosciuto strettamente il merito nel superare le prove. E combattendo nel frattempo con l'incertezza del calendario - i concorsi andrebbero indetti ogni anno, ma le agende sussultano di solito sui due - e con il limite delle tre consegne - tanto che su 4.000 iscritti all'ultima prova, solo in 1.500 hanno consegnato, per 500 posti. È per tutta questa fatica e queste speranze, oltre che per rispetto del rigore che sarà loro richiesto nella pratica, che sui forum i futuri notai continuano a chiedere maggior trasparenza nello scrutinio delle prove. Oltre che la massima attenzione in caso di dubbi su quella stessa attività di selezione. Come richiede l'esposto sulla prova del 2014. Per restituire fiducia. E certezze.

“Quante stranezze all’esame per diventare notai”. Su Facebook un membro della commissione esaminatrice ha fatto allusioni a presunte irregolarità sul concorso di fine novembre. Lo stesso tipo di prova che, nel 2010, era stata annullata per lo stesso motivo. Così alcuni candidati hanno deciso di segnalare le anomalie in una lettera-denuncia al ministro Cancellieri, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso” il 3 gennaio 2014. “Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, tre indizi fanno una prova”. Senza scomodare Agatha Christie, potrebbero anche essere semplici casualità quelle che si sono verificate nell’ultimo concorso per 250 posti da notaio che si è tenuto a Roma dal 20 al 22 novembre scorso. Destano comunque più di un interrogativo e, soprattutto, tornano a mettere al centro dell’attenzione un esame già al centro delle polemiche nel 2010, quando fu addirittura annullato fra le proteste perché una traccia identica era stata assegnata giorni prima durante un’esercitazione. Adesso, dopo settimane di estenuanti discussioni sui forum, alcuni partecipanti hanno deciso di uscire allo scoperto e hanno inviato una lettera al Guardasigilli Annamaria Cancellieri, alla direzione generale della Giustizia civile del ministero e al Consiglio nazionale del notariato per denunciare quelli che definiscono “episodi molto gravi che devono essere resi pubblici”. E che a breve potrebbero essere oggetto anche di un ricorso al Tar. L’aspetto più controverso, alla base dei sospetti dei candidati, sono i post scritti dal commissario Giuseppe Maiatico, un notaio di Trecate, il giorno precedente la prima prova. “Ne ho già le scatole piene”, scrive il professionista sul suo profilo Facebook la sera del 19 novembre, al termine di una riunione preliminare dei membri della commissione. “Però non è che passa così, succede un casino che il tifone delle Filippine è una tenera brezza”. E ancora: “Incazzato nero, mercoledì, giovedì e venerdì mattina (i giorni degli esami, ndr) mi porto Novella 2000”. Affermazioni pesantissime, che sembrano adombrare l’esistenza di un accordo tale da rendere inutile qualunque controllo per prevenire le irregolarità. Inoltre, come se non bastasse, si tratta di frasi scritte dal commissario sul suo profilo pubblico e quindi visibili a tutti i candidati. I quali non a caso, allarmatissimi, iniziano a chiedere lumi. E a un ragazzo che gli domanda se è incazzato “con la giurisprudenza”, il notaio risponde: “Quella non serve a niente, bisogna dare le tracce per le teste di c…, io sono di impiccio”. Anche in questo caso, si tratta di parole che sembrano alludere esplicitamente alla presenza di raccomandati da privilegiare nella selezione. Ma il commissario non si ferma qui e in una conversazione (anche questa pubblica e visibile a tutti) aggiunge rivolto a chi gli chiede quale sia il problema: “Dico solo che deve essere utilizzata una pista da spazzaneve, rompo troppo i c…”. Parole pesanti come pietre, che spingono Maiatico a cancellare ben presto i post “incriminati”. Troppo tardi in ogni caso: le sue frasi sono ormai girate in rete fra i candidati e alcuni hanno anche fatto in tempo a catturare gli screenshot. Il giorno seguente, quello previsto per l’inizio delle prove scritte, il notaio si dimette per ragioni personali. «Si è creato un dissidio e ho capito che a qualcuno, un commissario in particolare, non faceva piacere che io fossi membri della commissione» conferma il notaio. «Sono stato maltrattato e, visto che non ero una persona gradita, ho preferito andarmene». A quanto risulta all’Espresso, il dissidio sarebbe nato proprio sui criteri in base ai quali assegnare le tracce, ovvero su un principio fondamentale per assicurare l’imparzialità in un concorso. E lo stesso Maiatico avrebbe subito pressioni per rassegnare l’incarico. Le anomalie non si limitano tuttavia ai post su Facebook. Nemmeno uno dei tre compiti sarebbe alieno da ambiguità perché, si legge nella lettera-denuncia, “reca evidenti errori di diritto, rendendone così impossibile la soluzione”. Una circostanza che “ha spinto la maggior parte degli aspiranti notaio a ritirarsi dal concorso” (meno di mille partecipanti hanno consegnato gli elaborati su circa 4 mila partecipanti) e che ha indotto qualcuno a prefigurare proprio la “pista da spazzaneve” citata da Maiatico, pensata per fare strage di candidati in modo da ridurre la selezione. L’ultimo punto interrogativo riguarda invece l’obbligo di inserire anche la brutta copia nella busta del compito. Esattamente il contrario di quanto accade di solito nei concorsi pubblici, dove i fogli “ufficiosi” vengono esclusi dalla consegna per evitare che vi si possano apporre tratti distintivi che consentano di identificare l’autore. Ma allora, fanno notare gli autori della missiva, che senso ha obbligare l’uso di penne con inchiostro nero (“una gravissima imposizione”) per “evitare segni di riconoscimento, dal momento che sulle brutte copie si potrebbe addirittura scrivere il proprio nome e cognome”? In ogni caso, anche se qualcuno avesse scritto con penna blu per rendere il proprio compito riconoscibile, sarà impossibile stabilirlo, come spiega un partecipante al concorso che chiede di mantenere l’anonimato: «Chi non supera la prova può chiedere l’invio di tre elaborati vincenti ma vengono scannerizzati e di fatto è impossibile distinguere il tipo di inchiostro usato». Il Consiglio nazionale del notariato, dove la lettera circola da tempo, preferisce non commentare la vicenda. Una scelta prudenziale dovuta anche al fatto che materialmente è il ministero ad organizzare il concorso. Di certo la diffidenza dei numerosi candidati sentiti dall’Espresso non è peregrina ed è motivata oltre che alla celebre impermeabilità della categoria (al concorso si può partecipare al massimo tre volte) anche da alcuni precedenti. E se l’esame invalidato del 2010 rappresenta il caso-limite, negli anni passati non sono mancati casi in cui la riconoscibilità dei compiti era tutt’altro che impossibile. Per dire, nella sessione svolta a febbraio 2011 (quello ripetuta dopo l’annullamento) uno dei compiti vincitori iniziava addirittura con una citazione tratta dal “Giulio Cesare” di William Shakespeare.

Senza dimenticare la Bufera sul concorso dei notai del 29 ottobre 2010.

Test notarile, candidati in rivolta: "E' una farsa". Dopo lo scandalo che l’anno scorso investì il concorso da magistrato, ora tocca a quello notarile. Nel mirino l'ultima prova sostenuta settimana scorsa obbligando la polizia penitenziaria a intervenire, scrive Andrea Indini, Venerdì 20/03/2009 su "Il Giornale". Alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Venerdì scorso, alla Nuova Fiera di Roma, l’esame di Stato notarile si è trasformato nell’ennesimo siparietto che potrebbe invalidare la validità dell’ultima prova. Gli ingredienti ci sono tutti: sospetti, accuse e rivolte. Dopo lo scandalo che l’anno scorso investì il concorso da magistrato, ora tocca all’esame notarile di cadere nel vortice delle polemiche. La tre giorni di esame Alle prime luci di mercoledì 11 marzo circa 3.900 candidati si sono messi in fila davanti alla Nuova Fiera di Roma per sostenere il concorso. “E’ la seconda volta che mi presento – racconta una ragazza che preferisce rimanere anonima – perché non so ancora se ho superato il vecchio esame”. In effetti il penultimo bando aveva indetto un concorso per ottobre 2007: in “palio” vi erano 230 posti. Della correzione di quelle prove non si ha ancora avuto esito così diversi candidati hanno pensato bene di iscriversi e sostenere nuovamente l’esame. In coda già alle 8 e mezza – prima che i cancelli si chiudano definitivamente – e sui banchi per l’una per iniziare l’esame. Tre le materie, tre le buste per ciascuna materia. Si estrae tra inter vivos (contratto), mortis causa (testamento) e atto di diritto societario. “Dato il nostro numero ci hanno diviso in due padiglioni differenti – racconta Martino, candidato che settimana scorsa ha sostenuto il concorso – per legge due volontari del padiglione in cui non è presente il presidente di Commissione devono presenziare all’estrazione della materia, all’estrazione della traccia e alla lettura di quest’ultima”. I gesti si ripetono come riti. Tutto deve essere a norma di legge. La tensione è forte. Venerdì 13 a leggere la traccia – una fusione societaria – è il presidente della Commissione, Sergio Del Core (magistrato della Corte di Cassazione). Non vengono distribuite fotocopie. I candidati prendono appunti, scrivono in silenzio. Non vola una mosca. Finita la dettatura inizia la prova. “I temi presentati ai candidati erano tutti buoni, anche piuttosto pratici – commenta il notaio Massimo Caspani, direttore della Scuola di notariato della Lombardia – mi ha fatto solo sorridere che, nella prima prova, figuri una persona che parla solo dialetto. Avrebbero fatto meglio a scegliere uno starniero. Tuttavia, il risultato è lo stesso – continua – era importante verificare che i candidati si ricordassero di chiamare in causa l’interprete”. La rivolta durante il concorso “A differenza dei due giorni precedenti non si è sentita la voce del presidente chiamare i candidati del nostro padiglione per partecipare alla conta per la selezione della persona che avrebbe estratto la busta con la traccia – continua a raccontare Martino – non si è sentito il presidente dar conto dell’estrazione della traccia e nemmeno aprire la busta e iniziare la dettatura”. In realtà, due ragazze sono presenti. “Non è stata una dettatura anticipata, semplicemente non si è sentito che si stava procedendo all’estrazione – spiega una delle volontarie del padiglione 6 – ho pescato io: non facciamo una polemica per tutto”. Ricostruire la dinamica risulta difficile. Resta il fatto che numerosi candidati del padiglione 6 sono in piedi, in fila i bagni, a chiacchierare col vicino di banco. La baraonda scoppia proprio quando il presidente di Commissione ammette: “Mi dicono che devo ripetere tutto perché non si è sentito niente”. La protesta si scalda. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” alcuni candidati si avvicinano al tavolo dove sono seduti alcuni commissari per illustrare la necessità di annullare il concorso o, quantomeno, di ripetere le operazioni, a partire dall’estrazione delle buste. “Come facevano le due candidate prescelte a sapere che dovevano recarsi nel padiglione 5 per procedere all’estrazione? – si chiede Giorgio – come mai, a un certo punto, il presidente ha iniziato a dettare la traccia velocemente senza che noi avessimo scritto ancora niente?”. L’intervento della polizia penitenziaria “L’osservanza delle regole è fatta apposta per poter escludere ogni dubbio che il concorso sia truccato”, spiega Martino raccontando come l’intervento della polizia penitenziaria in difesa dei commissari del padiglione 6 fosse “inutile”. Alcuni ragazzi hanno addirittura invitato gli agenti a verbalizzare. Immediato l’imbarazzo. “I poliziotti erano divisi tra due fuochi – continua Martino – si sono accorti che qualcosa era andato storto; tuttavia, non potevano opporsi ai commissari”. “La storia della dettatura della traccia è futile, c’è ben di peggio”, spiega Marco, un candidato del padiglione 6 che, sul forum di romoloromani.it, racconta di aver visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”. Marco è demoralizzato: “La divisione a favore di terzo è un dogma indimostrabile: devi prenderla per fede e accettarla”. Quindi? “Passerò i prossimi anni a cercare una raccomandazione, visto che studiare non serve a nulla”. “Non ho ancora parlato con i miei praticanti, quindi non ho notizie di prima mano ma non è un problema di raccomandazioni– minimizza Caspani – eventi di questo tipo capitano spesso e sono generati da come sta cambiando il mondo. Noto una sempre maggiore suscettibilità nei candidati, giustificata soprattutto dalle loro aspettative. Non sto dicendo che non vi possano essere influenze sull’esito della prova – continua – qualsiasi evento, però, è interpretato come un tentativo di sviare o di favorire alcuni candidati”.

L’Italia dei raccomandati. Di precedenti la storia dei concorsi pubblici è piena. L’ultimo risale al novembre scorso alla Fiera di Milano a Rho in occasione del concorso nazionale da magistrato. Allora avevano partecipato 5.600 laureati in legge per 500 posti. Anche allora i candidati avevano chiesto l’annullamento della prova perché sui banchi erano “comparsi” fotocopie, fogli con possibili tracce e codici commentati, il tutto con il timbro d’approvazione del dicastero di via Arenula. Per legge, infatti, ciascun candidato può portare con sé codici da consultare previo controllo del cancelliere di tribunale. Compito di quest’ultimo è controllare che i volumi siano conformi al bando. “Sono stata sottoposta a un controllo che è durato dieci minuti – aveva denunciato una candidata – non si spiega come sia possibile che quei volumi abbiano ottenuto il timbro ministeriale. Eppure, anche un bambino vedrebbe che il tomo pesa il doppio perché contiene dei commenti”. Anche in quel caso ci fu una mezza sommossa popolare che portò diversi candidati ad abbandonare il concorso. “Quanto accaduto al concorso di magistratura – sottolinea Caspani – non mi sembra minimamente paragonabile alle lamentele di settimana scorsa”. Superare l’esame di Stato L’accesso al notariato e alla magistratura è subordinato al superamento di un esame gestito dal ministero della Giustizia. Per quanto riguarda il notariato solo un aspirante su venti supera il concorso che richiede una preparazione giuridica di altissimo livello. “Il rigore della prova – spiegano al Consiglio notarile nazionale – è tale da sfatare il luogo comune dell’ereditarietà della professione: infatti, oltre l’82% dei notai non è figlio di un notaio”. Eppure ancora oggi in molti sono a lamentarsi per la difficoltà d’accesso. “La selezione è durissima perché il notariato, per la sua funzione, è una professione d’eccellenza – spiega Caspani – tutte le professioni dovrebbero avere il numero chiuso. E’ un errore continuare a spostare i paletti della selezione”.

Il caso è lo stesso, anche se il testo differisce per la forma che lo caratterizza. Si tratta della traccia 'mortis causa' che ha causato prima la bagarre in sede di concorso, poi l'annullamento per gravi irregolarità della terza e ultima prova sostenuta dagli oltre 3000 partecipanti per 200 posti da notaio. Quello stesso caso notarile da risolvere, proposto in modo pressoché identico venti giorni prima in una prova simulata alla scuola dell'Ordine di Roma 'Anselmo Anselmi', ha fatto scoppiare il caos tra i banchi della Fiera di Roma. E oggi lascia ancora pesanti ombre sul meccanismo di scelta della traccia incriminata. Una matassa complicata da dipanare, considerando gli estremi del bandolo. Da una parte i candidati che si sono scagliati contro la commissione, con fischi e urla (alcuni gridavano "Vergogna vergogna"), durante la prova, dopo avere scoperto l'anomalia. "In base al regolamento, la Commissione esaminatrice avrebbe dovuto costruire la mattina stessa della prova una traccia ex novo, - spiegano alcuni partecipanti - mentre quella dettata era quasi del tutto identica ad un'altra utilizzata come esercitazione e trattata in videoconferenza con altre scuole notarili". Dall'altra, le repliche dei 15 commissari che puntano il dito contro i "facinorosi". "Quello che abbiamo subito ieri - ha dichiarato una fonte della Commissione - è stata una manovra preordinata, rivolta in realtà non contro di noi componenti la Commissione esaminatrice, ma contro il Consiglio notarile". Senza contare che, secondo alcune testimonianze di partecipanti alla prova, a qualche candidato sono state trovati in tasca i compiti già eseguiti, "su carta intestata del ministero". Resta il fatto che ai commissari è demandato il compito di scegliere le tracce (sei o sette quelle presentate in questo caso), tre delle quali verranno estratte a sorte in sede di esame. Una responsabilità non da poco, su una questione che fa discutere e sulla quale il ministero della Giustizia, sollecitato da più partiti (Udc e Lega) a intervenire in Parlamento, dovrà fare chiarezza. In attesa che Angelino Alfano si esprima, come promesso, nei giorni successivi al ponte festivo, la Lega attacca contro la "logica tutta romana" dei concorsi pubblici. Questo, in particolare, avrebbe visto partecipare alla corsa per gli ambiti posti a numero chiuso, anche nomi 'illustri', tra figli di politici e parenti di personaggi noti del mondo dello spettacolo. Anche loro, come gli altri, dovranno attendere ancora qualche giorno per sapere se l'annullamento interesserà solo la prova 'incriminata' oppure l'intero concorso. In tal caso, sarà tutto da rifare. Prove annullate ma bando di concorso salvato e rinnovo totale della commissione esaminatrice. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha così deciso sulla "gravissima vicenda" del concorso per 200 posti di notaio sospeso la settimana scorsa per motivi di ordine pubblico e su cui la procura di Roma ha aperto un'inchiesta per abuso di ufficio. Il Consiglio nazionale del Notariato plaude alla decisione del Guardasigilli, innanzitutto perchè confermando il bando si rendono "il più celere possibili le procedure", inoltre si tratta di "una soluzione che conferma l'affidabilità del sistema concorsuale di selezione dei futuri notai" e che "restituisce serenità ai candidati". I tremila candidati che hanno affollato la Fiera di Roma per un concorso poi degenerato in rissa si sottoporranno alle nuove prove nel 2011, probabilmente in febbraio. Dovranno ripetere tutti gli elaborati e non solo il secondo, contestato perchè la traccia del tema era pressocchè identica a quella sottoposta al corso di esercitazioni della scuola notarile di Roma 'Anselmo Anselmi', peraltro diffusa anche via internet. Dal momento che la procura di Roma ha aperto un'inchiesta ipotizzando il reato di abuso di ufficio, il Guardasigilli ha deciso di inviare agli inquirenti, "per le eventuali iniziative di competenza", la relazione della Commissione esaminatrice e tutti gli altri atti in suo possesso relativi alle prove annullate. Alfano ha anche stabilito il rinnovo per intero della commissione esaminatrice "pur non nutrendo alcun dubbio - ha sottolineato - sulla buona fede dei suoi componenti". Il bando è stato invece salvato per "evitare che tanti laureati siano penalizzati da ulteriori ritardi derivanti dalla pubblicazione di un nuovo bando che tarderebbe oltremodo la data del prossimo concorso". Una valanga di reclami alla giustizia amministrativa è comunque attesa: il Codacons ha pubblicato oggi sul suo blog (www.carlorienzi.it) i moduli attraverso i quali i partecipanti alle prove annullate possano presentare un ricorso collettivo al Tar del Lazio con l'obiettivo di ottenere un risarcimento dei danni materiali e morali subiti.

CONCORSO TRUCCATO ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE.

Di cosa si meravigliano. Succede perennemente in tutta Italia: al concorso per diventare magistrato, notaio, avvocato. Nell’assoluta omertà, però. Di questo concorso, invece, ne parla la stampa nazionale, "Il Corriere della Sera" e "La Repubblica". Forse perchè siamo a Catania e passa la parvenza che sia la solita furbata meridionale. Infatti il concorso è nazionale e la credibilità è minata nel sistema generale di cooptazione dei funzionari pubblici. Credibilità minata anche dalle cronache che ci parlano di corruzione dei funzionari delle Agenzie delle Entrate in tutta Italia, sì, ma anche dei giudici Tributari. La mattinata dell’8 giugno 2012 è iniziata presto, in fila dalle 9.30 per un posto da funzionario nella pubblica amministrazione. Dopo le registrazioni e la classica attesa da concorso pubblico, gli oltre 1500 candidati si sono tutti seduti per ricevere dalla commissione i questionari. Ma qualcuno a quanto pare, prima ancora della distribuzione del materiale, aveva già le domande e le risposte a portata di cellulare. Ed è scattato il caos a Catania, nel centro fieristico «Le Ciminiere», sede del concorso per 25 funzionari all'Agenzia delle Entrate (855 posti a livello nazionale, 25 nella Regione Sicilia). «Erano più o meno le 13 - racconta al telefono uno dei candidati - ed eravamo in ritardissimo rispetto alla tabella di marcia. Eppure aspettavamo con ansia di ricevere i questionari. Eravamo tutti seduti quando a un tratto abbiamo visto una calca e un gruppo di ragazzi che urlavano: da quello che abbiamo potuto capire, accusavano un ragazzo di avere già tutte le domande del quiz. Forse perchè in altre città d'Italia dove si teneva lo stesso concorso, le prove erano finite già da un pezzo ed erano state messe pure online». Fatto sta che a un certo punto arrivano le forze dell'ordine, carabinieri, polizia e i gli oltre mille candidati vengono bloccati nel centro fieristico. Dopo ore di attesa, arriva poco prima delle 16.30 l'annuncio dalla voce di un altoparlante: «Il concorso è stato sospeso». Tra gli applausi, i ragazzi, sfiniti, lasciano il centro fieristico. Da stabilire quando e dove dovranno ripresentarsi. Diversa la versione dell'Agenzia delle entrate: «Si è trattato di un gruppo di facinorosi - fanno sapere - che non ha consentito il proseguimento della prova: in nessuna delle altre 10 sedi c'è stato alcun problema, compresa quella di Palermo dove tutto si è svolto regolarmente. A Catania questi candidati asserivano che le domande erano già su Internet, ma è assolutamente impossibile visto che gli unici che avevano accesso ai quiz erano i membri della Commissione centrale di Roma e le prove a quell'ora, anche nelle altre città, non si erano ancora concluse. Queste persone invece hanno bloccato senza alcuna giustificazione il concorso di Catania e non hanno consentito a nessuno di farlo». Alle 16 il presidente della vigilanza Alfio Angelo Caruso ha annunciato che il concorso è stato sospeso. Le procedure di identificazione sono iniziate regolarmente alle 10 come nel resto d'Italia, ma l'esame, un questionario con 80 domande da completare in 50 minuti, non si è mai svolto. Nel frattempo, però, il concorso veniva espletato regolarmente nelle altre città. "È uno scandalo, intorno alle 13 sono cominciate a circolare le risposte provenienti da Palermo", denuncia Valentina, una delle partecipanti. Erano circa 3 mila i candidati che si sono presentati nella sede di Catania per provare ad aggiudicarsi uno dei 250 posti da funzionario amministrativo tributario banditi a livello nazionale dall'agenzia delle entrate. Due le sedi di esame per la Sicilia: oltre a Catania, Palermo dove tutto si è svolto regolarmente. Tuttavia non si sa ancora se il concorso sarà invalidato in tutta l'Isola, a cui sono destinati 25 posti, o solo per la parte relativa a Catania, dove hanno svolto l'esame i concorrenti con cognome dalla lettera A alla G. "Credo che a Palermo non dovrà essere ripetuto - anticipa il presidente Caruso - ma non sta a me dirlo, la comunicazione ufficiale arriverà dall'Agenzia delle entrate". Il caos al complesso fieristico Le Ciminiere è iniziato intorno alle 13. "Ci dicevano continuamente di rimanere seduti - denuncia Valentina - ma quando si è sparsa la voce che qualcuno aveva già le risposte è successo il finimondo". La commissione si è giustificata parlando di problemi nella fase di identificazione dei partecipanti. In particolare, secondo alcuni concorrenti, ci sarebbero state difficoltà con l'assegnazione dei codici a barre. "Alle 14,30 - racconta Ilaria - quando ancora non era stata ufficializzata la sospensione dell'esame hanno aperto le porte e sono entrati amici e parenti. Per ore ci hanno comunicato che il concorso sarebbe iniziato a breve, ma ormai non ci credeva più nessuno". La commissione si è riunita nel bar al primo piano dell'edificio e solo alle 16, quando è arrivata la conferma da Roma, uno speaker dall'altoparlante ha dato l'ufficialità della sospensione, senza specificarne i motivi. Sul posto è intervenuta la Digos ed erano presenti anche carabinieri e guardia di finanza. Il segretario provinciale della Cgil Funzione Pubblica, Armando Garufi, difende l'operato degli addetti alla vigilanza: "Probabilmente - denuncia - c'è stato qualche intoppo nella macchina organizzativa, ma la direzione centrale ha sbagliato la scelta delle sede. È impossibile controllare tutti i partecipanti in una struttura così grande". "In riferimento alla bagarre occorsa durante la prova per il concorso all'Agenzia delle Entrate, a Catania, l'associazione dei consumatori conferma la necessità di annullare il concorso e prevedere la sua ripetizione". Un concorso dove i candidati sono seduti da ore, nonostante i test non siano mai iniziati. Accade anche questo a Catania dove circa duemila persone arrabbiate hanno inscenato una rivolta alla sede delle Ciminiere perchè avrebbero dovuto svolgere un concorso nazionale dell'Agenzia delle Entrate con posti di funzionario amministrativo contabile, ma mentre in tutte le altre parti d'Italia tutto è già terminato, qui la selezione deve ancora cominciare. Gli studenti hanno quindi lasciato le penne sul tavolo e hanno inveito contro la commissione che non riesce a risolvere il problema. «Anche qui - spiega uno dei candidati, Gianpiero D'Arrigo - eravamo seduti per espletare il concorso dalle 9, 30 del mattino, ma in altre città entro le 14 hanno concluso, qui ancora niente. La motivazione ufficiale è che ci sarebbero stati problemi con l'anagrafica, ma da quanto siamo riusciti a sapere c'erano due pacchi contenenti le domande che dovevano essere chiusi ed invece erano aperti. Abbiamo chiesto più volte spiegazioni, ma i membri della commissione non ci hanno dato delle risposte convincenti, dicendoci solo di aspettare. Ora addirittura asseriscono che o facciamo il concorso e aspettiamo che si inizi o andiamo via e abbiamo perso anche questa possibilità. Qualcun altro ci dice che dobbiamo restare qui finché non inizia, anche se si dovesse fare mezzanotte. Ma come hanno fatto notare altri candidati già su internet ci sono domande e risposte da ore, come pensano sia regolare ora il concorso?». Intanto, agenti della Digos sono andati sul posto per risolvere la situazione. Il concorso è stato infine sospeso. Il presidente della commissione ha invitato i candidati a guardare il sito internet per sapere quando potrà tenersi nuovamente. Dopo 8 ore di attesa vana, tutti sono tornati a casa. «Il caos di oggi alle Ciminiere di Catania, che ha portato alla sospensione del concorso per 250 posti alle Agenzie delle entrate, deve essere letto in tutta la sua drammatica realtà - spiegano in una nota Mariella Maggio segretario generale Cgil Sicilia ed Angelo Villari, segretario generale Cgil Catania - L'ansia che accompagna ogni prova concorsuale, soprattutto nell'ambito del sistema pubblico, è frutto di una sfiducia nelle possibilità di una democrazia in grado di assicurare lavoro dignitoso per tutti. Il timore di prove truccate dimostra una grande e preoccupante sfiducia nelle istituzioni. La Cgil è preoccupata per questo clima duro e al limite della pericolosa tensione sociale. Bisogna che le istituzioni intervengano subito e che si rendano consapevoli di quanto stia accadendo a Catania come nel resto d'Italia.» 

Equitalia, milioni di cartelle a rischio: 767 dirigenti nominati senza concorso, scrive Blitz quotidiano. Nei prossimi giorni la Corte Costituzionale deciderà sulla sorte di migliaia, anzi milioni, di cartelle esattoriali emesse da Equitalia. I giudici delle leggi sono infatti chiamati a decidere sulla costituzionalità di un decreto, sfoderato d’urgenza a marzo 2012 per sanare lo scandalo dei 767 funzionari dell’Agenzia delle Entrate (più della metà) promossi a dirigenti senza concorso. Cosa significa? Che migliaia di cartelle furono firmate da “falsi dirigenti” e di conseguenza potrebbero venire considerate nulle o addirittura inesistenti. A ricostruire bene la vicenda è l’avvocato Angelo Greco di Cosenza, in un articolo apparso sul portale La Legge per Tutti. Detto in estrema sintesi, per supplire alla carenza di organico dirigenziale, l’Agenzia delle Entrate, qualche anno fa, aveva deciso di “promuovere” alla qualifica di dirigente ben 767 funzionari, senza prima averli sottoposti a un concorso pubblico, per come invece prescrive la nostra Costituzione (“agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”). Di tanto si erano accorti sia il Tar Lazio che la Commissione Tributaria di Messina che avevano bloccato le suddette nomine a dirigenti. Risultato: migliaia di atti firmati dai “falsi dirigenti” (o meglio, “non correttamente nominati”), e le conseguenti cartelle esattoriali di Equitalia, erano da considerarsi completamente nulli o, addirittura, inesistenti, avendo trovato il loro presupposto in un soggetto privo di qualsiasi potere. Un vero e proprio terremoto. Per arginare la falla, il Governo è ricorso alla consueta arma che, in casi come questi, viene sfoderata d’urgenza: la sanatoria. Così, un decreto legge del 2012 ha concesso, retroattivamente, all’Agenzia delle Entrate il potere di attribuire, a proprio piacimento ed in barba alla stessa Costituzione, incarichi dirigenziali ai propri funzionari (con contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso). Insomma, in attesa del maxi-concorso tutte le nomine dovevano ritenersi valide. [...] E così, la questione è finita al Consiglio di Stato che, sospettando la legge di sanatoria di incostituzionalità (appunto per violazione dell’obbligo del concorso pubblico) ha rinviato la patata bollente [6] alla Corte Costituzionale. Il rischio catastrofe è dunque imminente. Va da sé che se la Consulta dovesse ritenere infondata la questione di costituzionalità, il problema non sussiste e i contribuenti destinatari delle cartelle in bilico, dovranno rassegnarsi a pagare i loro debiti. Ma se viceversa il decreto verrà giudicato incostituzionale, le prospettive possono essere molteplici. L’avvocato Greco fa alcune proiezioni:

Secondo il consolidato orientamento sposato dalla Cassazione e dai tribunali di tutta Italia, gli atti fiscali sono nulli (alcuni tribunali, addirittura, parlano di “inesistenza”) se firmati da chi non aveva il potere per farlo. E dunque, chi non ha ancora pagato potrà fare ricorso al giudice per ottenere l’annullamento della richiesta di pagamento. Lo potrà fare anche chi ha chiesto o ha già avviato una rateazione. In passato abbiamo pubblicato anche la formula da inserire nel ricorso per chiedere la nullità della cartella.

E se sono scaduti i termini per impugnare?

In verità, stando all’orientamento (maggioritario) che ritiene gli atti privi di firma “inesistenti”, questo non dovrebbe essere un problema, in quanto si tratterebbe di una nullità non sanabile neanche con il decorso dei termini. Ovviamente, però, ogni tribunale ha la sua interpretazione.

Come faccio a sapere se il mio atto è firmato da un falso dirigente?

Per evitare un ricorso “alla cieca” contro la cartella esattoriale, bisogna innanzitutto verificare che la stessa abbia come presupposto un pagamento chiesto dall’Agenzia delle Entrate e non da altre amministrazioni. Poi bisognerebbe avere la certezza che l’atto a monte sia stato notificato da uno dei falsi dirigenti. Tuttavia l’elenco dei dirigenti privi di potere non è mai stato diffuso ufficialmente. Il contribuente potrebbe tentare di superare l’ostacolo depositando una istanza di accesso agli atti amministrativi e chiedendo di verificare la documentazione inerente alla carriera del dirigente firmatario.

La Corte Costituzionale abbatte Equitalia. I dirigenti? Tutti falsi, scrive Angelo Greco su “Legge per Tutti”. Terremoto all’Agenzia delle Entrate: è incostituzionale la legge che aveva sanato le nomine dei falsi dirigenti; ora non c’è scampo per le cartelle esattoriali. Un vero fulmine a ciel sereno. La tanto attesa sentenza della Corte Costituzionale è uscita: le nomine “fasulle” dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate, portati al ruolo di dirigenti senza un pubblico concorso, sono tutte nulle. E, perciò, sono nulli anche gli atti da questi firmati e notificati ai contribuenti. Non solo: nulle diventano, conseguentemente, pure le cartelle esattoriali emesse da Equitalia sulla scorta di tali accertamenti. Che il cielo stesse annuvolandosi all’orizzonte era già chiaro da diverso tempo. E ne avevamo parlato già noi quando abbiamo scritto, a più riprese, dello scandalo dei falsi dirigenti dell’Agenzia delle Entrate. Leggi, tra i tanti: “La Corte Costituzionale fa vacillare Equitalia e milioni di cartelle esattoriali”. Il succo della sentenza è chiaro: è incostituzionale il la legge del 2012 che, dopo la bocciatura del TAR Lazio della nomina dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate a dirigenti, pur senza la qualifica, aveva introdotto una sorta di sanatoria. Insomma, in attesa che fossero indette le normali gare, gli incarichi “a tempo” da dirigente, conferiti a funzionari dell’Agenzia delle Entrate senza i concorsi regolari dovevano ritenersi validi. Il che è palesemente illegittimo per contrasto con la Costituzione e con la norma che impone che, a tutti i pubblici uffici, si giunge solo tramite concorso. Come avevamo anticipato anche noi in “Dirigenti falsi all’Agenzia delle Entrate” in sostanza è stato eluso il principio secondo cui nel pubblico impiego anche le funzioni di dirigente si acquistano con il concorso pubblico pure nell’ipotesi in cui gli incarichi vadano al personale interno. La durata degli incarichi, almeno sulla carta, era legata al tempo necessario a indire i concorsi, ma è stata seguita da proroghe, anche queste “bocciate” dalla Corte Costituzionale. La norma del DL semplificazione, scrivono oggi i giudici costituzionali, “ha contribuito all’indefinito protrarsi nel tempo di un’assegnazione temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica”. Ora la pronuncia della Corte costituzionale mette la parola “fine” alla vicenda ma apre interrogativi sulla sorte degli accertamenti sottoscritti negli anni dai funzionari-dirigenti. Insomma, poiché sono state bocciate ben 767 nomine su circa 1000 dirigenti di ruolo, ciò significa che più del 50% delle cartelle che, in tutti questi anni, Equitalia ha notificato agli italiani, sono nulle! O meglio, del tutto inesistenti perché firmate da soggetti che non avevano il potere per farlo e per ricoprire tale ruolo.

I dirigenti dell’agenzia delle Entrate erano falsi: Equitalia trema, continua Greco. Milioni di cartelle esattoriali notificate in questi anni sono a rischio nullità: la Corte Costituzionale si è pronunciata sul più forte scandalo che abbia mai coinvolto il fisco italiano. Questa mattina, l’attesa di milioni di italiani, letteralmente “assediati” da controlli e accertamenti fiscali in tutti questi anni, è finita. La Corte Costituzionale si è appena espressa sulla questione che, da un paio di anni, pendeva sulla bocca dei contribuenti: quella cioè dello scandalo dei “falsidirigenti presso l’Agenzia delle Entrate, ossia di funzionari che erano stati “elevati” al ruolo di dirigenti – per mancanza di organico – pur senza aver partecipato a un normale concorso. La questione, che era stata sollevata inizialmente dal Tar Lazio, aveva poi subito uno “stop” a causa di una legge sanatoria del 2012. Ma su quest’ultima era forte la puzza di incostituzionalità. Tant’è che il Consiglio di Stato aveva rinviato gli atti alla Corte Costituzionale perché si pronunciasse in merito e decidesse, una volta per tutte, se è vero o meno che, in Italia, anche i funzionari del pubblico impiego (così come tutti gli altri dipendenti della pubblica amministrazione) debbano sottostare all’obbligo del concorso per accedere ai posti. Per la Consulta non ci sono stati dubbi: chiunque acceda al pubblico impiego lo può fare solo tramite un concorso pubblico e mai, quindi, con una legge di “sanatoria” o con una nomina interna. E ciò vale anche se si parla del tanto temuto fisco. Insomma, questo significa che tutti gli atti che sono stati firmati dai dirigenti (o meglio, funzionari svolgenti funzioni da dirigenti) potrebbero essere dichiarati “inesistenti” (per mancanza di poteri) dalla giurisprudenza. E, con essi, a cadere sarebbero anche le relative cartelle di Equitalia che sono state notificate sulla base di tali accertamenti. Attenzione: la questione riguarda solo le cartelle determinate da atti firmati dall’Agenzia delle Entrate e non, quindi, per imposte locali, contravvenzioni o richieste di pagamento dell’Inps. Ora si apre uno scenario apocalittico per le casse dello Stato. A cui i giudici saranno chiamati, a breve, a dare risposta. Noi, intanto, vi riportiamo la sentenza per esteso della Corte Costituzionale.

SENTENZA N. 37 ANNO 2015. REPUBBLICA ITALIANA. LA CORTE COSTITUZIONALE:

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 24, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44;

2) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 14, del decreto-legge 30 dicembre 2013, n. 150 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 27 febbraio 2014, n. 15;

3) dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art 1, comma 8, del decreto-legge 31 dicembre 2014, n. 192 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2015.

F.to: Alessandro CRISCUOLO, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 marzo 2015. Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella Paola MELATTI

Il concorso dell'Agenzia delle Entrate tra irregolarità e polemiche. Elaborati non imbustati, uso di smartphone, assenza di vigilanza. Il concorso più importante dell'anno rischia di essere travolto dai ricorsi, scrive Carmelo Caruso su “Panorama” del 12 giugno 2015. Di trasparente ci sono le opacità: violazione dell’anonimato, elaborati non imbustati, uso di smartphone, vigilanza scarsa, se non scarsissima. Insomma, ritorna la solita sciatteria della selezione, aleggia la maledizione dei concorsi in Italia. Rischia infatti di annegare nel ricorso, nella palude della giustizia, il più affollato concorso pubblico dell’anno (140 mila i partecipanti) indetto dall’Agenzia delle Entrate per reclutare 892 funzionari da impiegare in attività amministrativo tributarie, 1500 la retribuzione minima: l’ultima oasi di impiego pubblico oggi presente nel paese. Delle tre prove previste e ancora in corso di svolgimento, la prima è già materia di avvocati che sono pronti a ricorrere al Tar, sollevare illegittimità, smontare la selezione per rimontarla in tribunale. "E abbiamo i filmati, le testimonianze dei concorrenti che non solo hanno potuto introdurre dispositivi elettronici, ma che si sono visti ledere i diritti, e non garantiti i requisiti minimi che in ogni concorso dovrebbero essere rispettati" dice Francesco Leone, un avvocato palermitano che è già alla testa dei ricorrenti e di un manipolo di dieci avvocati ormai esperti di contenziosi, ricorsi e concorsi. E a sentirlo tutto può essere contestabile: bando, luogo, svolgimento, "per molto meno è stato possibile far riammettere 15000 studenti nello scorso test di medicina" ricorda Leone che quel duello lo ha vinto a scorno della pubblica amministrazione. A differenza dei concorsi pubblici nazionali che in passato si sono svolti in un’unica giornata e in sedi decentrate, questa volta l’Agenzia ha scelto una sede unica ma giornate diverse spalmando così la platea dei concorrenti ma aumentando così l’alea, il rischio di dispute. Una ragione economica per l’Agenzia, "abbiamo risparmiato due milioni di euro", ma che rimane risposta controversa quando si parla di incarichi pubblici. "E va bene il risparmio, e lo comprendo pure. Ma se un concorso è nazionale non capisco perché chi risiede nelle isole debba essere penalizzato, non capisco perché la differenza di trattamento tra chi ha sostenuto il test il primo giorno e chi ha potuto sostenerlo negli ultimi giorni potendo così conoscere la natura dei quiz" dice Marco che è avvocato e che è partito da Cattolica Eraclea, profonda Sicilia, per sostenere l’esame, un quiz di logica che prevedeva 50 quesiti a cui bisognava rispondere in 40 minuti nei locali della grande Fiera di Roma. "Va detto subito che nel bando non era stato precisato né la modalità né il tempo a disposizione" aggiunge sempre Marco che all’ingresso non è stato controllato, "sono entrati telefoni, li ho visti utilizzare con i miei occhi". E infatti a controllare i partecipanti non c’erano forze dell’ordine ma solo guardie giurate e solo all’ingresso. "Ed erano solo due per un’aula vasta dove ad essere esaminati c’erano quasi 3000 partecipanti" racconta Susanna un’altra avvocato che ha concorso. Perfino l’aula non è stata schermata, come conferma del resto la stessa Agenzia, per impedire così l’accesso a internet. "È impensabile ritenere che si possano fotografare le domande, inviarle all’esterno, attendere che qualcuno all’esterno faccia il compito, riavere il tempo necessario per copiare sul foglio le risposte" rispondono dall’Agenzia convinti che neppure la diffusione di filmati possa far periclitare il concorso: "Nella maniera più categorica è impossibile che ci siano gli estremi per invalidare questa fase concorsuale". E però come sempre avviene nei quiz di logica, e l’Agenzia non può non saperlo, non serve inviare le domande ma cercarle più facilmente su qualsiasi motore di ricerca. racconta un altro partecipante che ha sì riposto il telefono in una busta esposta sul banco, ma che ha avuto modo di servirsi di un altro. E che dire delle buste? "Alcuni se le sono portate a casa. A raccogliere gli elaborati erano alcuni steward che avevano il compito di prelevarle. La manomissione era facile"racconta Andrea, laureato di scienze politiche anch’egli concorrente e sicuramente ri-corrente". Per garantire l’anonimato i partecipanti, e serve precisare che si tratta di laureati in giurisprudenza e scienze politiche, hanno riempito una scheda anagrafica con un codice a barre. Stesso codice a barre che viene sovrapposto sugli elaborati. "L’anonimato è garantito attraverso la separazione della scheda anagrafica dai fogli risposta, avvenuta prima della distribuzione dei questionari d’esame" ribatte l’Agenzia. Ma il codice a barre è in realtà un’etichetta bioadesiva. E non per fare le mosse diavolo ma solo per avvertire, viene da chiedere se questa possa bastare ad assicurare quel parametro di sicurezza che l’Agenzia crede sia stato raggiunto. "Non bisogna essere dei nerd ma solo degli utenti abituali di itunes per scaricare gratuitamente un’applicazione chiamata “Barcode scanner” per aggirare l’anonimato e collegare l’elaborato al partecipante. E come si dimostra non solo i telefoni sono entrati, ma addirittura utilizzati al punto da filmare l’esecuzione della prova" dice Leone che ha inserito sul suo sito i fotogrammi del video ma che per i garanti dell’Agenzia rimane solo un episodio isolato e individuato: "L’unico caso di cui abbiamo avuto conoscenza riguarda l’affermazione di un avvocato palermitano, che sul proprio sito afferma che un candidato ha eseguito un filmato della prova. Siamo in presenza di un attacco infondato e pretestuoso condotto dal citato avvocato. L’Agenzia a tal proposito ha già sottoposto la questione all’avvocatura dello Stato affinché valuti di sporgere denuncia penale alla magistratura e di presentare un esposto all’ordine degli avvocati per comportamenti contrari alla deontologia professionale". "Vogliono irretirmi, le loro risposte sono minacciose. Esiste un principio costituzionale che garantisce a ogni cittadino di essere difeso di fronte a un tribunale. L’Agenzia non può infrangere tale principio" ribatte Leone a cui di certo l’Agenzia non può contestare di fare l’avvocato. E tra i partecipanti c’è ancora chi lamenta la mancata verbalizzazione delle proteste, "è stato impedito", l’apertura della busta con i quesiti quando ancora l’aula era mezza vuota, la correzione in presenza di cinque anziché dieci partecipanti. Intanto la gestione della seconda prova non è più competenza della Praxi, a cui era stato affidato il mandato di vigilare e organizzare la selezione, ma della Selexi srl come sancito da un documento del 18 maggio 2015 che assegna con procedura d’urgenza il compito di supporto. Il concorso potrebbe così impantanarsi nell’autostrada del diritto. Di sicuro rimane l’imperizia di una selezione, un deficit di vigilanza, la selezione per avventurismo.

Di cosa si meravigliano. Succede perennemente in tutta Italia: al concorso per diventare magistrato, notaio, avvocato. Nell’assoluta omertà, però. Di questo concorso, invece, ne parla la stampa nazionale, "Il Corriere della Sera" e "La Repubblica". Forse perchè siamo a Catania e passa la parvenza che sia la solita furbata meridionale. Infatti il concorso è nazionale e la credibilità è minata nel sistema generale di cooptazione dei funzionari pubblici.

Credibilità minata anche dalle cronache che ci parlano di corruzione dei funzionari delle Agenzie delle Entrate in tutta Italia, sì, ma anche dei giudici Tributari.

La mattinata dell’8 giugno 2012 è iniziata presto, in fila dalle 9.30 per un posto da funzionario nella pubblica amministrazione. Dopo le registrazioni e la classica attesa da concorso pubblico, gli oltre 1500 candidati si sono tutti seduti per ricevere dalla commissione i questionari. Ma qualcuno a quanto pare, prima ancora della distribuzione del materiale, aveva già le domande e le risposte a portata di cellulare. Ed è scattato il caos a Catania, nel centro fieristico «Le Ciminiere», sede del concorso per 25 funzionari all'Agenzia delle Entrate (855 posti a livello nazionale, 25 nella Regione Sicilia). «Erano più o meno le 13 - racconta al telefono uno dei candidati - ed eravamo in ritardissimo rispetto alla tabella di marcia. Eppure aspettavamo con ansia di ricevere i questionari.

Eravamo tutti seduti quando a un tratto abbiamo visto una calca e un gruppo di ragazzi che urlavano: da quello che abbiamo potuto capire, accusavano un ragazzo di avere già tutte le domande del quiz. Forse perchè in altre città d'Italia dove si teneva lo stesso concorso, le prove erano finite già da un pezzo ed erano state messe pure online». Fatto sta che a un certo punto arrivano le forze dell'ordine, carabinieri, polizia e i gli oltre mille candidati vengono bloccati nel centro fieristico. Dopo ore di attesa, arriva poco prima delle 16.30 l'annuncio dalla voce di un altoparlante: «Il concorso è stato sospeso». Tra gli applausi, i ragazzi, sfiniti, lasciano il centro fieristico. Da stabilire quando e dove dovranno ripresentarsi.

Diversa la versione dell'Agenzia delle entrate: «Si è trattato di un gruppo di facinorosi - fanno sapere - che non ha consentito il proseguimento della prova: in nessuna delle altre 10 sedi c'è stato alcun problema, compresa quella di Palermo dove tutto si è svolto regolarmente. A Catania questi candidati asserivano che le domande erano già su Internet, ma è assolutamente impossibile visto che gli unici che avevano accesso ai quiz erano i membri della Commissione centrale di Roma e le prove a quell'ora, anche nelle altre città, non si erano ancora concluse. Queste persone invece hanno bloccato senza alcuna giustificazione il concorso di Catania e non hanno consentito a nessuno di farlo».

Alle 16 il presidente della vigilanza Alfio Angelo Caruso ha annunciato che il concorso è stato sospeso. Le procedure di identificazione sono iniziate regolarmente alle 10 come nel resto d'Italia, ma l'esame, un questionario con 80 domande da completare in 50 minuti, non si è mai svolto. Nel frattempo, però, il concorso veniva espletato regolarmente nelle altre città. "È uno scandalo, intorno alle 13 sono cominciate a circolare le risposte provenienti da Palermo", denuncia Valentina, una delle partecipanti.

Erano circa 3 mila i candidati che si sono presentati nella sede di Catania per provare ad aggiudicarsi uno dei 250 posti da funzionario amministrativo tributario banditi a livello nazionale dall'agenzia delle entrate. Due le sedi di esame per la Sicilia: oltre a Catania, Palermo dove tutto si è svolto regolarmente. Tuttavia non si sa ancora se il concorso sarà invalidato in tutta l'Isola, a cui sono destinati 25 posti, o solo per la parte relativa a Catania, dove hanno svolto l'esame i concorrenti con cognome dalla lettera A alla G.

"Credo che a Palermo non dovrà essere ripetuto - anticipa il presidente Caruso - ma non sta a me dirlo, la comunicazione ufficiale arriverà dall'Agenzia delle entrate". Il caos al complesso fieristico Le Ciminiere è iniziato intorno alle 13. "Ci dicevano continuamente di rimanere seduti - denuncia Valentina - ma quando si è sparsa la voce che qualcuno aveva già le risposte è successo il finimondo". La commissione si è giustificata parlando di problemi nella fase di identificazione dei partecipanti. In particolare, secondo alcuni concorrenti, ci sarebbero state difficoltà con l'assegnazione dei codici a barre. "Alle 14,30 - racconta Ilaria - quando ancora non era stata ufficializzata la sospensione dell'esame hanno aperto le porte e sono entrati amici e parenti. Per ore ci hanno comunicato che il concorso sarebbe iniziato a breve, ma ormai non ci credeva più nessuno". La commissione si è riunita nel bar al primo piano dell'edificio e solo alle 16, quando è arrivata la conferma da Roma, uno speaker dall'altoparlante ha dato l'ufficialità della sospensione, senza specificarne i motivi. Sul posto è intervenuta la Digos ed erano presenti anche carabinieri e guardia di finanza.

Il segretario provinciale della Cgil Funzione Pubblica, Armando Garufi, difende l'operato degli addetti alla vigilanza: "Probabilmente - denuncia - c'è stato qualche intoppo nella macchina organizzativa, ma la direzione centrale ha sbagliato la scelta delle sede. È impossibile controllare tutti i partecipanti in una struttura così grande". "In riferimento alla bagarre occorsa durante la prova per il concorso all'Agenzia delle Entrate, a Catania, l'associazione dei consumatori conferma la necessità di annullare il concorso e prevedere la sua ripetizione".

Un concorso dove i candidati sono seduti da ore, nonostante i test non siano mai iniziati. Accade anche questo a Catania dove circa duemila persone arrabbiate hanno inscenato una rivolta alla sede delle Ciminiere perchè avrebbero dovuto svolgere un concorso nazionale dell'Agenzia delle Entrate con posti di funzionario amministrativo contabile, ma mentre in tutte le altre parti d'Italia tutto è già terminato, qui la selezione deve ancora cominciare. Gli studenti hanno quindi lasciato le penne sul tavolo e hanno inveito contro la commissione che non riesce a risolvere il problema. «Anche qui - spiega uno dei candidati, Gianpiero D'Arrigo - eravamo seduti per espletare il concorso dalle 9, 30 del mattino, ma in altre città entro le 14 hanno concluso, qui ancora niente. La motivazione ufficiale è che ci sarebbero stati problemi con l'anagrafica, ma da quanto siamo riusciti a sapere c'erano due pacchi contenenti le domande che dovevano essere chiusi ed invece erano aperti. Abbiamo chiesto più volte spiegazioni, ma i membri della commissione non ci hanno dato delle risposte convincenti, dicendoci solo di aspettare. Ora addirittura asseriscono che o facciamo il concorso e aspettiamo che si inizi o andiamo via e abbiamo perso anche questa possibilità. Qualcun altro ci dice che dobbiamo restare qui finché non inizia, anche se si dovesse fare mezzanotte. Ma come hanno fatto notare altri candidati già su internet ci sono domande e risposte da ore, come pensano sia regolare ora il concorso?». Intanto, agenti della Digos sono andati sul posto per risolvere la situazione.

Il concorso è stato infine sospeso. Il presidente della commissione ha invitato i candidati a guardare il sito internet per sapere quando potrà tenersi nuovamente. Dopo 8 ore di attesa vana, tutti sono tornati a casa.

«Il caos di oggi alle Ciminiere di Catania, che ha portato alla sospensione del concorso per 250 posti alle Agenzie delle entrate, deve essere letto in tutta la sua drammatica realtà - spiegano in una nota Mariella Maggio segretario generale Cgil Sicilia ed Angelo Villari, segretario generale Cgil Catania - L'ansia che accompagna ogni prova concorsuale, soprattutto nell'ambito del sistema pubblico, è frutto di una sfiducia nelle possibilità di una democrazia in grado di assicurare lavoro dignitoso per tutti. Il timore di prove truccate dimostra una grande e preoccupante sfiducia nelle istituzioni. La Cgil è preoccupata per questo clima duro e al limite della pericolosa tensione sociale. Bisogna che le istituzioni intervengano subito e che si rendano consapevoli di quanto stia accadendo a Catania come nel resto d'Italia.» 

LA CORTE DI CASSAZIONE E LA CORTE COSTITUZIONALE AVALLANO L'ILLEGALITA'.

Dal ventennio fascista dell’altro millennio si adotta un sistema concorsuale pubblico di cooptazione di gente omologata al sistema di potere che mira a garantire ogni sorta di illecito, coperto da lacci e laccioli giuridici da appigliarsi alla bisogna. In tutti questi decenni si è fatto uso, per chi se lo poteva permettere, di ogni escamotage per sopperire ad eventuali infausti giudizi sulle proprie prove d’esame. Solo quando il numero di beneficiari di questa guarentigia giudiziaria è andata oltre la cooptazione omologata consentita vi è stato l’intervento delle alte istituzioni nazionali, fin allora silenti ed accondiscendenti. Interventi che hanno limitato diritti ed aspettative dei candidati fino al lederne le libertà fondamentali. Diritti ed aspettative fino al giorno prima riconosciute da tutte le autorità giudiziarie amministrative. Per la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011,“buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte osserva come non sia sostenibile – come spesso affermato – che il punteggio indichi soltanto il risultato della valutazione: “esso, in realtà, si traduce in un giudizio complessivo dell’elaborato, alla luce dei parametri dettati dall’art. 22, nono comma, del citato r.d.l. n. 1578 del 1933, suscettibile di sindacato in sede giurisdizionale, nei limiti individuati dalla giurisprudenza amministrativa”. Il che vale a dire che “il sindacato giurisdizionale sul provvedimento di non ammissione, in presenza dell’ampio potere tecnico-discrezionale spettante agli organi preposti alla valutazione, può avvenire soltanto in caso di espressione di giudizi discordanti tra i commissari o di contraddizione tra specifici elementi di fatto, i criteri di massima prestabiliti e la conseguente attribuzione del voto”.“…il punteggio espresso deve trovare specifici parametri di riferimento nei criteri di valutazione ….ed è soggetto a controllo da parte del giudice amministrativo che, pur non potendo sostituire il proprio giudizio a quello della commissione esaminatrice, può tuttavia sindacarlo, nei casi in cui sussistano elementi in grado di porre in evidenza vizi logici, errori di fatto o profili di contraddizione ictu oculi rilevabili, previo accesso agli atti del procedimento”.

La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti.

Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull'elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. I fatti: Il TAR per la Calabria accoglie il ricorso proposto da una candidata avverso il provvedimento di non ammissione agli esami orali di abilitazione alla professione di avvocato per l'anno 2009. La decisione è stata confermata dal Consiglio di Stato, il quale ha ritenuto: che nella specie era stato accertato sia il difetto del presupposto sul quale il giudizio della commissione esaminatrice era stato fondato (la asserita presenza di "errori grammaticali"), sia l'assenza di incoerenze della forma in relazione alla tipologia dell'atto giudiziario oggetto d'esame (pur evidenziate dalla commissione stessa con l'espressione "forma impropria, ossia non adatta alla stesura di un atto giudiziario"); che il sindacato in questione era stato svolto nei limiti della giurisdizione di legittimità, diretta a verificare l'eventuale sussistenza del vizio di eccesso di potere senza alcuno sconfinamento nel merito (ossia, senza la sostituzione di una valutazione tecnico/giuridica del giudice amministrativo a quella dell'amministrazione). Sul punto le SU si soffermano sulla circostanza che la valutazione demandata alla commissione esaminatrice è, in primo luogo, priva di "discrezionalità", perché la commissione non è attributaria di alcuna ponderazione di interessi né della potestà di scegliere soluzioni alternative, ma è richiesta di accertare, secondo criteri oggettivi o scientifici, il possesso di requisiti di tipo attitudinale-culturale dei partecipanti alla selezione la cui sussistenza od insussistenza deve essere conclusivamente giustificata (con punteggio, con proposizione sintetica o con motivazione, in relazione alle varie "regole" legali delle selezioni). Il giudizio circa l'idoneità del candidato avviene, dunque, secondo regimi selettivi di volta in volta scelti dal legislatore che non precludono in alcun modo la piena tutela innanzi al giudice amministrativo (in tal senso le decisioni della Corte Costituzionale, in sento 20/2009 e ord. 78/2009), giudice del fatto come della legittimità dell'atto. Sia chiaro a tutti: l’estrema arbitrarietà di accesso al merito riconosciuto al Tar porta ad una palese disparità di trattamento delle istanze. La dedica è prestata secondo il principe del foro demandatario.Dal 1998 (dico 1998, una vita) partecipo al concorso di avvocato indetto dal Ministero della Giustizia, che ogni anno si svolge presso ogni Corte di Appello, le cui commissioni sono composte da magistrati, avvocati e professori universitari.

Dal 1998 i miei elaborati sono giudicati sempre con identico voto negativo e senza alcuna motivazione. Il fatto certo è che i miei pareri legali non sono corretti (mancanza di correzioni, glosse, ecc.) e sono dichiarati tali in un tempo che il Tar ha dichiarato estremamente insufficiente.

Dal 1998 il presidente, prima locale e poi nazionale, ed i componenti della commissione d’esame sono quelli che ho denunciato in questi anni per favoritismi durante e dopo le prove selettive.

Dal 1998 sono disoccupato pur capace di esercitare la professione. Ciò ha influito negativamente sulla vita di tutta la mia famiglia, condannata all’indigenza.

Potevo rassegnarmi ad essere un incapace, ma sono diventato, mio malgrado, un esperto in concorsi truccati. Dal 1998 sono destinatario come presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie della disperazione di tanti altri come me. Per dimostrare la verità, raccolgo le testimonianze da tutta Italia di centinaia di migliaia di candidati vittime dei concorsi truccati tra i più disparati. Testimoni anche autorevoli come possono essere i magistrati o i professori universitari che ambiscono a ruoli superiori. Testimonianze che si sono estese oltre che ai concorsi come la magistratura, notariato ed avvocatura. Le testimonianze denunciano i concorsi truccati in Italia come regime generale di cooptazione nel sistema della classe dirigente o di livello professionale superiore. Chi detiene una pubblica funzione, anche senza merito in virtù di un concorso truccato, è componente di quelle commissioni d’esame, che reiterano il sistema di cooptazione all’interno del regime. Da quanto analiticamente già espresso e motivato nel dossier malagiustizia si denota che in questi anni sui miei elaborati violazione di legge, eccesso di potere e motivi di opportunità viziano qualsiasi valutazione negativa adottata dalla commissione d’esame giudicante, ancorchè in presenza di una capacità espositiva pregna di corretta applicazione di sintassi, grammatica ed ampia conoscenza di norme e principi di diritto dimostrata dal candidato in tutti e tre i compiti resi.

1.     Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa, rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte d’Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità, (spesso fino al doppio) per tempo e luogo d’esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%, nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le sottocommissioni del Nord Italia. I Candidati sperano nella buona sorte dell’assegnazione. La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.

2.     Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.

3.     Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella materia di riferimento.

4.     Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione.

5.     Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.

6.     Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della Commissione d’esame centrale e si contesta contestualmente l’assenza del presidente della Iª sottocommissione di Palermo.

7.     Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito.

8.     Altresì qui si contesta, acclarandone la nullità, la nomina del presidente della Commissione centrale, Avv. Antonio De Giorgi, in quanto espressione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce. Nomina vietata dalle norme.

Ciò nonostante, il tutto fin qui riconosciuto a tutti, la Corte Costituzionale mi dice: "siamo in Italia, il voto non va motivato e le commissioni sono arbitrarie ed insindacabili".

La Corte di Cassazione mi dice: "siamo in Italia, devi essere giudicato (sui concorsi, ma anche sui procedimenti penali a tuo carico per reati d’opinione) dai magistrati che hai denunciato alle procure e criticato sui giornali. E dato che ti sei ribellato, chiedendo la rimessione dei processi, ti condanno alla pena di 2000 euro".

Il Governo mi dice: "hai ragione facciamo le riforme". Dal 2003 fa girare i compiti in tutta Italia. Il criterio di correzione diventa razzista. Il presidente locale della commissione 1998/2000/2001 estromesso dalla riforma, diventa addirittura presidente nazionale nel 2010.

Il Tar mi dice: "siamo in Italia, ma se la Corte Costituzionale afferma che le commissioni sono insindacabili, la Cassazione mi dice che non vi può essere ricusazione, se il Ministero della Giustizia mi mette come presidente di commissione chi aveva cacciato, io rigetto il tuo ricorso". Ricorso presentato con 1000 euro tra contributo unificato, bolli e spese di notifica.  Una tangente a favore di uno Stato che non ti tutela.

Le procure informate con prove e circostanze mi dicono: "è impossibile che le commissioni d’esame abusino dei loro poteri contro di te". Resta il fatto che nessun commissario denunciato e criticato mi ha mai denunciato per calunnia o diffamazione.

La mia unica speranza è la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, se non ci sono italiani di mezzo. Con Essa sono investiti il Parlamento Europeo e la Commissione Europea. Chiedo Loro se sia possibile che le autorità pubbliche da me biasimate, ad oggettiva ragione con rispondenza giuridica e con fondamento di prove accluse al ricorso, siano le stesse, impunemente e con parzialità, a valutare  i miei esami ed a giudicare penalmente le mie critiche nei loro confronti in tema di malagiustizia. Mi rispondono: il tuo ricorso è irricevibile.

Fa niente se sei perseguitato dalla mafia, se essa non è ritenuta tale dai suoi commensali. Proprio vero: la Giustizia non è di questo mondo. Strano che dal 1998 nessun organo di stampa nazionale ha sostenuto la mia lotta. “Ballarò” di Rai3 ha fatto un servizio mai mandato in onda. “I programmi dell’accesso” della Rai hanno fatto un servizio mai mandato in onda. Soldi dei contribuenti bruciati nel nome della censura.

Dal dossier malagiustizia si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p. Oltre al danno vi è la beffa: rigettato e condannato anche alle spese. Si intimidisce il cittadino per disincentivarlo alla presentazione delle istanze di rimessione.

Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione.

Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

QUESTO E’ IL CASO ESEMPLARE DI RITORSIONE PER IL QUALE L’ITALIA MAFIOSA SI DOVREBBE VERGOGNARE.

COSI' SI DIVENTA AVVOCATO O SI IMPEDISCE DI ESSERLO!!!

IN UN CONCORSO PUBBLICO, (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI), I TEMI SCRITTI NON SONO CORRETTI, MA DAl 1998 SONO DICHIARATI TALI. DEVI SUBIRE E DEVI PURE TACERE, IN QUANTO NON VI E' RIMEDIO GIUDIZIARIO O AMMINISTRATIVO.

CONCORSI DI AVVOCATO PRESIEDUTI DA CHI E' STATO DENUNCIATO COME PRESIDENTE DI COMMISSIONE LOCALE. LA DENUNCIA E' STATA PRESENTATA ANCHE AL PARLAMENTO. SI E' CHIESTA UNA INTERROGAZIONE PARLAMENTARE. NONOSTANTE LE INTERROGAZIONI PARLAMENTARI PRESENTATE: TUTTO LETTERA MORTA. COSTUI NON HA POTUTO PIU' PRESIEDERE LA COMMISSIONE LOCALE, PERCHE' E' STATO ESTROMESSO DALLA RIFORMA DEL 2003, E NONOSTANTE CIO' POI E' STATO NOMINATO PRESIDENTE DI COMMISSIONE CENTRALE.

Queste sono state le conclusioni del ricorso amministrativo presentato dall’avv. Mirko Giangrande per conto del padre dr. Antonio Giangrande. Ricorso con cui si contestano in fatto e in diritto i giudizi negativi delle prove scritte resi dalle sottocommissioni per gli esami di abilitazione alla professione di avvocato. Ricorso presentato presso il Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia, sezione distaccata di Lecce. Ricorso n. 1240/2011 che per 13 anni nessun avvocato per codardia ha mai voluto presentare. La commissione competente nel 2010 per tali conclusioni ha negato l’accesso al gratuito patrocinio. Il TAR ha rigettato l'istanza di sospensiva nonostante i vizi, mentre per altri candidati l'ha accolta, valutando l'elaborato direttamente nel merito.

Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei.

«Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione.

Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo.

Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere.

Dopo anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura, del notariato, dell’insegnamento accademico e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate e del concorso dell’Avvocatura dello Stato. A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà.

Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari.

Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato.

Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa.

L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non vi travolga, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E voi dell’informazione se non ve ne siete accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarvelo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida.»

Avvocati, magistrati, professori universitari, notai, e tutta la massa di funzionari pubblici cooptati con un sistema mafioso, che i lor signori in Parlamento, come unici beneficiari, non vogliono debellare.

Wikipedia dà una definizione di “Raccomandazione”, fenomeno sociale impossibile da debellare in periodi di crisi economica e morale. Si sceglie di adottare questo rimedio per superare illegalmente tutti i candidati a ricoprire un impiego, o un incarico, o un appalto a numero limitato, pubblico o privato, professionale o istituzionale.

Per quanto detto, la Cassazione, sesta sezione penale, con sentenza nr. 38617 del 5 ottobre 2009, ha affermato che, fare pressioni su qualcuno, sfruttando la propria posizione o la propria autorevolezza, per agevolare l’assunzione di terze persone, può integrare gli estremi del reato di concussione.

La raccomandazione in ambito pubblico, è proposta da un soggetto privato o istituzionale, ma per avere conseguenza giuridica deve essere percepita ed adottata da un Pubblico Ufficiale, che pone in essere atti illegali al fine di produrre gli effetti sperati nella Pubblica Amministrazione. Ciò si concretizza nell’avvantaggiare qualcuno in pubblici incanti o in pubblici concorsi, ma il vero danneggiato è il sistema pubblico: non vi è cooptazione dei suoi elementi secondo imparzialità e meritocrazia, inficiandone la sua efficienza. Molti sono i reati commessi.

Vi è il “Falso”, perché nei verbali pubblici si attesta una valutazione non veritiera o fatti inesistenti.

Vi è l’ “Abuso di ufficio”, perché si adotta un atto illegale con violazione di norme di legge, con cui si avvantaggiano soggetti non meritevoli, danneggiandone altri.

Vi è la “Corruzione” e la “Concussione”, perché vi è sempre un interesse e un vantaggio economico, spesso reciproco.

Vi è l’ “Associazione a delinquere”, perché si è in tanti ad essere partecipi. Ecc. ecc.

Insomma, dovrebbe essere equiparata alla turbativa d'asta, in quanto mi si dovrebbe spiegare qual'è la differenza tra un concorso truccato ed un appalto truccato.

Si soprassiede sul fatto, non marginale, sul perchè non si ravvisi il reato di associazione di stampo mafioso istituzionale, per il sol fatto che vi è sopraffazione ed omertà in atti pubblici, con il vincolo associativo dei Pubblici Ufficiali.

Per RACCOMANDAZIONE si intende, comunemente, un'azione o una condizione che favorisce un soggetto, detto raccomandato, nell'ambito di una procedura di valutazione o selezione, a prescindere dalle finalità apparenti della procedura, cioè indicare i più meritevoli e capaci. Per essere tale, la raccomandazione deve coinvolgere un altro soggetto, detto raccomandante o sponsor, il quale esercita un'influenza sulla procedura di valutazione, indipendentemente dalle qualità del soggetto raccomandato. Le procedure di valutazione o selezione più frequentemente distorte dalle raccomandazioni sono i concorsi pubblici, le procedure di selezione del personale, i procedimenti di valutazione scolastica o di accesso a un corso di studi, gli esami universitari o di abilitazione professionale, o qualsiasi procedura dove si valuta l'idoneità o la competenza di un soggetto in un determinato ambito professionale o culturale.

Caratteristica fondamentale della raccomandazione, dunque, è che agisce su queste procedure introducendo un criterio di valutazione estraneo ai loro criteri logici ordinari, che dovrebbero puntare a scegliere i più preparati e i più idonei. Questa caratteristica la distingue da altre pratiche apparentemente simili, ma eticamente legittime e socialmente funzionali, come la presentazione di un allievo, da parte di uno scienziato a un altro scienziato, affinché l'allievo prosegua con il secondo scienziato il percorso di ricerca già intrapreso con il primo. In questo caso, infatti, l'azione dello scienziato "raccomandante" non prescinde affatto dalla qualità del "raccomandato", testata appropriatamente attraverso l'esperienza di ricerca. Per sincerare l'esistenza di una vera "raccomandazione", occorre dunque comprendere la natura dei rapporti tra i soggetti coinvolti, e chiarire se la natura di questi rapporti sono tali da introdurre, nel processo di valutazione, criteri estranei a quelli del merito e della capacità del valutando.

Nella raccomandazione esplicita (o raccomandazione propriamente detta) lo sponsor o raccomandante è sempre formalmente estraneo alla procedura di valutazione, e può indirizzare una semplice segnalazione a uno o più decisori coinvolti nella procedura di valutazione (raccomandatari). In tal caso si può anche parlare di menzione raccomandativa, che spesso viene descritta dal raccomandante con l'espressione "ho fatto il nome di....". Se invece il raccomandante esprime una schietta richiesta di favore o di aiuto, indirizzata ai raccomandatari, allora si può parlare di raccomandazione esortativa.

La raccomandazione implicita (o raccomandazione impropriamente detta) è invece una proprietà del soggetto valutato, che lo lega a un soggetto terzo o a un decisore (rapporto di amicizia, parentela, appartenenza politica, esperienze pregresse) e che può influenzare il processo di valutazione anche senza che un'azione vera e propria venga compiuta per distorcerlo.

Nel caso della raccomandazione esplicita, o anche nel caso della raccomandazione implicita se il raccomandante e il raccomandatario non coincidono, è frequente ravvisare un legame tra raccomandante e raccomandatario che espone il secondo all'influenza del primo, per meriti acquisiti dal raccomandante presso il raccomanadatario, per un rapporto di potere che il raccomandante può esercitare sul raccomandatario, per il prestigio e la reputazione del raccomandante, o per una qualsiasi proprietà del raccomandante da cui il raccomandatario attende vantaggi. Dello stesso tipo possono essere inoltre i legami tra raccomandato e raccomandante: se sussiste un rapporto di parentela tra i due, la raccomandazione è un aspetto del nepotismo. Se invece sussiste un rapporto politico, che spesso si traduce in consenso elettorale a favore del raccomandante, la raccomandazione rientra nella fenomenologia del clientelismo.

Dunque nella "pratica di raccomandazione" si ravvisano almeno tre soggetti. Nel caso della raccomandazione implicita, il raccomandatario non ha un ruolo attivo, ma nondimeno esercita la sua influenza.

Il raccomandante: colui che, sfruttando la propria posizione sociale e il proprio potere, compie l'azione del raccomandare.

Il raccomandato: colui che gode della raccomandazione e della posizione di vantaggio che ne consegue.

Il raccomandatario: colui che riceve la raccomandazione e, dunque, la segnalazione del soggetto da favorire.

La raccomandazione, anche detta informalmente "spintarella", può essere ulteriormente distinta in raccomandazione a spinta e raccomandazione a scavalco.

Nel caso della raccomandazione a spinta, la procedura di valutazione non è di tipo competitivo. I valutandi, in altre parole, non competono per l'accesso a un bene scarso, quindi non si forma una graduatoria con i partecipanti alla procedura di valutazione. E' il caso, ad esempio, degli esami scolastici o universitari. In questo caso, la raccomandazione danneggia il sistema sociale nel suo insieme, ma non presenta "controinteressati" specifici i cui diritti sono lesi.

Nel caso della raccomandazione a scavalco, i valutandi vengono inseriti in una graduatoria, in quanto competono per l'accesso a opportunità di numero limitato (ad esempio l'assunzione in un ente pubblico). In questo caso, la raccomandazione, oltre a danneggiare il sistema sociale sfavorendo la selezione dei più meritevoli e capaci, danneggia direttamente i valutandi non raccomandati.

La distinzione tra raccomandazione a spinta e raccomandazione a scavalco è spesso sfumata, in quanto gli esiti di procedure di valutazione non competitiva possono essere utilizzati per procedure di selezione: ad esempio, l'assegnazione di borse di studio può dipendere dai voti d'esame, la graduatoria di un concorso pubblico può dipendere dal voto di laurea. In questo senso, pressoché ogni raccomandazione a spinta ha il potenziale per sostanziarsi in una raccomandazione a scavalco, sebbene gli effetti siano in prima battuta meno prevedibili e specifici. Nel caso della raccomandazione a scavalco, invece, i danni di natura morale e patrimoniale inflitti ai valutandi non raccomandati sono immediatamente tangibili.

La raccomandazione è in Italia una pratica molto diffusa, soprattutto per l'accesso al pubblico impiego, come segnalano molte vicende di cronaca. La trasmissione "Mi Manda Raitre" segnalò molti casi di raccomandazioni a vantaggio di candidati del concorso per titoli e per esami del 2000, rivolto ad aspiranti insegnanti, supplenti in attesa di cattedra e neolaureati. Caso che rimbalzò sui primi titoli del Times e fece il giro del mondo. In quel caso, si parlò soprattutto di regali da parte dei raccomandati a membri delle commissioni esaminatrici, spesso consistenti in pellicce e gioielli. Non da meno sono gli scandali esplosi sui concorsi a numero chiuso per accedere alle università, ovvero le forme di baronie accademiche. Meno note alla pubblica opinione sono le questioni attinenti ai concorsi pubblici che attengono l'abilitazione professionale dell'avvocatura e del notariato o dell'università, oltre che quella più scabrosa per accedere in Magistratura. Investiti delle denunce sui concorsi farsa sono i Magistrati, che con gli avvocati e i professori universitari fanno parte, come componenti necessari, di tutte le commissioni di esame per l'accesso ai rispettivi ordini professionale. Invalidare un concorso pubblico significa invalidarli tutti, in quanto il sistema concorsuale è marcio dal punto di vista oggettivo, così come molteplici interrogazioni parlamentari e sentenze amministrative hanno dimostrato. Ammettere ciò significa palesare il degrado morale di una società civile la cui classe dirigente non merita di essere tale. Ma muoversi dal punto di vista penale significa inficiare la credibilità delle categorie nominare. Per questo non si può, nonostante la riforma dell'esame forense del 2003 ha attestato quanto si cerca di censurare: fuori i consiglieri dell'ordine degli avvocati dalle commissioni esaminatrici e gli scritti corretti da avvocati, magistrati e professori universitari di altro distretto di Corte d'Appello, sorteggiato, questo perchè si raccomandava a iosa. In seguito nulla è cambiato. A questo punto per il sistema è più facile tacitare e perseguitare il dr Antonio Giangrande, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, autore del libro "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo" ed autore di centinaia di articoli-denuncia pubblicati da moltissime testate nazionali ed estere. Egli da anni denuncia al mondo il sistema illegale di accesso e di abilitazione alla classe dirigente italiana, non assicurandole la meritocrazia.  foriera di inefficienza. Per questo per decenni non gli è stata resa un'abilitazione forense, chiaramente meritata, oltre che essere perseguito per reati inesistenti.

Il meccanismo della raccomandazione "va a buon fine" quando tutti i soggetti coinvolti agiscono di concerto. Spesso le relazioni tra i soggetti qui descritti sono sostenute da trasferimenti di denaro e/o altre prestazioni. Quando la raccomandazione ha buon esito e il candidato è insediato nel posto di lavoro da lui richiesto, può succedere che gli venga segnalato dall'ex raccomandatario un nuovo candidato da favorire, aprendo così una catena che è molto difficile interrompere, ma che finisce spesso per premiare candidati impreparati o inadatti a quella mansione a danno di altre persone che avrebbero i titoli e la preparazione ottimale per accedere, ma che si vedono esclusi a priori dall'accesso. La raccomandazione viaggia spesso attraverso circuiti familiari (nepotismo): un parente può essere favorito da un membro della stessa famiglia che occupa una posizione importante in seno a un istituto della pubblica amministrazione, un ente privato o una struttura confessionale, se in tali istituzioni esistono soggetti in grado e propensi a favorire dei loro protetti e manchi la vigilanza delle istituzioni.

Questa pratica danneggia quindi meritocrazia e efficienza, che dovrebbero essere sempre alla base delle assunzioni e della gestione: l'accesso di nuovi assunti non in grado di assolvere ai requisiti richiesti può causare una diminuzione o un danno alla produttività e all'efficienza di una struttura, mentre in molti casi la macchina burocratica della stessa diventa più lenta per la presenza di personale assunto ad hoc in numero eccedente rispetto alle necessità effettive. Talvolta il raccomandatario, se in una posizione molto influente, può addirittura indire un concorso o una serie di colloqui per posizioni per esaudire le necessità del raccomandato.

Nel caso della raccomandazione clientelistica nel settore pubblico, ulteriore danno alla pubblica amministrazione proviene dal rapporto di riconoscenza che lega il raccomandato al raccomandante: se la Costituzione della Repubblica Italiana pone i dipendenti pubblici "al servizio della Nazione", il raccomandato potrebbe invece servire l'interesse particolare del raccomandante politico-clientelare, venendo talvolta a configurare un rapporto di lavoro subordinato, di fatto, non più con l'ente pubblico che eroga la retribuzione (e quindi con la comunità di cittadini che finanzia l'ente pubblico), ma con il raccomandante o con la parte politica del raccomandante. I raccomandanti, in alcuni casi, potrebbero contare sul dipendente pubblico come su una propria risorsa privata da utilizzare per le attività di partito o addirittura personali o familiari dei raccomandanti, sebbene a spese dei contribuenti.

A sua volta, laddove si manifesta, l'inefficienza della macchina burocratica (personale eccedente assunto senza effettive necessità, leggi errate, conflitti tra leggi regionali e statali ecc.) può rendere molto difficile l'accesso al posto di lavoro da parte del candidato avente i requisiti necessari. I cavilli legali, la lunghezza delle pratiche da espletare, possono creare così una competizione al ribasso che spinga un dirigente poco onesto a risolvere i problemi occupazionali di un candidato particolare piuttosto che di un altro in possesso di titoli uguali o maggiori del favorito.

La domanda di posti di lavoro aumenta con l'incertezza istituzionale: leggi e decreti che scadono al cadere di una legislatura, o concorsi istituiti una tantum per volontà di un singolo governo o di una singola amministrazione, non ripetuti a scadenze precise di tempo possono aggiungersi ai problemi già elencati. Le vessazioni burocratiche illegali (ad es. richiesta di documenti o certificati di identità o idoneità laddove la legge prescrive l'autocertificazione personale), la complicazione delle procedure burocratiche (eccessiva documentazione da compilare, difficoltà dei moduli di iscrizione e mancanza di personale, insufficienza delle strutture addette ad assistere i candidati nell'espletamento delle pratiche, la mancanza o insufficienza di informazioni atte alla preparazione del candidato possono scoraggiare ulteriormente chi non goda di sostegni particolari all'interno dell'istituzione in questione.

Per tutti questi aspetti, le raccomandazioni sono da considerare una vera e propria piaga sociale, che danneggia alle fondamenta il sistema sociale ed economico, incentivando la "fuga dei cervelli", minando la competitività del sistema produttivo, incentivando l'inefficienza, gli sprechi e l'illegalità nella pubblica amministrazione e contribuendo a diffondere un'atmosfera di sfiducia e scarsa propensione al lavoro e allo studio.

Dorothy Louise Zinn, con il suo libro, “La raccomandazione, Clientelismo vecchio e nuovo”, parla di un tema sempre attuale.

Secondo una radicata tradizione di studi antropologici, ormai largamente acquisita anche dal senso comune, il clientelismo è uno dei caratteri costitutivi della realtà del nostro Mezzogiorno. Ad esso viene strettamente connessa l'idea della raccomandazione, cioè di una qualche forma di relazione sociale tesa a «forzare le regole», e che va dalle più piccole e innocue richieste di favori, fino alle forme più gravi di sopraffazione e stravolgimento delle regole. Ma la raccomandazione è davvero, e soltanto, un fatto meridionale? Tutta la vicenda di Tangentopoli in Italia, così come le crisi economiche dell'Asia e della Russia, o lo scandalo che ha investito in Germania il partito dell'ex cancelliere Kohl, indicano che i tempi sono maturi per una riconsiderazione del clientelismo.

Sarà pure spregevole, ma è quanto mai necessaria. La raccomandazione è una pratica così diffusa nel malcostume nostrano da essere elevata a sistema, a ideologia pura. Il 58% degli italiani, infatti, secondo la rivista Focus, approva la spintarella come strumento di promozione senza differenze tra maschi e femmine. L'Italia si conferma paese dove il nepotismo e la "segnalazione" hanno basi abbastanza solide e così la percentuale si alza di molto quando si tratta di chiedere una raccomandazione per parenti o amici. Secondo l'indagine della rivista si arriva al 72% per gli uomini e addirittura all'80 per le donne. La meritocrazia non gode di ottima salute in Italia. E ormai la credenza che la raccomandazione sia un atto dovuto sta egemonizzando l'opinione pubblica e la gente comune. Nel familismo all'italiana sembra non si possa proprio negare un favore a nessuno. I centri di potere che creano clientele sono molteplici (politica, magistrati, avvocati, mondo ecclesiastico) ciascuno in grado di assicurare un posto al sole. Sono in pochi a credere nella mobilità sociale, così meglio affidarsi a prassi consolidate. Così all'intervistatore che chiede: “Raccomandereste il figlio, inetto, di un amico che vi ha fatto un grosso favore?”, il 41% ha risposto in modo affermativo aggiungendo, “senza insistere”. Ma solo il 10% degli intervistati ne sconsiglierebbe l'assunzione.

Sarà cambiata lei, ma i raccomandati no, quelli ci sono sempre. Almeno uno su due, è la conclusione di una ricerca dell’Isfol. E per un’indagine dell’Eures quasi il 60% dei ragazzi con meno di 20 anni hanno le idee chiare sul loro futuro, convinti come sono che il fenomeno della raccomandazione sia in aumento.

Anche chi è sempre stato diffidente verso la Confindustria farebbe bene a leggere il rapporto "Generare classe dirigente" della Luiss, l’università dell’associazione degli industriali. Quel rapporto è composto essenzialmente da due parti. La prima è stata elaborata sulla base di 2080 questionari rivolti a soggetti scelti fra tutta la popolazione italiana messi a punto dall’associazione laureati Luiss, dall’Università politecnica delle Marche, dell’Università di Bologna e dalla società Ermeneia del sociologo Nadio Delai. Il risultato è per certi versi sconcertanti. Alla domanda se in Italia le raccomandazioni contino più del merito, le risposte "molto" e "abbastanza" hanno raggiunto l’80,6% del totale. E questo nonostante il 79,9% sia d’accordo sul fatto che la valorizzazione del merito possa "migliorare le condizioni del Paese". E se secondo gli intervistati il riconoscimento del merito esiste sia pur moderatamente nella piccola e media impresa (51,2%) e nelle professioni (49,9%), nella classe dirigente (34,4%) è molto più basso, per non parlare dei sindacati (27,9%), delle associazioni imprenditoriali (24,5%), della pubblica amministrazione (24%) e della politica, dove i giudizi sul riconoscimento del merito sono i più bassi in assoluto: 22,9%. Da sottolineare che sia per la pubblica amministrazione che per la politica il peso delle risposte "poco" e "per nulla apprezzato" relativamente al merito, raggiungono i livelli massimi, rispettivamente pari al 56,3% e al 54,2%.

La raccomandazione non tramonta mai. Il male italiano resta radicato con forza nella nostra realtà lavorativa e non accenna a indebolirsi. E' quanto risulta da un sondaggio realizzato dall'istituto ricerca Swg e diffuso durante un convegno a Lamezia Terme sul tema "La nuova politica del quadro strategico nazionale: l'istruzione motore dello sviluppo". Secondo l'indagine 9 italiani su 10 credono che per trovare lavoro serve conoscere la persona giusta. Sono l'89% degli interpellati a dire dunque che la vecchia raccomandazione serve ancora, eccome, per trovare un'occupazione in Italia.

Al Sud solo un laureato su quattro trova lavoro  e solo grazie alle "conoscenze". Lo rivela uno studio della «Rivista Economica del Mezzogiorno», trimestrale della Svimez. Nonostante il conseguimento di un titolo di studio superiore, nella ricerca di un posto di lavoro al Sud, a farla da padrona restano la conoscenza diretta, la segnalazione da parte di parenti e conoscenti o la prosecuzione di un'attività familiare già esistente. Nel Sud infatti, laurearsi è importante, si legge nello studio, ma solo «se si proviene dalla famiglia "giusta", non solo perché ricca, ma pure perché inserita in un reticolo di rapporti sociali». Per le famiglie dei ceti sociali più bassi l'investimento negli studi universitari è rischioso: «La laurea riduce il rischio che lo studente resti disoccupato, ma non riduce il rischio di trovare un'occupazione mal retribuita».

Recenti inchieste giudiziarie hanno smascherato centinaia di casi di privilegio e favoritismi, costruiti scientemente. La raccomandazione è il metodo più rapido per ottenere risultati. Che denoti una scarsa cultura della legalità, o  un impatto sociale devastante non sembra interessare più di tanto. Del resto in situazioni di ristrettezza e di vacche magre, la spintarella rimane un valido appiglio per andare avanti con la proverbiale arte dell'arrangiarsi, del tirare a campare, del machiavellismo specioso. Come dire: ognuno usa i mezzi di cui dispone. Con buona pace dei sociologi che lanciano strali contro le sponsorizzazioni gonfiate e pontificano sul declino dell'etica, sul clientelismo, sul familismo amorale.

I PARENTI ECCELLENTI DELLA POLITICA: DALLE DINASTIE PERPETUE A CHI 'SISTEMA' I FIGLI NEGLI UFFICI O LE MOGLI IN PARLAMENTO.

Un fenomeno davvero curioso, che in politica si verifica con una frequenza strabiliante, è quello dell’ereditarietà. E’ curioso perché nello sport, per esempio, non accade con eguale sistematicità. Quanti grandi calciatori o sciatori o automobilisti hanno generato eredi capaci di eguagliarli e magari superarli? I casi si possono contare sulle dita di una mano. In politica, al contrario, non è così. Evidentemente, i geni si tramandano meglio quando si sta seduti su una comoda poltrona in Palamento, che quando occorre correre dietro una sfera di cuoio o su un bolide di Formula1. Chi di voi, infatti, sapeva che l’ex premier Massimo D’Alema è figlio di un ex deputato del Partito comunista italiano, Giuseppe D'Alema?

L’ex primo ministro – l’unico della storia italiana a provenire dalla sinistra – non è tuttavia l’unico prototipo del darwinismo applicato alla politica. Particolarmente articolata, infatti, è la dinastia dei Veltroni.

Walter è figlio di Vittorio Veltroni, radiocronista Eiar e poi dirigente della Rai, scomparso quando lui aveva appena un anno. Sua madre, Ivanka Kotnik, era figlia dello sloveno Ciril Kotnik, ambasciatore del Regno di Jugoslavia presso la Santa Sede, che dopo l'armistizio del 1943 aiutò numerosi ebrei romani a scappare dalla persecuzione nazifascista. Walter, bocciato in prima superiore – quasi un precursore rispetto a Renzo Bossi - nel 1973 ha ottenuto il diploma in cinematografia e televisione. In particolare, si è distinto per avere sfasciato il centrosinistra, defenestrando Romano Prodi – l’unico capace di battere sempre il Cavaliere - e guidando il Pd alla disfatta nelle politiche del 2008.

Proprio Romano Prodi, due volte presidente del Consiglio, ex ministro dell’era Andreotti e presidente storico dell’Iri, ha un fratello maggiore, Vittorio, che siede all’Europarlamento. La loro dinastia impera anche all’Università di Bologna. Vittorio è stato docente di fisica, Romano vi insegna ancora economia.

Giorgio Franceschini, padre del ferrarese Dario - anche lui leader per nulla indimenticabile del Pd, dopo il fallimento di Veltroni - fu partigiano bianco e deputato per la Democrazia cristiana durante la II Legislatura, dal 1953 al 1958.

Rosa Russo Jervolino, ex ministro dell’Interno e sindaco di Napoli, è figlia di Angelo Raffaele Jervolino, ex esponente del Partito popolare e della Dc, firmatario della costituzione, deputato, senatore e ministro di Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani e Aldo Moro.

Il deputato messinese del Pd ed ex sindaco di Messina, Francantonio Genovese, è nipote dello storico numero uno della Dc siciliana, Nino Gullotti, a suo tempo pluriministro della Repubblica, e figlio dell’ex senatore della Balena Bianca, Luigi genovese. Altro figlio d’arte messinese è il senatore Gianpiero D’Alia, coordinatore siciliano dell’Udc e capogruppo a palazzo Madama. Suo padre, Totò, è stato per anni un pezzo da novanta della Dc.

“Circondato” da politici o comunque da militanti è Piero Fassino, altro esponente di spicco del Pd, più volte ministro e segretario dei Ds dal 2001 al 2007. È sposato dal 1993 con Anna Maria Serafini, deputata del suo stesso partito dal 1987 al 2001 e senatrice dal 2006. Nel 2008, stranamente, è stata eletta in un collegio della Sicilia, sebbene lei sia nata - il 4 marzo 1953 - a Piancastagnaio (provincia di Siena) e sia residente a Roma. Probabilmente avrà trovato nell’isola un posto disponibile sul treno per palazzo Madama. Il nonno materno di Piero Fassino, Cesare Grisa, fu uno dei fondatori del Partito socialista italiano. Quello paterno venne ucciso dai fascisti nel 1944, mentre il padre, Eugenio Fassino, è stato comandante della 41ma brigata Garibaldi nel corso della resistenza.

Si sono separati come le acque al cospetto di Mosè i figli di Bettino Craxi, padre a dir poco discusso del socialismo liberale italiano. Stefania, sottosegretaria agli Esteri, ha sposato – sebbene con atteggiamento recentemente critico – la causa di Silvio Berlusconi. Bobo, fratello minore, è stato anch’egli sottosegretario agli Esteri, ma nel Governo Prodi. E ora tenta l’impresa con il riesumato Partito socialista.

Un nome decisamente altisonante e ancora più “scomodo” di quello dei Craxi è quello di Alessandra Mussolini, ex attrice e cantante e da una vita in Parlamento. L’attuale deputata del Pdl si potrebbe definire una predestinata, configurando una sorta di “incrocio” tra due famiglie di assoluto richiamo. E’ infatti figlia di Anna Maria Scicolone, sorella minore dell'attrice Sophia Loren, e di Romano Mussolini, quarto figlio di Benito.

Parenti eccellenti anche nelle forze cosiddette autonomiste. Come per esempio in Sicilia. L’ex europarlamentare e attuale governatore Raffaele Lombardo, un tempo democristiano di ferro e ora leader del Mpa, nel 2008 ha spedito a Montecitorio il fratello Angelo Salvatore, da una vita nella sua segreteria politica. Angelo, nel 2006, era stato eletto all’Assemblea regionale siciliana, salvo poi perdere la poltrona a causa dello scioglimento del governo in virtù delle dimissioni dell’allora presidente Salvatore Cuffaro.

Ma quando si parla di autonomismo non si può tralasciare l’epopea dei Bossi. Renzo, secondogenito di Umberto, dopo essere stato bocciato per ben 3 volte all’esame di Stato, nel 2009 è stato eletto in Consiglio regionale lombardo. Il primogenito Riccardo, all’inizio del nuovo millennio, è stato il portaborse – in Europarlamento – del leghista Francesco Speroni. Lo stesso è accaduto per Franco Bossi, fratello del Senatùr, che nello stesso periodo ha servito a Bruxelles un altro esponente del Carroccio, Matteo Salvini. Nessuno dei due portaborse aveva titoli giustificativi dell’incarico ma guadagnavano entrambi 12.750 euro. Mensili.

Sempre in quegli anni, il sottosegretario Maria Elisabetta Alberti Casellati, in quota a Forza Italia prima e al Pdl poi, ha assunto a capo della propria segreteria, al ministero della Salute, la figlia Ludovica. E ancora in consiglio regionale Lombardo, oltre al Trota, siede un altro parente eccellente: Romano Maria La Russa, fratello minore del ministro della Difesa, Ignazio.

E questa è solo la punta dell’iceberg. Del resto, si sa, buon sangue non mente. Anche se verrebbe tanto da chiedersi dove è finito, dopo la morte della Prima Repubblica, il “nuovo che avanza”.

"Onorevoli figli di. I parenti, i portaborse, le lobby: istantanea del nuovo Parlamento" Rinascita edizioni di Danilo Chirico e Raffaele Lupoli.

"Non possiamo avere un Paese che, quando andiamo a vedere le liste elettorali, sono tutti figli di". Luca Cordero di Montezemolo era ancora presidente di Confindustria quando, da buon manager legato alle famiglie più influenti del capitalismo italiano, prima del voto ha voluto ribadire l'importanza della meritocrazia e della concorrenza in tutti i campi, anche nella politica. "Sin dalla prima elementare - ha spiegato - chiunque deve poter andare avanti se è capace, indipendentemente da come si chiama". Gli si potrebbe replicare che dipende anche da dove uno frequenta le elementari. E se ci va accompagnato dall'autista di papà o a piedi con la mamma disoccupata assieme agli altri tre fratelli. (...) Essere figli di non è reato e non è per forza sinonimo di incapacità e privilegio: per fortuna c'è anche chi eredita passione e competenza. Anche se non sempre è possibile distinguere se e quanto il successo, nella professione o nella politica, dipenda dal saperci fare o dal peso del genitore di turno. 

Maria Paola Merloni, ad esempio, è laureata in Scienze politiche ed è un'imprenditrice. A 45 anni ha al suo attivo già due anni da deputato della Margherita, poi Pd. Prima di arrivare in politica è stata presidente di Confindustria nelle Marche e le sue parole d'ordine sono "innovazione e competitività". Nonostante abbia mostrato sul campo le sue doti, il suo nome lo si trova per forza di cose associato a quello del padre Vittorio, fabrianese patron della Indesit elettrodomestici e presidente di Confindustria dal 1980 al 1984. Durante la scorsa legislatura sulla prima dei quattro figli dell'industriale, membro peraltro della commissione Attività produttive, si è abbattuto un sospetto di conflitto d'interesse quando si è trattato di votare sugli incentivi all'acquisto degli elettrodomestici ecologici. (...)

Per rimanere nel ramo (figli e rottamazioni) passiamo a Matteo Colaninno, esordiente in Parlamento ma alle spalle una carriera da manager che fa spavento se rapportata ai suoi 38 anni. Prima di annunciare il suo sì a Veltroni (era capolista in Lombardia 1) si è dimesso dalla carica di presidente nazionale dei Giovani imprenditori, di vicepresidente di Confindustria e di membro del consiglio d'amministrazione del Sole 24 Ore. (...) Matteo è il numero due dell'impresa guidata da Roberto Colaninno, il gruppo Piaggio: 7.200 dipendenti, 7 stabilimenti e attività commerciali in oltre 50 paesi. La sua visione sul ruolo di operai e imprenditori nel paese è la stessa più volte espressa da Walter Veltroni: "Oggi anche le imprese non sono necessariamente soggetti forti - ha detto Colaninno all'apertura della campagna elettorale - . Bisogna capire che azienda e lavoratori devono fare parte dello stesso progetto perché il mercato non è più l'orto di casa o il confine domestico ma il mondo". (...)

Tanti imprenditori è vero, ma qualche rampollo della politica non se lo è fatto sfuggire neanche Silvio Berlusconi, nonostante un solenne annuncio dallo studio di Porta a porta, quando in apertura di campagna elettorale disse: "Nel Pd hanno messo dentro le segretarie, i portaborse e anche i figli e le figlie di. Una cosa che, posso assicurare, noi non faremo".

Fra i banchi di Montecitorio però siede anche stavolta Giuseppe Cossiga, figlio di Francesco. L'ex presidente picconatore che l'8 aprile, dopo aver confermato i buoni rapporti con il Cavaliere ("non l'ho mai votato, ma sono amico suo e delle sua famiglia"), ha regalato uno "scoop" alla giornalista del Piccolo che lo intervistava: "Sarò il testimone di nozze della figlia di Berlusconi, Barbara - ha detto - E sa chi mi ha scelto? Barbara". Amicizie di famiglia a parte, l'onorevole Cossiga figlio, 44enne ingegnere aeronautico, era vice-coordinatore sardo di Forza Italia e la scorsa legislatura faceva parte della commissione Difesa di Montecitorio. (...) 

Per restare ai politici figli di politici, torna in Parlamento anche Enrico Costa, figlio dell'ex ministro Raffaele, liberale finito nel Pdl, autore dei libri "L'Italia degli sprechi" "L'Italia dei privilegi" e propugnatore della fine dei poteri speciali a regioni e province autonome. Il padre presiede la provincia di Cuneo, mentre il figlio, deputato con il Pdl, ne segue le orme a Roma.

Meno noto, ma altrettanto "figlio" il teramano Paolo Tancredi, 42 anni: suo padre è l'ex parlamentare della Dc Antonio Tancredi. Eletto al Senato nelle truppe berlusconiane ha lasciato la carica di consigliere regionale nel suo Abruzzo.

Stessa eredità e stesso partito per Mauro Pili, figlio di Domenico, socialista di Iglesias che abbandonò la politica dopo una condanna per tangenti. Il giornalista ed ex (giovanissimo) presidente della Regione Sardegna (famoso il suo discorso d'insediamento in cui citava cifre e dati relativi alla Lombardia), in campagna elettorale ha attraversato la sua regione a bordo del "treno della libertà". 

Alla stazione Montecitorio Pili si è ritrovato seduto qualche posto più in là un altro figlio riconfermato, il responsabile Mezzogiorno di Forza Italia ed ex presidente della Regione Puglia Raffaele Fitto da Maglie, Lecce. Anche suo padre Totò, democristiano di razza e concittadino (ma avversario nel partito) di Aldo Moro, è stato alla guida della Regione. Purtroppo è morto in un incidente stradale nel 1998, prima di coronare il suo sogno di candidarsi all'Europarlamento l'anno successivo, ma il giovane Raffaele, oggi 38enne, ne ha raccolto bacino di voti e voglia di gettarsi nell'agone.

A 33 anni (è nata il 23 ottobre del 1974) è al suo terzo mandato anche Chiara Moroni, figlia del parlamentare socialista Sergio, che si tolse la vita dopo che fu coinvolto nello scandalo di Tangentopoli.

Dopo la morte del padre Chiara ha militato nella Federazione giovanile socialista e, aderendo al Nuovo Psi, si è candidata con la Casa delle Libertà alle politiche del 2001. Nel 2004 è stata al centro di roventi polemiche, scaturite dalle esternazioni dei deputati leghisti Alessandro Cè e Dario Galli, che avevano dichiarato: "Ci sono persone abbastanza giovani, che stanno qui non si capisce per quali meriti", alludendo chiaramente alla Moroni e ai partiti della Prima Repubblica (fra cui quello socialista), che la Lega ha spesso criticato.

L'avvocato e poi magistrato militare Daniela Melchiorre, classe 1970, il 18 maggio 2006 è stata nominata sottosegretario alla Giustizia del governo Prodi. "Il governo di centrosinistra sarà fondamentale nel portare un miglioramento nella giustizia in generale. Si lavorerà in tutte le direzioni indicate da presidente del Consiglio", aveva dichiarato subito dopo la nomina. Prima di allora affiancava alla professione l'attività di vicesegretario regionale della Margherita in Lombardia. Gianni Barbacetto nel libro "Compagni che sbagliano" racconta che nel curriculum scritto da lei stessa, tra i meriti di studio e professionali, compare anche un'altra utile indicazione: "Figlia del generale della Guardia di finanza Melchiorre e nipote del cardinale Bovone". Una voce quantomeno originale, ma facile da valutare.(...)

Insospettabili le origini familiari di Maria Eugenia Roccella, neo-deputata del Pdl. Giornalista e saggista con una laurea in lettere e un dottorato di ricerca alla Sapienza, Eugenia è figlia di Franco, uno dei fondatori del Partito radicale e anima dell'Ugi, Unione goliardica italiana. A lui si deve il motto dell'associazione che annoverava fra i suoi adepti Marco Pannella e Lino Jannuzzi: "Goliardia è cultura e intelligenza, è amore per la libertà e coscienza della propria responsabilità". (...)

Se, insomma, il Popolo delle libertà non può scagliare la prima pietra, è vero anche che il Partito democratico è stato il più criticato in campagna elettorale per la sua eccessiva attenzione alla genealogia. La medaglia d'oro per la specialità va senz'altro a Daniela Cardinale, giovane figlia dell'ex ministro delle Poste e telecomunicazioni Salvatore. (...)

Sul banco degli imputati con l'accusa di essere "figlia di" è finita anche Marianna Madia, che rivendica con fierezza un'affermazione per la quale era stata criticata da più parti: "Porto in dote tutta la mia straordinaria inesperienza". E spiega che la sua candidatura "dimostra che c'è una rivoluzione in corso". Ma di lei in campagna elettorale si è detto soprattutto che è sveglia e amica dei potenti. Per sua stessa ammissione la parlamentare romana, classe 1980 "secchionissima" laureata con il massimo dei voti, deve dire grazie a chi le ha consentito di arrivare al posto di capolista nel Lazio: dal "maestro di vita" Giovanni Minoli a Enrico Letta, "che ad una ragazzina non ancora laureata ha dato la possibilità di entrare all'Arel", il Centro studi economici promosso dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E ovviamente a Walter Veltroni, a cui è bastato un colloquio dopo la segnalazione degli altri due padrini per decidere. "L'ho visto due volte in vita mia - si schermisce Marianna - Venne al funerale di mio padre. Tre anni e mezzo dopo mi ha telefonato per propormi la candidatura. Il padre di Marianna, Stefano Madia, era giornalista professionista. Poi decise di iscriversi a un corso di recitazione e Dino Risi lo scritturò per il film Caro papà che gli fruttò un premio come miglior attore non protagonista a Cannes. "Poi torna al suo lavoro - racconta la figlia - Ma da precario: programmista-regista in Rai. Lavora a Porta a porta, poi a Mixer, quindi fa causa alla Rai. Dopo dieci anni, due mesi fa ho ricevuto la sentenza: il giudice ordina assunzione e reintegro con giusta mansione. Perciò, in Parlamento, lo giuro: di due cose, certamente, mi occuperò. La lentezza della Giustizia e il dramma del precariato". 

"La candidatura come capolista di Marianna Madia mi convince come donna e come democratica. E le parole di Marianna mi convincono ancor più che la strada del rinnovamento è davvero iniziata". Sarà solidarietà filiale, dato che Franca Chiaromonte, senatrice eletta in Campania, è figlia di Gerardo, parlamentare e dirigente comunista, numero due del partito ai tempi di Berlinguer. (...)

Ritrova il suo posto al Senato anche Sabina Rossa, 45 anni, insegnante e sindacalista: eletta nel 2006 nelle file dell'Ulivo torna a Palazzo Madama dopo l'elezione in Liguria, dove era sesta in lista. Suo padre Guido nel '79 è stato giustiziato da un commando delle Brigate Rosse in un'esecuzione che segnò l'inizio della loro fine. L'attentato era stato deciso per punire il sindacalista della Fiom-Cgil che aveva voluto denunciare l'infiltrazione in fabbrica di un brigatista sorpreso a sistemare volantini terroristici. (...)

Con Sabina Rossa, Giovanni Bachelet ha in comune il tragico destino del padre. E anche lui è stato eletto con il Partito democratico alla Camera. Le sue ricerche come fisico della materia hanno ottenuto il prestigioso traguardo di circa quattromila citazioni: ora lo scienziato arriva in un Parlamento che nella sua storia ne ha annoverati davvero pochi. (...)

Segno Pd ascendente Dc anche per Francantonio Genovese, messinese avvocato figlio del senatore Luigi e nipote del pluriministro Nino Gullotti, entrambi dello scudo crociato. L'ex deputato regionale e sindaco di Messina "decaduto" è segretario siciliano del partito ed è stato eletto alla Camera nel collegio Sicilia II (terzo in lista). Da primo cittadino della sua città, nel 2007 il neo parlamentare è stato travolto, assieme all'intero consiglio comunale, dall'annullamento delle elezioni che lo avevano eletto nel novembre 2005. Il Consiglio di giustizia amministrativa ha accolto il ricorso di un suo contendente alla poltrona di sindaco, Antonio Di Trapani, e della lista del Nuovo Psi di De Michelis, esclusi dalla competizione.

Esordio in Parlamento anche per Roberto Della Seta, romano classe 1959, responsabile Ambiente del Pd eletto al Senato in Piemonte. (...) Prima del "salto" era presidente nazionale di Legambiente, dove era entrato da obiettore di coscienza e ha lavorato per oltre dieci anni. Laureato in Storia dei partiti politici, giornalista, è autore di saggi su vari temi di storia contemporanea: l'ultimo è il Dizionario del pensiero ecologico, il primo è I suoli di Roma, scritto a quattro mani con suo padre Piero, urbanista, saggista ed ex assessore nella capitale dal 1976 al 1983 nelle gloriose giunte Petroselli e Argan. (...)

Giuseppe Berretta, eletto in testa alla lista Pd nel collegio della Sicilia orientale, ha ereditato dal padre due carriere: quella accademica e quella politica. Prima di arrivare a Montecitorio il 37enne avvocato e docente di Diritto del lavoro all'università Kore di Enna, è stato consigliere comunale all'opposizione di Scapagnini, che ora ritroverà in Parlamento, e segretario dei Ds a Catania. Il padre è Paolo Berretta, vicesindaco ai tempi di Enzo Bianco, docente universitario da sempre impegnato in politica, scomparso nel 2006.

Candidata numero 18 al Senato per il Pd in Lombardia c'era anche Ludina Barzini, giornalista, nipote di Luigi Barzini senior, figlia di Luigi Barzini jr, ha raccontato alcune vicende della sua famiglia in Barzini, Barzini, Barzini (Rizzoli 1986). E' è stata anche assessore alla cultura al Comune di Milano. Assieme a candidature di bandiera come quella della Barzini, Pd e Pdl hanno candidato anche alcuni giovani dai natali parlamentari verso il fondo delle liste. Sono ragazzi che sulla scorta dell'esperienza paterna intraprendono la formazione alla dura scuola della campagna elettorale.

Per sostenere Veltroni, ad esempio, ha cominciato a farsi le ossa Gennaro Diana figlio di Lorenzo, ex senatore proveniente dalle difficili terre di Casal di Principe, in provincia di Caserta, in Parlamento dal 1994 al 2006. Dopo tre legislature nelle fila dei Ds e in commissione Antimafia, oggi è membro dell'assemblea nazionale del Pd. Il giovane figlio era numero 26 in Campania 2. Candidatura di servizio, si dice in gergo.

Nelle truppe berlusconiane è stato invece eletto Antonino Salvatore Germanà, nato a Messina nel 1976 e piazzato al decimo posto in Sicilia 2. Conquistando quel seggio che tra Camera e Senato il padre Basilio occupava per Forza Italia dal '94 (fu lui nel 2002 a proporre una provincia autonoma per le isole minori: 53 in tutto). Per la candidatura è perfino entrato in competizione con l'assessore regionale uscente alla Cooperazione Nino Beninati. Per volare a Roma il 32enne deputato ha lasciato ben volentieri la poltrona alla Provincia di Messina, dove era assessore alla Pubblica istruzione. Le sedie che occuperà nella capitale hanno tutto un altro fascino. 

Invece è un capitolo a sé l'eterno match tutto interno alla famiglia Craxi. Il botta e risposta a distanza ha toccato il punto più caldo a metà marzo, quando Michele Vittorio detto Bobo Craxi si è armato di carta e penna e ha scritto a sua sorella: "Cara Stefania, stai nel posto sbagliato". Il capolista per il Partito Socialista in Lombardia 1 e 3 ha reagito così all'iniziativa dal titolo "I riformisti craxiani e il Partito popolare europeo", svoltasi a Milano ad opera del movimento Giovane Italia di Stefania Gabriella Anastasia, meglio conosciuta come Stefania Craxi. L'operazione è chiara: la sorella maggiore era candidata del Popolo delle libertà (è stata eletta nella circoscrizione Lombardia 1). E nella formazione guidata da Silvio Berlusconi ha voluto portare con sé l'ingombrante bagaglio del craxismo, quello che fa riferimento a suo padre Bettino. Le urne hanno dato ragione a lei. 

Tra non eletti anche il senatore Alessandro Forlani, figlio dell'Arnaldo del famigerato Caf (il trio Craxi Andreotti Forlani), sul quale l'Unione di centro riponeva le speranze di ottenere un seggio al Senato nelle Marche. Alessandro Forlani ha seguito fin dai tempi del Ccd le vicende politiche di Pier Ferdinando Casini, ritenuto unanimemente l'erede politico più diretto di Forlani padre. Il quale però avrebbe preferito che Berlusconi e Casini non fossero arrivati alla separazione. Poi si è rassegnato, visto che il dissenso tra Pier e Silvio è precipitato in lite. "Dico la verità, non mi aspettavo che, dopo aver fatto il patto con Fini, Berlusconi fosse così drastico con Casini". Una chiusura che a pochi giorni dal voto ha portato papà Arnaldo a dichiarare la sua preferenza: "Credo che le suggestioni e la retorica di un certo presidenzialismo abbiano reso la politica italiana meno democratica" e dunque va incoraggiata "la scelta dell'Udc di presentarsi da sola". Sarà mica perché era in gioco la rielezione del figlio? (...)

Rimane invece al Parlamento europeo Claudio Fava, 51enne figlio del direttore de I Siciliani Giuseppe, ucciso dagli uomini del clan Santapaola nel 1984. Dal padre Claudio ha ereditato molte passioni, a cominciare dal mestiere. Nel nuovo Parlamento poteva sedere con tutta tranquillità tra i banchi del Partito democratico, ma ha preferito fare il capolista con poche speranze per la Sinistra arcobaleno. Il motivo? "Mi sarei ritenuto pazzo a candidarmi capolista al Senato per il Partito democratico, avendo alle mie spalle, nella stessa lista, Mirello Crisafulli" ha detto Fava. Che all'affermazione di Casini sul fatto che "non è giusto che le liste le faccia la magistratura" ha replicato: "Infatti le liste dell'Udc le ha fatte Casini. Solo lui poteva ricandidare capolista al Senato un signore, Cuffaro, condannato all'interdizione perpetua dai pubblici uffici". E non ha risparmiato neanche Lombardo: "È un Cuffaro fresco di lavanderia". 

BERRETTA, Giuseppe (1970)

Figlio di Paolo Berretta, vicesindaco di Catania negli anni '90, è avvocato e professore universitario. Nel 2005 viene eletto consigliere comunale di Catania, e nel 2008 entra alla Camera nelle liste del Partito Democratico.

BOSSI, Renzo (1988)

Figlio del leader della Lega Nord Umberto Bossi e soprannominato "il trota", noto alle cronache per essere riuscito a conseguire il diploma di maturità solo al terzo tentativo nel 2009, l'anno successivo viene eletto consigliere regionale della Lombardia risultando il più votato nella provincia di Brescia.

CARDINALE, Daniela (1982)

Figlia dell'ex ministro Salvatore Cardinale, è laureata in scienze della comunicazione. Nel 2008 viene eletta alla Camera con il Partito Democratico, dopo la decisione del padre di non candidarsi con la promessa che sarebbe stata candidata al suo posto la figlia.

CHIAROMONTE, Franca (1957)

Figlia di Gerardo Chiaromonte, parlamentare e dirigente comunista, è giornalista. Nel 1994 viene eletta deputata con il Partito Democratico della Sinistra, nel 2001 e nel 2006 viene riconfermata alla Camera con l'Ulivo, nel 2008 viene eletta al Senato con il Partito Democratico.

COSSIGA, Giuseppe (1963)

Figlio del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, è laureato in ingegneria aeronautica. E' stato deputato di Forza Italia per due legislature e nel 2008 è stato rieletto alla Camera con il Popolo della Libertà. E' Sottosegretario alla Difesa.

COSSUTTA, Maura (1951)

Figlia di Armando Cossutta, dopo aver esercitato a lungo la professione di medico ematologo aderisce al Partito della Rifondazione Comunista, con cui viene eletta deputata nel 1996. Nel 1998 segue il padre nella formazione del Partito dei Comunisti Italiani, con i quali viene eletta alla Camera nel 2001.

COSTA, Enrico (1969)

Figlio dell'ex ministro liberale Raffaele Costa, avvocato, viene eletto deputato nel 2006 ed è rieletto nel 2008 nelle fila del Popolo della Libertà.

CRAXI, Bobo (1964)

Figlio di Bettino Craxi, è consigliere comunale a Milano fino al 1991. Nel 2000 fonda la Lega Socialista, che poi confluisce nel Nuovo PSI. Nel 2001 viene eletto deputato nella Casa delle Libertà. Nel 2006 viene candidato nella lista dell'Ulivo alla Camera senza essere eletto, ma viene nominato sottosegretario agli Affari Esteri del Governo Prodi. Nel 2007 aderisce alla "costituente" che porta alla nascita del Partito Socialista. Nel 2010 partecipa alle elezioni regionali nel Lazio guidando una lista socialista sostiene Emma Bonino.

CRAXI, Stefania Gabriella Anastasia (1960)

Figlia di Bettino Craxi, ha fatto parte prima del Partito Socialista Italiano, poi di Forza Italia, e infine del Popolo delle Libertà. E' Sottosegretaria di Stato agli Esteri dal 2008.

D'ALEMA, Massimo (1949)

Figlio di Giuseppe D'Alema, parlamentare del PCI, è deputato dal 1987. Nel 1994 viene eletto segretario del Partito Democratico della Sinistra, è Presidente del Consiglio dal 1998 al 2000, dal 2004 al 2006 è europarlamentare, nel 2006 viene nominato ministro degli Affari Esteri e vicepresidente del Consiglio nel governo Prodi. Nel 2010 viene eletto all'unanimità presidente del COPASIR.

DI PIETRO, Cristiano (1973)

Figlio di Antonio Di Pietro, nel 2006 viene eletto consigliere provinciale a Campobasso nelle fila dell'Italia dei Valori. Nel settembre del 2011 viene candidato al consiglio regionale del Molise.

FITTO, Raffaele (1969)

Figlio democristiano Salvatore Fitto, presidente della Regione Puglia dal 1985 fino alla morte nel 1988, è laureato in giurisprudenza. Nel 1995 viene eletto consigliere regionale della Puglia con Forza Italia. Nel 1999 viene eletto eurodeputato, dal 2000 è presidente della Regione Puglia e nel 2006 viene eletto alla Camera. Nel 2008 viene eletto deputato con il Popolo della Libertà e viene nominato Ministro degli Affari Regionali e le Autonomie Locali.

FRANCESCHINI, Dario (1958)

Figlio di Giorgio Franceschini, partigiano e deputato democristiano, è avvocato. Nel 1980 diventa consigliere comunale di Ferrara con la Democrazia Cristiana. Dal 1999 al 2001 è Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle Riforme Istituzionali. Nel 2001 viene eletto deputato con la Margherita e nel 2008 viene rieletto con il Partito Democratico, di cui è segretario nel 2009. 

GENOVESE, Francantonio (1968)

Figlio del senatore Luigi Genovese e nipote del ministro Nino Gullotti, entrambi democristiani, è avvocato e imprenditore. Nel 1998 viene nominato assessore all'agricoltura nella giunta provinciale di centrodestra di Messina di centrodestra. Nel 2001 viene eletto all'Assemblea Regionale Siciliana con la Margherita, nel 2005 diventa sindaco di Messina con l'Unione, ma le elezioni vengono annullate due anni più tardi. Nel 2008 viene eletto alla Camera nella lista del Partito Democratico.

GERMANA', Antonino Salvatore (1976)

Figlio del parlamentare di Forza Italia Basilio Germanà, imprenditore, nel 2008 viene eletto alla Camera con il Popolo della Libertà.

MORONI, Chiara (1974)

Figlia del parlamentare socialista Sergio Moroni, che si suicidò dopo essere stato coinvolto nell'inchiesta Mani pulite, è laureata in farmacia. Aderisce al progetto del nuovo PSI e nel 2001 viene eletta deputata con la Casa delle Libertà. Nel 2006 si candida con Forza Italia e viene ripescata alla Camera. Nel 2008 viene eletta deputata con il Popolo della Libertà.

PILI, Mauro (1966)

Figlio del socialista Domenico Pili, nel 1993 diventa sindaco di Iglesias con una lista civica e viene riconfermato alla scadenza del mandato. Nel 1999 e nel 2001 viene eletto presidente della Regione Sardegna, ma entrambe le volte è costretto a dimettersi per il venir meno della fiducia. Nel 2001 viene eletto deputato con Forza Italia, e nel 2008 viene di nuovo eletto alla Camera con il Popolo della Libertà.

ROCCELLA, Maria Eugenia (1953)

Figlia di Franco Roccella, fondatore del Partito Radicale, è giornalista. Negli anni '80 lascia il partito radicale. Nel 2008 viene eletta alla Camera con il Popolo della Libertà e diventa Sottosegretaria al Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali.

ROSSA, Sabina (1962)

Figlia del sindacalista Guido Rossa, ucciso dalla BR nel 1979, è insegnante di educazione fisica. Nel 2006 viene eletta al Senato con l'Ulivo, e nel 2008 viene eletta deputata con il Partito Democratico.

SCAJOLA, Antonio Claudio (1948)

Figlio del sindaco democristiano di Imperia Ferdinando Scajola, viene eletto consigliere comunale di Imperia nel 1980 con la Democrazia Cristiana e diventa sindaco nel 1982 e nel 1990. Nel 1996 viene eletto deputato con il Polo per le Libertà e nel 2001 è riconfermato con Forza Italia. Nello stesso anno viene nominato Ministro dell'Interno, nel 2003 Ministro per l'attuazione del programma di Governo, nel 2005 Ministro delle Attività Produttive. Nel 2008 viene eletto alla Camera con il Popolo della Libertà e viene nominato Ministro dello Sviluppo Economico, carica dalla quale si dimette due anni dopo.

SEGNI, Mariotto (1939)

Figlio di Antonio Segni, Presidente della Repubblica, è stato docente universitario. Dal 1976 è consigliere regionale, parlamentare nazionale, parlamentare europeo e Sottosegretario all'Agricoltura. Nel 1992 fonda Alleanza Democratica, nel 1994 fonda il Patto Segni, nel 1999 fonda l'Elefantino.

TANCREDI, Paolo (1966)

Figlio del parlamentare democristiano Antonio Tancredi, ingegnere elettronico, nel 1999 viene eletto consigliere comunale a Teramo con una coalizione di centrodestra, nel 2001 diventa consigliere regionale dell'Abruzzo con Forza Italia e viene rieletto nel 2005. Nel 2008 viene eletto senatore con il Popolo della Libertà.

E poi….

Alemanno Gianni: genero di Pino Rauti (ha sposato la figlia Isabella), Gianni divenne segretario nazionale del Fronte della Gioventù quando Rauti era segretario del partito MSI (Movimento Sociale Italiano).

Bocciardo Mariella: ex moglie di Paolo Berlusconi.

Carloni Anna Maria: moglie di Antonio Bassolino. Prima consigliera comunale a Bologna, poi a Roma nella direzione nazionale PCI-PDS. Varie le collaborazioni con ministeri e le diverse realtà istituzionali. Assessore al bilancio del comune di Castellammare di Stabia, oggi nei Palazzi che contano.

Cossiga Giuseppe: figlio di Francesco Cossiga, ex Presidente della Repubblica. Giuseppe, ingegnere aeronautico, era vice coordinatore sardo di Forza Italia e la scorsa legislatura faceva parte della commissione Difesa della Camera. Cossiga padre ha sempre tenuto a precisare di non essersi mai occupato della carriera politica del figlio, ha fatto tutto da se.

Costa Enrico: figlio dell’ex ministro Raffaele Costa PLI (Partito Liberale Italiano) passato poi al PDL. Costa padre, Presidente della Provincia di Cuneo, è stato in particolare, autore di due libri: “L’Italia degli sprechi” e “L’Italia dei privilegi”.

De Feo Diana: moglie di Emilio Fede.

Fitto Raffaele: figlio di Totò Fitto democristiano ed ex Presidente della Regione Puglia.

La Malfa Giorgio: figlio di Ugo La malfa, fondatore e leader del PRI (Partito Repubblicano Italiano). Ugo La malfa è stato deputato della costituente e ministro della ricostruzione nel dopo guerra. Giorgio è entrato in parlamento nel 1972 a 33 anni. Partito Repubblicano, Partito per l’Italia di Segni (1994), centrosinistra con L’Ulivo nella lista “Per Prodi” (1996), poi il passaggio nel PDL (Casa della Libertà).

Lanzillotta Linda: moglie di Franco Bassanini. Ministro degli Affari regionali del governo Prodi lei, ex Ministro a sua volta lui. Linda ha avuto un passato socialista, ha aderito alla Margherita e ora PD, è stata assessore al comune di Roma, funzionario del Ministero del Bilancio, Capo di gabinetto del Ministero del Tesoro e Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Franco, Ds e PD, al suo nome è legata la riforma della pubblica amministrazione. Consulente del governo francese.

Melchiorre Daniela: figlia del Generale della Guardia di Finanza Melchiorre e nipote del Cardinale Bovone. Prima avvocato e dopo magistrato militare, ha ricoperto la carica di vicesegretario regionale della Margherita in Lombardia. nel 2006 è stata nominata sottosegretario alla Giustizia del governo Prodi. Nel 2007 è passata con Lamberto Dini (Movimento dei Liberaldemocratici), per poi andare nel PDL (Partito della Libertà).

Pili Mauro: figlio di Domenico Pili, socialista sardo che si allontanò dalla politica dopo qualche incidente di percorso. Giornalista, ex presidente della Regione Sardegna (famoso il suo discorso d’insediamento in cui citava cifre e dati relativi alla Lombardia).

Serafini Anna: moglie di Piero Fassino, ha sempre dichiarato di aver avuto solo svantaggi dal fatto di essere la moglie di Fassino. S’è iscritta al partito prima di Piero e prima di lui è entrata in parlamento (lei nel 1987 lui nel 1994).

Testoni Pietro: nipote di Francesco Cossiga. Giornalista, responsabile editoria di Forza Italia e uomo dello staff comunicazione di Silvio. L’Onorevole Cossiga così spiegò la parentela con Testoni: “…è mio nipote in quanto la nonna era cugina in secondo grado di mio padre…”

Veltroni Walter: figlio di Vittorio Veltroni, primo direttore di telegiornale in Italia e cronista di tutti i viaggi del Duce.

Ebbene sia. Diamo per scontato che il nostro Presidente del Consiglio abbia una vigorosa ed inesausta passione per le donne e che la soddisfi ampiamente. Quel che è certo è che non sarebbe né il primo né l’ultimo dei grandi protagonisti della storia d’Italia ad esserne felicemente afflitto.

A cominciare da tutti e quattro i “Padri della Patria”, ossia dal quartetto Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini dei nostri remoti studi scolastici. Vittorio Emanuele II, apprezzava, in particolare, le procaci contadinotte del suo Piemonte e non se ne faceva comunque sfuggire una, purché respirasse. Cavour era un impenitente libertino che passava spietatamente da un’amante sofisticata all’altra fino ad indurne una al suicidio e ad infilarne un’altra, la nota Contessa di Castiglione (che era anche sua nipote e che condivideva con il Re), nel letto di Napoleone III, propiziandovi la II e determinante Guerra di Indipendenza. Mazzini non gli era da meno, avendo disseminato nel corso dei suoi esìli nell’intera Europa, cuori infranti e figli abbandonati. E chi sa che l’eroica Anita era originariamente la moglie di un altro, e che l’”Eroe dei due mondi” seppe molto ben consolarsi della sua tragica scomparsa?

Nell’Italietta umbertina, nonostante gli ufficiali rigori vittoriani, il primo a correre entusiasticamente “la cavallina” era Umberto I in persona. Nel pieno dello scandalo della Banca Romana, Giovanni Giolitti consegnò platealmente al Presidente della Camera un “piego” in cui - tra altri documenti che lo discolpavano, inguaiando il suo avversario Francesco Crispi - c’era una lettera della moglie di questi che intimava al padrone della casa romana in cui Crispi dimorava, di “non portare più puttane a Don Ciccio”. Né Giolitti aveva a tal riguardo molte lezioni da dare, essendo anch’egli un assiduo frequentatore di bordelli, secondo peraltro un costume che soltanto l’infausta legge Merlin ha infranto.

Su Mussolini è perfino inutile soffermarsi, era quasi certamente bigamo mentre l’elenco delle sue amanti note, ed anche dei suoi figli più o meno occulti, continua ad allungarsi all’infinito. Nelle brevi pause della sua attività di governo si concedeva, con signore di passaggio, rapidissimi amplessi, nei quali, si dice, non si sfilasse nemmeno gli stivali... L’ultima e più innamorata delle delle sue amanti gli morì anche eroicamente accanto.

Delle distrazioni sessuali della prima parte della Prima Repubblica, soggetta ad una forte censura clericale, è filtrato poco, ma non tanto da nascondere – per esempio - le frequenti scappatelle di un Presidente della Repubblica come Giovanni Gronchi (mentre anche il suo futuro successore Sandro Pertini non se la passava male), o l’omosessualità di due Presidenti del Consiglio, uno dei quali pare anche legato ad un vicino Ministro e l’altro addirittura dedito in privato ai trasferimenti, prima di essere in tarda età beccato in una storia di coca. L’omosessualità era poi ampiamente diffusa tra le virago del movimento femminile della “Balena bianca”.

Né potevano prodursi in lezioni di moralità i vertici del PCI, che le loro donne ed in genere i loro cari li facevano parlamentari, alternando al riguardo mogli ed amanti, e stabilizzando negli scranni di Montecitorio e di Palazzo Madama fratelle et similia.

L’amante e futura moglie di Togliatti, è diventata addirittura Presidente della Camera, passando per grande donna senza che nessuno abbia mai spiegato perché. In Parlamento l’aveva preceduta la prima moglie del Migliore, poi liquidata senza troppi scrupoli insieme ad un figlio dispersosi misteriosamente in qualche casa di cura. Anche il suo successore, Luigi Longo, fece deputate prima la moglie Teresa Noce e poi la più piacente compagna; Pajetta la moglie, la compagna Miriam Mafai ed il fratello Giancarlo.

Berlinguer, più morigerato, preferì sistemare il fratello Giavanni e i due cugini Luigi e Sergio. La moglie di Occhetto, Aureliana Alberici, era inevitabilmente senatrice com’è deputata la moglie di Fassino, Anna Serafini. Anche l’un tempo bellissima Luciana Castellina era in realtà la moglie di Alfredo Reichlin, come D’Alema è il figlio della potentissima segretaria di Togliatti e di un autorevole parlamentare togliattiano, mentre nel Parlamento siede la compagna di Bassolino. E poi si scandalizzano di fronte a qualche bella euro-parlamentare altrui.

I favolosi “anni ‘80” furono segnati dai noti appetiti sessuali di Craxi e dei suoi collaboratori, mentre Cicciolina entrava trionfalmente a Montecitorio sull’onda della filosofia libertina bisex di Marco Pannella, di cui si narrano legami con splendidi dirigenti del suo Partito, uno dei quali destinato ad una luminosa carriera politica. In quegli anni conquistava per la prima volta il proscenio, un giovane poeta barese che sulla omosessualità avrebbe costruito una carriera, e che inneggiava alla libertà sessuale assoluta, senza nemmeno troppi scrupoli sull’età dei liberandi.

Nella Seconda Repubblica, Antonio Di Pietro, assegnatario a titolo gratuito negli anni gloriosi di “Mani Pulite” di una bollente garconniere al centro di Milano, è stato fotografato con una esplosiva donna dello spettacolo. Pare invece che l’unico condannato alla castità, in un mondo in cui quelli che un tempo erano “vizi privati” sono diventati costume diffuso alla luce del sole, debba essere Silvio Berlusconi, le cui debolezze verso le donne, secondo i novelli bacchettoni di una sinistra sempre più bigotta, addirittura squalificherebbero l’Italia nel mondo.

Lo svariato numero delle amanti di Kennedy ivi compresa la povera Marilyn, o la sotto-scrivania di Clinton, o le distrazioni di Re Juan Carlos e dei principi e delle principesse inglesi, o le quattro mogli ecc. di Shroeder e la lunga storia del “première dame” di Francia sono irreprensibili esempi di senso dello Stato.

Mogli, ex cognate, fratelli, figlie: il voto del 9 aprile 2006 rischia di passare alla storia come quello «dei parenti». Quasi tutti i partiti hanno presentato una valanga di candidati «di famiglia», con elezione garantita perché hanno abolito anche le preferenze, con l’annesso rischio-trombatura. Se n’è accorta perfino la Cnn: «La famiglia resta l’istituzione italiana più solida», ironizzano i giornalisti americani. Il caso più clamoroso: la moglie del segretario Ds Piero Fassino, Anna Serafini, ripresentata per la quinta volta nonostante il massimo di due legislature imposto dal partito a (quasi) tutti i propri parlamentari. Oppure Anna Maria Carloni, aspirante senatrice in Campania, regione della quale il marito Antonio Bassolino è presidente. Napoli vanta peraltro una tradizione consolidata di coniugi in politica: la presidente del Consiglio regionale Sandra Lonardo è infatti moglie di Clemente Mastella (Udeur). In Piemonte la diessina Magda Negri sta con il senatore Enrico Morando. E in Lombardia per la Margherita si presenta Linda Lanzillotta, coniugata con Franco Bassanini. «Lo scrittore Leo Longanesi sessant’anni fa propose di adottare come slogan ufficiale della Repubblica italiana il motto “Tengo famiglia”», scherza Goffredo Locatelli, autore con Daniele Martini del libro omonimo, pubblicato nel ’97. È lui il massimo esperto italiano di nepotismo, anche perchè sei anni prima aveva esordito con un altro volume, "Mi manda papà", che esaminava i legami familiari della Prima repubblica e vendette 25 mila copie. Non hanno scherzato però tutti quelli che lo hanno querelato, in primis la famiglia Necci, chiedendo un totale di dieci miliardi di lire in danni. Risultato: l’editore Longanesi ha tolto Tengo famiglia dalla circolazione, intimorito nonostante le diecimila copie già vendute. È un argomento scottante, quindi, quello del familismo in politica. Anche perché riguarda tutti gli schieramenti. Silvio Berlusconi, per esempio, candida alla Camera nella circoscrizione Lombardia 1 l’ex cognata Mariella Bocciardo, già coniugata col fratello Paolo. In Sicilia il parlamentare di An Enzo Trantino fa correre la figlia Maria Novella, così come il collega di partito Orazio Santagati, che mette in pista la figlia Carmencita. I figli di Bettino Craxi si dividono equamente: Stefania a destra, Bobo a sinistra. Infine ci sono i fratelli, come Marco Pecoraro Scanio, ex calciatore e poi assessore ad Ancona e Salerno, il quale condivide con Alfonso la fede verde. L’unico sfortunato sembra essere Umberto Bossi: sua sorella Angela è sì candidata, ma contro di lui, in una lista lombarda concorrente della Lega. Sembrano lontani, insomma, i tempi del povero Paolo Pillitteri, crocifisso come «sindaco cognato» quando governava Milano per conto di Craxi. «Non è cambiato nulla dai tempi della famigerata Prima repubblica», commenta sconsolato Locatelli, «anche perché ormai la politica si è degradata a mestiere, non è più un fatto onorifico». Fra l’altro, abolito il voto di preferenza, noi elettori non possiamo neppure vendicarci bocciando il parente eccellente. Insomma, assistiamo impotenti al trionfo della nomenklatura burocratica, che si appropria in ogni modo di compensi molto alti (un parlamentare guadagna 120 mila euro annui). Occorre precisare però che, almeno nel caso delle mogli di Fassino, Bassolino e Bassanini, si tratta di signore in politica da molto tempo, le quali probabilmente avrebbero fatto carriera indipendentemente dai mariti. In altri casi, invece, la «vocazione» sembra essere maturata all’improvviso...

E pensare che fino a pochi anni fa i consiglieri comunali e provinciali percepivano soltanto qualche gettone di presenza. Oggi invece tutti, perfino gli eletti in quartieri e circoscrizioni, incassano uno stipendio fisso. L’unica consolazione viene guardando gli Stati Uniti: anche lì le dinastie familiari sembrano eterne, con cariche che passano di padre in figlio (George Bush senior e junior), tra fratelli (John, Robert e Ted Kennedy) e fra marito e moglie (Bill e Hillary Clinton).

Alle regionali del 2010, nel Lazio l’Udc schiera il broker Pietro Sbardella, figlio di Vittorio, passato alla storia della Dc come «lo Squalo». Sempre nel listino della candidata del Pdl Renata Polverini entra, tra le polemiche, la moglie del sindaco Gianni Alemanno, Isabella Rauti: capo del dipartimento Pari opportunità presso la presidenza del Consiglio, la figlia del fondatore del Msi, Pino Rauti. E c’è anche una giovane coppia in corsa nel Lazio con la Polverini: Francesco Pasquali e Veronica Cappellari, insieme nella vita e nel listino. Nelle Marche scende in pista, con Sinistra ecologia e libertà, Iside Cagnoni, moglie dell’onorevole Luigi Giacco, figura storica della sinistra di Osimo. E si parla anche del vicesindaco di Bari Alfonso Pisicchio, fratello dell’onorevole Pino, passato dall’Idv all’Api. Sempre in Puglia corre Mario Cito, figlio dell’ex deputato e sindaco di Taranto Giancarlo (già condannato a quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa), con la lista «I pugliesi per Palese presidente », depositata a Taranto. Con il candidato governatore del Pd Claudio Burlando, a Genova, corre la nipote di Don Baget Bozzo, Francesca Tedeschi, impiegata turistica. Nella lista del Pdl di Napoli e provincia per il rinnovo del Consiglio regionale della Campania c’è anche Angelo Gava, dirigente d’azienda, figlio dell’ex ministro Antonio, leader dei dorotei, e nipote di Silvio, patriarca della Democrazia Cristiana. Infine in Calabria, col Pd, si ricandida l’uscente Stefania Covello, figlia dell’ex parlamentare Franco.

Umberto Bossi, l’intransigente leader del Carroccio, poi colloca i parenti stretti in impieghi tali da poter allattare alle mammelle della scrofa politica. Prima manda in Europa il fratello Franco e figlio primogenito Riccardo, assunti al Parlamento Europeo, al seguito dei deputati leghisti Speroni e Salvini (già direttore di quella Radio Padania Libera che per anni ha cannoneggiato contro il clientelismo e le assunzioni in Terronia di amici, cognati e parenti), per 12.750 euro al mese. Poi è la volta del figlio Renzo. Il nepotismo padano quindi segue il suo corso ed il giovane Renzo, maturo o no, è ormai riconosciuto come il delfino dell’Umberto, lo ha accompagnato in tutte le manifestazioni di partito e compare su centinaia di foto. Il ministro Calderoli lo riconosce come erede affermando che lui e Maroni sono già troppo vecchi e poi Renzo “È la fotocopia del papà”. L’Umberto dichiara: “Quando passerò la mano, non certo adesso, qualcosa di me resterà”, una vera investitura. “Dopo Bossi ci sarà ancora Bossi”. Tanto per onor di cronaca ricordiamo alcune parole gridate da Sua Maestà Umberto Bossi contro clientele e “familismo amorale”: “La Lega assicura assoluta trasparenza contro ogni forma di clientelismo”. “Il nostro programma? Incrementare i posti di lavoro, eliminare i favoritismi clientelari e restituire il voto ai cittadini”. “Non si barattano i valori-guida con una poltrona!”. “Questo deve fare un segretario di sezione: far crescere la gente e non dare spazio agli arrivisti. Dobbiamo essere in primo luogo inflessibili medici di noi stessi se vogliamo cambiare la società!”.

Non ci dobbiamo dimenticare anche il caso ripreso da Striscia la Notizia”: "Cara Renata, non ti dimenticare delle mie figlie", così il finiano Zaccheo, sindaco di Latina, alla finiana Polverini, Presidente della Regione Lazio.

Con il discorso ufficiale del Magnifico Rettore, Prof. Ing. Domenico Laforgia, è stato inaugurato a Brindisi il 3/12/2009 l'anno accademico 2009-2010 dell'Università del Salento. Presenti alla cerimonia Gianfranco Fini, Presidente della Camera dei Deputati e diverse altre insigne personalità del mondo politico, economico e culturale della penisola salentina. In quella sede ha palesato una realtà, che molti cercano di ignorare o tacitare. “…..Questo è un altro dato che si presta ottimamente ad una lettura politica. Il familismo non è la ferita pruriginosa di questa o quella Università, ma di tutto il sistema occupazionale italiano. È una malattia endemica del Paese che ha contagiato tutti i campi, dalla politica alle libere professioni, dal giornalismo al mondo dello spettacolo, dall’industria a tutto il comparto pubblico. Familismo, nepotismo e clientelismo non sono le conseguenze di un sistema malato, come spesso si dice, ma sono il segno più evidente di una mancanza effettiva di alternative possibili. Ed è questa povertà di occasioni che mette in moto il meccanismo, che diventa perverso e nocente alla comunità quando non è neppure compensato dal merito."

Anche lei, poverina, non è più quella di una volta. E c’è chi, pur di tenerla alla giusta distanza, le cambia l’identità: un freddo «segnalazione», un burocratico «indicazione», un elegante «gestione combinata». I partiti non ci sono quasi più, la legge elettorale ha abolito i collegi, i parlamentari che non si perdono un battesimo sono eccezioni, però lei, anche se si deve scontrare con la modernità, con le lobbies e i lobbisti, resiste e lotta insieme e per noi: la vecchia e cara Raccomandazione, italianissima come la pizza e le romanze di Verdi. Raccomandazione di governo o di opposizione, ce n’è (sempre) per tutti. E cosa non si fa per lei, perfino un premier che scippa il mestiere a Lele Mora. Però, appunto, non è più quella di una volta. C’è, ma non si vede. E non ci sono più i Remo Gaspari, il ministro dc che aveva assunto postini a vagonate. «O personaggi come Franco Evangelisti, l’ombra di Giulio Andreotti - ricorda Alfredo Biondi, avvocato, liberale e genovese, 9 legislature prima del prepensionamento non voluto -. Quando lo incontravi in Transatlantico ti appariva la Raccomandazione». Ecco, fine di quella storia: «Ora che la politica è cooptazione - dice Biondi - la Raccomandazione passa da lobbies potenti e clandestine».

Raccomandato e parente, il massimo. Categoria sdoganata a fine Anni 80 al Festival di Sanremo, nientemeno. Quando, a presentare canzonette, erano stati chiamati gli eredi di Adriano Celentano, Johnny Dorelli, Anthony Queen e Ugo Tognazzi, e l’allor giovane Gigi Marzullo, in odor di raccomandazione dc, li sfotteva in diretta: «I figli di ...». Però erano bravini, e qui si passa alla raccomandazione a fin di bene, a sua volta differente dalla «raccomandazione per necessità», quella applicabile ai poveracci. E’ a fin di bene, come per la verità dicon tutti, perché segnala qualcuno che non delude, che se la cava o addirittura lo merita.

Di solito il raccomandato non ha buona memoria ed è facile alla smentita, a volte rabbiosa. Intervenuto in difesa di chi si è visto pubblicare raccomandabili intercettazioni, Francesco Cossiga aveva raccontato le sue telefonate in favore di due telegiornaliste, Bianca Berlinguer e Federica Sciarelli, peraltro amiche. L’avesse mai fatto, a momenti se lo mangiano. Perché a nessuno fa piacere l’abbraccio della Raccomandazione, anche se capita nell’ambiente Rai, dove è chiamata più brutalmente lottizzazione, e ad ogni cambio di governo le carriere interne si misurano con il bilancino del chi è sponsorizzato da chi.

Favore, spintarella, aiutino, pratica nota, diffusa e trasversale. «Medialab» ha fissato le quote dei concittadini che negli ultimi tre mesi hanno chiesto o ottenuto qualcosa: il 66,1% da un parente, il 60,9% da un amico, il 33,9% da un collega di lavoro. Quanto basta per stabilire che nessuno, proprio nessuno, può dirsi immune. Non è reato, per carità. E’, appunto, malcostume. Lo stesso che poi intasa ad esempio i Laboratori diagnostici del Lazio. «Perché - spiega Gianni Fontana, il responsabile - ci sono pazienti che accedono al servizio senza prenotazione». I soliti raccomandati... Ma queste sono le storie di tutti i giorni, dei soliti italiani che cercano la scorciatoia e avranno sempre un buon motivo per non sentirsi in colpa. Altra e più complessa è la storia della Raccomandazione da lobby, dove politica e interessi si abbracciano e colpiscono pesante. La sanità, per dire, con gli intrecci tra baronie e lottizzazioni. «E qui il gioco si fa molto più sottile», spiega Paolo Cherubino, 60 anni, primario ortopedico, preside della facoltà di medicina a Varese. «Perché le lobbies della politica con le assegnazioni di posti si affermano, si rafforzano e ne ricavano un potere di compensazione con altre lobbies». Ecco, Varese che passa per città leghista. Su dieci primari solo uno non è dell’area di Comunione e Liberazione, il movimento caro al governatore Roberto Formigoni. Un caso? «Mi sono sentito dire che non è lottizzazione - dice Cherubino - ma il dato oggettivo resta». Ma il lobbismo non si ferma qui, e il preside Cherubino, per cautela, ricorre all’esempio. «Mettiamo che si decida un Piano di Ristrutturazione Ospedaliera. Bisogna tener conto dell’interesse dell’area interessata, dei cittadini, e questo è giusto. Poi si prevedono reparti e personale sulla base degli individui da sistemare...». La Raccomandazione pilotata.

La lobby non rivendica, non si vanta, basta che chi deve sapere sappia. Non è più come ai tempi di Gaspari e Evangelisti. Non è più come nella Milano dove per essere assunti in banca bisognava frequentare gli oratori, per una licenza da tassista i socialdemocratici, per una casa i socialisti. E nemmeno e non solo come nella Sicilia dell’ex governatore Totò Cuffaro, che per lenire il bruciore di un calo di voti per la sua Udc se n’è uscito con questa spiegazione: «Per forza, in quella zona non avevamo l’assessore regionale!». E magari non sarebbe manco bastato, magari si sarebbe scontrato con una lobby. Trovare la lobby giusta, dunque, il mix tra politica e affari, perché il resto è robetta. «Se mi chiama un politico - racconta Paolo Sassi, presidente dell’Inps - è solo per sapere la posizione contributiva di un elettore, non sanno che è tutto su Internet».

Puoi darmi una mano...? Comincia sempre così. «Lo so bene - dice Pierluigi Bersani,-. La mia mamma diceva che bisogna aiutare tutti, ma aiutando tutti si finisce sempre con il fregare qualcuno. La mia regola? Aiutare solo i malati, gli handicappati, i disperati, per loro sì che sono pronto a dare una mano. Per gli altri niente, grazie». Antonio Marano, direttore di Rai2 intercettato al telefono con Agostino Saccà, la mano la dà per chi vale. «E’ normale per noi, i personaggi del mondo dello spettacolo li conosciamo bene». E’ normale, come il titolo di una trasmissione Rai di successo. «I Raccomandati».

Assumi, assumi: qualcosa resterà. Più che la parafrasi del motto di Oscar Wilde (diffama, diffama: qualcosa resterà), a Palazzo Chigi sembra in voga la tattica, tipica della prima Repubblica, di assunzioni nel pubblico impiego. Tattica che veniva rafforzata in vista di un ciclo elettorale. All’epoca, però, non c’erano vincoli di bilancio da rispettare, e il debito volava rapido fino alle vette attuali. Con la legge finanziaria 2007 il governo Prodi sembra aver provato nostalgia per quelle pratiche. Tant’è che per il triennio successivo ha previsto di spendere un miliardo e 161 milioni di euro per ampliare gli organici della pubblica amministrazione (Forze di sicurezza, ma non solo). Risultato: potranno essere assunte più di 41mila persone. Esattamente gli abitanti di Macerata. Al tempo stesso, però, con un blitz lessicale, introduce in uno dei maxi-emendamenti approvati con la fiducia alla Camera, una profonda modifica al regime di sanatoria per i precari. Cambiando qualche avverbio, rende possibile l’assunzione di circa 50mila precari; soprattutto quelli con contratti a termine presenti nelle amministrazioni regionali. Una popolazione pari a quella di Pordenone. I costi di queste nuove assunzioni, che arrivano a un totale virtuale di 91mila (ma potrebbero essere anche di più, fino a sfiorare le 100mila unità), sono garantite dal maggior gettito fiscale. Dai dati sulle entrate tributarie, è evidente come l’andamento del gettito sia estremamente legato alla dinamica del prodotto interno lordo. Ma se la congiuntura dovesse peggiorare (come prevede lo stesso governo), le assunzioni restano assunzioni: contabilizzate come spese certe; mentre le entrate che le garantiscono, inevitabilmente, sono destinate a scendere. E per finanziare gli aumenti di organico, dovranno essere sostituite da nuove tasse. Lamberto Dini non ha votato per la stabilizzazione dei precari della Pubblica amministrazione, da lui definiti “amici degli amici”. Dini parla chiaro. Secondo lui la sanatoria “vuol dire che si assumono gli amici degli amici nei comuni e altrove. E poi si fa la sanatoria per passarli di ruolo. Vi sembra questa – conclude - una cosa seria?”. Insomma, i cittadini pagheranno i raccomandati assunti a tempo determinato nella Pubblica Amministrazione, che, con falsa contrapposizione delle parti politiche, hanno visto sanare la loro posizione in tempo indeterminato senza concorso. Con una grande presa per i fondelli la sinistra e i sindacati hanno paragonato i lor signori, amici e parenti, ai veri precari del lavoro, loro sì sfruttati e malpagati.

Ma ci sono altri gravi precedenti. L’INPS, il giorno 23 luglio 1999, ha pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il  bando di un concorso per 1940 posti di collaboratore amministrativo, per la 7a qualifica funzionale. L' On. Michielon, da sempre in prima linea contro le truffe, il giorno 3 maggio 2000 ha presentato un'interrogazione nella quale chiede se corrisponde a verità il fatto che tutti i candidati del concorso Inps, hanno brillantemente superato le prove scritte e se corrispondono al vero le varie voci che narrano di strani episodi relativi a questo concorso “virtuale”. L'On. Michielon l’anno prima aveva presentato un'analoga interrogazione al Governo, la risposta che ricevette fu che "non esisteva alcuna addomesticatura del Concorso". L'onorevole Michielon, per nulla soddisfatto della risposta governativa emise un comunicato stampa. “La farsa continua".

"Confermate le mie accuse sul concorso truffa a 1.940 posti presso l'INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l'Ente”. “Con una replica imbarazzata - continua Michielon – il Governo, confermando un comportamento connivente, che ricorda molto i regimi totalitari con suffragi pari al 100 per 100 degli aventi diritto, ha ammesso che dei 1790 partecipanti alla selezione scritta del concorso, tutti hanno superato la prova”. ”Fin dal giugno 1997 - spiega Michielon - l'INPS aveva individuato una carenza di personale quantificata in circa 3.650 unità, per la copertura della quale si riteneva necessario reperire risorse dall'esterno. Incredibilmente nel 1998 veniva bandito un concorso per soli 394 posti di collaboratore della VII qualifica funzionale, mentre l'anno successivo, nel luglio 1999, veniva indetto un "concorso" per titoli ed esami per 1940 posti nella medesima qualifica funzionale." “Già in una precedente interrogazione - prosegue il deputato del carroccio - cercavo di far luce su questo concorso-truffa, bandito ad hoc per sistemare quelle circa duemila unità di lavoratori impiegati in LSU presso l'INPS ed il cui bando richiedeva, come requisito essenziale per l'ammissione, l'aver partecipato a progetti di LSU per un periodo temporale che, guarda caso, coincideva esattamente con la durata di impiego dei LSU presso l'INPS.” “Alla luce del fatto che su 1790 partecipanti effettivi, 1790 risultano essere i candidati ammessi alle prove orali - prosegue il parlamentare leghista - ho presentato una nuova interrogazione contro questo concorso-truffa, che altro non è che la conferma di un posto di lavoro”. “Resta strabiliante il criterio di selezione - conclude Michielon - che ha fatto sì che per il concorso a 394 posti siano stati ammessi 11 mila candidati, mentre per il concorso a 1940 posti sono stati ammessi solo 1790 concorrenti, tutti risultati idonei dopo gli scritti. Ed inoltre, se i vincitori del concorso a 394 posti non sono stati ancora assunti in attesa della determinazione del Consiglio dei Ministri in relazione al numero massimo di assunzioni autorizzate per l'Istituto, il Governo deve ancora spiegare come si sia potuto bandire un concorso per ben 1.940 posti, peraltro a così breve distanza dal precedente”.

 

«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell' Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica», è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell’inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». Piccole e grandi storie di questa Italia alla rovescia.

Per rimembrare ed a futura memoria si presenta al mondo la composizione e l'elaborazione di un'opera di didattica e di ricerca senza influenze ideologiche, territoriali e temporali. Opera di me medesimo, Antonio Giangrande, autore di decine di libri di inchiesta e di denuncia. Scrittore non omologato, quindi osteggiato da media ed istituzioni e per questo poco conosciuto. La mia ricerca e la mia didattica, non per giudicare, ma per conoscere. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento verticale, criminale e vessatorio, di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso e non recedo mai dal dire: la mafia ti distrugge la vita, lo Stato ti uccide la speranza. Io rappresento l’ “Associazione Contro Tutte le Mafie”,  un sodalizio nazionale al pari di “Libera” di Don Luigi Ciotti, e come scrittore scrivo e parlo di mafiosità, essendo il sottoscritto un saggista di sociologia storica letto in tutto il mondo e con 40 opere all’attivo. Scrivo e parlo come e più di Roberto Saviano. Per gli effetti di ciò sono conosciuto e stimato in tutto il mondo, pur travalicando gli ostacoli mediatici posti dall’informazione censoria che tutela il potere imperante ed il pensiero ideologico sinistroide dominante. La nostra attività e solidarietà alle vittime del “Sistema mafioso” si concretizza nel raccontare la verità censurata in video ed in testi. Da presidente nazionale di una associazione antimafia è una vergogna non essere invitati ad alcuna celebrazione istituzionale o scolastica dedicata ai martiri della mafia: tra cui Falcone e Borsellino. Questo pur essendo io il massimo esperto della materia. Questo succede perché io non seguo la logica nazionale delle celebrazioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, specialmente fatta da chi ne ha causato la morte. L’ostracismo c’è perché non mi sottometto a questa antimafia e non mi associo alla liturgia di questa antimafia che poi è forse solo propaganda e speculazione. Si farebbe cosa nobile, invece, svelare la verità sulla morte di Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa e gli altri e disincentivare tutti quei comportamenti socio mafiosi che inquinano la società italiana. Come si farebbe onore alla verità svelare chi e come paga l’ambaradan di carovane e carovanieri. In riferimento all’attentato di Brindisi ed a tutte le manifestazioni di esaltazione di un certo modo di fare antimafia di parte e di facciata, denuncio l’ipocrisia di qualcuno che suggestiona e manipola la mente dei giovani per indurli ad adottare comportamenti miranti a promuovere una verità distorta su chi e come fa antimafia. Brindisi e Mesagne e l’intero Salento sono diventate tutto d’un tratto terra di mafia e di mafiosi per giovare agli interessi di questa antimafia e per gli effetti sono diventate palco promozionale per carovane e carovanieri proveniente da ogni dove, da cui io prendo assolutamente le distanze. Mesagne e Brindisi e tutto il Salento non hanno bisogno di striscioni in sparute manifestazioni o di omelie religiose per fare ciò che deve essere fatto: sia in campo istituzionale, sia in campo sociale. Gli studenti, con la mente vergine ed aperta, non devono essere influenzati da falsi pedagoghi catto-comunisti, sostenuti da sindacati e movimenti di sinistra, che inducono a falsi convincimenti di tipo ideologico. La lotta alla mafia è un’altra cosa: è conoscenza senza censura ed omertà, scevra da giudizi preconcetti. Tutti dicono a tutti cosa fare, cosa studiare, come e dove informarsi. I ragazzi, che sono i primi destinatari di consigli interessati, non cadano nel tranello di elevarsi a maestrini e di dire anche loro agli altri cosa devono fare. Dato che gli altri sono anche loro stessi, sanno bene cosa devono fare. Per questo chiedo che si lasci ai ragazzi la libertà di informarsi in modo asettico e di far testimoniare a loro una realtà che solo essi stanno vivendo. I ragazzi non deleghino ai media approssimativi, voltagabbana ed ipocriti il racconto della verità. Lo facciano direttamente loro ragazzi, protagonisti delle vicende della vita. Così come io faccio ne rendicontare quanto io vedo e sento. Il mio aiuto può concretizzarsi nell’offrire l’opportunità ad uno studente, ad una classe, o all’intero istituto scolastico di scrivere un libro su quanto veramente accade in riferimento ad un accadimento, ma con la piega sociologica: ossia, raccontare con i loro occhi la vicenda inserita in un contesto sociale, mediatico, istituzionale-giudiziario, che vada oltre l’ambito locale. Così come io ho fatto con la vicenda di Sarah Scazzi, avendo rendicontato da avetranese. Affinchè in fatti di cronaca riportati dalla stampa non sia vittima tutta la comunità o l’ambiente sociale coinvolto. Nessuno deve essere giudicato da chi viene paracadutato con i suoi pregiudizi ed i suoi luoghi comuni. Se gli altri non ci rappresentano, ci rappresentiamo da soli, senza censure ed omertà. I media raccontano la cronaca: noi tutti insieme facciamola diventare storia senza tempo e senza spazio. Io mi impegno a divulgare in tutto il mondo l’elaborato scritto dagli studenti, eventualmente con l’aiuto dei docenti, attraverso i miei siti, e, se del caso pubblicarlo come E-Book sui portali internazionali.

TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI.

VITTIMA DI UN CONCORSO PUBBLICO TRUCCATO.

Dal 1998 (dico 1998, una vita) partecipo al concorso di avvocato indetto dal Ministero della Giustizia, che ogni anno si svolge presso ogni Corte di Appello, le cui commissioni sono composte da magistrati, avvocati e professori universitari.

Dal 1998 i miei elaborati sono giudicati sempre con identico voto negativo e senza alcuna motivazione. Il fatto certo è che i miei pareri legali non sono corretti (mancanza di correzioni, glosse, ecc.) e sono dichiarati tali in un tempo che il Tar ha dichiarato estremamente insufficiente.

Dal 1998 il presidente, prima locale e poi nazionale, ed i componenti della commissione d’esame sono quelli che ho denunciato in questi anni per favoritismi durante e dopo le prove selettive.

Dal 1998 sono disoccupato pur capace di esercitare la professione. Ciò ha influito negativamente sulla vita di tutta la mia famiglia, condannata all’indigenza.

Potevo rassegnarmi ad essere un incapace, ma sono diventato, mio malgrado, un esperto in concorsi truccati. Dal 1998 sono destinatario come presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie della disperazione di tanti altri come me. Per dimostrare la verità, raccolgo le testimonianze da tutta Italia di centinaia di migliaia di candidati vittime dei concorsi truccati tra i più disparati. Testimoni anche autorevoli come possono essere i magistrati o i professori universitari che ambiscono a ruoli superiori. Testimonianze che si sono estese oltre che ai concorsi come la magistratura, notariato ed avvocatura. Le testimonianze denunciano i concorsi truccati in Italia come regime generale di cooptazione nel sistema della classe dirigente o di livello professionale superiore. Chi detiene una pubblica funzione, anche senza merito in virtù di un concorso truccato, è componente di quelle commissioni d’esame, che reiterano il sistema di cooptazione all’interno del regime.

La Corte Costituzionale per sanare le nefandezze regresse mi dice: "siamo in Italia, il voto non va motivato e le commissioni sono arbitrarie ed insindacabili".

La Corte di Cassazione per sanare le nefandezze regresse mi dice: "siamo in Italia, devi essere giudicato (sui concorsi, ma anche sui procedimenti penali a tuo carico per reati d’opinione) dai magistrati che hai denunciato alle procure e criticato sui giornali. E dato che ti sei ribellato, chiedendo la rimessione dei processi, ti condanno alla pena di 2000 euro".

Il Governo per sanare le nefandezze regresse mi dice: "hai ragione facciamo le riforme". Dal 2003 fa girare i compiti in tutta Italia. Il criterio di correzione diventa razzista. Il presidente locale della commissione 1998/2000/2001 estromesso dalla riforma, diventa addirittura presidente nazionale nel 2010.

Il Tar mi dice: "siamo in Italia, ma se la Corte Costituzionale afferma che le commissioni sono insindacabili, la Cassazione mi dice che non vi può essere ricusazione, se il Ministero della Giustizia mi mette come presidente di commissione chi aveva cacciato, io rigetto il tuo ricorso". Ricorso presentato con 1000 euro tra contributo unificato, bolli e spese di notifica.  Una tangente a favore di uno Stato che non ti tutela.

Le procure informate con prove e circostanze mi dicono: "è impossibile che le commissioni d’esame abusino dei loro poteri contro di te". Resta il fatto che nessun commissario denunciato e criticato mi ha mai denunciato per calunnia o diffamazione.

La mia unica speranza è la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, se non ci sono italiani di mezzo. Con Essa sono investiti il Parlamento Europeo e la Commissione Europea. Chiedo Loro se sia possibile che le autorità pubbliche da me biasimate, ad oggettiva ragione con rispondenza giuridica e con fondamento di prove accluse al ricorso, siano le stesse, impunemente e con parzialità, a valutare  i miei esami ed a giudicare penalmente le mie critiche nei loro confronti in tema di malagiustizia. Mi rispondono: il tuo ricorso è irricevibile.

Fa niente se sei perseguitato dalla mafia, se essa non è ritenuta tale dai suoi commensali. Proprio vero: la Giustizia non è di questo mondo.

Strano che mai nessun organo di stampa nazionale ha sostenuto la mia lotta. “Ballarò” di Rai3 ha fatto un servizio mai mandato in onda. “I programmi dell’accesso” della Rai hanno fatto un servizio mai mandato in onda. Soldi dei contribuenti bruciati nel nome della censura.

Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p. Oltre al danno vi è la beffa: rigettato e condannato anche alle spese. Si intimidisce il cittadino per disincentivarlo alla presentazione delle istanze di rimessione.

Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione.

Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

QUESTO E’ IL CASO ESEMPLARE DI RITORSIONE PER IL QUALE L’ITALIA MAFIOSA SI DOVREBBE VERGOGNARE.

COSI' SI DIVENTA AVVOCATO O SI IMPEDISCE DI ESSERLO!!!

IN UN CONCORSO PUBBLICO, (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI), I TEMI SCRITTI NON SONO CORRETTI, MA DAL 1998 SONO DICHIARATI TALI. DEVI SUBIRE E DEVI PURE TACERE, IN QUANTO NON VI E' RIMEDIO GIUDIZIARIO O AMMINISTRATIVO.

CONCORSI DI AVVOCATO PRESIEDUTI DA CHI E' STATO DENUNCIATO COME PRESIDENTE DI COMMISSIONE LOCALE. LA DENUNCIA E' STATA PRESENTATA ANCHE AL PARLAMENTO. SI E' CHIESTA UNA INTERROGAZIONE PARLAMENTARE. NONOSTANTE LE INTERROGAZIONI PARLAMENTARI PRESENTATE: TUTTO LETTERA MORTA. COSTUI NON HA POTUTO PIU' PRESIEDERE LA COMMISSIONE LOCALE, PERCHE' E' STATO ESTROMESSO DALLA RIFORMA DEL 2003, E NONOSTANTE CIO' POI E' STATO NOMINATO PRESIDENTE DI COMMISSIONE CENTRALE.

Queste sono le conclusioni del ricorso amministrativo presentato dall’avv. Mirko Giangrande (Avvocato più giovane d’Italia, 25 anni e due lauree) per conto del padre dr. Antonio Giangrande. Ricorso con cui si contestano in fatto e in diritto i giudizi negativi delle prove scritte resi dalle sottocommissioni per gli esami di abilitazione alla professione di avvocato.

Ricorso presentato presso il Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia, sezione distaccata di Lecce. Ricorso n. 1240/2011 che dal 1998 nessun avvocato per codardia ha mai voluto presentare. La commissione competente nel 2010 per tali conclusioni ha negato l’accesso al gratuito patrocinio. Il TAR ha rigettato l'istanza di sospensiva nonostante i vizi, mentre per altri candidati l'ha accolta, valutando l'elaborato direttamente nel merito.

CONCLUSIONI

Da quanto analiticamente già espresso e motivato si denota che violazione di legge, eccesso di potere e motivi di opportunità viziano qualsiasi valutazione negativa adottata dalla commissione d’esame giudicante, ancorchè in presenza di una capacità espositiva pregna di corretta applicazione di sintassi, grammatica ed ampia conoscenza di norme e principi di diritto dimostrata dal candidato in tutti e tre i compiti resi.

1.     Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa, rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte d’Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità, (spesso fino al doppio) per tempo e luogo d’esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%, nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le sottocommissioni del Nord Italia. I Candidati sperano nella buona sorte dell’assegnazione. La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.

2.     Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.

3.     Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella materia di riferimento.

4.     Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione.

5.     Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.

6.     Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della Commissione d’esame centrale e si contesta contestualmente l’assenza del presidente della Iª sottocommissione di Palermo.

7.     Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito.

8.     Altresì qui si contesta, acclarandone la nullità, la nomina del presidente della Commissione centrale, Avv. Antonio De Giorgi, in quanto espressione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce. Nomina vietata dalle norme.

Inoltre, il metodo, contestato con i motivi indicati in precedenza, è lo stesso che ha inficiato dal 1998 la vana partecipazione del ricorrente al medesimo concorso concluso con giudizi d’inidoneità fondata sugli stessi motivi illegittimi.

…………..

Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. E le istituzioni. Beh, loro non fanno nulla, anche perchè sono proprio loro ad essere reclutati con il trucco. Bene. Allora cosa si pensa delle continue cronache di malaffare che danno ragione a colui che denunciando è vittima di ritorsioni. Certo, un episodio del genere non sorprende poi molto in Italia, nazione bella, ricca di cultura e con un patrimonio artistico non indifferente, ma piena di raccomandati e con un nepotismo senza eguali. La giornata del 12 giugno 2012 è stata caratterizzata dall’agitazione al concorso per l’Avvocatura di Stato a Roma, che è stato sospeso. Molti candidati hanno iniziato a protestare, dopo aver constatato che molte persone avevano con sé codici commentati, mentre altri copiavano indisturbati. Tantissimi gridi e fischi in aula, tanto da rendere necessario l’intervento delle forze dell’ordine per riportare la calma. Prova annullata... per proteste. E' successo all'Ergife Palace Hotel di Roma, dove martedì 12 giugno 2012 si è tenuto il concorso per l'avvocatura dello Stato: un migliaio di aspiranti per tre posti da procuratore. Per sedare il parapiglia, scoppiato a causa di presunte irregolarità, sono dovute intervenire le forze dell'ordine... Alcuni partecipanti denunciano: c'è stata poca vigilanza, dei candidati sono entrati con i codici commentati, che non sono ammessi. Già nel 2008 c'era chi puntava il dito contro le irregolarità all'esame da avvocato: rossellaemichela hanno caricato diversi video su YouTube... La cosa che più mi imbestialisce - scrivono - è la presa per i fondelli da parte delle istituzioni e l'omertà di tutti coloro che sanno, vivono certe situazioni e non denunciano per paura di cosa non si sa...

Dal “Corriere della Sera”, l’ennesima prova di come si cooptano i candidati nei concorsi pubblici. Tensioni e proteste al concorso per l'avvocatura di Stato a Roma poi sospeso dalla stessa Commissione. Diversi candidati, dopo l'inizio della prova che si stava svolgendo all'Hotel Ergife, hanno protestato contro «irregolarità nelle procedure e poca vigilanza perché - hanno detto - c'era gente che copiava». Durante le proteste, oltre a fischi e urla, alcuni aspiranti avvocati si sono alzati intonando l'inno di Mameli. Il trambusto ha avuto inizio intorno alle 15.30 ed è andato avanti per un paio d'ore fino a quando non sono intervenuti polizia e carabinieri per sedare gli animi. A detta di alcuni partecipanti dentro l'Ergife diversi candidati sono riusciti a portare codici commentati (vietati) con tanto di timbro dell'avvocatura, altri hanno denunciato di non aver avuto le buste prima della dettatura delle tracce. Così dopo due ore di trattative la commissione ha annullato d'ufficio la procedura. «Al concorso è scoppiata praticamente la rivoluzione, quando si è scoperto che alcuni candidati erano entrati con i codici "commentati", che non sono ammessi: abbiamo cominciato a chiederci quanti altri candidati fossero riusciti ad aggirare i controlli ed è successo il finimondo». A raccontarlo è uno dei partecipanti al concorso. «Il culmine - aggiunge - è stato quando si è scoperto che alcuni candidati, tra cui la figlia di un avvocato dello Stato, il giorno prima erano riusciti a far entrare un codice "commentato". La contestazione è diventata non più arginabile, il presidente non riusciva più a parlare perché costantemente sovrastato dalle proteste e dai candidati che intonavano l'inno di Mameli. È arrivata la polizia che ha iniziato a spingere e strattonare alcuni dei concorsisti, con maniere anche brusche, tanto che viene preso in mezzo pure un disabile. Intorno alle 15.45 - conclude - hanno finalmente deciso di annullare la prova nonostante il presidente avesse dettato una traccia che nessuno era riuscito neppure a sentire». «Già dopo l'identificazione - hanno spiegato alcuni candidati - sui banchi non abbiamo trovato nessuna delle due distinte buste: doveva essercene una con il nome del candidato, l'altra con l'elaborato». Inoltre, mentre la commissione si era ritirata per un'ora a redigere le tracce dei temi, alcuni candidati passeggiavano per i corridoi e addirittura uscivano dalle porte di sicurezza nonostante avessero i sigilli». «Quando - hanno proseguito nel racconto della giornata - dopo un'ora, verso le 13, la commissione è rientrata tra le nostre proteste, ha informato il servizio sicurezza che c'erano circa 200 persone che cercavano di non far proseguire la prova, chiedendo l'annullamento concorso per gravi irregolarità. Ormai quasi nessuno era d'accordo alla prosecuzione e c'erano difficoltà anche per reperire dei volontari tra i candidati per l'estrazione della busta contenente le tracce». L'Avvocato Generale dello Stato, Ignazio Francesco Caramazza, specifica in una nota che la decisione di sospendere ed annullare la prova in corso è stata presa a causa di «gravi disordini inscenati da una minoranza di candidati che protestavano in modo esagitato contro i tempi eccessivi trascorsi prima dell'inizio della prova (tempi in massima parte dovuti all'appello di ben 975 candidati) allegando anche altre pretestuose lamentele». «La prima prova scritta del concorso a tre posti di procuratore dello Stato bandito con D.A.G. in data 23.11.2011 e che avrebbe dovuto svolgersi in Roma nelle sale dell'Hotel Ergife in data 12.6.2012 - è scritto nella nota - è stata sospesa ed annullata dalla Commissione esaminatrice attesi i gravi disordini inscenati da una minoranza di candidati che protestavano in modo esagitato contro i tempi eccessivi trascorsi prima dell'inizio della prova (tempi in massima parte dovuti all'appello di ben 975 candidati) allegando anche altre pretestuose lamentele. Gli stessi impedivano così il regolare svolgimento della prova nonostante l'intervento delle forze dell'ordine. L'Avvocatura dello Stato si riserva di esperire ogni utile azione contro i responsabili che sono stati identificati».

Dello stesso tenore “La Repubblica”. Proteste al concorso degli avvocati. Prova annullata per irregolarità. Durante l'esame per l'avvocatura di Stato all'Hotel Ergife, alcuni candidati si sono alzati in piedi intonando l'inno di Mameli. "C'era gente che copiava". "Una ragazza era in possesso di Codici non ammessi dal bando". E' stata sospesa la prova per l'avvocatura dello Stato tenuta oggi all'Hotel Ergife. L'avvocato Generale dello Stato, Ignazio Francesco Caramazza, ha detto che la decisione di sospendere ed annullare la prova è stata presa a causa di "gravi disordini inscenati da una minoranza di candidati che protestavano in modo esagitato contro i tempi eccessivi trascorsi prima dell'inizio della prova - tempi in massima parte dovuti all'appello di ben 975 candidati - allegando anche altre pretestuose lamentele". Durante l'esame però la tensione c'è stata, e numerose sono state le proteste che sono culminate nella sospensione, ad opera della stessa Commissione. Diversi candidati, dopo l'inizio della prova, in cui erano presenti più di novecento persone, hanno protestato contro "irregolarità nelle procedure e poca vigilanza, perché c'era gente che copiava". Secondo alcuni candidati all'interno dei bagni sarebbero stati trovati dei Codici commentati con i timbri della Commissione. I Codici commentati non erano però ammessi all'interno della struttura e questo ha fatto gridare al concorso truccato. Durante le proteste, oltre a fischi e urla, alcuni aspiranti avvocati si sono alzati intonando l'inno di Mameli. Sul posto sono intervenuti polizia e carabinieri per sedare gli animi. "La situazione era strana fin dall'inizio. All'ingresso non c'erano controlli, mentre di norma si devono depositare i propri effetti personali. Poi, quando sono entrata, sui banchi già c'erano i fogli timbrati. La prova, dal momento in cui sono entrata, alle otto e mezza, è stata sospesa alle tre e mezza" ha detto S. V., una candidata. "Quando hanno estratto la materia d'esame, diritto e procedura civile, è passata un'ora e mezza durante la quale i commissari hanno elaborato la traccia. In quel lasso di tempo ci hanno permesso anche di andare al bagno. Quando hanno finito di elaborarla, è cominciata la distribuzione delle buste. In quel momento si è levato un brusio nelle prime file, un centinaio di persone che protestavano per presunti brogli. Urlavano che le buste andavano distribuite prima" ha continuato. "A un certo punto è stato fatto il nome di una ragazza al megafono, e secondo alcuni candidati, lei era già in possesso del Codice commentato dalla giurisprudenza al posto del Codice semplice. Per bando possono essere ammessi solo alcuni tipi di Codici, non quello che aveva lei - ha terminato la ragazza -. Da lì è scoppiata la rivolta. Il 70 per cento dei candidati era in piedi a cantare l'inno di Mameli ma il presidente ha cominciato a dettare la traccia comunque. Nel delirio più generale, la gente ha cominciare a fare il compito collettivamente. Ho parlato con il servizio d'ordine perché non riuscivo a sentire la traccia ma non hanno potuto fare niente".

Senza dimenticare la Bufera sul concorso dei notai del 29 ottobre 2010.

Il caso è lo stesso, anche se il testo differisce per la forma che lo caratterizza. Si tratta della traccia 'mortis causa' che ha causato prima la bagarre in sede di concorso, poi l'annullamento per gravi irregolarità della terza e ultima prova sostenuta dagli oltre 3000 partecipanti per 200 posti da notaio. Quello stesso caso notarile da risolvere, proposto in modo pressoché identico venti giorni prima in una prova simulata alla scuola dell'Ordine di Roma 'Anselmo Anselmi', ha fatto scoppiare il caos tra i banchi della Fiera di Roma. E oggi lascia ancora pesanti ombre sul meccanismo di scelta della traccia incriminata. Una matassa complicata da dipanare, considerando gli estremi del bandolo. Da una parte i candidati che si sono scagliati contro la commissione, con fischi e urla (alcuni gridavano "Vergogna vergogna"), durante la prova, dopo avere scoperto l'anomalia. "In base al regolamento, la Commissione esaminatrice avrebbe dovuto costruire la mattina stessa della prova una traccia ex novo, - spiegano alcuni partecipanti - mentre quella dettata era quasi del tutto identica ad un'altra utilizzata come esercitazione e trattata in videoconferenza con altre scuole notarili". Dall'altra, le repliche dei 15 commissari che puntano il dito contro i "facinorosi". "Quello che abbiamo subito ieri - ha dichiarato una fonte della Commissione - è stata una manovra preordinata, rivolta in realtà non contro di noi componenti la Commissione esaminatrice, ma contro il Consiglio notarile". Senza contare che, secondo alcune testimonianze di partecipanti alla prova, a qualche candidato sono state trovati in tasca i compiti già eseguiti, "su carta intestata del ministero". Resta il fatto che ai commissari è demandato il compito di scegliere le tracce (sei o sette quelle presentate in questo caso), tre delle quali verranno estratte a sorte in sede di esame. Una responsabilità non da poco, su una questione che fa discutere e sulla quale il ministero della Giustizia, sollecitato da più partiti (Udc e Lega) a intervenire in Parlamento, dovrà fare chiarezza. In attesa che Angelino Alfano si esprima, come promesso, nei giorni successivi al ponte festivo, la Lega attacca contro la "logica tutta romana" dei concorsi pubblici. Questo, in particolare, avrebbe visto partecipare alla corsa per gli ambiti posti a numero chiuso, anche nomi 'illustri', tra figli di politici e parenti di personaggi noti del mondo dello spettacolo. Anche loro, come gli altri, dovranno attendere ancora qualche giorno per sapere se l'annullamento interesserà solo la prova 'incriminata' oppure l'intero concorso. In tal caso, sarà tutto da rifare. Prove annullate ma bando di concorso salvato e rinnovo totale della commissione esaminatrice. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha così deciso sulla "gravissima vicenda" del concorso per 200 posti di notaio sospeso la settimana scorsa per motivi di ordine pubblico e su cui la procura di Roma ha aperto un'inchiesta per abuso di ufficio. Il Consiglio nazionale del Notariato plaude alla decisione del Guardasigilli, innanzitutto perchè confermando il bando si rendono "il più celere possibili le procedure", inoltre si tratta di "una soluzione che conferma l'affidabilità del sistema concorsuale di selezione dei futuri notai" e che "restituisce serenità ai candidati". I tremila candidati che hanno affollato la Fiera di Roma per un concorso poi degenerato in rissa si sottoporranno alle nuove prove nel 2011, probabilmente in febbraio. Dovranno ripetere tutti gli elaborati e non solo il secondo, contestato perchè la traccia del tema era pressocchè identica a quella sottoposta al corso di esercitazioni della scuola notarile di Roma 'Anselmo Anselmi', peraltro diffusa anche via internet. Dal momento che la procura di Roma ha aperto un'inchiesta ipotizzando il reato di abuso di ufficio, il Guardasigilli ha deciso di inviare agli inquirenti, "per le eventuali iniziative di competenza", la relazione della Commissione esaminatrice e tutti gli altri atti in suo possesso relativi alle prove annullate. Alfano ha anche stabilito il rinnovo per intero della commissione esaminatrice "pur non nutrendo alcun dubbio - ha sottolineato - sulla buona fede dei suoi componenti". Il bando è stato invece salvato per "evitare che tanti laureati siano penalizzati da ulteriori ritardi derivanti dalla pubblicazione di un nuovo bando che tarderebbe oltremodo la data del prossimo concorso". Una valanga di reclami alla giustizia amministrativa è comunque attesa: il Codacons ha pubblicato oggi sul suo blog (www.carlorienzi.it) i moduli attraverso i quali i partecipanti alle prove annullate possano presentare un ricorso collettivo al Tar del Lazio con l'obiettivo di ottenere un risarcimento dei danni materiali e morali subiti.

LA MAFIA DELLE RACCOMANDAZIONI.

MARTONE, LE VITTIME, SFIGATI A PRESCINDERE.

Parliamo di lavoro. A proposito del viceministro al Lavoro Martone e di Sfigati.

Su “L’Espresso”, così come su tantissimi giornali nazionali o locali, vi è stata pubblicata una lettera aperta del Dr. Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS. Da 20 anni partecipa al concorso forense: i suoi compiti non sono corretti, ma dichiarati tali da commissioni composte e presiedute da chi è stato da lui denunciato perché trucca l’esame. Il Tar di Lecce respinge i suoi ricorsi, nonostante vi siano decine di motivi di nullità.

«Il viceministro Martone provoca i fuori corso universitari: "Se a quell'età sei ancora all'università sei uno sfigato". Ha ragione, eppure finisce alla gogna. Polemiche pretestuose sulla frase da chi ha la coda di paglia. Michel Martone, viceministro del Lavoro secondo il quale un 28enne non ancora laureato è spesso "uno sfigato". Ha ragione e lo dico io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come?

A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.

A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità assieme ai giovincelli.

A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).

Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Alla fine si è sfigati comunque, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate.»

Tale lettera è inserita in una inchiesta più larga su un malcostume ed illegalità noto ed utile a tutti. E si viene a sapere da Gianluca Di Feo su “L’Espresso” che l'amico del padre del viceministro (quello degli 'sfigati') andò dal potente senatore del Pdl, Dell'Utri, per far sistemare il giovane. Lo ha detto, a verbale, Arcangelo Martino, imprenditore al centro dell'inchiesta sulla P3. «Mi sono ricordato che Martone sosteneva che attraverso il partito voleva dare una risposta lavorativa al figlio». Arcangelo Martino ha uno stile spiccio, spesso approssimativo. Del figlio di Martone dice che «fa il commercialista, una cosa del genere».  L'imprenditore è considerato uno dei pilastri della P3, la cricca che interveniva per pilotare le cause in Cassazione e in molti tribunali. Ma durante l'interrogatorio in carcere davanti ai pm romani ricostruisce in modo netto il principale interesse di Antonio Martone, all'epoca potente avvocato generale della Cassazione: sistemare il figlio, ossia Michel il giovane enfant prodige del governo Monti, pronto ad attaccare gli studenti fuori corso e le lauree tardive.

Il suo curriculum di professore ordinario a soli 29 anni era anche - stando ai verbali - nelle mani degli uomini della P3. Martino dichiara che assieme a Pasqualino Lombardi, l'altro protagonista dell'inchiesta P3, si sarebbero presentati a Marcello Dell'Utri chiedendo di intervenire in favore del ragazzo. Sarebbe stato Lombardi a sollecitare la raccomandazione, accompagnata dalla lista dei meriti accademici del giovane al senatore del Pdl. Ottenendo una risposta vaga: «Va be' vediamo». Tanta premura per il rampollo non nasceva da una solidarietà amicale. L'interesse della P3 era chiaro: volevano che il padre intervenisse per sistemare la causa sul Lodo Mondadori, ossia il processo contro l'azienda di Silvio Berlusconi a cui era contestata un'evasione fiscale da circa 300 milioni, e sollecitasse un voto positivo della Consulta sul Lodo Alfano che garantiva l'immunità al premier. Due questioni strategiche per il Cavaliere che Pasqualino Lombardi e i suoi sodali volevano mettere a posto grazie all'aiuto di Martone, come spiegano ai magistrati.

Antonio Martone ha dichiarato di non avere mai chiesto raccomandazioni per il figlio. L'uomo ha lasciato la suprema corte dopo la diffusione delle intercettazioni su suoi contatti con gli emissari della P3. Nunzia De Girolamo, parlamentare pdl, ha descritto la presenza dell'avvocato generale ai pranzi da Tullio dove ogni settimana Lombardi riuniva i suoi compagni di merende. «Ricordo che erano presenti il sottosegretario Caliendo e diversi magistrati. Tra loro Martone, Angelo Gargani e un magistrato del Tribunale dei ministri». Il geometra irpino Lombardi si mostra capace di grandi persuasioni, come ricostruisce la De Girolamo: «Ricordo anche che Martone diceva di volere andare via dalla Cassazione e che Lombardi non era d'accordo e cercava di convincerlo a restare. Diceva che stava bene lì, che era un punto di riferimento lì. Martone insisteva dicendo che voleva fare altre esperienze e che preferiva andare da Brunetta».  Proprio da Brunetta era poi venuto il primo incarico di consulente da 40 mila euro l'anno per Michel Martone, mentre al padre andavano ruoli direttivi. Ma Lombardi e Martino si impegnavano per trovare «attraverso il partito una risposta lavorativa» migliore per il professore in erba. Che due anni esatti dopo l'incontro tra Lombardi e Dell'Utri per trovargli un posto «attraverso il partito» è arrivato al governo Monti.

Luogo comune vuole che l’Italia è il paese dei raccomandati. Si chiede la raccomandazione per tutto, anche violando la legge, quando per attuarla si truccano i concorsi pubblici. Ma chi se ne frega e poi, chi va ad indagare? Se lo si chiede in giro ti diranno che la raccomandazione esiste, ma l’interlocutore però ti dirà, anche, che lui non ha mai chiesto la raccomandazione, né è stato mai raccomandato.

Uno dei momenti clou della puntata del 2 febbraio 2012 di “Servizio Pubblico” è stato l’intervento di Marco Travaglio che ha scelto un obiettivo ben preciso per la sua invettiva. Il vice ministro Michel Martone e la sua infelice dichiarazioni sugli sfigati. A dire il vero Travaglio non ha iniziato subito incalzando l’incauto vice ministro. Prima ha fatto alcune considerazioni sulla possibilità di eliminare l’articolo 18 e sulla monotonia del posto fisso. Il primo affondo di Marco Travaglio è per Mario Monti, “Ha un posto da senatore a vita, più fisso di cosi si muore…Ma nel vero senso della parola”. Michel Martone viene presentato così, “Nonostante il nome e la faccia non è un parrucchiere per signora”. Travaglio si mette, con la consueta precisione ed ironia, a fare le pulci alla rapidissima carriera del vice ministro. Laureato giovanissimo, Martone, vede la sua carriera accademica e lavorativa accompagnata da una serie di esami e concorsi superati al primo colpo. Una particolarità, la commissione esaminante è presieduta sempre dalla stessa persona o da un amico stretto della stessa. In entrambi i casi persone molto vicine al padre di Martone, un “Potentissimo magistrato romano” che ha frequentato molto l’ufficio dell’avvocato Previti. Il curriculum del vice ministro Michel Martone è una lunga risata amara, soprattutto per chi, invece, non ha avuto una strada così liscia.

Ciò non basta. Qualcos'altro serve a dimostrare l'inaffidabilità dei TAR per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi. A Tal proposito su LA7 il programma “Piazza Pulita” manda in onda il servizio sui fratelli Martone: il prof. Michel e l’avv. Thomas.

Dopo aver sviluppato la solita litania su Michel si passa al fratello. Thomas nel 2004 partecipa all’esame per diventare avvocato e viene bocciato alla prova scritta. Lui, però, non si perde d’animo, a differenza di tanti altri, e fa ricorso al Tar. L’intervistatore chiede agli avvocati amministrativisti: «se vengo bocciato all’esame di avvocato e faccio ricorso al Tar quante possibilità si hanno di vincere il ricorso»: “non moltissime” rispondono questi.

Thomas Martone lamentava al Tar che alla sua prova scritta fosse stato attribuito solo una votazione numerica senza alcun giudizio. L’avvocato amministrativista spiega che bisogna dimostrare che il punteggio attribuito è ai limiti dell’irragionevolezza manifesta. L’intervistatore chiede «e se mi lamento per il fatto che mi sia stato attribuito soltanto un voto numerico?» L’avvocato spiega che il voto numerico, secondo la giurisprudenza, va bene se la procedura ha previsto che c’era il voto numerico e che se i criteri per il voto numerico sono stati esplicitati preventivamente. Un altro avvocato spiega che qualche ricorso è stato accolto, ma hanno detto che è molto difficile.

Invece Thomas Martone c’è riuscito. Ce l’ha fatta. La prima sezione del Tar del Lazio ha deciso che la sua prova scritta andava giudicata da un’altra commissione che questa volta lo ha promosso.

L'intervistatore cerca Thomas Martone nel suo studio, che si trova a due passi da Piazza San Pietro, in via della Conciliazione in un palazzo di proprietà della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. In altre parole Propaganda Fide.

L’intervistatore chiede a Thomas: «non è vero che va tutto bene ai figli dei Martone, perché io ho scoperto che lei fu bocciato allo scritto dell’esame per diventare avvocato.»

Martone: «io non vedo che cosa possa interessarvi e perché vi debba rispondere. Mi dispiace.»

L’intervistatore: «non è vero che i Martone sono tutti raccomandati, perché se lei fosse stato raccomandato non l’avrebbero bocciato allo scritto all’esame per avvocato.»

Martone: «lasciate perdere.»

L’intervistatore: «come ha fatto lei a vincere il ricorso, che peraltro non lo passa praticamente nessuno questo ricorso? Si ritiene fortunato per questo. Poi mi risulta che questo palazzo sia di Propaganda Fide. Come ha fatto ad essere inquilino di Propaganda Fide?»

Martone: «Si paga, anche profumatamente. Tutto qua.»

L’intervistatore: «come fa a sapere che ci c’è una disponibilità di immobili in locazione?»

Martone: «si informi non è esattamente così.»

Intervistatore: «e come è stato, mi dica lei. Cosa le costa. E’ una domanda semplice.»

Martone: «non so dove volete arrivare, mi dispiace.»

Intervistatore: «siccome uno dice “gli altri sono sfigati” se fanno ritardi con gli studi, però i Martone hanno un po’ di fortuna.»

Martone: «non è così. Se lei va a vedere su internet cosa intendeva dire mio fratello, capirà che è il contrario.»

Intervistatore: «ho capito, però guarda caso, il fratello di Martone bocciato allo scritto non è così fortunato. I Martone non sono così super raccomandati. E’ vero no. Questo ce lo può confermare?»

Dopo l’intervista Martone ha scritto alla redazione per precisare che lo studio in via della Conciliazione lo condivide con un collega più anziano titolare del contratto con Propaganda Fide da 40 anni. Quanto al ricorso al Tar contro la bocciatura all’esame di avvocato sottolinea che la Commissione che giudicò la sua prova era composta da 4 avvocati ed un solo magistrato, anziché 2 come previsto dalla legge, e che sui suoi elaborati mancava ogni segno grafico che dimostrasse l’effettiva correzione. Che ha sostenuto regolarmente la prova orale diventando così uno dei 250.000 avvocati italiani.

Italiani: raccomandati e pure bugiardi.

Tre italiani su dieci trovano un'occupazione grazie alla "spintarella" di parenti e amici. La crisi non fa diminuire quindi le raccomandazioni. L'ultima indagine dell'Isfol (Istituto per la formazione professionale dei lavoratori), riferita al 2010, sottolinea che la "buona parola" è il canale privilegiato per accedere al mondo del lavoro: il 38% dei giovani ha infatti ottenuto un posto grazie a familiari o conoscenti.

A tutto questo persino il Presidente della Repubblica italiana, Giorgio  Napolitano, ha detto: Stop! "Basta con le raccomandazioni".

Al Quirinale il 15 novembre 2011, per il rilancio dell'occupazione il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, fa un invito. «L'Italia deve diventare il più rapidamente possibile un Paese aperto ai giovani, deve offrire opportunità non viziate da favoritismi e creare per il lavoro sistemi di assunzione trasparenti che creino un vero ascensore sociale, smentendo così la convinzione che le raccomandazioni servano più dell’impegno personale. Bisogna - ha concluso - smontare la convinzione secondo cui le occasioni siano riservate a certi ambienti”.

Affermazione inane se si pensa che proprio un'altra istituzione, La Corte Costituzionale, in riferimento ai giudizi dati agli esami di Stato, smentisce queste buone intenzioni. Corte Costituzionale: sentenza 8 giugno 2011, n. 175 in riferimento al concorso pubblico di avvocato: “Il voto numerico è una motivazione sintetica e costituisce legittima tecnica di motivazione delle motivazioni amministrative”. Siamo in Italia, il voto non va motivato e le commissioni sono arbitrarie ed insindacabili negli abusi. Qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Un documentario realizzato da Ugo Gregoretti nei primi anni ’60 narrava la esilarante vicenda di un deputato calabrese. Al suo ufficio romano pervenivano centinaia di lettere da parte dei propri elettori, tutte contenenti pressanti richieste di raccomandazione. Quel deputato aveva perfino creato un’apposita struttura – composta di solerti impiegati - che si premurava di rispondere a tutti i questuanti. Per tutti, il deputato avanzava accorate richieste di assunzione, che indirizzava alle varie amministrazioni pubbliche. Questo sistema industrializzato, venne documentato da Gregoretti senza che il deputato avesse nulla da ridire. Anzi, come potete immaginare, la pubblicizzazione di quel sistema era per l’uomo politico un elemento di vanto. L’unica cosa su cui ebbe da ridire, peraltro, fu il fatto che nel documentario si vedeva il suo staff sedersi sulle buste, per garantirne la perfetta stiratura. Non era decoroso, infatti, che i questuanti venissero a sapere che le lettere di risposta, che essi trattavano come una reliquia, fossero state a contatto con i pachidermici deretani dei componenti il suo staff. Che pudore: roba di altri tempi!!!

In Italia, oggi invece, si è costruito intorno alla raccomandazione non solo un sistema di potere a fini clientelari. Si potrebbe dire, anzi, che la raccomandazione abbia assunto un ruolo antropologico-culturale, che affonda le proprie radici in un sistema valoriale sempre più decadente. In passato, il raccomandato acquisiva la possibilità di essere avvantaggiato perché garantiva - con tutto il suo parentado esteso – che avrebbe poi votato in eterno per il suo benefattore. Oggi, invece, si è imposta una ben più eterogenea serie di motivi (compreso la soddisfazione erotica del politico) che producono una degenerazione estrema di un sistema, di per sé anche in passato poco equo e corretto, ma ora addirittura devastante. Se nel recente passato, infatti, la raccomandazione era pur sempre odiosa e non giustificabile, oggi essa è palesemente distruttiva del buon funzionamento della macchina amministrativa pubblica. Oggi, non ci si limita ad avvantaggiare un competente sugli altri concorrenti, altrettanto competenti. Attraverso l’inserimento nei posti chiave di uomini pronti ad eseguire qualsiasi ordine, si creano i presupposti per il funzionamento del sistema corruttivo. È intuibile, infatti, che se a ricoprire un ruolo determinante viene chiamato qualcuno che non ne ha neanche lontanamente le capacità, costui sarà sempre pronto, da perfetto yesman, a rispondere positivamente a qualsiasi richiesta di chi lo ha favorito.

In sostanza, il raccomandato non è più un privilegiato che usurpa un diritto altrui (sempre gravissimo come fatto, ben inteso), ma molto più banalmente si è trasformato in un fortunato, che si presta ad essere accondiscendente strumento del sistema della corruzione. Quando so di non avere le competenze per occupare il ruolo che generosamente mi è stato affidato, sarò poco propenso ad opporre resistenza al malaffare, di cui finirò per essere pedissequo esecutore. Il Potere, quindi, non dispensa più prebende a fini clientelari, scegliendo un candidato fra i tanti che ne hanno le competenze, ma, anzi, sceglie quasi sempre il più incapace perché così si garantisce la sua cieca ed affidabilissima riconoscenza.

Non solo concorso di abilitazione notoriamente truccato ed impunito. L’Ordine degli avvocati ostacola la professione degli avvocati dei Paesi Ue: indagine Antitrust contro l’Ordine degli avvocati. La nota stampa dell'Antitrust pubblicata su molti giornali dell’11 gennaio 2012 rende pubblico un fatto risaputo che colpisce anche altri Fori.

PROFESSIONI: ANTITRUST CONTESTA A 12 CONSIGLI DEGLI ORDINI DEGLI AVVOCATI POSSIBILI INTESE RESTRITTIVE DELLA CONCORRENZA

Avviata istruttoria nei confronti degli Ordini di Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari. Secondo l’Autorità con i loro comportamenti porrebbero ostacoli all’ingresso nel mercato dei servizi legali da parte degli avvocati qualificati in un altro Stato membro dell’Unione. Contestata infrazione al diritto comunitario.

L’Antitrust ha avviato un’istruttoria per verificare se dodici Ordini degli avvocati stiano ostacolando l’esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell’Unione Europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza. Secondo l’Autorità, presieduta da Giovanni Pitruzzella, le prassi seguite dagli Ordini al centro dell’istruttoria (Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari) sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario. L’istruttoria è stata avviata alla luce di due segnalazioni, effettuate da un avvocato che aveva conseguito il titolo in Spagna e dall’Associazione Italiana Avvocati Stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l’abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario. Secondo le due denunce, gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all’iscrizione nella sezione speciale dell’albo dedicata agli ‘avvocati stabiliti’, in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia dal decreto legislativo n. 96 del 2001. Il decreto consente l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d’origine. Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l’avvocato può iscriversi all’albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione. I comportamenti degli Ordini, che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell’Unione, sono peraltro oggetto di valutazione anche della Commissione Europea, che l'Autorità intende affiancare con l'utilizzo dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi.

Dunque, faro Antitrust su 12 Ordini degli avvocati per possibili intese restrittive della concorrenza. L'Authority ha avviato infatti un'istruttoria "per verificare se 12 Ordini degli avvocati stiano ostacolando l'esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell'Unione europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza". Per l'Autorità le prassi seguite dagli Ordini al centro dell'indagine (Roma, Milano, Chieti, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari) "sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario".

Sono gli abogados, avvocati che hanno conseguito il titolo per l'esercizio della professione in Spagna. Sino al giugno 2009 l'omologazione era automatica, in virtù delle direttive della Comunità europea. Poi il Consiglio nazionale forense ha imposto un giro di vite e molti Ordini hanno chiuso le porte in faccia agli abogados. Ma dalla parte degli abogados c'è anche la sentenza n.28340 del 22 dicembre 2011, pronunciata dalla Corte di Cassazione a Sezioni unite. La sentenza dice che l'unica condizione richiesta per l'inserimento nella sezione speciale degli avvocati comunitari-stabiliti è «l'iscrizione nel Registro generale del Collegio degli abogados di Barcellona». Dunque, abogado, visto che (sino al 31 ottobre 2011) in Spagna non era previsto un esame di Stato per ottenere l'abilitazione alla professione.

L'istruttoria, spiega l'Antitrust, è stata avviata dopo due segnalazioni, fatte da un avvocato che aveva ottenuto il titolo in Spagna e dall'Associazione italiana avvocati stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l'abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario. Secondo le due denunce, gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all'iscrizione nella sezione speciale dell'albo dedicata agli 'avvocati stabiliti', in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia da un decreto legislativo del 2001. Il decreto - spiega l'Authority - consente l'esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione "è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d'origine. Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l'avvocato può iscriversi all'albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione". I comportamenti degli Ordini, conclude l'Autorità, "che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell'Unione, sono peraltro oggetto di valutazione anche della commissione europea, che l'Autorità intende affiancare con l'uso dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi".

L'esodo nasce dalla difficoltà di superare l'esame di abilitazione, assolutamente ostico. L'esame resta uno scoglio difficile da aggirare. La fuga verso la Spagna è iniziata nel 2005 ed è diventata fenomeno di massa dopo che la direttiva n.36 della Comunità europea ha sancito il reciproco riconoscimento delle qualifiche professionali all'interno dei paesi membri. Ma nel gennaio del 2009 un'altra sentenza, la cosiddetta «Cavallera» emessa dalla Corte di Giustizia, ha rimescolato le carte. Perché in quella sentenza si respingeva il ricorso presentato da un italiano laureato in ingegneria che dopo avere omologato il suo titolo di studio in Spagna, chiedeva di essere automaticamente inserito nell'albo italiano degli ingegneri, senza sostenere l'esame. Il rigetto del ricorso non era sfuggito al Consiglio nazionale forense, che cinque mesi dopo, il 25 giugno 2009, con una circolare impose una stretta sull'iscrizione degli abogados, invitando i vari ordini degli avvocati a verificare che gli aspiranti avessero maturato, all'estero, un'esperienza professionale adeguata. E gli abogados finirono sulla graticola.

I Consigli dell'ordine mantennero potere discrezionale ma molti seguirono le indicazioni del Cnf. Iniziò allora un'altra migrazione, quella verso Ordini più "favorevoli".

Avvocato e abogado. Le differenze sono minime, non incidono nell'esercizio della professione e spariscono dopo tre anni. L'abogado viene iscritto nella sezione speciale e deve lavorare d'intesa (devono firmare entrambi) con un legale iscritto all'albo ordinario italiano. Dopo tre anni, l'abogado può chiedere all'Ordine di essere integrato nell'albo ordinario. Ma, se non vuole aspettare, al rientro dalla Spagna può sottoporsi alla prova attitudinale (al Cnf) per ottenere l'immediato riconoscimento del titolo: non più abogado, subito avvocato.

Non capisco l’accanimento di certe “penne e tastiere saccenti”, che parlano di un fenomeno di cui nulla sanno, se non il sentito dire o il luogo comune.

Tanto si parla, in modo interessato, di centinaia di migliaia di avvocati operanti che causano il dissesto della giustizia e per questo se ne chiede la riduzione.

Tanto si è parlato di Catanzaro con i compiti fotocopia.

Tanto si è parlato delle tracce conosciute in anticipo su internet.

Queste “penne e tastiere saccenti” nel 2011 hanno pensato bene di montare il caso dei cellulari nelle sedi di esame. Strumento per farsi dettare l’elaborato. Anzi qualcuno si è spinto fino a dire che questo malcostume o lassismo è proprio dell’Italia meridionale.

Se bastasse il cellulare a far passare l’esame!!

Sono rimasto colpito come a Salerno i candidati siano stati trattati da terroristi e sottoposti al controllo del Metal Detector.

Certo è che queste penne saccenti pensano bene di non toccare i poteri forti e, giusto per scrivere, se la prendono con la parte più debole, ossia: i candidati.

Non si sognerebbero mai di scrivere che se trucchi ci sono, essi si annidano nelle commissioni d’esame fatti da avvocati principi del foro, magistrati incorruttibili e dotti professori universitari.

Questi “giornalisti”, bocca della verità, mai direbbero che la Commissione nazionale per l’esame di avvocato del 2010 è stata denunciata, in quanto la presidenza dava adito a dubbi circa la sua nomina. Mai direbbero che la 1ª sottocommissione di esame di Palermo 2010 è stata denunciata per aver dichiarato falsamente che i compiti sono stati corretti, mentre invece questi sono stati resi immacolati. Mai direbbero che il Tar di Lecce è stato denunciato in quanto lo stesso, in presenza di ricorsi simili contro i giudizi negativi dati alle prove scritte, ha adottato decisioni difformi.

Spero che la prossima volta, quando qualcuno oserà scrivere sul concorso di avvocato, si affidi ad un esperto o attinga le notizie da chi ha esperienza acquisita in 15 anni di partecipazione, tramutata in un libro e in un portale web, contenente tutto ciò che riguarda la tematica. Per esempio chiedere al dr. Antonio Giangrande o attingere le notizie sul suo portale web www.controtuttelemafie.it o visionare i filmati sul canale you tube “malagiustizia”.

Un articolo di Tobia Di Stefano su “LiberoQuotidiano” racconta l’esame per l’abilitazione alla professione di avvocato da un punto di vista diverso: quello del portale mininterno.net, il portale dei concorsi pubblici. Dove migliaia di interessati si sono dati da fare per raccontare cosa stava succedendo nelle “segrete” stanze delle aule di esame.

Esame-farsa per gli avvocati 2011. Ammessi cellulari e sms. Con gli smartphone i candidati si scambiano pareri: nessun sequestro dei telefoni. Tracce e soluzioni già prima di entrare in aula.

Cronaca di una farsa annunciata: martedì 13 dicembre va in scena la prima prova dell’esame da avvocato 2011. Il parere civile. Due testi e migliaia di tirocinanti disseminati tra le fiere e le scuole del Belpaese. Un caos. Ciascuna sede inizia a un orario diverso, telefonini (sono proibiti i dispositivi digitali), soprattutto i Blackberry, che entrano come nulla fosse, tracce copia incollate in rete mentre i provetti legali devono ancora accomodarsi e bagni usati a mo’ di copisterie. Nessuno scoop è una routine che si ripete da anni, ma a leggere minuto per minuto il forum della redazione di mininterno.net (portale sui concorsi pubblici) viene da chiedersi a cosa serva. Il primo messaggio è datato 7 e 36 del mattino. Tale “Mik” che chiede: «Si sanno le tracce?». Che fretta, i nostri devono ancora entrare. E infatti gli arrivano risposte interlocutorie, «di già possibile?» replica “anaflagio”. Passano pochi minuti e quello che era un appello isolato si trasforma in un coro. Otto e 23, 8 e 27, 8 e 47, poi le 9: «Raga ste tracce...». Monta la tensione. “Pronto soccorso esame”: «A Napoli sono in alto mare!!! Sono entrati in pochissimi…». Oppure: «Ho sentito che a Salerno addirittura ci sono i metal detector...». Quindi «legale»: «Ragazzi massima collaborazione come negli anni passati!!!».

E poi una voce unica: «A Padova?», «A Napoli?», «A Catanzaro», «A Milano». Notizie?.

Allarme rosso: «A Salerno stanno sequestrando i cellulari… c’erano dei carabinieri in borghese tra i candidati…». Non è vero. I minuti passano. Ore 9 e 53 “Vale” dà la prima traccia. A spizzichi e bocconi: «L’agenzie immobiliare beta, aveva ricevuto… un mandato per la vendita di un immobile… Media (in realtà è Mevia) concludeva successivamente la vendita del suo bene, a mezzo dell’intervento di un’altra agenzia immobiliare…. Il candidato assunta la veste di difensore dell’agenzia beta…». Ci sono lacune, è evidente, ma il dado è tratto.

No, non è così, sarebbe la traccia dell’anno prima. Serve di più. Occhio, posta pure un tale, “Polizia postale”: «Gli utenti di questo forum che diffonderanno notizie dall’interno delle sedi d’esame saranno rintracciati e immediatamente espulsi dalle rispettive sedi». Gelo in chat. Si studiano strade alternative. «Facciamo un gruppo su Facebook», suggerisce “Stella”. «No restiamo qui è uno scherzo». E intanto “Polizia Postale” insiste. Occhio, arrivano conferme. Ore 10 e 59, Capparola: «Raga: “ag immobiliare e condominio». C’è anche la seconda. «Così non significa nulla! Chi sa, postasse le tracce per intero». E certo. Ore 11 e 43, le tracce arrivano per intero, fonte “pinco pallino”. La prima, quella sull’agenzia immobiliare viene integrata, la seconda è sul condominio: «Caio, che abita in un condominio, viene richiesto, dalla ditta Gamma che fornisce il combustibile utilizzato nell’impianto di riscaldamento condominiale centralizzato, del pagamento dell’intera fornitura di gasolio. Il candidato, assunta la veste di legale di Caio, rediga parere, illustrando gli istituti sottesi alla fattispecie ecc ecc.». Arrivano i suggerimenti, la giurisprudenza in materia. Nuovi dettagli sulle tracce. Si discute, ci si confronta. Ore 12 e 21: la prima soluzione è già in rete. Ore 12 e 21: «A Napoli hanno appena iniziato a dettare». Ore 13: è in rete anche il secondo parere, quello sul condominio. Ne arrivano altri e altri ancora. «Raga coordiniamoci. Qual è quello buono». E chi può dirlo. Fermi tutti. Parla “già dato” (uno che l’esame deve averlo superato qualche anno fa): «Capisco la voglia di aiutare colleghi, amici e parenti... capisco che questo esame è assurdo da ogni punto di vista... mi sembra però che voi una cosa non l’abbiate capita: “passare lo scritto è solo questione di culo. Non importa se hai svolto l’esame da Dio, bisogna vedere chi ti corregge, se quel giorno è nervoso o sereno, se ha già corretto altri compiti e quanti ne sono già passati... e basta». Ore 14 e 50, l’amministratore del Forum: «A causa della continua violazione delle regole del forum e delle leggi vigenti in Italia siamo costretti a chiudere la discussione». Ore 14 e 52, la risposta: «Ma taci e smettila di dire idiozie...». Anche per quest’anno la farsa è servita.

In modo diverso la storia filo razzista raccontata da ruota “Il Giornale”. Concorso per avvocati? Si passa con il cellulare. I telefonini sono proibiti, ma non per i furbi. Il sito internet con tutte le soluzioni dei quiz ieri era cliccatissimo. Ma a esami scritti ancora in corso...

«Una domanda x tutti, ci sarà qualche anima pia che svolgerà le tracce per poi farle girare?», chiede alle 11,19 Axel 74, uno che se il nickname non mente ha 37 anni suonati. «Qualcuno può riportare gentilmente le tracce?», si angoscia poco dopo un altro. Accontentati alle 11,43 da uno che si autoaccredita nel nickname Pinco pallino attendibile: «Traccia 1 (aggiornamento): L’agenzia immobiliare Beta... Traccia 2 (aggiornamento): Caio, che abita in un condominio...». Ok, la traccia è giusta. Il sito è mininterno.net, ma il Viminale non c’entra nulla, anche se si gioca chiaramente sull’equivoco. Si tratta del «portale di riferimento per la preparazione personale a tutti i concorsi pubblici e ad altri esami basati su quiz a risposta multipla», come si autocelebra sulla home page. Un sito supercliccato. Si celebrava infatti il primo dei tre giorni dell’esame di Stato per avvocati, la prova di parere motivato in materia regolata dal codice civile. Così il forum «Toto tracce esame avvocato 2011/2012» per tutto il giorno ha ospitato il tam tam delle aspiranti toghe, all’opera nelle decine di sedi nazionali, e di chi da fuori, davanti a un computer, cercava evidentemente di aiutarli.

Intendiamoci: l’uso di telefonini e altri strumenti elettronici è rigorosamente vietato nelle sedi di esame. Ma viene il dubbio che in qualche città le regole non siano state fatte rispettare con tanto zelo. Altrimenti Biscottina, alle 11,38, non scriverebbe accorata: «Ragazzi, ma qui pubblicate anche qlc info circa la risoluzione delle tracce???». E l’aiuto arriva: sono le 12,21 quando qualcuno posta una lunga soluzione della prima traccia, con tanto di analisi della questione, norme da considerare nella redazione del parere, giurisprudenza in materia e conclusioni. Basta cambiare due o tre parole, aggiungere un’imperfezione civetta et voilà, mezzo esame è fatto. Alle 13,01 arriva anche la soluzione alla seconda traccia: chi ha un iPad o un blackberry sfuggito ai controlli è a posto. Ecco, i controlli. Molti dei «post» sul forum informano sulla possibilità di fare entrare nelle varie sedi di esame strumentazioni elettroniche. «A Catanzaro pare ci siano i Jumper per i cellulari» (i jumper sono strumenti che schermano gli impianti elettronici) scrive uno alle 9,08. «A Salerno hanno messo i metal detector!» è il grido di angoscia di Paco1789 alle 9,52. Ma Indignados alle 10,02 lo smentisce: «A Salerno non ci sono metal detector... Non dite str...ate». Altre note di cronaca da Napoli: «Tutto come altri anni... c’è chi si è portato la stampante», dice uno. «I cell funzionano e non ci sn metal detector!!!!», aggiunge un altro. L’esame della Mostra d’Oltremare nel capoluogo campano, con ben 6274 candidati, a giudicare dalle citazioni è il più caotico (Pronto soccorso esame scrive: «Un appello a chi ha amici e colleghi a fare l’esame a Napoli. Appena escono le tracce pubblichiamole perché tanto a loro detteranno tardissimo e possiamo aiutarli tranquillamente!»), ma anche Salerno, Lecce, Messina, Catanzaro, Reggio Calabria, Bari sono i luoghi di questa geografia tutta meridionale dell’aiutino, del «c’ho un amico», del mezzuccio. Che irrita anche alcuni frequentatori del forum: «Certo che sto esame è scandaloso come il Paese che abitiamo...», scrive uno alle 15,05. Sottoscriviamo l'indignazione non il razzismo.

Di altro tenore è il resoconto fatto da "Il Corriere della Sera". Sigillati in aula per l'abilitazione: esami d'avvocato con metal detector. La carica dei 1.300. L'Ispettore: avevamo chiesto anche la totale schermatura per cellulari.

Tutta blindata la facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Salerno per l'esame da avvocato, iniziato martedì 13 dicembre 2011: transenne lungo le vie d'accesso, passaggi obbligati, nastro adesivo per sigillare porte e finestre e la presenza imponente delle forze dell'ordine, per garantire l'assoluta trasparenza delle prove concorsuali ed impedire a chiunque di introdursi all'interno delle aule. Per la prima volta sono stati utilizzati anche due metal detector di tipo mobile, in numero inferiore rispetto a quelli richiesti dalla Corte d'Appello di Salerno, non collocati presso tutti gli ingressi, per inibire l'utilizzo di cellulari e dispositivi tecnologici.

In tutto 1.301 i praticanti avvocati abilitati al patrocinio legale, aspiranti a far parte dell'ordine. Al contrario dell'anno prima, un clima estremamente sereno ha contraddistinto la prima giornata delle prove, svoltesi in contemporanea in tutta Italia. «Nessuna perquisizione - sottolinea l'avvocato Andrea Di Lieto, professore di Diritto degli Enti Locali e preside della prima sottocommissione della Corte d'Appello di Salerno - massima disponibilità da parte di tutti. Molti cellulari sono stati consegnati volontariamente così come alcuni codici non consentiti. La prova è partita leggermente in ritardo, intorno alle 11.45, dopo le operazioni di identificazione. Era presente anche l'ispettrice del Ministero della Giustizia per assicurare la regolarità dell'esame. Si tratta di indicazioni su scala nazionale, sebbene le varie sottocommissioni, composte da due avvocati, due magistrati e un professore, con i relativi supplenti, siano assolutamente autonome. Abbiamo richiesto anche la totale schermatura per i cellulari in tutta l'area, ma non siamo riusciti ad ottenerla». Particolarmente semplici anche le tracce del primo giorno di esami, con la possibilità di scegliere tra due pareri di diritto civile, di cui uno sull'istituto della mediazione e l'altro sul condominio. Poi dovrà essere elaborato, invece, un parere di diritto penale, mentre per ultimo, per l'atto giudiziario, la scelta sarà ampia, con la possibilità di decidere tra penale, civile ed amministrativo. «La fase di correzione partirà il 15 gennaio, con metodo incrociato - aggiunge Di Lieto - le quattro commissioni di Salerno correggeranno i compiti di Lecce mentre i nostri candidati saranno valutati a Catania. In genere quando il giudizio avviene al nord, la percentuale degli ammessi alle prove orali scende al di sotto del 40%». In realtà, analizzando le stime delle precedenti sessioni, il trend percentuale sembra attestarsi addirittura intorno al 20%. Nel 2010, sui 1.233 partecipanti agli esami da avvocato, soltanto 218 hanno superato gli scritti, mentre più di mille furono i bocciati.

Circa il 70-80% dei candidati è costretto a reiterare le prove almeno per tre volte consecutive, determinando ansia ed apprensione nei confronti delle prospettive di inserimento futuro ed allungando i tempi per poter intraprendere la libera professione. La giurisprudenza salernitana sembra connotarsi sempre più come casta chiusa, quasi impraticabile, soprattutto per chi proviene da background socio-culturali differenti. Continue bocciature a sessione nel percorso universitario, che bloccano gli studenti per anni sulla stessa disciplina, generando un clima di panico, impotenza e sfiducia nelle proprie capacità intellettuali e verso il futuro. Intanto, mentre a livello nazionale si profila l'idea di liberalizzare l'accesso all'ordine, per alcuni l'ennesimo tentativo per accedere alla professione sembra essere il mito della «via spagnola», che permette, dopo due anni, il riconoscimento del titolo in Italia.

Ma come risponde la città. Avvocati, esame blindato, resoconto di “La città di Salerno”. Sono 1301 i candidati iscritti alle prime tre prove per diventare avvocato. Cinque gli ingressi blindatissimi per accedere all’aula destinata agli esami. In funzione i metal detector, anche se sono stati usati soltanto a campione.

Discriminazione. Terrorismo psicologico. Meritocrazia. Sono stati i termini più ricorrenti utilizzati dagli aspiranti avvocati salernitani che si sono messi in fila, davanti ai cinque blindatissimi ingressi della Facoltá di Giurisprudenza, per sostenere la prima di tre prove.

C’era la prova di civile, quella di penale e poi i candidati dovranno elaborare un atto giudiziario. Compiti scritti necessari per poter accedere agli orali e successivamente alla professione. L’umore non era dei migliori. Parecchi dei presenti si sono presentati per la terza volta. «E sarà senz’altro l’ultima», hanno dichiarato in molti, esasperati dalla trafila interminabile, e dallo stress psicologico, per tentare di raggiungere l’abilitazione. Addirittura vi era qualche candidato ritornato nel campus per la settima volta.

Fin dalle sei del mattino i candidati sono arrivati alla spicciolata: in tutto hanno presentato domanda in 1.301. I metal detector preannunciati, e messi in uso per evitare che gli esaminandi utilizzassero il cellulare, hanno funzionato. Ma non per tutti. Lo strumento di rilevazione metallica è stato impiegato solo a campione. Gli aspiranti avvocati appena varcato l’ingresso hanno presentato i documenti e poi consegnato il cellulare. Prima di entrare in aula un operatore ha passato ai raggi x i candidati. Secondo alcuni il metal detector potrebbe essere azionato da oggetti metallici, come la fibbia di una cintura oppure un orologio, pertanto la rilevazione non è attendibile. «Solo qui succede. E’ un trattamento impari perché ogni Corte d’Appello utilizza un metodo diverso e questo è decisamente discutibile», ha puntualizzato una ragazza.

Le critiche sul sistema di controllo sono piovute a iosa. I praticanti avvocati, arrivati con tanto di valigie al seguito piene di codici, erano sfiduciati perché sottoposti a ispezioni eccessive. Tra quelli che non sono sfuggiti al metal detector, chi è stato più audace, nonostante i suoni emessi dal "cercametalli", ha superato lo sbarramento affermando semplicemente di non possedere un cellulare. I più timorosi, invece, lo hanno consegnato e fatto imbustare per poi ritirarlo all’uscita.

«Per come veniamo trattati, ci vorrebbe solo una rivoluzione», ha commentato una candidata. Positivo, invece, il giudizio di P. L. che ha affermato: «In teoria il metal detector ci sta anche bene, se servisse, però, ad evitare che qualcuno bari. Ma dovrebbe essere adottato in tutto il Paese». Sul piede di guerra non solo i praticanti ma anche i genitori, molti dei quali hanno voluto esser presenti per sostenere moralmente i propri figli che si sono ritrovati a presentarsi per l’ennesima volta alla prova.

«L’anno scorso ci hanno fatto togliere gli stivali - hanno ricordato due candidati - venivano in bagno a controllarci e ci sequestravano il materiale cartaceo nascosto in nostro possesso. Eravamo poco meno di 1.100 candidati. Ci stavano col fiato sul collo. Annullarono 600 prove: l’ispettore ministeriale scrisse nella relazione che sorprese 60 candidati con il cellulare e fu costretto a buttarli fuori. Risultò che il 75 per cento aveva copiato. Su oltre 1000 candidati solo 216 risultarono idonei. Siamo stati vittime di pregiudizi della Corte d’appello di Torino che corresse gli elaborati». Per gran parte dei candidati le prove sono troppo complicate. «Un modo - spiega un giovane - per eliminare la "concorrenza". Le selezioni dovrebbero essere fatte durante gli studi non all’esame di abilitazione. Spero che l’Ordine ad agosto venga abolito».

Luogo comune vuole che l’Italia è il paese dei raccomandati. Si chiede la raccomandazione per tutto, anche violando la legge, quando per attuarla si truccano i concorsi pubblici. Ma chi se ne frega e poi, chi va ad indagare? Se lo si chiede in giro ti diranno che la raccomandazione esiste, ma l’interlocutore però ti dirà, anche, che lui non ha mai chiesto la raccomandazione, né è stato mai raccomandato.

Viviamo nel Paese degli ordini professionali e delle caste.

Quando si parla di “poteri forti” in Italia non si può non parlare degli ordini professionali, retaggio delle antiche corporazioni medievali (che tuttavia erano cosa diversa e non si configuravano come strutture rigide e chiuse). Cliccando su Wikipedia si trova un elenco di ben 27 albi professionali presenti in Italia, divisi tra 19 ordini propriamente detti (i primi creati in età fascista) per il cui accesso occorre una laurea, tranne nel caso dell’ordine dei giornalisti, e 8 collegi professionali, per il cui accesso occorre un semplice diploma superiore. Gli ordini professionali oggi rappresentano un duro ostacolo verso la creazione di un regime economico compiutamente liberale, basato sulla libera concorrenza. Per far parte di un ordine e poter esercitare la professione bisogna seguire un iter burocratico pieno di ostacoli. Innanzitutto un giovane laureato che volesse diventare ingegnere, avvocato o una qualsiasi professione il cui esercizio è sottoposto all’iscrizione in un albo deve praticare due o tre anni di tirocinio presso un professionista già abilitato senza la garanzia di un compenso minimo, visto il vuoto legislativo in materia di contratto per i tirocinanti; in seguito deve sostenere un esame di Stato per l’ammissione all’albo. Tali esami sono stati oggetto di critiche e accusati di essere subordinati agli interessi degli ordini e non della collettività, penalizzando il merito dei candidati. Inoltre gli ordini rappresentano un limite alla libera concorrenza per via di alcune regole dei vari codici deontologici professionali come l’obbligo di applicazione di tariffe minime, pena la radiazione dall’albo, oppure il divieto di pubblicità, regole difese dagli ordini come antidoto alla concorrenza sleale ma che di fatto aprono la strada alla creazione di cartelli, che danneggiano gli interessi dei cittadini e degli utenti. Nel tempo queste strutture hanno acquisito una fortissima capacità di pressione sulla politica e sui governi che ha soffocato sul nascere qualsiasi tentativo di “liberalizzazione” del sistema degli ordini. Un primo, importante provvedimento legislativo fu il famoso “decreto Bersani” emanato nel Luglio 2006 e convertito definitivamente in legge nel mese successivo; tra le varie misure contenute nel testo vi sono l’abolizione delle tariffe minime di ingegneri, architetti e avvocati, la possibilità di vendere farmaci da banco anche nei supermercati (seppur con un laureato in farmacia), l’aumento delle licenze dei tassisti e l’abolizione del divieto di pubblicità. Tale decreto però suscitò la protesta selvaggia delle categorie interessate, specie dei tassisti, e gran parte delle misure è rimasta di fatto inapplicata. Il 30 giugno 2011, nel corso di un consiglio dei ministri, il ministro Giulio Tremonti propose nella manovra correttiva, in particolare nell’articolo 3, di vietare la fissazione obbligatoria delle tariffe minime, di rendere meno rigido il divieto di pubblicità e di eliminare il numero chiuso previsto dai vari ordini per liberalizzare il mercato; inoltre proponeva di abolire l’esame di Stato per l’ammissione all’albo dei commercialisti e degli avvocati. Ma proprio su quest’articolo 22 parlamentari del Pdl, in gran parte avvocati, sostenuti anche dal ministro La Russa, si sono opposti fermamente minacciando di far mancare il loro voto alla manovra e costringendo il governo a rallentare i tempi e trattare.

Ma,nonostante si parli spesso del bisogno di liberalizzazioni, non sono mancate proposte e disegni di legge volti a creare altri ordini e albi ,come ad esempio quello dei coreografi o dei traduttori, e fino a pochi anni fa non erano pochi i politici a proporre l’istituzione di un albo degli imam. L’ultima proposta in tal senso riguarda un Ddl bipartisan presentato in Senato il 13 settembre 2011 firmato da parlamentari della Lega, Idv e Pdl per istituire 5 nuovi ordini e 20 albi professionali dell’ambito sanitario.

In questo quadro sociale, è difficile trovare una soluzione: c’è chi propone una soluzione drastica, come l’abolizione di tutti gli ordini o solo di alcuni (ad esempio quello dei giornalisti), altri di mantenere gli ordini con le sole funzioni di carattere associazionistico, altri, come il liberale Carlo Lottieri, propongono invece di creare una pluralità all’interno del sistema degli ordini attraverso la creazione di più ordini di una stessa professione, cercando di “liberalizzare” il sistema degli ordini. Di sicuro una riforma seria e drastica degli ordini servirebbe, anche perché non costerebbe nulla e andrebbe a vantaggio dei cittadini e delle nuove generazioni. Ma sarà possibile questo in un paese di caste?

Architetti, avvocati, consulenti del lavoro, farmacisti, geologi, geometri, giornalisti, ingegneri, medici e odontoiatri, notai, periti industriali, psicologi, dottori commercialisti ed esperti contabili. Ordini professionali che, secondo l’Antitrust (garante per la concorrenza ed il mercato), agiscono come delle “caste”.

Con privilegi ingiustificati e un’elevata resistenza al cambiamento. L’organismo che vigila sulla concorrenza ha terminato un’indagine in corso sugli Ordini professionali. E per il garante il risultato è preoccupante: “Dall’indagine conoscitiva su 13 Ordini professionali emerge una scarsa propensione delle categorie ad accogliere nei codici deontologici quelle innovazioni necessarie per aumentare la spinta competitiva all’interno dei singoli comparti”. Anzi, ‘’la liberalizzazione della pattuizione del compenso del professionista, la possibilità di fare pubblicità informativa e di costituire società multidisciplinari - si legge nelle conclusioni - non sono state colte come importanti opportunità di crescita ma come un ostacolo allo svolgimento della professione'’.

Gli ordini, secondo l’Antitrust, non possono più tardare nell’adeguarsi alle normative europee. Così il garante invita ad agire con gli strumenti legislativi contro l’immobilismo degli ordini. E propone alcune modifiche “necessarie”, come “prevedere percorsi più agevoli di accesso alle professioni” attraverso corsi universitari e “tirocinii proporzionati alle effettive esigenze di apprendimento”, non stage infiniti. Sarebbe poi giusto, secondo l’organismo, che la nozione di “decoro professionale” sia “elemento che incentivi la concorrenza tra professionisti e rafforzi i doveri di correttezza professionale nei confronti della clientela e non per guidare i comportamenti economici dei professionisti”.

Secondo l’associazione dei consumatori Aduc, le parole dell’Antitrust "rendono giustizia di una situazione sotto gli occhi di tutti: i tentativi di riforma degli ordini sono inutili. Quand’anche qualcosa dovesse apparire, si tratterebbe comunque di fumo negli occhi. Solo la loro abolizione potrebbe democratizzare offerte e domande".

O via le caste o si muore dice Luigi Zingales su “L’Espresso”.

Tutti ce l'hanno con i partiti, che in effetti hanno molte colpe. Ma il Paese è pieno di gruppi chiusi, che mirano solo a perpetuare i propri privilegi e le proprie rendite di posizione. Danneggiando tutti gli altri, specie i giovani. Negli Stati Uniti la protesta ha scelto come obiettivo Wall Street, simbolo della finanza, il luogo dove lavora l'1 per cento più ricco della popolazione. Coloro che - secondo i manifestanti -avrebbero derubato il rimanente 99 per cento di un futuro migliore. L'Italia è messa molto peggio degli Stati Uniti. Quale dovrebbe essere l'obiettivo della protesta? Dove si annida l'1 per cento di privilegiati che impedisce il successo al rimanente 99 per cento? La risposta più naturale sarebbe Montecitorio, simbolo del potere politico. Non sono forse i politici che ci hanno ridotto in questa situazione? Ma è una risposta che oscura la vera fonte del problema. I politici li eleggiamo noi.

Riflettono gli interessi (le lobby) del nostro Paese. Negli Stati Uniti la lobby più potente è sicuramente quella finanziaria, da cui il luogo della protesta. Seguendo la stessa logica in Italia il luogo adeguato per la protesta dovrebbe essere la piazza centrale di ogni paese. Lì si annida la lobby più potente d'Italia: i notabili locali. A differenza dei ragazzini maleducati di Wall Street, si tratta di signori di buone maniere. Ma dietro la loro aria bonaria, non sono meno pericolosi. Molti di loro criticano i sindacati per la difesa corporativa del posto di lavoro, ma la loro difesa dei privilegi è più strenua di quella dei camalli del porto di Genova. Non lo fanno in piazza, ma nei corridoi dei palazzi, e proprio per questo hanno maggiore successo.

Chi sono i notabili della piazza centrale? C'è il farmacista, spesso figlio del farmacista del paese. Le farmacie godono di restrizioni imposte dallo Stato alla vendita dei medicinali. Queste restrizioni mantengono i prezzi elevati a danno dei consumatori. Anche le timide riforme di Bersani sono state affossate dal governo Monti. Il commissario europeo che ha osato sfidare Microsoft ha dovuto chinarsi di fronte alla lobby dei farmacisti. Sopra la farmacia in molti paesi c'è' l'ufficio del notaio, altra professione tramandata di padre in figlio e protetta dallo Stato, che limita il numero di notai e impone tariffe minime. Non è solo una tassa su tutte le attività produttive, ma anche uno spreco di cervelli. I guadagni gonfiati dai limiti alla concorrenza attirano nella professione molti giovani brillanti, che avrebbero potuto dedicarsi proficuamente ad attività più produttive. A fianco del notaio nella piazza principale c'è l'ufficio dell'avvocato, un'altra professione spesso tramandata di padre in figlio, protetta da un ordine corporativo. Di fronte alla farmacia in molte piazze centrali c'è la sede di una banca. Una volta era una banca locale, oggi è parte di un gruppo nazionale. Ma anche qui i posti si tramandano di padre in figlio. Il motivo è che la banca non è gestita secondo criteri di efficienza, ma secondo criteri clientelari. Anche se perde, poco importa, tanto i principali azionisti non hanno messo i soldi loro, ma i soldi altrui. Anzi i soldi nostri, i soldi che appartenevano ai comuni e che oggi sono controllati da fondazioni gestite dai residui della prima Repubblica. Il notaio, il farmacista, il bancario, l'avvocato e il presidente della fondazione si trovano tutti a prendere l'aperitivo al bar centrale, anche quello tramandato di padre in figlio. Questo settore, almeno, è competitivo. Ma anche il barista gode di un vantaggio: una certa tolleranza nell'applicazione delle leggi. La sua cucina non è proprio a norma e la cassiera non sempre emette lo scontrino fiscale. Ma con l'appoggio dei notabili clienti riesce a farla franca. Ognuno difende strenuamente il proprio privilegio, non capendo che il privilegio mio è costo tuo. L'Italia si sta trasformando in una società per caste, dove i giovani non hanno futuro. La strenua difesa dei privilegi personali alla fine danneggia tutti. Ma nessuno è disposto a rinunciare da solo al suo privilegio. Se è l'unico a farlo, ci perde. Solo se tutti lo facciamo contemporaneamente, ci guadagniamo tutti. C'è bisogno di un patto civile per le riforme, dove tutti rinunciano a qualcosa, per guadagnarci tutti. Se Monti non è capace di farlo chi mai lo potrà fare?

Riformiamo quegli Ordini, intima  Alessandro De Nicola su “L’Espresso”.

Le categorie professionali si oppongono a qualsiasi cambiamento. Una difesa delle proprie prerogative che dimentica la rivoluzione in atto nei servizi intellettuali. E rinuncia a guidare la modernizzazione. Nel Belpaese si ha l'impressione che le professioni intellettuali tradizionali siano da tempo arroccate nella difesa delle loro prerogative e che anzi, complice la crisi, chiedano che vengano estese anche a loro nuove protezioni.

La "modernizzazione" del settore è vista dai rappresentanti degli ordini professionali tutt'al più come implicante maggiori obblighi di formazione professionale ma niente più, tant'è che, appena prima della legge di stabilità (che impone entro 12 mesi una radicale ristrutturazione degli Ordini professionali), stavano procedendo di buona lena in Parlamento vari provvedimenti restrittivi: la riforma dell'Ordine dei giornalisti che restringeva le possibilità di accesso, l'istituzione di nuovi Albi (tra cui quello degli igienisti dentali, professione che schiude le porte a luminose carriere in altri campi) e la modifica dell'ordinamento forense che mirava a reintrodurre le tariffe professionali inderogabili e una serie di limitazioni, guarentigie, divieti che andavano in senso contrario alla liberalizzazione del settore.

I professionisti sono una lobby ben organizzata (basti pensare che circa il 40 per cento dei parlamentari appartiene a una categoria professionale) e vocale. Nonostante il problema della concorrenza e dell'efficienza del mercato dei servizi professionali (che rappresentano un fatturato di 200 miliardi di euro) si ponga ormai dal 1997, quando l'Autorità antitrust pubblicò la prima indagine conoscitiva sul tema (e nel 2003 l'allora commissario europeo alla concorrenza, Mario Monti, ricordasse: "Non credo che gli ordini dovrebbero essere coinvolti nella sfera economica dei professionisti, dettando regole sul comportamento nel mercato dei loro iscritti, come per esempio fissando le tariffe o vietando la pubblicità"), l'unico vero scossone si ebbe con il decreto Bersani che abolì i minimi tariffari, introdusse il patto di quota lite e diede via libera alle parafarmacie. Poi più niente, se non un gioco di interdizione degli Ordini che hanno cercato di limitare la portata della riforma.

Orbene, ormai gli studi sul settore sono numerosi: quelli della Banca di Italia hanno evidenziato che i servizi professionali nei Paesi meno regolamentati contribuiscono a una maggior crescita del Pil (una media dello 0,8 per cento in più) e la concorrenza migliora la qualità del servizio (al contrario di quello che si sente dai rappresentanti di categoria, sempre attenti alla "qualità" del servizio da non "svendere"); l'Antitrust o, da ultimo, la Fondazione Debenedetti, mostrano un certo nepotismo e una completa casualità nell'accesso (in alcuni capoluoghi i promossi all'esame di Stato sono il 90 per cento, in altri meno del 10), nonché una scarsa propensione degli Ordini a disciplinare gli iscritti (propensione che non è aumentata dopo la Bersani, segno che l'abolizione delle tariffe non ha inciso sulla qualità...).

Inoltre, le professioni si stanno rivoluzionando: sempre di più nel mondo agiranno società di capitali (ammesse anche dalla legge di stabilità) per fornire a basso costo e su base globale servizi ora pagati con parcelle "dignitose". L'asimmetria informativa caratteristica delle prestazione professionale (il cliente non è in grado di giudicare la bontà di ciò che si riceve), grazie a Internet, al rafforzamento delle strutture interne delle aziende e all'attivismo delle associazioni dei consumatori si sta riducendo. Sempre più l'outsourcing verso giurisdizioni (o regioni all'interno dello stesso Paese) più convenienti, tecnologia ed innovazione sia nei servizi che nel metodo di parcellazione (i clienti pretendono ora di associare il professionista al proprio rischio imprenditoriale) saranno per il mondo professionale la formula per creare valore aggiunto e crescere o quantomeno non essere spazzati via. Se questo è vero, invece che organizzare anacronistiche astensioni dalle udienze ed emettere indignati comunicati contro la mercificazione delle arti liberali, i professionisti dovrebbero cogliere al volo le opportunità della liberalizzazione e, per una volta, guidare il processo di cambiamento invece che esserci trascinati dentro, impreparati e subalterni.

L'ORDINE NON SI TOCCA.

Espressione frutto di uno studio redatto da Gaetano Basso e Michele Pellizzari.

Il testo originale della manovra finanziaria 2011 prevedeva alcuni interventi di liberalizzazione delle professioni. Ma ventidue senatori-avvocati della maggioranza hanno minacciato di non votare l'intero provvedimento se quelle norme non fossero state cancellate. E sono stati subito accontentati. Insomma, anche in un momento drammatico sembrano aver prevalso gli interessi di lobby. Eppure, questa era l'occasione giusta per avviare una riforma che, insieme ad altre, potrebbe incoraggiare la crescita economica dell'Italia. È opinione diffusa che i tanti tentativi di riforma delle professioni siano stati bloccati dalle folte e ben rappresentate lobby di avvocati, notai, commercialisti, preoccupati più di difendere i propri interessi che di tutelare l'interesse comune. Eppure, gli ordini professionali sostengono che non è così e in molti, compreso chi scrive, sarebbero disposti a credere loro e avviare insieme un dibattito serio su quali interventi di riforma siano necessari. È difficile, però, non dare l'impressione di una casta chiusa e refrattaria a ogni cambiamento se i fatti sono quelli che ci consegna la cronaca relativa al dibattito sulla manovra 2011. Nella sua formulazione iniziale essa prevedeva alcuni interventi di liberalizzazione delle professioni, alcuni dei quali molto radicali. Si andava dall’abolizione del divieto di incompatibilità tra attività commerciale e professionale, all’impossibilità di vietare da parte degli ordini la pubblicità per ragioni di decoro, fino all’abolizione dell’esame di stato per avvocati e commercialisti. Ma 22 senatori-avvocati del Pdl hanno inviato al presidente del Senato una sconcertante lettera nella quale si dicevano pronti a non votare il provvedimento, rischiando di far cadere il ministro Tremonti e di gettare il paese in una catastrofica crisi finanziaria, se quelle norme non fossero state cancellate. I senatori erano supportati da un nutrito gruppo di deputati liberi professionisti (58 in totale: 44 avvocati, 13 medici e 1 notaio) che si sarebbero opposti all’iter della manovra alla Camera. Detto fatto, grazie anche offerto alle parole di sostegno del ministro-avvocato Ignazio La Russa. Ed è significativo che i ventidue avvocati rivoltosi non abbiano tanto espresso perplessità sul come si interveniva per liberalizzare il settore, ma abbiano semplicemente chiesto di derubricare l'argomento. Il gruppo dei 22 alla fine ha avuto ragione grazie alla mediazione del Presidente del Senato-avvocato Renato Schifani. Il governo si è però impegnato entro 8 mesi dall’entrata in vigore della manovra a legiferare in materia di ordini professionali. Altrimenti “ciò che non sarà espressamente vietato sarà libero’’.

UNO STUDIO SUI PROBLEMI DEGLI ORDINI.

In un rapporto preparato per la Fondazione Rodolfo Debenedetti sul tema delle professioni regolamentate, abbiamo evidenziato che gli ordini servono a garantire la qualità dei servizi offerti in mercati nei quali è difficile per il consumatore valutare la capacità degli operatori e la qualità dei servizi prodotti. Quelle stesse norme, tuttavia, generano limitazioni della concorrenza con potenziali effetti negativi sul benessere collettivo. Alla politica spetta la decisione di dove collocare il paese in questo trade-off tra qualità e concorrenza. Difficile procedere con un dibattito costruttivo se non si riconosce questo duplice aspetto della regolamentazione e si continua a sostenere che non vi è alcun problema di concorrenza nelle professioni. Nel rapporto presentiamo una serie di analisi empiriche che suggeriscono che qualcosa non funziona nelle procedure di selezione all'ingresso in molte professioni e non sempre entrano necessariamente gli operatori più qualificati. Questo è il caso delle professioni (commercialisti e consulenti del lavoro) in cui osserviamo un peggioramento della qualità dei servizi offerti al crescere di una misura di familismo della professione che si osserva nel rapporto stesso. Da qui alcune proposte di riforma: andrebbero eliminati, ad esempio, potenziali conflitti d’interesse nell’esame di abilitazione, evitando che sia preparato o corretto dagli stessi professionisti che saranno concorrenti diretti di chi l'esame lo supera. In un precedente contributo su questo sito abbiamo dimostrato come questo tipo di riforma abbia avuto effetti significativi nella selezione degli avvocati, in particolare annullando il ruolo giocato dai cognomi nell’esame di stato. Inoltre, sarebbe auspicabile separare il ruolo di auto-regolamentazione degli ordini da quello di rappresentanza degli interessi di categoria.

UNA QUESTIONE DI CREDIBILITÀ

In seguito alla presentazione del nostro studio siamo stati investiti da una miriade di attacchi (si veda la rassegna stampa sul sito della Fondazione Debenedetti) spesso molto duri, ma mai nel merito dell'analisi, e in alcuni casi esplicitamente offensivi. Gli attacchi, così come l'episodio dei ventidue avvocati del Pdl, evidenziano quanto sia diffuso l'atteggiamento di difesa a priori dello status quo. Si tratta, invece, di migliorare il contesto istituzionale di un settore che, se liberalizzato, potrebbe contribuire fino all’ 11 per cento del PIL nel lungo periodo, come sostenuto in uno studio della Banca d’Italia. Si tratta, invece, di migliorare il contesto istituzionale di un settore che, come sostiene l'Antitrust, costa al paese quanto il conto energetico. Nella manovra si sarebbe potuto affrontare la questione con una riforma a costo zero che, insieme ad altre, avrebbe il potenziale di incoraggiare la crescita economica dell'Italia, condizione indispensabile per non ritrovarci a breve a dover di nuovo fronteggiare situazioni finanziarie critiche come quelle di questi ultimi giorni. L'episodio dei ventidue avvocati è preoccupante anche perché rischia di mandare un messaggio negativo sulla credibilità dell'intera manovra, i cui contenuti, anche in un frangente così delicato, sono soggetti alle intemperanze di alcuni parlamentari. Per sostenere la credibilità delle misure in discussione, la maggioranza, di cui questi parlamentari fanno parte, avrebbe dovuto mettere i “dissidenti” di fronte all'aut-aut votare o dimettersi, invece di dare loro seguito per voce di autorevoli esponenti del governo. Come è possibile convincere i mercati che l'Italia manterrà gli imponenti impegni assunti con questa manovra, se la nostra politica si mostra così debole?

QUELLE BARRIERE PER GLI ASPIRANTI AVVOCATI

La riforma dell'avvocatura in discussione al Senato prevede tra l'altro un rafforzamento delle barriere all'ingresso nella professione. A tutela di un elevato standard qualitativo dei servizi legali a tutto vantaggio degli utenti, secondo quanto sostiene l'Ordine forense. Ma un'analisi statistica mostra che chi ha un cognome molto rappresentato nell'albo della sua provincia diventa avvocato prima. E fa nascere il sospetto che la professione non sia esente da potenti pratiche corporative. La riforma dell'avvocatura attualmente in discussione al Senato propone, tra le altre cose, un rafforzamento delle barriere all'ingresso nella professione. Per esempio, oltre all'esame di abilitazione e al lungo praticantato di due anni, sarà necessario superare anche un pre-test per l’iscrizione all’albo dei praticanti e frequentare, durante il periodo di pratica, corsi di formazione organizzati dagli ordini.

I COGNOMI DI UNA PROFESSIONE

L'argomentazione principale a favore dell'introduzione di barriere all'ingresso in una professione, e in particolare in quella forense, riguarda la qualità dei servizi offerti. Soltanto i professionisti migliori e più motivati, che si aspettano un ritorno elevato dall'esercizio della professione, sarebbero disponibili a sopportare il lungo periodo di praticantato, la preparazione del difficile esame di abilitazione e la lenta e faticosa costruzione di un adeguato portafoglio clienti. In assenza di praticantato o con un esame meno selettivo entrerebbero nella professione avvocati meno qualificati e meno motivati, a svantaggio anche del cliente. Anche le tariffe minime e il divieto della pubblicità commerciale potrebbero essere letti in quest'ottica. Un avvocato poco capace potrebbe comunque riuscire a sopravvivere nella professione offrendo servizi a basso costo e pubblicizzando tale offerta. L'esame, le tariffe minime e il divieto di pubblicità sarebbero, in questo senso, barriere all'ingresso nella professione che servirebbero a tenere alla larga i “peggiori” e a mantenere un elevato standard qualitativo dei servizi legali a tutto vantaggio degli utenti. O almeno questo è ciò che sostiene l’Ordine forense. In quest'ottica, dunque, il superamento delle barriere non dovrebbe essere legato ad altro se non alle capacità professionali dei candidati.

Una prima analisi in questa direzione può essere condotta sulla base dei dati (pubblici) sugli iscritti agli albi, disponibili presso il sito del Consiglio nazionale forense. Da questi dati è possibile calcolare l'età in cui ogni avvocato si è iscritto al proprio albo, una variabile che è influenzata sia da quanto tempo si impiega a laurearsi sia da quante volte si sostiene l'esame di abilitazione. In media si diventa avvocati a 32 anni. È facile desumere che se l’età media di laurea in Italia è 26,5 anni (così come riportato dalle statistiche del Miur) un giovane avvocato viene impiegato in media 5,5 anni come praticante (di cui due obbligatori e gli altri, probabilmente, dovuti a bocciature all'esame di abilitazione). Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni (e che ha avuto anche spazio su queste pagine) abbiamo messo in relazione l'età di iscrizione all'albo con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell'albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. Quando l'indicatore è maggiore di 1 significa che il cognome è sovra-rappresentato nell'albo rispetto alla popolazione, il contrario se l'indice è minore di 1. In media, il cognome di un avvocato appare nell'albo 50 volte di più che nella popolazione. Nel grafico mostriamo la relazione tra l'età di iscrizione all'albo e l'indice. Si nota chiaramente che esiste tra queste due variabili una forte relazione negativa che è statisticamente significativa (al 1 per cento). Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell'albo della sua provincia diventa avvocato prima. Per esempio, chi non ha alcun omonimo nell'albo diventa avvocato con un trimestre di ritardo rispetto alla media.

Naturalmente, possono esserci molte spiegazioni per l'evidenza statistica del grafico. Quella più positiva riguarda la possibilità che, benché il cognome non fornisca informazioni dirette sulle capacità intellettuali di una persona, è plausibile che avere un parente avvocato aiuti a diventare un bravo avvocato, perché si impara da una persona vicina e più esperta. Quella più maliziosa suggerisce, invece, che la professione sia attraversata da pratiche corporative così potenti da generare il risultato del grafico.

CHI CORREGGE LE PROVE DI AMMISSIONE

È difficile riuscire a scoprire quale sia l'interpretazione corretta e tuttavia possiamo trarre qualche indicazione dalla riforma del 2003, che ha introdotto l’abbinamento casuale delle corti d’appello per la correzione delle prove scritte negli esami di ammissione (legge 167/2003). Prima della riforma, ovvero fino al 2003, ogni corte d'appello correggeva i propri esami. Dal 2004 in poi ogni corte d'appello è abbinata casualmente a un'altra e l'una corregge gli scritti dell'altra. L’obiettivo della riforma era quello di uniformare il numero di idonei tra sedi del Nord (storicamente un numero esiguo) e quelle del Sud (storicamente elevato) e per debellare eventuali pratiche scorrette nella correzione degli scritti).

Il secondo grafico mostra la stessa correlazione tra frequenza relativa del cognome e età di iscrizione all'albo per gli albi del Nord (a sinistra) e per quelli del Sud (a destra), separando avvocati iscritti prima e dopo il 2004. Come si vede, prima della riforma l'effetto “cognome” è molto più forte al Sud che al Nord (circa due terzi più elevato). Dopo la riforma l'effetto praticamente scompare in entrambe le aree. Ci sembra che questa evidenza sia più coerente con l'interpretazione maliziosa che con quella positiva, il che mette seriamente in dubbio l'argomentazione che le barriere all'entrata servano a mantenere alta la qualità dei servizi legali.

Conti pubblici e liberalizzazioni. L' inchiesta: La prevalenza del «familismo». Lo studio della Fondazione Rodolfo Debenedetti sulle «Dinastie professionali» presentato alla Bocconi.

Ordini e professioni, quando il merito dipende da famiglia ed area geografica, parola di Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”.

Peso politico. Il Cup, coordinamento unitario delle libere professioni, ha dichiarato il peso della propria rappresentanza: 3 milioni 590 mila persone.

Commissioni e competenza. Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall'entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Nepotismo. Nel confronto con i lavoratori autonomi, gli avvocati e i farmacisti, figli o nipoti di avvocati e farmacisti, sono oltre il triplo della media.

Esami di Stato, a Bari passa il 74% degli architetti, a Palermo il 18. I geologi hanno il 91% di chance a Napoli, solo il 36 in Puglia.

Aspiranti commercialisti veneziani, portate un cero alla Madonna della Salute: avete il 92% delle probabilità di essere bocciati all'esame. Aspiranti commercialisti catanesi, stappate lo spumante: sotto l'Etna non bocciano nessuno. Lo dice uno studio della Fondazione Rodolfo Debenedetti sugli Ordini professionali. Che pare dimostrare quanto scriveva Indro Montanelli: così come sono servono solo a «difendere le mafie di interessi corporativi». Un'accusa che gli Ordini respingono sdegnosamente da anni. Ma contro la quale, come dimostra la riluttanza con cui molti hanno collaborato a questo studio sul familismo, che è durato tre anni e sarà presentato alla Bocconi col titolo «Dinastie professionali», non fanno poi molto. Basti dire che alla richiesta dei ricercatori della Fondazione (Gaetano Basso, Andrea Catania, Giovanna Labartino, Davide Malacrino e Paola Monti) coordinati da Michele Pellizzari, docente alla Bocconi, l'Ordine dei medici ha risposto di no, spiacenti ma «pur apprezzando le finalità della ricerca» l'elenco completo degli iscritti in suo possesso non lo dava: lo chiedessero uno a uno a tutti i centodieci ordini provinciali. Auguri. Che gli Ordini professionali italiani siano bloccati e debbano essere spalancati alla concorrenza l'Europa lo dice da anni. Ma la risposta è da sempre recalcitrante. Rileggiamo cosa disse, ad esempio, quando era ministro della Giustizia, l'ingegner Roberto Castelli: «La Commissione europea e l'Antitrust vorrebbero abolire gli ordini; noi invece siamo impegnati a difenderli perché pensiamo che gli ordini e tutto il ricco mondo delle professioni siano un patrimonio fondamentale della nostra società». Opinione condivisa, nonostante i proclami thatcheriani («Gli elettori devono scegliere tra liberismo e comunismo, liberismo e statalismo»), da Silvio Berlusconi: «Pensiamo che il sistema degli albi professionali regolato per legge sia molto meglio del sistema delle libere associazioni di professionisti presenti nei Paesi anglosassoni». Questione di voti: «Rappresentiamo una massa di 3 milioni e 590.000 persone», intimò anni fa ai partiti il Cup, Coordinamento unitario delle libere professioni. Traduzione: chi ci tocca perde le elezioni. Perfino le innovazioni della legge Bersani del 2006 (via le tariffe minime e largo alla pubblicità comparativa per fare spazio ai giovani...) sono state accanitamente combattute e svuotate nonostante uno studio di Michele Pellizzari e Giovanni Pica (Università di Salerno) presentato al convegno bocconiano dimostri che prima del 2006 tra gli avvocati «la probabilità di lasciare la professione diminuiva con la produttività, ovvero lasciavano i più bravi. Dopo il 2006, questa relazione si inverte e sono i meno produttivi a lasciare la professione». Un miglioramento qualitativo che evidentemente non interessa più di tanto i consoli e proconsoli della categoria, che siedono in massa alle Camere (134 avvocati su 952 parlamentari) e monopolizzano i consigli dell'Ordine al contrario di quanto accade ad esempio in Gran Bretagna dove ai vertici stanno dei rappresentanti anche degli studenti e più ancora dei consumatori, cioè dei clienti. Una situazione che il presidente dell'Antitrust Antonio Catricalà ha più volte denunciato parlando di «ingiustificati privilegi ai professionisti» e accusando gli ordini di essere «chiusi in se stessi» e di non fare «gli interessi dei consumatori». Per capirci, è più facile staccare in salita Alberto Contador sulle rampe del Puy de Dome che aprire le professioni ai giovani se gli Ordini, come ha scritto Tito Boeri, «continuano ad inserire nelle commissioni d' esame (quelle che decidono chi si può iscrivere agli albi) persone che esercitano queste attività e che hanno tutto da perderci dall'entrata di professionisti più bravi e più competenti di loro». Questo è il quadro. Confermato dai dati dello studio presentato alla presenza di Angelino Alfano e Pier Luigi Bersani, dove si dimostra come «la probabilità di superare l'esame non dipenda esclusivamente dalle qualità del candidato» ma anche da altro. La decantata valorizzazione del «merito», parola abusatissima (Mariastella Gelmini la invocò 37 volte in una proposta di legge), dipende insomma dall'area geografica: se sei un giovane architetto e fai l'esame a Bari hai 74 probabilità su 100 di passare, se lo fai a Palermo 18. Se sei un giovane geologo hai il 91% di possibilità di farcela a Napoli, il 36 a Bari. E così via. Sbalzi così clamorosi da imporre una alternativa: o tutti i geni di una determinata professione nascono in una zona e tutti somari in un'altra o i voti non dipendono dalla bravura dei candidati ma dal capriccio e dalle chiusure delle commissioni. Succedeva lo stesso, una volta, anche con l'esame degli avvocati. Col record, un anno, del 94% di bocciati a Milano e del 94% di promossi a Catanzaro. Finché, dopo lo scandalo scoppiato nel capoluogo calabrese (2.295 temi copiati su 2.301) fu deciso di far esaminare i temi di ogni distretto giudiziario alla commissione di un altro. Ed è cambiato tutto. Bene, incrociando i nomi degli iscritti agli 11 Ordini (notai, avvocati, architetti, farmacisti, commercialisti, consulenti del lavoro, giornalisti, geologi, medici, ostetriche e psicologi) dei quali i ricercatori sono riusciti a raccogliere la quasi totalità degli iscritti, salta fuori una quota altissima di familismo. Messi a confronto con i lavoratori autonomi, gli avvocati e i farmacisti figli o nipoti di avvocati e farmacisti sono oltre il triplo della media. I medici addirittura il quadruplo. Non sempre questa ereditarietà, si capisce, è negativa: talora «un bravo professionista insegna il mestiere al figlio, che diventa a sua volta un bravo professionista». Dati alla mano, è il caso delle ostetriche. E, spesso, anche dei medici. Non così di altri: nel caso dei commercialisti e dei consulenti del lavoro, si legge nel dossier, «troviamo evidenza, statisticamente significativa e robusta, di peggior qualità dei servizi professionali (..) dove il livello di familismo è più alto». Cioè? «Nelle province dove le omonimie incidono maggiormente sulle iscrizioni all'albo dei commercialisti, l'evasione fiscale è più alta». Quanto alle aree dove il familismo è più diffuso, non mancano le sorprese. I numeri dicono infatti che certo, lo spazio ai figli e ai nipoti, ai cognati e ai cugini nel Sud è nettamente maggiore rispetto al Centro e più che doppio rispetto al Nord-ovest. Ma al Nord-est, no: anzi, la «parentopoli» nelle professioni, per difendere le posizioni di rendita, è perfino più estesa che nelle regioni meridionali della fascia adriatica. Ahi ahi, la «razza Piave»...

PARLIAMO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA. SONO LORO A DOVER SVELARE I CONCORSI TRUCCATI

Da “Il Fatto Quotidiano”: Fermate quel concorso al Tar.

Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si sta svolgendo in questo periodo un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar.

Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti.

Ora, il dubbio è questo. Se un candidato è entrato in aula con i compiti già svolti, davvero può ritenersi certo che il concorso si sia svolto regolarmente per gli altri candidati? O non è forse legittimo sospettare che i compiti possano averli avuti anche altri candidati? E allora, perché la commissione (composta quasi tutta da magistrati amministrativi e nominata di fatto dal Cpga) non ha annullato il concorso in via di autotutela?

Ho già scritto in un altro post la incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei.

Orbene, anche in questo concorso la vittoria del blasonato fratello Mattei era ampiamente anticipata da voci correnti, prima ancora della apertura delle buste contenenti i nomi, tanto da indurmi personalmente (anche per la mia qualità di Presidente di una, pur piccola, associazione di Magistrati) a formalizzare una lettera di chiarimenti, regolarmente protocollata presso l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi. Un’ipotesi rara, in cui è addirittura formalizzato ufficialmente quello che si dice che accadrà di un concorso per l’accesso in magistratura (già oggetto di indagini penali) e che si verifica puntualmente.

La mia richiesta di chiarimenti purtroppo non ha mai avuto risposta, mentre pare sia notizia di questi giorni che il fratello Mattei abbia passato gli scritti del concorso per 15 soli posti.

Come dicevo, il condizionale è d’obbligo, non avendo il Cpga rilasciato, almeno sinora, alcun comunicato. Vedremo, ma intanto una certezza vi è già: la commissione nominata dal Cpga non ha attivato le pratiche per annullare quel concorso e la mia lettera sulle anticipatorie voci relative alla vittoria del Mattei giace da mesi in qualche cassetto, regolarmente protocollata.

Da “Il Corriere della Sera”, invece…

Più «amanti» per tutti. Ricordate come il giudice Aldo Quartulli definì gli arbitrati, che consentono ai magistrati amministrativi di guadagnare soldi extra? «Le sentenze sono la moglie, gli incarichi l'amante». Bene: dopo essere stati più volte aboliti e ripristinati, stanno per tornare alla grande. Grazie a un emendamento che andrà in discussione proprio martedì. Il cuore dell'emendamento, firmato da tre senatori del Pdl, Massimo Baldini, Valter Zanetta e Luigi Grillo (il presidente della commissione Lavori pubblici del Senato rinviato a giudizio per concorso in aggiotaggio per i suoi rapporti con Giampiero Fiorani) è racchiuso in una sola riga: «Sono abrogati i commi 19, 20, 21 e 22 dell'articolo 3 della legge 24 dicembre 2007, n. 244». Arabo, per i non addetti ai lavori. Ma l'obiettivo è chiaro: vengono abolite le norme introdotte nell'ultima finanziaria del governo Prodi che vietavano alle pubbliche amministrazioni, senza eccezioni, di stipulare contratti contenenti la clausola del ricorso all'arbitrato in caso di disaccordo. Pena, l'intervento della Corte dei conti e pesanti sanzioni.

Riassumiamo? Gli arbitrati (aboliti dal governo Ciampi, ripristinati da Berlusconi, ri-aboliti da Dini e via così…) sono una specie di corsia preferenziale parallela alle cause civili. Se l'ente pubblico che ha commissionato un lavoro e chi quel lavoro lo ha eseguito vanno a litigare sui soldi, possono chiedere che a stabilire le ragioni e i torti non sia la lentissima giustizia civile ma una specie di giurì. Un arbitro lo nomina un litigante, uno quell'altro e i due insieme nominano il presidente. Niente di male, apparentemente. Se non fosse per due nodi. Primo: gli «arbitri» sono spesso giudici chiamati a decidere «privatamente » su cose che a volte toccano lo stesso Comune, la stessa Provincia, la stessa Regione o lo stesso Ministero su cui possono essere delegati a decidere nelle vesti di membri dei Tar o del Consiglio di Stato. Secondo nodo: stando ai dati del presidente dell'Autorità per la vigilanza dei lavori pubblici Luigi Giampaolino, lo Stato (guarda coincidenza…) perde sempre. O quasi sempre: in 279 arbitrati in due anni tra il luglio 2005 e il giugno 2007, ha vinto appena 15 volte. Sconfitto nel 94,6% dei casi, ha dovuto pagare alle imprese private 715 milioni di euro. Pari al costo del Passante di Mestre.

Va da sé che, oltre ai privati, hanno esultato gli arbitri. Che si sono messi in tasca, euro più euro meno, una cinquantina di milioni. Una cosa «indecorosa», diceva un tempo Franco Frattini invocando «l'incompatibilità totale fra lavoro istituzionale dei giudici e altri incarichi ». «Inaccettabile», concorda il Csm che da anni non consente ai giudici civili e penali di accettare arbitrati. «Indecente», insiste Antonio Di Pietro, che più di tutti ha spinto, da ministro delle Infrastrutture, per mettere fine all'andazzo. Macché: di proroga in proroga, è rimasto tutto come prima. E il divieto assoluto di ricorrere all'arbitrato non è mai entrato, di fatto, in vigore. Peggio: l'emendamento Grillo- Baldini-Zanetta non si limita a ripristinare gli arbitrati. Va oltre. E stabilisce una specie di percorso automatico: o l'ente pubblico e l'impresa privata che vanno in lite si accordano entro un mese oppure, senza più le procedure di prima, si va dritti alla composizione arbitrale. E dato che in questi casi lo Stato perde quasi sempre, va da sé che questo potrebbe spingere perfino le amministrazioni più riluttanti, per non subire oltre il danno la beffa di dover pagare avvocati e spese processuali, a rassegnarsi alla «proposta di accordo bonario». Cioè alle richieste delle imprese. Coscienti di spazzare via tre lustri di tentativi di moralizzazione avviati da Carlo Azeglio Ciampi, gli autori dell'emendamento hanno sciolto nella pozione uno zuccherino: il dimezzamento dei compensi minimi e massimi dovuti agli arbitri. Evviva! Fermi tutti: salvo la possibilità di aumentare del 25% le parcelle «in merito alla eccezionale complessità delle questioni trattate, alla specifiche competenze utilizzate e all'effettivo lavoro svolto». E chi decide l'aumento? Gli arbitri stessi.

Non bastasse, la sconcertante manovra per rilanciare gli arbitrati mai aboliti arriva nella scia di altri due episodi, diciamo così, controversi, che riguardano gli stessi magistrati amministrativi, da sempre cooptati a decine in questo e quel governo, di sinistra o di destra, come capi di gabinetto o responsabili degli uffici legislativi. Incarichi che ricoprono continuando a progredire nella carriera giudiziaria come fossero quotidianamente presenti e cumulando i due stipendi. Il primo è la decisione di spostare la definizione delle norme che dovrebbero regolare gli incarichi pubblici. Abolito il tetto massimo di 289 mila euro fissato da Prodi, tetto che arginava alcuni stipendi stratosferici, il governo si era impegnato a fissare le nuove regole entro il 31 ottobre. Macché: tutto rinviato. Nel frattempo non solo tutto resta come prima, ma alcune società pubbliche come il Poligrafico, la Fincantieri o l'Anas hanno rimosso dai loro siti l'elenco delle consulenze e il loro importo, vale a dire uno dei fiori all'occhiello rivendicato sia dal vecchio governo di sinistra sia da Renato Brunetta. Ma la seconda «eccentricità» è forse ancora più curiosa. Riguarda un concorso. Erano in palio 29 posti di «referendario» (traduzione: giudice) nei Tar.

Presidente della Commissione: Pasquale De Lise, «aggiunto» del Consiglio di Stato e autore di una celebre battuta sugli arbitrati suoi: «Il guadagno legittimo di qualche soldo». Partecipanti: 415 candidati. Ammessi agli orali, svoltisi in queste settimane: 30. E chi c'è, tra questi promossi? Una è Paola Palmarini, docente alla Scuola Superiore dell'Economia e delle Finanze di cui tempo fa era rettore il marito, Vincenzo Fortunato, capo di gabinetto di Giulio Tremonti nonché membro del Consiglio di Presidenza, cioè dell'organo di autogoverno delegato a nominare le commissioni d'esame. Un'altra è Anna Corrado, moglie di Salvatore Mezzacapo, giudice dei Tar e lui stesso membro dell'organo di autogoverno che sceglie le commissioni. Il terzo è Enrico Mattei fratello del magistrato del Tar Fabio Mattei, ammesso agli orali (dopo essere stato inizialmente scartato), grazie a una sentenza del Tar Lombardia firmata da Pier Maria Piacentini, il quale non molto tempo prima aveva avuto dal già citato organo di autogoverno l'autorizzazione ad assumere un incarico molto ben remunerato «di studio e approfondimento dei problemi concernenti concessioni di valorizzazione dei beni demaniali». Incarico «conferito dal Direttore dell'Agenzia del Demanio ». Cioè dalle Finanze.

Ancora da “Il Fatto Quotidiano”. Fermate quel concorso per Consigliere di Stato!

Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse ieri le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli).

Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove.

Ma i fatti più gravi sono altri due. In primo luogo la celebrazione, nel giorno di pausa tra le varie prove scritte, di una seduta (che è pubblica) dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa nella sala ove si stava tenendo il concorso, senza spostare i codici legislativi portati dai concorrenti, che sono quindi rimasti accessibili da parte di persone esterne al concorso. In secondo luogo la violazione del principio dell’anonimato: diversamente dagli altri concorsi pubblici, la commissione ha costretto i candidati che avevano bisogno di fogli aggiuntivi per scrivere i temi, a compilare un modulo già predisposto, indicando il numero di fogli presi e firmandolo. In questo modo la commissione, aprendo le buste con le prove da correggere ed incrociando i dati sul numero di fogli aggiuntivi richiesti, ancor prima di aprire la busta con il nominativo del candidato al termine della correzione di tutte le prove, è in grado di conoscere chi dei (soli) 29 concorrenti ha scritto quel tema che si sta correggendo.

Per essere più chiari, la commissione sa sin da ora che l’ottimo V. è l’unico ad aver richiesto 12 fogli aggiuntivi per la prova di amministrativo e 14 per la sentenza e 14 per il diritto internazionale. Che lo studiosissimo M. è l’unico ad averne richiesti sempre 8, nei primi tre giorni di prova. Che il bravissimo P. ne ha chiesti 13 per redigere la sentenza, mentre la diligentissima D. ne ha presi 5 per la prova di tributario e amministrativo e 8 per la sentenza. Il bravissimo D. ne ha presi 3 per diritto tributario, 6 per diritto amministrativo, 5 per la sentenza, mentre V. ne ha richiesti, per le stesse prove, rispettivamente 5, 4 e 4. E via dicendo per tutti gli altri concorrenti. Una procedura che rende quindi inutili tutte le accortezze previste per garantire l’anonimato e che, in considerazione del basso numero di concorrenti, avrebbe potuto facilmente essere evitata consegnando un numero maggiore di fogli a tutti i candidati o, semplicemente, non operando il “censimento”.

Non è la prima volta che le prove di concorso del massimo organo (il Consiglio di Stato) deputato a giudicare della regolarità di tutti i concorsi pubblici italiani sono oggetto di irregolarità e polemiche: dopo il c.d. “caso Giovagnoli“, nel 2010 il Tar del Lazio ha dichiarato illegittimi i concorsi celebrati negli anni 2006 e 2007. Nel concorso del 2009 sono state corrette circa 700 pagine di compiti in poco più di 3 ore, per una media di 3,5 pagine al minuto: un record da guiness dei primati. Nel 2010, invece, ha vinto un candidato che aveva scritto un libro il cui titolo era esattamente identico al titolo della prova scritta di diritto civile.

Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente!

Shock a Cecchina (Roma). Da tutta la stampa e in particolare da “Il Tempo” del 23 giugno 2011. C'è anche una vigilessa figlia di un generale dei carabinieri nel gruppo di fuoco del massacro di via Colle Nasone. L'insospettabile killer di 42 anni - sorella di un ufficiale della Guardia di finanza, con una sorella questore. Clamoroso: la notizia che balza agli occhi non è l’accusa dei gravi reati per la vigilessa, ma il fatto che in quella famiglia vi sia un DNA particolare che li porta a vincere i concorsi pubblici più disparati ed a ricoprire gli incarichi più prestigiosi. Veramente bravi: Generale dei Carabinieri, Ufficiale della Guardia di Finanza, Questore di Pubblica Sicurezza, Vigile urbano.....Quante famiglie come queste in Italia, alla faccia di chi ha partecipato a quei concorsi, risultante non idoneo?!?

L’Associazione Contro Tutte le Mafie consiglia ai candidati bocciati ad un concorso pubblico di chiedere copia dei propri elaborati e il verbale di correzione. Probabilmente troveranno i compiti immacolati e risulterà che il tempo, intercorso tra l’apertura e la chiusura della sessione diviso i compiti corretti, essere di pochi minuti: insufficiente per effettuare l’apertura della busta, lettura, correzione, commento e consultazione dei commissari, giudizio e verbalizzazione. Ciò prova che si è dichiarato il falso nell'attestare che il compito è stato corretto e si è commesso un abuso nel dichiararlo non idoneo. A questo punto si consiglia di presentare una denuncia penale contro i nominativi della commissione correttrice e, contro l’insabbiamento, con la postilla di essere informati  della richiesta di archiviazione per presentare opposizione. Contestualmente va presentato ricorso al Tar. Tutto ciò dovrebbe portare all’abilitazione e al risarcimento del danno.

Si deve evitare, però, ogni comparazione dei compiti, tenuto conto che sono tutti uguali, perchè copiati o suggeriti, in quanto ciò potrebbe portare all'annullamento dei compiti indicati, con conseguente denuncia penale.

Motivi di contestazione al Tar è pure la mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione.

Motivi di contestazione al Tar sono pure le anomalie sulla composizione della commissione e delle sottocommissioni. Per quanto riguarda l'avvocatura la norma prevede la presenza necessaria di un componente delle categorie degli avvocati, dei magistrati e dei professori universitari. Cosa che spesso non succede. Presente alle prove orali deve essere il presidente della Commissione centrale, cosa impossibile, come inopportuna è anche la nomina del Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei Consigli dell'Ordine…”.

Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti di sottocommissione Villani e commissione centrale De Giorgi, entrambi presenti a Lecce: «siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare»? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni da Giangrande denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti.

Il dr Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato, presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”, presenta il “Dossier sui concorsi pubblici truccati”.

Esso è il frutto di anni di ricerche ed approfondimenti su un sistema che sforna la nostra classe dirigente, e per questo, dai risultati che ottiene, la medesima dimostra la propria inadeguatezza.

Antonio Giangrande lo fa in occasione della prova scritta del concorso forense, che si tiene presso la Corte d’Appello, come ogni anno a metà dicembre, e in relazione alla riforma che imprime maggiori tutele alla lobby, stilata in Parlamento da chi si è abilitato con un sistema truccato.

Lo fa in seguito alla missiva del Governo del 5 ottobre 2009, in risposta alla sua richiesta di intervento per la tutela dei diritti soggettivi su un caso concreto: “esistono concorsi irregolari e violazione della tutela giudiziaria. Provvederemo”. Intervento mai arrivato.

Con il discorso ufficiale del Magnifico Rettore, Prof. Ing. Domenico Laforgia, è stato inaugurato a Brindisi il 3/12/2009 l'anno accademico 2009-2010 dell'Università del Salento. Presenti alla cerimonia Gianfranco Fini, Presidente della Camera dei Deputati e diverse altre insigne personalità del mondo politico, economico e culturale della penisola salentina. In quella sede ha palesato una realtà, che molti cercano di ignorare o tacitare. “…..Questo è un altro dato che si presta ottimamente ad una lettura politica. Il familismo non è la ferita pruriginosa di questa o quella Università, ma di tutto il sistema occupazionale italiano. È una malattia endemica del Paese che ha contagiato tutti i campi, dalla politica alle libere professioni, dal giornalismo al mondo dello spettacolo, dall’industria a tutto il comparto pubblico. Familismo, nepotismo e clientelismo non sono le conseguenze di un sistema malato, come spesso si dice, ma sono il segno più evidente di una mancanza effettiva di alternative possibili. Ed è questa povertà di occasioni che mette in moto il meccanismo, che diventa perverso e nocente alla comunità quando non è neppure compensato dal merito."

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Il sistema di abilitazione truccato riguarda tutte le professioni intellettuali: magistrati, avvocati, professori universitari, giornalisti, ecc. La domanda che ci si dovrebbe porre è: dov’è il trucco?

COMMISSIONI D’ESAME: con la riforma del 2003, (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180), dopo gli scandali e le condanne sono stati esclusi dalle commissioni d’esame i Consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, competenti per territorio, mentre i Magistrati e i Professori universitari non possono correggere gli scritti del loro Distretto. Le commissioni locali fanno gli orali e vigilano sullo scritto, mentre gli elaborati sono corretti da altre commissioni estratti a sorte. Questa riforma, di fatto, mina la credibilità delle categorie coinvolte. Le Commissioni  e le sottocommissioni hanno un diverso metro di giudizio, quindi alla fine bisogna affidarsi anche alla buona sorte per avere una commissione più benevola. Naturalmente, le Commissioni del nord continuano ad avere un atteggiamento pro lobby, limitando l’accesso all’avvocatura al 30% circa dei candidati, per paura che i futuri avvocati del sud emigrino al nord. A riguardo ci sono state interrogazioni scritte al Ministro della Giustizia da parte di deputati (n. 4-10247, presentata da Pietro Fontanini mercoledì 16 giugno 2004 nella seduta n. 478 e n. 4-01000 presentata da Silvio Crapolicchio mercoledì 20 settembre 2006 nella seduta n. 038). Dubbi sono sorti anche sul modo di abbinare le commissioni. Il deputato lucano Vincenzo Taddei (PdL) ha presentato un’interrogazione scritta al Ministro della Giustizia. Il motivo della richiesta di intervento è preciso: per ben tre anni consecutivi, nel 2005, 2006 e 2007, da quando sono entrate in vigore le modifiche sullo svolgimento dell’esame di avvocato, le prove scritte dei candidati della Corte d’Appello di Potenza stranamente sono state sempre corrette presso la Corte d’Appello di Trento con percentuali di ammessi all’orale sempre molto basse (nel 2007 circa il 18%).

LE TRACCE: sono conosciute giorni prima la sessione, tant’è che il senatore Alfredo Mantovano ha presentato una denuncia penale ed una interrogazione al Ministro della Giustizia (n. 4-03278 presentata il 15 gennaio 2008 Seduta n. 274).

INIZIO DELLE PROVE: la lettura delle tracce avviene secondo le voglie del Presidente della Corte d’Appello, che variano da città a città. Nel 2006 la lettura delle tracce a Lecce è stata effettuata alle ore 11,45 circa, anziché alle 09,00 come altre città. In questo modo i candidati hanno tempo di farsi dettare le tracce e i pareri sui palmari e cellulari, molto prima della lettura ufficiale.

IL MATERIALE CONSULTABILE: nel 2008, tra novembre e dicembre il caos. Se al concorso di magistratura succede di tutto, a quello di avvocatura è ancora peggio. Due concorsi diversi, stessa sorte. Niente male per essere un concorso per futuri magistrati ed avvocati. Niente male, poi, per un concorso organizzato dal ministero della Giustizia. Dentro le aule di tutta Italia, per il concorso di avvocati che si svolge in ogni Corte d'Appello italiana, è entrato di tutto: fotocopie, bigliettini con possibili tracce e, soprattutto, palmari e cellulari. Ma sul concorso in magistratura svolto a Milano c’è ne da parlare. Sopra i banchi i codici «commentati» vietati, con il timbro del ministero che ne autorizzava l'utilizzo. Relazione pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia e protocollata con il n. 19178/2588 del 24/11/2008, in cui il presidente denuncia l'atteggiamento «obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore della Polizia di Stato, trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima». Eppure le regole dovevano essere più rigide. Dovevano esserci più controlli. Era stato assicurato dal ministero della Giustizia. Con tanto di sanzioni e espulsioni.

IL MATERIALE CONSEGNATO: per norma si dovrebbe consegnare ogni parere in una busta, contenente anche una busta più piccola con i dati del candidato. Ma non è così. Le buste con i dati si possono aprire prima della lettura degli elaborati. A Roma, venerdì 13 marzo 2009, alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 al concorso di notaio si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Si è visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”.

CORREZIONE DEGLI ELABORATI: la legge 241/90 e il Ministero della Giustizia dettano le regole in base alle quali si deve svolgere la correzione, per dare i giudizi. Essi attengono alla rappresentanza delle categorie degli avvocati, magistrati e professori universitari, oltre all’attenzione data alla sintassi, grammatica, ortografia e sui principi di diritto del parere dato.

Cosa fondamentale, la legge regola la trasparenza dei giudizi e la Costituzione garantisce legalità, imparzialità ed efficienza.

Di fatto, le commissioni da sempre adottano una percentuale di ammissibilità, che contrasta con un concorso a numero aperto: 30% al nord, 60% al sud.

Di fatto, le commissioni sono illegittime, perché mancanti, spesso, di una componente necessaria.

Di fatto, i tre compiti non sono corretti, ma falsamente dichiarati tali, perché sono immacolati e perché non vi è stato tempo sufficiente a leggerli. (3/5 minuti per elaborato: per aprire la busta con il nome e la busta con l’elaborato, lettura del parere di 4/6 pagine, correzione degli errori, consultazione dei commissari per l’attinenza ai principi di diritto, verbalizzazione, voto e motivazione).

Di fatto, i voti dei tre elaborati sono identici e le motivazioni sono mancanti o infondate. Su tutti questi notori rilievi vi è stata interrogazione presentata dal deputato Giorgia Meloni (n. 4-01638 mercoledì 15 novembre 2006 nella seduta n.072). Oltre che quella n. 4-01126 presentata da Giampaolo Fogliardi mercoledì 24 settembre 2008, seduta n.054, e quella n. 4-07953 presentata da Augusto di Stanislao mercoledì 7 luglio 2010, seduta n.349. Illegale ed illegittimo è anche il ritardo con cui sono consegnate dalle commissioni di esame le copie degli elaborati, al fine di impedire la presentazione in termini dei ricorsi al Tar, in quanto la maggior parte di questi ricorsi sono accolti dalla giustizia amministrativa. Solo, però, se presentati in modo ordinario, in quanto le commissioni impediscono l’accesso al beneficio del gratuito patrocinio.

Di fatto, il Ministero non risponde alle interrogazioni parlamentari, né ai ricorsi dei candidati. Le denunce penali contro gli abusi e le omissioni, poi, sono gestite dai magistrati, componenti delle stesse commissioni contestate, per cui le stesse rimangono lettera morta.

Di fatto, gli ispettori in loco del Ministero della Giustizia sono componenti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, che come tali non possono far parte delle Commissioni, in quanto dalla riforma del 2003 sono stati esautorati per il loro comportamento.

Di fatto, alcuni candidati superano l’esame al primo tentativo. Chi presenta le denunce penali circostanziate e provate, invece, deve rinunciare a causa delle ritorsioni.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

Badate, questi signori sono poi quelli che, quale organo supremo amministrativo, devono dirimere le controversie attinenti i concorsi truccati in tutta l’amministrazione pubblica.

Intanto il concorso notarile ha i suoi i precedenti che parlano chiaro. Il concorso per diventare notai, 3300 candidati per 200 posti, è stato sospeso il pomeriggio del 29 ottobre 2010 per questioni di ordine pubblico. Una cosa mai successa nella storia del Notariato che fino a ieri vantava una delle selezioni ritenute più oggettive, severe e serie d’Italia. Gli agenti della polizia penitenziaria si sono trovati a dover fronteggiare una vera e propria rivolta. Centinaia di candidati inferociti hanno impedito la lettura della terza e ultima prova scritta a suon di slogan, fischi e boati all’indirizzo della commissione. Scene da corteo in piazza, più che da concorso pubblico. Una rivolta che ha covato una notte intera. Colpa della seconda prova di giovedì, quella sulla traccia «mortis causa». Dopo la lettura, alcuni candidati erano partiti a spron battuto consegnando il compito nel giro di poche ore. Un’anomalia presto spiegata: la traccia era pressoché identica (persino i nomi sono gli stessi) a un’esercitazione fatta eseguire ai suoi allievi da una scuola notarile di Roma, la Anselmo Anselmi. Una coincidenza fatale. Già prima dell’inizio del concorso c’erano state polemiche sulla composizione della commissione: sei magistrati romani, tre docenti romani (di cui uno sostituito all’ultimo) e sei notai, tutti del Sud. Poche ore dopo la seconda prova, sui forum dei praticanti notai si è scatenato il finimondo. Commenti durissimi all’indirizzo dei commissari, rabbia, rassegnazione, richieste di annullamento del concorso: tutto il campionario di emozioni di chi, per anni, ha studiato in vista del concorso e si sente derubato del suo futuro. Ma anche aspre critiche e indignazione da parte di notai già affermati. Il giorno dopo la protesta si è trasferita dalla rete alla vita reale. Massima ironia della sorte: il concorso per chi dovrebbe certificare la validità degli atti sospettato di irregolarità. Ma i candidati, ieri, erano tutto fuorché ironici. «La commissione è scesa alle 13 per dettare le tracce dell’ultima prova - racconta Denis Martucci, uno dei candidati -. Io ero nell’altro padiglione, ma i fischi si sentivano fin da noi. I commissari non riuscivano a parlare. Si sapeva che ci sarebbe stata tensione: ciò che è successo giovedì è gravissimo, alcuni candidati erano chiaramente avvantaggiati». Racconti più crudi da chi si trovava nel padiglione della protesta. «Quando è arrivata la commissione duecento persone si sono piazzate davanti al bancone chiedendo spiegazioni per quel che era successo il giorno prima - racconta un altro candidato - Questa situazione è andata avanti per due ore. Poi il presidente ha chiesto l’intervento della forza pubblica. Gli agenti hanno circondato il gruppone davanti al banco e hanno cominciato a spingerlo per disperderlo. Non avevo mai visto una cosa del genere». C’è il caos. Gli agenti chiedono rinforzi, i candidati vengono fatti sedere a forza o espulsi, ci sono banchi rovesciati e persone che cadono e vengono calpestate. Quando l’ordine sembra ripristinato, i commissari tentano di nuovo di leggere la terza traccia. Ma da seduti, i candidati, replicano con fischi, applausi, slogan. La situazione diventa irreversibile quando la commissione dichiara la traccia letta e la prova buona: nessuno è riuscito a sentirla, ma non si può procedere oltre perché la prova dev’essere sostenuta in otto ore. Avendo ormai sforato le 16 si finirebbe oltre la mezzanotte e la prova non sarebbe valida. Si scatena di nuovo il putiferio e la commissione dichiara sospesa la prova e fa allontanare i candidati. Una bufera: il Notariato dichiara nulle le prove, il ministero attende il verbale dei commissari. A complicare le cose la presenza di candidati parenti di personaggi noti come il figlio del ministro Ignazio La Russa e di Bruno Vespa. Senza contare il caso di omonimia di una candidata che porta lo stesso nome della moglie del ministro Angelino Alfano. Il suo dicastero è quello che organizza il concorso e nomina la commissione. Ieri in serata, Alfano ha dichiarato: ««Sarà mia cura accertare con puntualità i fatti, al fine di prendere la decisione che mi compete». La moglie? «È con lui negli Stati Uniti - dicono dal ministero - Almeno questo...». Ma già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati "non idonei" e poi promossi agli orali.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.

Le toghe ignoranti, inchiesta di Fabrizio Gatti sul "L'Espresso". Rimasta doverosamente ignorata dai media ossequiosi del potere giudiziario. Al popolino meglio non far sapere in che mani sono poste le loro vite.

Appunti nascosti nel reggiseno. O in una cartucciera... Errori di grammatica. Sfondoni di sintassi. Scarsa conoscenza del codice penale. "L'espresso" ha letto i temi dei candidati che domani dovranno governare la giustizia. In pochi si salvano da un disastro generale. La dottoressa F., giovane magistrato di freschissima nomina, ha da poco messo in pratica l'antico insegnamento contadino del non darsi la zappa sui piedi. E anche quello poliziesco del non spararsi nelle parti intime.

La dottoressa F. ha infatti partecipato agli scritti del concorso per magistrato ordinario nel novembre 2008. Ha poi chiesto l'annullamento dello stesso concorso al Tar del Lazio per le presunte irregolarità di cui era stata testimone. Ha quindi saputo di aver passato gli scritti. Ha superato gli orali nella primavera 2010. Ha immediatamente dimenticato le irregolarità di cui era stata testimone. E ha dichiarato al Tar la "sopravvenuta carenza di interesse" chiedendo ai giudici, nel maggio 2010, di annullare la richiesta di annullamento. Il 9 agosto, il Tar ha finalmente archiviato la bomba a orologeria del ricorso che l'audace candidata aveva piazzato sulla testa dei commissari d'esame. Niente male come inizio carriera. La sentenza è arrivata in tempo per vedere il nome del nuovo magistrato nell'elenco dei 253 vincitori, pubblicato dal ministero della Giustizia il giorno di Ferragosto. L'eccessiva attenzione a certe parti del corpo è invece costata l'esclusione ad altri laureati. Lo scrive Maurizio Fumo, presidente della commissione d'esame e consigliere della Corte di Cassazione, che in un verbale riservato prende atto "purtroppo, dell'atteggiamento obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima". Si trattava evidentemente di un vicequestore donna. Piuttosto che reggiseni e reggicalze, alcuni maschi hanno trovato ovviamente più consono indossare cartucciere da cacciatore dove nascondere i pizzini. Bernardo Provenzano ha fatto scuola ovunque.

La generazione dei furbetti è entrata nelle aule di giustizia. I furbetti della toga: ragazzi e ragazze, più e meno giovani, che si sono formati studiando tra leggi ad personam e discussioni sul processo breve, tra le invenzioni del ministro Angelino Alfano e le comparsate tv dell'avvocato del premier, Niccolò Ghedini. Una generazione al passo con i tempi, tanto da averne già gustato il succo: l'importante è andare avanti. Chissenefrega. Così hanno rubato il posto ai migliori rimasti esclusi. Almeno questo denunciano le decine di ricorsi presentati al Tar del Lazio. Qualcosa però tutti questi ragazzi, promossi e bocciati, incontrati negli ultimi giorni, hanno già assimilato: hanno paura di parlare. Nemmeno quando si tratta dei loro diritti costituzionali. Niente nome e cognome, per carità. Potrebbe danneggiare il futuro. La legge bavaglio per loro è già una pratica. Anche per molti di quei 253 che dopo un periodo di tirocinio come uditori, diventeranno giudici, pubblici ministeri, gip, gup. E, quando sarà il loro momento, presidenti di Tribunale, procuratori della Repubblica, membri del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale.

"L'espresso" ha letto i tre temi scritti da ciascuno dei magistrati appena nel 2010 nominati dal ministero. E ha analizzato i 235 verbali della commissione d'esame. Non mancano gli errori di ortografia. Pagine bianche e righe nere che assomigliano a singolari segni di riconoscimento (vietatissimi). Fogli pasticciati e scritti sui margini come fossero fumetti. Ma anche i documenti della commissione non scherzano. Voti allegati senza timbri ministeriali. Fogli volanti inseriti in mezzo ai verbali di valutazione. Correzioni e cancellature senza firme di convalida. La legge è stagionata, la 1860 del 15 ottobre 1925. Ma su questi punti è chiara. Articolo 18: "Le cancellature o correzioni, che occorressero, devono essere approvate una per una dal presidente e dal segretario, con annotazione a margine o in fine". Non ci sono prove che i commissari nominati tra magistrati, professori universitari e avvocati siano stati scorretti. Ma un po' troppo pasticcioni sì.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco".

La questione che ha spinto quasi tutti i ricorsi è anche la presunta impreparazione della commissione nella compilazione dei verbali. Impreparazione che, secondo i ricorrenti, potrebbe avere viziato l'esame già dagli scritti, organizzati tra il 19 e il 21 novembre 2008 in due padiglioni della Fiera di Milano a Rho. Questo è il resoconto del presidente dei commissari: "Va innanzitutto ricordato che lo scrivente è stato individuato quale presidente della commissione esaminatrice", scrive di se stesso Maurizio Fumo in un verbale riservato inviato al ministro e al Csm, "solo pochi giorni prima dell'inizio dei lavori, a seguito della rinunzia del presidente nominato". Contrariamente a quanto stabilito dalla commissione in carica per il precedente concorso, "si è ritenuto di non ammettere testi contenenti note di dottrina e giurisprudenza anche se le relative pagine fossero state spillate o fatte spillare". Le operazioni di identificazione dei candidati (con tesserini questa volta senza foto) e di controllo dei testi con i codici durano due giorni, il 17 e il 18 novembre: "Sono affluiti circa 5.600 candidati. La media dei testi che ciascuno ha inteso introdurre può individuarsi in 5 o 6 per candidato. Per un totale, quindi, di 28.000-33.600 volumi". E qui cominciano i pasticci. Perché la regola in Italia, anche nel concorso per magistrati, è sempre flessibile: "Il problema della spillatura, nonostante l'annunzio pubblicato sul sito ministeriale, si è riproposto". I candidati che mostrano ai 250 sorveglianti i testi commentati e spillati "vengono invitati a strappare le pagine contenenti note di dottrina o giurisprudenza... oppure a rinunciare al codice stesso". I partecipanti che accettano la soluzione "hanno ottenuto la ammissione dei codici così purgati": che però "continuavano a recare sulla copertina la dicitura "codice commentato"". La mattina del 19 novembre la commissione si riunisce per scegliere le tre tracce di diritto amministrativo: "Subito dopo l'individuazione delle tre tracce, il professor Fabio Santangeli ha rappresentato di doversi allontanare per tornare a Catania... Né d'altronde il Santangeli poteva essere trattenuto d'autorità", ammette Fumo: "A tal punto la commissione ha ritenuto, all'unanimità, necessario eliminare le tre tracce e procedere all'individuazione di tre nuove tracce della medesima materia". Passano le ore. "Non pochi candidati", in attesa fin dalle 8, è sempre scritto nel verbale, "hanno lamentato di essere investiti da flussi violenti di aria fredda". Alle 12,45 la prova scritta non è ancora cominciata. Ormai sono evidenti sui banchi i testi con la dicitura "codice commentato". E i più rispettosi delle regole non la prendono bene. Scoppia la lite. Volano libri, qualche sedia, al grido di vergogna, vergogna: "La commissione, colta in un primo tempo di sorpresa per la violenza, la volgarità e la natura apertamente minacciosa che aveva assunto la protesta, ha comunque mantenuto la calma... solo, dopo più di un'ora e grazie all'atteggiamento fermo ma prudente della polizia penitenziaria, è stato possibile instaurare una qualche forma di dialogo... Altri inoltre chiedevano e ottenevano di verbalizzare dichiarazioni". Quel verbale, controfirmato da otto candidati, secondo i testimoni contiene nomi di persone sorprese con testi irregolari e ora promossi magistrati. Ma è impossibile verificare. Finora il Csm ha impedito l'accesso al documento. E il Tar Lazio non ha ancora depositato una decisione presa nel merito il 28 aprile 2010. "Nei giorni successivi le prove si svolgevano in maniera abbastanza regolare", conclude il presidente Fumo: "Si rendeva necessario tuttavia istituire un apposito banco delle espulsioni... In quanto il numero delle persone trovate in possesso di materiale non consentito (appunti, codici con annotazioni, testi giuridici mascherati con copertine di codici, telefonini e persino un orologio con database) era molto elevato".

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

O ancora l'esame di ammissione all'albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un' agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere.

E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

TUTELA AMMINISTRATIVA: i ricorsi al Tar, stante l’immane giurisprudenza a sostegno, sono automaticamente vincenti. Unica condizione presentarsi con il principe del foro locale. Per ovviare all’ovvia ritrosia degli ordini di abilitare chi ha vinto un ricorso, la legge 17 agosto 2005 n. 168 di conversione (con modificazioni)  del decreto legge 30 giugno 2005 n. 115, contiene un norma destinata a sconvolgere gli esami di Stato di tutte le professioni intellettuali (in particolare di quelle di avvocato, notaio, commercialista  ed architetto, le più bersagliate di ricorsi ai Tar e al Consiglio di Stato). Insomma, il candidato che supera le prove orali, anche se l’ammissione è stata decisa da ordinanze dei Tar, “consegue a ogni effetto” l’abilitazione professionale. Se si è indigenti, però, l’ammissione al patrocinio pagato dallo Stato è impedito dalle relative commissioni presso i Tribunali Amministrativi formate ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato. Le commissioni, stante i requisiti di accoglimento per il fumus e per l’indigenza, rigettano la domanda, con giudizi anticipati senza contraddittorio: “Manca il Fumus”, inibendo così anche l’inoltro ordinario a pagamento del ricorso avverso all’esito concorsuale.

Un esempio per tutti.

«Ma voi del Giornale non sapete una cosa pazzesca su Antonio Di Pietro e il giudice Corrado Carnevale, sì proprio quello a cui gli amici di Tonino danno addosso dicendo che aggiustava i processi per conto di Cosa nostra...». L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare uscente dell’Mpa di Raffaele Lombardo, ci rimanda a quando nel 1980-81 il cosiddetto giudice «ammazzasentenze», da presidente della commissione d’esami del concorso in magistratura, fece di tutto per promuovere l’allora vice commissario di polizia molisano che ai test aveva fatto una figura a dir poco penosa.

(«Avevo letto il curriculum di Antonio Di Pietro - ha raccontato Carnevale -: era stato emigrante, si era arrabattato molto, questo mi indusse a essere clemente. Se devo pentirmi di tutto, come pretendono molti, mi pento anche di aver fatto promuovere Di Pietro. Nei concorsi per magistrati non bisognerebbe tenere conto di considerazioni pietistiche. In base all’esame però non avrebbe meritato il voto minimo che gli abbiamo attribuito...»).

Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Altro che recriminazioni per l’ipergarantista Carnevale che proprio grazie ai giustizialisti alla Di Pietro si ritroverà a lungo nei guai. Non ci resta che chiedere direttamente a lui, all’integerrimo magistrato in pensione Felice Filocamo, che agli esami orali proprio con Di Pietro ebbe un curioso botta e risposta. «Nel grande giorno - scrive Filippo Facci nel suo libro su Di Pietro - gli chiesero un documento perché si identificasse e reagì stizzito: “Ma io sono il commissario Di Pietro”. “Si, certo, ma solo quando me lo avrà dimostrato”...».

Giudice Filocamo, scusi il disturbo. Sappiamo che lei non ha mai parlato di questa storia degli esami di Antonio Di Pietro per indossare la toga. Ma l’onorevole Belcastro ci ha riferito che...

«Fermatevi. Parlate con il giudice Carnevale, è lui l’autore di tutto (risatina), di quella raccomandazione. Io ero solo il segretario della commissione, chiedete, chiedete a Carnevale».

Corrado Carnevale si è già espresso dicendosi pentito d’aver raccomandato Tonino a diventare un pm. L’onorevole Belcastro, riferendo di una vostra confidenza, ci ha raccontato che non si trattò solo di raccomandazione ma di molto di più, e di più grave, a seguito di un esame quantomeno disastroso da parte di Di Pietro. Esame ben al di sotto della sufficienza e a seguito del quale sarebbero stati strappati compiti e verbali. Sarebbe stato commesso un reato...

«Che ormai sarebbe prescritto (risata). La prego, la fermo. Diciamo che anche se sono passati tanti anni è antipatico rivelare quelli che sono, e restano, i segreti di una camera di consiglio. Non si fa. Non mi faccia scendere nei particolari che vi ha riferito Belcastro, non è mio costume, non insista».

Almeno se lo ricorda quell’esame?

«E come non me lo ricordo? L’esame del vicecommissario Di Pietro è stato... poco decoroso perché insomma... la commissione era convinta che non dovesse essere promosso. Poi è successo quello che è successo e...».

E?

«E... niente. In quell’occasione è stato fortunato (risata). Seguendolo, negli anni, ho potuto notare come sia stato sempre fortunato. Come quando prese soldi e regali da quelle persone lì, a Milano. Si è detto che non era reato, benissimo, ma non fu una cosa molto decorosa per lui e per la magistratura. Così come non ha fatto una bella figura quando venne sospeso dal consiglio nazionale forense per aver tradito il mandato difensivo di un suo assistito accusato d’omicidio, che peraltro, se non ricordo male, era pure il suo migliore amico».

A proposito di questo «tradimento» la Cassazione ha appena chiuso il caso confermando la «condanna» a Di Pietro.

«Ecco, appunto, per indegnità, per scorrettezza, più di questo che gli devono dire?».

Non ce ne voglia, Filocamo. Ma dobbiamo tornare all’esame di Di Pietro perché le cose riferite dall’onorevole Belcastro, anche se il reato è prescritto, sono comunque di una certa rilevanza. Belcastro parla di verbali e compiti strappati...

«Strappare i verbali... dico... strappare... guardi, in camera di consiglio ognuno esprime la propria opinione, e alla fine, sommando le opinioni, ha prevalso l’opinione generale contraria alla promozione di Di Pietro. Poi, con l’intervento di qualcuno che ha ritenuto che quella decisione non fosse... come dire... beh, ha capito, la commissione poi cambiò idea. Ci furono delle discussioni, la decisione venne rivista. Se chiedete al giudice Carnevale vi può dire lui come andarono veramente le cose. Lui era il capo, lui era il presidente. Io ero solo il segretario della commissione e il segretario, verbalizzavo punto e basta, non avevo poteri decisionali».

Faccia uno sforzo, presidente. Davvero non si ricorda se ha strappato il compito di Di Pietro e se poi qualcun altro l’ha riscritto?

«Cercate di capire... sono passati trent’anni...».

E non è tutto

Entrare nella casta del Consiglio di Stato attraverso il concorso pubblico è il sogno di molti, e il casting dovrebbe essere davvero accurato. Negli ultimi tre anni ce l'hanno fatta solo in cinque.

Badate, questi signori sono poi quelli che, quale organo supremo amministrativo, devono dirimere le controversie attinenti i concorsi truccati in tutta l’amministrazione pubblica.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da anni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”.

I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”.

Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. “Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione” conclude con “Panorama” Berardi.

In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

Cinquemilaquattrocentosettantacinque giorni per accertare che i temi di un candidato al concorso per entrare in magistratura, svoltosi nel maggio 1992, non erano mai stati esaminati. Furono promossi 275 uditori giudiziari, tutti in servizio in ogni parte d'Italia. Ma perché gli elaborati del candidato numero 621 - l’avvocato penalista Pierpaolo Berardi, di Asti - non vennero neppure letti? «Bella domanda. Avrebbe dovuto accertarlo la procura di Perugia», dice. Il sospetto che forse, in quel concorso, qualcosa fosse stato già deciso prima, è forte. Dopo una battaglia lunga quindici anni, il Csm, con una delibera, ha detto che quelle tre prove non erano mai state esaminate dalla commissione, la stessa che, nel 2003, venne pure chiamata a «riesaminare» le prove. I temi taroccati. Ora la solitaria avventura di Berardi, ci riporta al punto zero. Il Csm, nella delibera, spiega che non può fare altro che prendere atto (della mancata correzione) e che l'unica strada percorribile per avere giustizia è quella di ricorrere a un altro, l’ennesimo, giudice.

Le prove del concorso si erano svolte dal 20 al 22 maggio 1992. I risultati di «non idoneità» erano stati comunicati solo nell'aprile 1993. Il verbale della correzione precisa la durata: tre minuti esatti per ogni elaborato; stesso tempo utilizzato per i candidati ammessi agli orali. Parte il primo ricorso al Tar che ordina la ri-correzione degli elaborati, perché tre minuti non servono a niente. E siamo arrivati al 4 novembre 1996. Passano quattro anni. Il Csm si rivolge anche al Consiglio di Stato. Nel 2000 conferma quanto stabilito dal Tar. Berardi: «Non mi fermo. So benissimo che i temi non erano mai state letti. Dal’94 al 2000, incontro i ministri della Giustizia Biondi, Flick, Diliberto e Fassino. Anche l’ex pg della Cassazione Vittorio Sgroj, amareggiato e sconfortato». Scontro durissimo: «In questo periodo devo fare altri due ricorsi autonomi al Tar per avere l'accesso agli atti e trovo, con una ricerca a campione, almeno 10, 15 temi incompatibili con la poi avvenuta promozione a magistrato. Nel mio giorno di"correzione" un candidato non ha mai svolto la traccia di diritto penale ma di diritto civile, ripetendo sempre lo stesso concetto. In un'altra sessione un candidato cita passi interi di libri. Un terzo scrive strafalcioni di diritto penale da non consentire di superare l’esame all'università, altro che concorso in magistratura!». Berardi è fiducioso. Nonostante tutti questi atti «comprovanti le gravi illiceità», si dice che la brevità del tempo non indica certo «un’omessa correzione». Se fosse stata riconosciuta, come è stato accertato, «avrebbero dovuto aprire un disciplinare clamoroso, denunciare e riconoscere, il falso nei verbali», commenta amaro Berardi.

Nel 2002, viene disposta la ri-correzione da parte della stessa Commissione. Quella che non aveva mai aperto le buste. «La ricuso, ma il Csm, il Tar ed il Consiglio di Stato dicono che va bene così. Mi rivolgo al Consiglio di Stato per la revocazione del giudizio, poi alle Sezioni Unite della Cassazione». L’archiviazione L’avvocato si rivolge alla magistratura di Perugia, che riapre per tre volte le indagini senza mai compiere un solo atto investigativo: dal 1995 al 2004, silenzio totale. Nemmeno quando si scopre che dagli archivi del ministero è sparito il fascicolo con i relativi elaborati di uno dei candidati vincitori, Francesco Filocamo. Solo alla fine del 2004 c’è un interrogatorio. Morale, archiviazione. Nella correzione da 180 secondi non c’è nessun falso, ma solo una «illegittimità amministrativa», poiché effettivamente i temi furono corretti in modo non attento. Insomma, tutto ok. O quasi. La battaglia diventa guerra. Anche di nervi: «Sono andato a Roma 78 volte e a Perugia circa una decina. Il tempo intercorso tra l'inizio di questa vicenda e oggi, escludendo i mesi bisestili, sono di 5475 giorni. Un contatto quotidiano con i soggetti che hanno avuto la ventura o sventura di aiutarmi». Anno 2007. L’avvocato Anna Mattioli, che assiste il collega, redige un’istanza di ri-correzione, testardamente riproposta nonostante le sentenze passate in giudicato per la «macroscopica ed evidente diversità di trattamento con un’altra candidata». Lei ebbe la garanzia di una nuova commissione e dell'anonimato. Berardi no. C’è aria di sconfitta: «L’8 maggio del 2008, il Csm mi ha risposto che sì, è vero, c’è una differenza tra me e l'altra candidata perché a me i temi non furono mai corretti, tanto è vero che si parla di correzione e non di ri-correzione e che un giudizio non c'era mai stato. Il Csm riconosce ora, che la disparità di trattamento può essere fatta valere davanti ad un giudice. Finalmente, la verità. E adesso vado avanti».

Ma sul concorso in magistratura c’è ne da parlare. Sopra i banchi i codici «commentati» vietati, con il timbro del ministero che ne autorizzava l'utilizzo.

Giudici che si defilano all’ultimo momento. Caos totale. Commissari d’esame che abbandonano senza motivo. Minacce, insulti. Vicequestori sorpresi con materiale proibito nascosto nella biancheria. È il quadro desolante del concorso per l’ingresso in magistratura tenuto a Milano dal 19 al 21 novembre 2008: non più nel racconto dei candidati ma, per così dire, dall’altra parte della barricata. È la relazione che il presidente della commissione d’esame, il giudice di Cassazione Maurizio Fumo, ha inviato al Consiglio Superiore della Magistratura, che, nonostante tutto, convalida la prova d’esame per il semplice motivo che rifare tutto costerebbe troppo.

Relazione pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia e protocollata con il n. 19178/2588 del 24/11/2008, in cui il presidente denuncia l'atteggiamento «obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima».

"Vi racconto il concorso da giudice: tutto truccato". «Una scena che non dimenticherò facilmente. Marasma totale, candidati che chissà come erano riusciti a portarsi appresso intere enciclopedie giuridiche, nessuno che sapeva che pesci pigliare, e in mezzo al caos un membro della commissione che strillava “Fermate quello spelacchiato che incita le persone”. Sembrava di essere al mercato, non al concorso per una delle professioni più delicate della nostra società».

Questo è il racconto di V. che ha trent’anni e - per motivi che spiegherà più avanti - non vuole vedere il suo nome sui giornali. Ma il suo nome ce l’ha il ministro della Giustizia Angiolino Alfano, in calce all’accorata lettera che V. gli ha mandato per raccontargli le condizioni surreali in cui si è svolto a Milano, dal 19 al 21 novembre 2008, il concorso per 500 posti da magistrato. Delle decine di testimonianze come quella di V. si dovranno occupare in diversi. Il ministero, che ha avviato una inchiesta interna. Il Consiglio superiore della magistratura che - su richiesta dei Movimenti riuniti e di Md - stamattina aprirà una sua indagine. E la Procura della Repubblica di Milano sul cui tavolo sono arrivati gli esposti che alcuni candidati inferociti si sono precipitati a depositare dopo avere rinunciato a portare avanti la prova.

«Io non voglio buttarla in politica», dice V., «non voglio ipotizzare che ci fossero forme di corruzione o di connivenza. Non sta a me accertarlo. A noi spetta denunciare le irregolarità macroscopiche che erano sotto gli occhi di tutti e che la commissione ha fatto finta di non vedere. Adesso leggo che il ministero per fare luce sulla vicenda ha chiesto una relazione al presidente della commissione. Che obiettività ci si può aspettare? Perché non vengono sentiti anche i candidati?».

Tema dello scandalo: l’introduzione - da parte di numerosi candidati all’oceanica prova d’esame convocata presso la Fiera di Milano - di vietatissimi codici commentati. Tradotto per i profani: agli esami per magistrato i temi riguardano faccende astruse («diritto di abitazione del coniuge superstite e della tutela del legittimario nel caso di atti simulati da parte del de cuius», recitava una traccia di settimana scorsa) cui i candidati debbono rispondere basandosi unicamente sui testi di legge, e non sui codici assai diffusi in commercio che, in fondo alle pagine, forniscono le risposte a ogni dubbio. Peccato che alla Fiera di Milano i codici del secondo tipo circolassero quasi liberamente. Risultato: sollevazione degli onesti, assalto alla presidenza, la prova che si blocca, riparte, finisce a notte inoltrata tra urla di «vergogna, buffoni», minacce, metà dei 5.600 candidati che abbandonano senza consegnare il compito. Come è stato possibile? Il presidente della commissione d’esame, il consigliere di Cassazione Maurizio Fumo, rifiuta ogni spiegazione. Così per ricostruire i fatti - che rischiano di portare all’annullamento della prova - bisogna affidarsi al racconto di V. e degli altri candidati.

«La mia non è una denuncia anonima - dice V. - il ministro ha il mio nome in mano. Ma io quell’esame voglio riprovare a affrontarlo, stanno per essere banditi altri 350 posti. E se il mio nome girasse ne uscirei enormemente penalizzata».

Che una aspirante magistrata sia convinta che il «sistema» si vendicherebbe della sua denuncia civile la dice lunga sull’aria che tira. V. non si dichiara ancora ufficialmente una disillusa, ma poco ci manca. «Io da sei anni non faccio altro che prepararmi per questo concorso. Voglio fare il magistrato, e credo che lo farei bene. Non ho aspirazioni missionarie, non ho una visione giustizialista della società. Ma credo che ogni società abbia bisogno di una cultura delle regole, e che per questo servano magistrati equilibrati e preparati. Io credo di essere entrambe le cose. Consideravo il concorso per magistratura l’ultima trincea della meritocrazia, evidentemente mi sbagliavo. All’idea che questo concorso premi i furbi che “ci hanno provato” mi sento profondamente indignata».

«Abbiamo passato un giorno intero - racconta - a fare controllare i testi di cui chiedevamo di servirci. A me hanno tolto persino i segnapagine. Il giorno dell’esame ci sono ragazze che si sono viste perquisire anche la busta dei Tampax. I controlli, insomma, sembravano seri. E invece quando siamo entrati nell’aula è arrivata la sorpresa. C’erano candidati che avevano sul banco, con tanto di autorizzazione, codici commentati, manuali di diritto, enciclopedie. A quel punto è partita la protesta». Ma chi è stato, a permettere l’ingresso dei testi vietati? «I controlli li facevano i vigilantes, gli stessi che poi giravano tra i banchi. Non so chi li abbia istruiti. Ma so che un codice semplice si distingue facilmente da uno commentato: c’è scritto in copertina, e uno è alto un terzo dell’altro. Impossibile non accorgersene».

E allora? Come è stato possibile? «Non lo so. Era una situazione surreale. E il presidente diceva: la prova va avanti, non è successo niente. Nei due giorni successivi il concorso è andato avanti così, chi copiava dai testi e chi si arrangiava in qualche modo. Se provavi a guardare il banco del vicino quello ti saltava in testa: cosa vuoi, fatti i fatti tuoi, vattene». Ed era il concorso da cui sarebbero usciti i magistrati di domani.

Niente male per essere un concorso per futuri magistrati. Niente male poi, se il concorso, è organizzato dal ministero della «Giustizia». Dentro le aule è entrato di tutto: fotocopie, fisarmoniche con possibili tracce e, soprattutto codici «irregolari», cioè «commentati» ma nonostante questo approvati dai cancellieri durante i controlli con tanto di timbro del dicastero di via Arenula. Così c'è stata una sollevazione generale per almeno un'ora. E l'inizio del concorso, già in ritardo, è stato posticipato ulteriormente. Andiamo per ordine.

LA STORIA – Il lunedì nei padiglioni della Fiera di Milano a Rho, iniziano le procedure della prova del concorso nazionale da magistrato. Cioè 5.600 laureati in legge, per 500 posti da uditore giudiziario da assegnare. Portano dentro le aule i testi che potranno consultare in aula. Ma prima devono superare il controllo. Cioè, un cancelliere di tribunale, quindi un esperto, verifica i libri, ne controlla che siano realmente dei codici, che non vi siano infilati dentro dei fogli e che non ci sia scritto nulla. Ma soprattutto che siano conformi al bando. Cioè dei semplici codici senza commenti. Due giorni di lavoro e code interminabili. E cosa succede? Mercoledì, giorno della prova scritta, i futuri magistrati si ritrovano degli aspiranti colleghi con testi «fuorilegge» però con tanto di timbro del ministero della Giustizia.

LE DENUNCE - Intorno alle 18, quando è stato consentito ai candidati che lo desideravano di lasciare il padiglione, sono stati decine quelli usciti furenti: «O i cancellieri sono incompetenti, e non si capisce perché il ministero si serva di loro, oppure sono in malafede», denuncia Marco che arriva da Napoli. «Io sono stata sottoposta ad un controllo che è durato dieci minuti. Non si spiega come sia possibile che quei volumi vietati abbiano ottenuto il timbro ministeriale. Eppure, anche un bambino vedrebbe che il tomo pesa il doppio perché contiene dei commenti», urla Katia dalla Sicilia. Così è partita la sollevazione al coro di «vergogna, vergogna» all'indirizzo della commissione d'esame. Proteste e denunce in procura. Una cinquantina di ragazzi ha anche abbandonato il concorso: «Vogliamo che la prova venga annullata!», ci dice un ragazzo che arriva da Genova.

IL PRESIDENTE DIMISSIONARIO – Il venerdì in tanti hanno rinunciato alla prova. E si chiedevano come mai il presidente della commissione nominato appena due settimane prima della prova, dopo una settimana ha lasciato l'incarico: «Forse il suo telefono era diventato rovente», afferma un futuro magistrato che vuole restare anonimo (sic!). «Una settimana a Milano per fare il concorso, ho speso 1000 euro tra albergo e viaggio, e devo assistere ad un simile spettacolo». E in tanti non si spiegano come mai il concorso si tenga nella sede unica di Milano quando negli anni passati si teneva anche a Roma. Giovanni da Catania è lapidario: «Forse qualcuno della Lega vuole penalizzare la maggioranza dei concorrenti che arriva dal sud?». Ma questa è un'altra polemica.

Intanto i trucchi vengono da lontano. Ecco una interrogazione parlamentare per l'ennesima sessione truccata.

Legislatura 14, Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-05120. Pubblicato il 30 luglio 2003. Seduta n. 455. MESURI, BEVILACQUA, SUDANO, CONTESTABILE, GENTILE, RAGNO, AZZOLLINI, CIRAMI, EUFEMI, CASTAGNETTI, MORSELLI, GUBERT, GRILLOTTI, BATTAGLIA ANTONIO, PERUZZOTTI, FERRARA, ULIVI, BONGIORNO, MENARDI, MUGNAI - Al Ministro della giustizia. - Premesso:

che il quotidiano “Il Giornale” del 14 maggio 2003 ha pubblicato il seguente articolo sotto il titolo: “Concorso truccato in magistratura”:

“C’è l’ombra di uno scandalo sull’ultimo concorso in magistratura: il grave sospetto che un membro della Commissione d’esame per uditori giudiziari, un magistrato, abbia commesso scorrettezze per favorire un candidato. O, addirittura, sia stato corrotto. Tutto segreto, per ora. Ma i titolari dell’azione disciplinare, il Procuratore generale della Cassazione e il Ministro della giustizia, sarebbero stati informati per valutare le iniziative di loro competenza.

La Procura di Roma, da parte sua, avrebbe aperto una pratica, subito secretata, per indagare sulla vicenda e accertare quali reati sono ipotizzabili. Anche il Consiglio superiore della magistratura, nella persona del suo vicepresidente, Virginio Rognoni, sarebbe stato messo al corrente. Tanto più perché il magistrato coinvolto, e sarebbe una donna che veste la toga a Napoli, avrebbe già dato le dimissioni dalla Commissione “per motivi di famiglia“.

Così l’organo di autogoverno della magistratura, per la precisione la nona commissione, ha dovuto provvedere con urgenza a nominare il sostituto perché l’esame degli scritti potesse procedere senza interruzione. Anche questa pratica del CSM è stata secretata e questo la dice lunga sulla gravità dell’episodio e sulle ripercussioni che potrebbero esserci: quantomeno una batosta all’immagine di serietà e correttezza di questa fondamentale prova d’accesso dalla quale si esce abilitati ad indossare la toga.

Stiamo parlando del concorso nazionale che si è tenuto a Roma a fine gennaio. Una folla di giovani aspiranti magistrati, più di mille a quanto sembra, ha inizialmente superato i quiz di ammissione e successivamente si è cimentata sulle due prove scritte di diritto. In questi giorni la Commissione, formata prevalentemente da magistrati ma anche da alcuni professori universitari, sta appunto correggendo i temi. E pare che proprio da un compito abbia avuto origine lo scandalo.

Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. Una volta superata la prova scritta i candidati devono passare anche quella orale, che probabilmente partirà all’inizio dell’estate, ma la strada è spianata.

Sarebbe dunque inquinata la prova di accesso in magistratura? Di scandali per i concorsi da avvocati e da notai se ne ricordano tanti, ma questa volta la cosa sarebbe anche più grave, almeno perché è proprio in questa fase che si selezionano i servitori dello Stato che devono amministrare la giustizia, con indipendenza e imparzialità.

Accedere alla Commissione d’esame in magistratura è per questo un fatto di prestigio. Basti pensare che proprio a quest’ultima aveva chiesto di partecipare Francesco Saverio Borrelli, appena andato in pensione. Il Csm lo aveva anche nominato, ma poi il “padre” di Tangentopoli ci aveva ripensato e aveva rinunciato per motivi personali. Forse, perché contava di rientrare presto in servizio attivo appellandosi alla nuova legge che estende l’età pensionabile da 70 a 75 anni, senza immaginare che il Csm avrebbe osato sbarrargli il passo”;

che successivamente tutti i maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato;

che per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio;

che a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani;

che una luce sinistra grava, quindi, su tutto il concorso, e che nessuno può avere certezza che tutti gli ammessi lo meritassero veramente e tutti gli esclusi fossero veramente non idonei;

che, quindi, grava forte il sospetto che, domani, qualche imbroglione, gratificato indebitamente da esaminatori non irreprensibili, possa diventare giudice di altri uomini, forse più onesti o meno fortunati di lui;

che molti autorevoli giornali, qualcuno addirittura nell’editoriale, hanno invocato l’annullamento del concorso,

si chiede di sapere se, al fine di tranquillizzare tutti i cittadini e per ridare credibilità e fiducia nelle Istituzioni e soprattutto nell’Ordine Giudiziario, da anni al centro di forti polemiche e dure critiche, il Ministro in indirizzo non intenda, come a giudizio dell’interrogante dovrebbe e come da più parti viene richiesto, annullare il concorso in discussione, bandendone uno nuovo ed evitando che dello stesso facciano parte commissari presenti nel concorso di cui si è detto, che agli interroganti, anche sulla base delle notizie di stampa citate, parrebbe viziato da scandali ed imbrogli.

A questo punto è inutile citare un'altro esempio.

Alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Venerdì 13 marzo 2009, alla Nuova Fiera di Roma, l’esame di Stato notarile si è trasformato nell’ennesimo siparietto che potrebbe invalidare la validità dell’ultima prova. Gli ingredienti ci sono tutti: sospetti, accuse e rivolte. Dopo lo scandalo che nel 2008 investì il concorso da magistrato, ora tocca all’esame notarile di cadere nel vortice delle polemiche.

Alle prime luci di mercoledì 11 marzo circa 3.900 candidati si sono messi in fila davanti alla Nuova Fiera di Roma per sostenere il concorso. “E’ la seconda volta che mi presento – racconta una ragazza che preferisce rimanere anonima – perché non so ancora se ho superato il vecchio esame”. In effetti il penultimo bando aveva indetto un concorso per ottobre 2007: in “palio” vi erano 230 posti. Della correzione di quelle prove non si ha ancora avuto esito così diversi candidati hanno pensato bene di iscriversi e sostenere nuovamente l’esame. In coda già alle 8 e mezza – prima che i cancelli si chiudano definitivamente – e sui banchi per l’una per iniziare l’esame. Tre le materie, tre le buste per ciascuna materia. Si estrae tra inter vivos (contratto), mortis causa (testamento) e atto di diritto societario. “Dato il nostro numero ci hanno diviso in due padiglioni differenti – racconta Martino, candidato che la settimana scorsa ha sostenuto il concorso – per legge due volontari del padiglione in cui non è presente il presidente di Commissione devono presenziare all’estrazione della materia, all’estrazione della traccia e alla lettura di quest’ultima”. I gesti si ripetono come riti. Tutto deve essere a norma di legge. La tensione è forte. Venerdì 13 a leggere la traccia – una fusione societaria – è il presidente della Commissione, Sergio Del Core (magistrato della Corte di Cassazione). Non vengono distribuite fotocopie. I candidati prendono appunti, scrivono in silenzio. Non vola una mosca. Finita la dettatura inizia la prova.

“A differenza dei due giorni precedenti non si è sentita la voce del presidente chiamare i candidati del nostro padiglione per partecipare alla conta per la selezione della persona che avrebbe estratto la busta con la traccia – continua a raccontare Martino – non si è sentito il presidente dar conto dell’estrazione della traccia e nemmeno aprire la busta e iniziare la dettatura”. In realtà, due ragazze sono presenti. “Non è stata una dettatura anticipata, semplicemente non si è sentito che si stava procedendo all’estrazione – spiega una delle volontarie del padiglione 6 – ho pescato io: non facciamo una polemica per tutto”. Ricostruire la dinamica risulta difficile. Resta il fatto che numerosi candidati del padiglione 6 sono in piedi, in fila ai bagni, a chiacchierare col vicino di banco. La baraonda scoppia proprio quando il presidente di Commissione ammette: “Mi dicono che devo ripetere tutto perché non si è sentito niente”. La protesta si scalda. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” alcuni candidati si avvicinano al tavolo dove sono seduti alcuni commissari per illustrare la necessità di annullare il concorso o, quantomeno, di ripetere le operazioni, a partire dall’estrazione delle buste. “Come facevano le due candidate prescelte a sapere che dovevano recarsi nel padiglione 5 per procedere all’estrazione? – si chiede Giorgio – come mai, a un certo punto, il presidente ha iniziato a dettare la traccia velocemente senza che noi avessimo scritto ancora niente?”.

“L’osservanza delle regole è fatta apposta per poter escludere ogni dubbio che il concorso sia truccato”, spiega Martino raccontando come l’intervento della polizia penitenziaria in difesa dei commissari del padiglione 6 fosse “inutile”. Alcuni ragazzi hanno addirittura invitato gli agenti a verbalizzare. Immediato l’imbarazzo. “I poliziotti erano divisi tra due fuochi – continua Martino – si sono accorti che qualcosa era andato storto; tuttavia, non potevano opporsi ai commissari”. “La storia della dettatura della traccia è futile, c’è ben di peggio”, spiega Marco, un candidato del padiglione 6 che, sul forum di www.romoloromani.it, racconta di aver visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”. Marco è demoralizzato: “La divisione a favore di terzo è un dogma indimostrabile: devi prenderla per fede e accettarla”. Quindi? “Passerò i prossimi anni a cercare una raccomandazione, visto che studiare non serve a nulla”.

Di precedenti la storia dei concorsi pubblici è piena. L’ultimo risale al novembre 2008 alla Fiera di Milano a Rho in occasione del concorso nazionale da magistrato. Allora avevano partecipato 5.600 laureati in legge per 500 posti. Anche allora i candidati avevano chiesto l’annullamento della prova perché sui banchi erano “comparsi” fotocopie, fogli con possibili tracce e codici commentati, il tutto con il timbro d’approvazione del dicastero di via Arenula. Per legge, infatti, ciascun candidato può portare con sé codici da consultare previo controllo del cancelliere di tribunale. Compito di quest’ultimo è controllare che i volumi siano conformi al bando. “Sono stata sottoposta a un controllo che è durato dieci minuti – aveva denunciato una candidata – non si spiega come sia possibile che quei volumi abbiano ottenuto il timbro ministeriale. Eppure, anche un bambino vedrebbe che il tomo pesa il doppio perché contiene dei commenti”. Anche in quel caso ci fu una mezza sommossa popolare che portò diversi candidati ad abbandonare il concorso.

Intanto il concorso notarile ha i suoi i precedenti che parlano chiaro: candidati ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati "non idonei" e poi promossi agli orali.

Un mix di irregolarità e gaffe macroscopiche che gettano un'ombra su uno degli ultimi concorsi pubblici che si vanta di trasparenza e massimo rigore: quello notarile. Una gara che permette di accedere ad una delle professioni più invidiate, protette e meglio retribuite del Paese. Le prove incriminate riguardano il concorso indetto nel 2004. Gli scritti si sono tenuti nel novembre del 2005 e tra qualche giorno i 187 vincitori verranno incoronati con la pubblicazione della graduatoria finale, ma nel frattempo i compiti sospetti sono finiti in un fascicolo della Procura di Roma, che ha aperto un procedimento penale per abuso d'ufficio contro ignoti, girandolo poi a Perugia, per il presunto coinvolgimento di magistrati del distretto della capitale.

Il dossier che colpisce al cuore il mito del 'concorso perfetto' nasce su Internet. Un gruppo di bocciati, delusi dai risultati, decide di controllare de visu le correzioni della commissione. Quasi per gioco, a turno, vanno al ministero della Giustizia (le prove sono pubbliche e dunque consultabili) per spulciare gli scritti dei fortunati ammessi agli orali. Dal passaparola on line a febbrili contatti telefonici, nasce un dossier fitto di dati, riscontri e liste di cantonate. Una sorta di j'accuse che prima circola nel mondo notarile, poi finisce sulla scrivania di un professionista affermato che, incredulo, denuncia tutto al Consiglio nazionale, l'organo supremo della categoria. Paolo Piccoli, il presidente, è costretto ad avvertire il ministero e i pm.

Al vaglio dei magistrati, dunque, ci sono le prove scritte degli aspiranti professionisti (una simulazione di veri atti notarili), le quali contengono 'nullità', ossia errori formali che, se fossero stati compiuti durante la normale attività, in qualche caso avrebbero portato persino al ritiro del sigillo e alla cancellazione dall'ordine. Invece dell'automatica bocciatura e dell'eliminazione dal concorso, chi ha dimenticato di allegare certificati fondamentali (come quello di destinazione urbanistica) ha superato la prova in cavalleria. "Un candidato in un unico scritto ha scordato un documento fondamentale, non ha letto l'atto e ha fatto firmare in ordine sparso i testimoni. Altri concorrenti per molto meno sono stati bocciati, questo chissà perché è stato addirittura premiato con cinque punti aggiuntivi", racconta Gian Enrico Figari, avvocato, che ha partecipato al concorso per ben sei volte.

Non solo. Altri aspiranti sbagliano a inserire postille, alcuni dimenticano di far siglare le parti, un concorrente stipula un documento senza mettere la firma del notaio in calce: tutti promossi, nonostante aberrazioni formali che potrebbero portarli, nella real life, a sanzioni pesantissime. In qualche caso, infine, ci sarebbero gravi discrasie tra il giudizio scritto sul compito e quello riportato sul verbale. Il figlio di un eurodeputato dell'Udc, ad esempio, su un elaborato viene inizialmente bocciato, ma il giudizio negativo viene interlineato a penna e sostituito da un punteggio sufficiente a superare la prova. Nonostante ci fosse, secondo il dossier, un grave errore "per giudicare il compito non idoneo". Stesso trattamento per la figlia di un notaio (che però scrive un atto apparentemente perfetto): prima bocciata, poi cambio repentino di valutazione e promozione. Se non ci fosse dolo intenzionale, come nessuno può al momento dimostrare, e i commissari si fossero semplicemente ingannati, sarebbe stato logico almeno trovare traccia dell'equivoco sul verbale. Dove, invece, non v'è alcun riferimento alla doppia votazione.

Il notariato ha cercato di tenere lo scandalo in naftalina, cercando di non far trapelare il malcontento dei 'non idonei' e di chi ritiene che l'accesso all'ordine debba seguire strade più trasparenti. "Sull'inchiesta c'è il segreto istruttorio, non so nulla", spiega Ilario Marsano, consigliere nazionale con delega ai concorsi, da sempre paladino di un'apertura della professione ai giovani, "noi abbiamo spedito il fascicolo ai magistrati come atto dovuto, senza intenti di denuncia contro la commissione. Sono certo che non c'è dolo, anche perché gli elaborati sono anonimi. Si tratta di peccati veniali, non mortali".

Nessun raccomandato, nessun trucco, ma Marsano ammette le sviste dei correttori. Errori che, di fatto, rischiano di minare la credibilità del concorso. "Dall'esterno tutto può apparire in una luce distorsiva. Si metta nei panni dei commissari: rivedere per mesi e mesi temi sempre uguali dalle 8 di mattina alle 9 di sera è un lavoro improbo, sfido chiunque a farlo. Errare humanum est", chiosa il notaio. In realtà, l'analisi dei 2 mila scritti è durata ben 16 mesi, con un carico medio di quattro temi al giorno per una commissione che tra presidente, supplenti, effettivi e segretari arriva a 12 componenti. Una lentezza che, se impedisce di aumentare il numero totale di pubblici ufficiali, avrebbe quantomeno dovuto assicurare controlli a prova di bomba.

Figari è deluso, e non lo manda a dire. "È il primo anno che, in modo più o meno organizzato, abbiamo deciso di controllare una parte (piccola) dei compiti ammessi, e molti errori che abbiamo trovato sono davvero pazzeschi. Premiare atti nulli è come perdonare il medico che uccide per sciatteria il paziente o l'ingegnere che fa cadere il ponte costruito male.

Difficile non accorgersi di errori così gravi. Uno scandalo che fa male, perché ho sempre avuto profondo rispetto per la categoria di cui un giorno spero di poter far parte". Il giovane avvocato ritenterà, sperando che l'iter del nuovo concorso sia meno travagliato del precedente. Nato male fin dall'inizio: il giorno degli scritti la tensione era alle stelle, e un candidato scoperto con una cartucciera è stato arrestato dalla polizia penitenziaria per resistenza. Poi i sospetti, le accuse e le denuncie per la correzione. Dulcis in fundo, lo scorso novembre l'unica bocciata agli orali (su 187 ammessi) ha fatto ricorso al Tar per ripetere la prova. Richiesta accettata: i commissari si erano dimenticati di verbalizzare le domande, così hanno dovuto rifare l'esame una seconda volta. Al secondo tentativo la ragazza è stata promossa.

LO CONSTATA LA MAGISTRATURA

COMMISSIONE: COMPONENTI NECESSARI

Sentenza 1855/2000 della IV sezione del Consiglio di Stato: il presidente della Commissione principale è presidente effettivo “di tutte le sottocommissioni in ossequio al principio della par condicio degli esaminandi”.

La sottocommissioni nelle quali si suddivide la originaria commissione giudicatrice designata per l'esame di abilitazione alla professione di avvocato devono necessariamente essere presiedute dall'unico presidente (nella specie, il collegio ha ritenuto illegittima la delega generalizzata conferita dal presidente ai vicepresidenti delle varie sottocommissioni) in ossequio al principio della par condicio degli esaminandi (Cons. Stato, Sez. IV, 31 marzo 2000, n. 1855; Parti in causa Min. giust. c. Daniele; Riviste Foro It., 2000, III, 243).

La commissione d’esame per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, che ha natura di collegio perfetto con funzione decisoria e, quindi, con un proprio quorum essenziale ai fini del funzionamento, è illegittimamente composta non solo nel caso in cui alle sedute non vi sia il plenum dei componenti, ma anche se, pur essendo presenti tutti e cinque i suoi membri, manchi in blocco, a tutte o quasi tutte le sedute, il rappresentante di una delle tre categorie individuate (avvocati, magistrati, docenti universitari, ndr) dall’articolo 22 del Rd 1578/1933. (Tar Basilicata, sentenza 83/2000, in www.giust.it-rivista internet di diritto pubblico).

COPIATURE - TRACCE CONOSCIUTE - PARERI DETTATI IN AULA DAI COMMISSARI

Elaborati conformi. Esclusi i candidati dall’esame di Stato. Nel caso in cui, si riscontri che due o più elaborati scritti risultino conformi tra loro, la Commissione esaminatrice di un pubblico concorso (nel caso di specie, esame di abilitazione alla professione di avvocato) deve procedere all'esclusione di entrambi i candidati, non essendo necessaria l'individuazione del soggetto attivo della copiatura, dovendosi ritenere che gli elaborati, per il solo fatto della loro identità o similarità totale o parziale, sono stati redatti in violazione della regola di comportamento che impedisce ai candidati di comunicare tra loro. (Cons. Stato sez. IV 17-02-2004, n. 616; Ministero della giustizia c. B.; FONTI Guida al Diritto, 2004, 19, 89)

DIFFORMITA’ DI GIUDIZIO E DISPARITA' TERRITORIALI: Il principio di imparzialità.

Il principio d'imparzialità amministrativa che, in generale, significa agire nell'interesse collettivo, non di singoli o di gruppi privilegiati rispetto ad altri, comporta la sua applicazione, da parte degli organi amministrativi non soltanto per gli atti di volontà, ma anche per gli atti di valutazione (Cons. Stato, Sez. IV, 12 marzo 1996, n. 310; Riviste: Foro Amm., 1996, 833, n. Cannada-Bartoli; Cons. Stato, 1996, I, 378).

TEMPO DI CORREZIONE INSUFFICIENTE

CONSIGLIO DI STATO - Sezione VI.  Sentenza 20 giugno 2006, n. 3669

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE……..

Avverso il giudizio di segno negativo proponeva ricorso avanti al T.A.R. Veneto, deducendo articolati motivi di violazione di legge ed eccesso di potere in diversi profili.

Con la sentenza di estremi indicati in epigrafe il T.A.R. adito respingeva il ricorso.

Contro la decisione di rigetto è stato proposto ricorso in appello, con il quale sono state confutate le conclusioni del giudice di prime cure e sono stati rinnovati i motivi di legittimità formulati avverso gli atti della procedura concorsuale, sottolineando in particolare l’ esiguità del tempo dedicato dalla Commissione esaminatrice alla correzione degli elaborati.

In sede di note conclusive l’appellante ha insistito nelle proprie tesi difensive.

L’amministrazione intimata si è costituita in resistenza.

2). L’appello è fondato in relazione all’assorbente motivo con il quale si censura, sotto il profilo del vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria, l’operato della commissione esaminatrice per aver dedicato alla correzione degli elaborati un lasso temporale assolutamente non congruo per la corretta percezione del contenuto degli stessi e per la conseguente formulazione del giudizio di merito.

2.1). Non è contrastato l’assunto della parte istante che - in base alla durata della riunione della Commissione ed al numero degli esiti della prova scritta in tale sede oggetto di correzione - individua in quattro minuti il tempo medio dedicato all’esame ed alla valutazione degli elaborati di ciascun candidato.

In relazione ad identica fattispecie con sentenza n. 2421 del 13.05.2005 la Sezione si è espressa in senso conforme alle deduzioni dell’appellante e non ravvisa ragioni per doversi discostarsi dall’orientamento ivi espresso.

Se invero il giudizio negativo o positivo di una prova scritta può emergere all’evidenza dalla mera lettura di un elaborato che viene fatta da soggetti (i commissari d’esame), che, in virtù della loro competenza specifica, sono chiamati a selezionare i candidati, resta il fatto che l’operazione di correzione dei tre elaborati del ricorrente, che la Commissione era chiamata a valutare, richiedeva una serie di modalità, alle quali ogni commissario si doveva attenere. È stata, infatti, predisposta “una griglia di valutazione” con i seguenti “indicatori”: “correttezza e proprietà linguistica; pertinenza alla traccia e rispetto delle consegne; conoscenza dei contenuti; capacità organizzative e rielaborazione personale”, e la valutazione di ogni quesito doveva essere fatta in base alla media risultante dalla somma dei punteggi di ogni singolo criterio, con il risultato che la valutazione globale è data dalla somma delle valutazioni dei quesiti divisa per tre.

Ora, è chiaro che non si tratta di operazioni particolarmente complesse, specie se tutti i commissari si trovano d’accordo sulla valutazione dell’elaborato da cui emerga all’evidenza l’eccellenza o l’assoluta negatività, ma per ipotesi intermedie il tempo che l’istante indica in quattro minuti per la correzione della prova, articolata nella risposta ancorché in forma breve a tre distinti quesiti (la commissione avrebbe esaminato gli elaborati di oltre 50 candidati in quattro ore), pare eccessivamente ridotto, ed è tale da ingenerare dubbi sul fatto che la lettura della prova scritta sia stata fatta in modo da non suscitare perplessità sul giudizio di non sufficienza espresso. D’altra parte proprio la griglia di valutazione predisposta dalla commissione imponeva a quest’ultima di dover valutare il prodotto intellettuale del candidato sotto quattro distinti profili con un’operazione logica che, in base a comune regola di esperienza, richiede un impegno ragionevolmente eccedente il lasso temporale di poco più di un minuto dedicato alla cognizione ed espressione del giudizio in ordine a ciascuna risposta ai quesiti sottoposti ai concorrenti.

L’appello va, pertanto, accolto, e, in riforma della sentenza impugnata, va dichiarato fondato il ricorso di primo grado, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione, la quale dovrà procedere alla riconvocazione della Commissione esaminatrice per procedere alla correzione della prova scritta del ricorrente.

----------

Consiglio di Stato: quando i tempi medi della correzione degli elaborati sono molto esigui, l’operato dell’organo di esame va ritenuto illegittimo. Una volta verificati, sulla base delle attestazioni contenute nei verbali dei lavori della commissione giudicatrice di un pubblico concorso, i tempi medi utilizzati per la correzione e valutazione dei singoli elaborati, qualora il tempo impiegato risulti talmente esiguo da far dubitare che sia stato materialmente impossibile l’adeguato assolvimento dei prescritti adempimenti e dell’espressione ponderata dei giudizi sulla valenza delle prove, l’operato dell’organo di esame va ritenuto illegittimo (Cons. Stato, sez. IV, decisione 7 marzo – 22 maggio 2000, n. 2915, in Guida dir., 1 luglio 2000 n. 24, con nota dì G. Manzi. E' superato così un precedente orientamento contrario, ancora affermato da Cons. Stato, sez. IV, 09.12.1997, n. 1348)

La terza sezione del Tar Lombardia, con la sentenza 617/2000, ha annullato il giudizio di non ammissione alle prove orali (dell’esame di avvocato 1998-1999) di una candidata milanese i cui tre elaborati erano stati corretti ciascuno in due minuti e 30 secondi. Sulla commissione esaminatrice “discende l’obbligo di ripetere le operazioni di valutazione, rinnovando ora per allora il già espresso giudizio”. La decisione del tribunale è sorretta da una "verificazione" dei tempi di correzione ordinata dal presidente del Tar. Sono stati acquisiti, per la perizia, 60 compiti, che hanno richiesto, per la correzione, sei ore e 39 minuti, contro due ore e 25 minuti impiegati dalla commissione. Ponendo a raffronto i suddetti dati temporali emerge che la sola lettura di essi ha richiesto, invece, mediamente 6 minuti e 33 secondi per ciascun elaborato. La perizia è stata eseguita dal presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, Paolo Giuggioli, che si è avvalso della collaborazione di altri professionisti (Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2000).

MOTIVAZIONE AL GIUDIZIO NUMERICO

Nonostante il contrario orientamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato, la Commissione dell'esame di avvocato, secondo costante giurisprudenza, non può valutare, nel rispetto dell'art. 3, L. 7 agosto 1990, n. 241, le prove mediante una semplice espressione numerica, ma deve motivare adeguatamente il giudizio di insufficienza onde permettere la ricostruzione dell'iter valutativo e il suo assoggettamento al controllo giurisdizionale. (T.A.R. Lombardia Brescia 15-03-2003, n. 329; Malcangi c. Ministero giustizia e altri; FONTI Massima redazionale, 2003)

----------

T.A.R. CALABRIA- SEZ. di CATANZARO- 14 settembre 2006, n. 707..omissis..

Ritenuto che in relazione al pregiudizio prospettato ed alle censure proposte in ricorso, sussistono le ragioni, previste dall'art. 21 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, così come modificato dall'art. 3 della legge 21 luglio 2000, n. 205, per l'accoglimento della domanda cautelare di sospensione del provvedimento impugnato, considerato che il voto numerico, benché di regola sufficiente a motivare un giudizio del genere di quelli di cui si tratta, non appare in grado di supportare una valutazione la cui legittimità è correlata al rispetto di criteri generali stabiliti in sede centrale e, quindi, all'esternazione, anche in forma sintetica, delle ragioni che, alla luce dei criteri stessi, giustificano il giudizio di insufficienza della prova….

----------

TAR VENETO , 1^ Sezione - Sentenza N. 2307/06 del 31 luglio 2006

SUSSISTE il "difetto di motivazione dei provvedimenti" "in relazione all'omessa formulazione di qualsivoglia giudizio, sia pure sintetico, che dia certezza delle valutazioni numeriche attribuite negli elaborati dal candidato."
SUSSISTE, quindi "l'obbligo delle commissioni per gli esami di idoneità alla professione di avvocato di motivare il voto negativo delle prove di esame."
Ad avviso della Sezione, (…), "non par dubbio che il punteggio numerico costituisca esternazione del risultato e non già della motivazione (o giustificazione che dir si voglia) del giudizio valutativo: chi consegue un voto negativo espresso con un punteggio non è messo in condizioni, infatti, di conoscere i motivi del voto negativo. Ma, se così è, non è dato di comprendere come l'attribuzione di un punteggio numerico possa costituire adempimento dell'onere (rectius, dell'obbligo) della motivazione."

IMPEDIMENTO ALL'ACCESSO AL GRATUITO PATROCINIO PRESSO IL TAR PER LE VITTIME DI UN CONCORSO TRUCCATO

La Commissione di Lecce, presso il Tar, ha rilevato una mancanza di fumus, con un improprio e sommario giudizio di merito senza contraddittorio e su elementi chiarissimi ed incontestabili, riconosciuti meritevoli dalla giurisprudenza.

La Commissione di Lecce, composta da magistrati del TAR, ha deciso il diniego, inibendo il proseguo presso l'ufficio del ricorso principale, dall'esito scontato.

Lo hanno comunicato dopo un mese, nel pieno delle ferie e a 15 giorni dalla decadenza del ricorso principale al TAR, impedendogli, di fatto, anche la proposizione del ricorso in forma ordinaria.

SCANDALO RAI: PARLA AGOSTINO SACCA'

Disintegrato dalle intercettazioni sul caso Rai e reintegrato per sentenza sul posto di lavoro. Agostino Saccà, direttore di Rai Fiction indagato dalla procura di Napoli in un’inchiesta di veline e veleni, ha conosciuto in questi mesi il doppio volto della giustizia. Saccà è un tipo coriaceo, dall’identikit multiforme. È la quintessenza del dirigente Rai, ha la consuetudine a trattare con il potere, presenta qualche aspetto decisamente démodé, come la passione per i formalisti russi, ed è passato ai disonori delle cronache come il collettore delle raccomandazioni. Saccà è la Rai, di tutto, di più.

Saccà, è da molto tempo che non usa il telefonino?

No, lo uso continuamente, addirittura a fine mattina s’era esaurita la batteria di uno dei miei due cellulari. La mia vita non è cambiata.

Che impressione le ha fatto leggere le sue telefonate con Silvio Berlusconi?

Non credevo potesse mai accadere, anche se avevo visto tante cose in passato, ma ritenevo a ragione di essere nel giusto perché non avevo nulla da nascondere. Allora non immaginavo vi fosse un Grande orecchio che praticamente ascolta tutti perché tutti parlano con tutti.

Lei ha visto il materiale dell’inchiesta che la riguarda?

Sì, le telefonate sono quelle di un pezzo dell’establishment italiano, non solo politico.

La chiamavano un po’ tutti; destra, sinistra, centro. Tutti segnalavano delle persone, sempre in maniera molto garbata. L’Italia è un paese fondato sul lavoro o sulla raccomandazione?

Guardi, penso che vada così in tutto il mondo.

Berlusconi la chiama per segnalarle attrici come Evelina Manna, Elena Russo e Antonella Troise. Lei che fa?

Le indico al capostruttura per il provino, che viene poi valutato da una commissione che io ho istituito. I miei predecessori facevano di testa loro. Col senno di poi, ho fatto bene per due ragioni: per garantire la qualità e per proteggermi. Sapendo di essere sottoposto a chiamate, potevo rispondere che non ero solo a decidere e dire “non ci posso fare nulla “.

Perché la Rai è un’azienda dove è necessaria la raccomandazione?

Non penso solo alla Rai, ma dappertutto. Il sistema è così in tutti i paesi, solo che all’estero sono più coperti, passano meno attraverso la politica e più grazie alle lobby degli amici e dei sistemi di potere.

Non vorrà far credere che lei era una centrale telefonica che riceveva chiamate da tutti e diceva no a tutti…

No, non dicevo sempre no a tutti.

È vero che tra le persone che ha aiutato c’è la fidanzata di un sodale politico di Walter Veltroni?

Era un consigliere comunale, ma non l’ho aiutata io. E qui mi fermo.

Lei è di destra o di sinistra?

Sono sempre stato di sinistra. Solo che la sinistra oggi sta a destra. L’attenzione ai più deboli e il garantismo oggi sono da quella parte.

L’ex presidente della Rai Enrico Manca ricordava che “anche il Pci raccomandava”. Cosa è cambiato nel sistema rispetto alla Prima repubblica?

Allora la raccomandazione era più organica, c’era come una sorta di canale diretto fra i partiti e i rappresentanti della Rai. Oggi invece telefonano i leader, conta il rapporto individuale tra il dirigente e il leader politico. In passato era una questione di partito, di politica culturale e propaganda.

Il suo deve essere un mestiere poco allegro. Sempre al telefono a ricevere chiamate di raccomandazione.
Cerchiamo di essere obiettivi: ne avrò ricevute una o due a settimana di quelle chiamate. E se le concentriamo in 4 anni… Io non avrei mai tollerato una richiesta meno che educata e perbene. Sono più i no che ho detto dei sì. Credo che Berlusconi mi abbia sempre stimato proprio per i miei no.

Immagino che il suo non fosse l’unico telefono bollente di Viale Mazzini.

Appunto, non scherziamo.

C’è qualcuno che le deve la carriera?

Molti. Ho preso Fiorello che s’era spento alla Mediaset. Ho preso Panariello quando non era nessuno e ho investito su di lui. Ho recuperato Morandi, lanciato lo show di Celentano.

Si è guardato molto in questa storia al “lato b” della faccenda, alle femmine. Ma immagino che le raccomandazioni non arrivassero solo per le belle donne ma anche per gli uomini.

Assolutamente sì. Persone importanti chiamavano per segnalare anche attori bravi.

Torniamo alle raccomandazioni. Che cosa hanno in comune Antonella Troise, Evelina Manna ed Elena Russo?

Tutti gli attori cercano un posto, ma c’è un problema: tutti vogliono essere protagonisti, però protagonisti si nasce.

Andare a letto con un dirigente Rai o con un politico potente aiuta o no?

Il confronto e il conflitto tra i sessi si gioca in mille modi. Così va il mondo da sempre, non è che voglio essere disincantato, è un dato antropologico. E non mi scandalizza.

SCANDALO RAI: PARLA FRANCESCO COSSIGA

Presidente Cossiga, è vero che si autodenuncerà per aver commesso fatti analoghi a quelli imputati dalla procura di Napoli a Silvio Berlusconi per la famosa telefonata con Agostino Saccà?

«Certamente, lo farò lunedì, presso la stazione dei carabinieri territorialmente competente».

Qual è il motivo di questo gesto?

«L’illuminazione mi è venuta dopo la richiesta di rinvio a giudizio per Berlusconi per il quale non ho mai votato ma che è mio amico personale. Berlusconi è senza dubbio il maggior perseguitato giudiziario della storia d’Italia, quasi a pari punti con Giulio Andreotti. Ci dimentichiamo troppo spesso che in questo Paese hanno condannato Andreotti in prima istanza per collusione con la mafia e come mandante dell’omicidio di quel famoso giornalista di Op. E a muoversi è sempre il pacchetto di mischia di Palermo e Perugia».

Lei si autodenuncia come «raccomandatore-confesso». A favore di chi spese la sua influenza?

«Dopo la vittoria del centrosinistra intervenni a favore di Donna Bianca Berlinguer, ovvero di mia nipote, perché le fosse assicurata una posizione di maggior rilievo nel Tg3, e della signora Federica Sciarelli, già peraltro premiata con l’affidamento della conduzione della brillante trasmissione “Chi l’ha visto?”. E ciò al fine di rafforzare la sua influenza nella Rai».

Federica Sciarelli le manda a dire che lei, in Rai, è entrata per concorso.

«Guardi che è tutto vero quello che dico, non me lo sto certo inventando! Non ho raccomandato per l’assunzione Federica Sciarelli perché lei era dipendente del Senato e poi ha vinto una borsa di studio e siccome è brava è passata in Rai. Comunque non rispondo alla signora Sciarelli perché non voglio vedermi notificato un avviso di garanzia da parte di qualche sostituto procuratore della Repubblica di Potenza».

Bianca Berlinguer nega di aver mai richiesto il suo intervento. E la prega di astenersi per il futuro da simili raccomandazioni.

«Da sardo pronipote di un pastore e di un aristocratico della piccola nobiltà giacobina sarda non posso permettermi di replicare a una ragazza, anzi a una già ragazza, dell’aristocrazia sardo-catalana. Comunque Donna Bianca può stare tranquilla: con il cognome che porta non avrà alcun problema né danno. Anzi se torna Berlusconi la promuoverà subito e, anche se non ce n’è bisogno, sarò io stesso a richiederlo».

Ma questi interventi da chi le furono sollecitati?

«Ma da loro due in persona! La signora Sciarelli venne a chiedere che intervenissi sul capo del personale affinché le fosse aumentato lo stipendio. Donna Bianca Berlinguer venne a chiedere una posizione più eminente».

Il suo intervento andò a buon fine?

«Le raccomandazioni a favore di Donna Bianca Berlinguer non partorirono alcun risultato positivo. Quelle a favore della signora Sciarelli ebbero sul piano economico un risultato largamente positivo».

Perché a distanza di anni ha tirato fuori questa vicenda?

«Venerdì ho sentito Donna Bianca condurre una trasmissione di insulti su Mastella con la consueta faziosità e mi è tornata in mente questa vicenda».

Non le dà fastidio essere etichettato come «raccomandatore»?

«Ascoltai personalmente l’omelia di un cardinale che definiva le raccomandazioni un atto di carità cristiana. D’altra parte le segnalazioni sono un istituto mondiale. Erano la prassi nella burocrazia britannica. Così come a West Point si entra soltanto dietro segnalazione dei senatori dei diversi Stati della Confederazione».

Non ha mai fatto mea culpa per qualche raccomandazione concessa alla persona sbagliata?

«Ma no. E poi nelle campagne elettorali tutti usano le raccomandazioni. D’altra parte mi sa dire uno che in Rai non sia raccomandato? Io non ne conosco».

Ci faccia il nome di un altro suo raccomandato illustre.

«Be’, ad esempio il mio amico Giuseppe Fiori che poi ha scritto libri bellissimi anche su Enrico Berlinguer. Fui io a farlo assumere alla Rai di Cagliari e poi a farlo trasferire a Roma».

Lei parla apertamente di raccomandazioni. Perché ancora oggi c’è questo velo di ipocrisia sulle vicende Rai e nessuno dei suoi colleghi riesce ad ammettere ciò che è sotto gli occhi di tutti?

«Perché per fare politica, saper dire bugie non è necessario ma è utile. Anzi essere ipocriti è utile. Basta pensare a Rosy Bindi che va alla dimostrazione a favore del Papa. Ma come! Una cattolica adulta e una cattolica democratica che si è schierata contro le Dichiarazioni teologiche della Congregazione della Dottrina della Fede emanate da Ratzinger, e contro le direttive della Conferenza episcopale italiana partecipando al coro dei detrattori del cardinal Ruini va a dimostrare la sua solidarietà a un Papa di cui non condivide l’insegnamento?».

L’Unità 20-5-2007 Tutti parenti, alla Rai? Ma anche Mediaset tiene famiglia. Di Marco Travaglio

Tutti parenti, alla Rai? Ma anche Mediaset tiene famiglia Una valanga di parenti al Biscione. E in viale Mazzini l'ex Premier ha imposto molti dei suoi: dirigenti, conduttori, giornalisti di Marco Travaglio

NEL REPARTO FRATELLI & SORELLE, Angela Buttiglione, Nicola Cariglia, Sandro Marini, Antonio Sottile (nel senso di Salvo, quello del caso Gregoraci), Maria Zanda.

NEL REPARTO MOGLI & MARITI: Roberta Carlotto (consorte di Alfredo Reichlin), Simona Ercolani (di Fabrizio Rondolino), Ginevra Giannetti (di Altero Matteoli), Giuseppe Grandinetti (marito della senatrice verde Loredana De Petris), Anna Scalfati (moglie di Giuseppe Sangiorgi, membro demitiano dell'Agcom).

NEL RESTO DEL PARENTADO: Ferdinando Andreatta (nipote di Nino), Adriana Giannuzzi (cognata dell'ex senatore Ernesto Stajano), Alfonso Marrazzo (cugino di Piero), Marco Ravaglioli (genero di Andreotti), Tommaso Ricci (cognato di Buttiglione), Luigi Rocchi (genero di Biagio Agnes).

Poi ci sono i fuoriclasse della Grande Famiglia Rai: il turbo-berlusconiano Agostino Saccà, direttore della Fiction, s'è portato la nuora spagnola, Sandra Steinert Jorge Santos, e il figlio Enrico Silvestrin, attore nelle fiction; il capo del Personale Gianfranco Comanducci, intimo di Previti, ha la moglie Anna Maria Callini dirigente alla segreteria di Raidue e la cognata Ida Callini responsabile Risorse umane Corporate.

Quanto ai raccomandati, il Cavaliere portò in viale Mazzini la sua bionda segretaria Deborah Bergamini, ora direttore Marketing; l'ex dirigente Fininvest e poi di Forza Italia Alessio Gorla, capo dei palinsesti da poco in pensione (la cui moglie si occupava dei casting); l'ex addetto stampa forzista Riccardo Berti, promosso conduttore di "Batti e ribatti" al posto di Biagi; e poi Marcello Ciarnò, che prima si occupava degli spostamenti di Berlusconi e ora vicedirige il Centro di produzione Rai. Senza dimenticare Mario Bianchi, passato direttamente da Publitalia ad amministratore della Sipra, cioè della diretta concorrente. E l'ex deputato forzista Fabrizio Del Noce, direttore di Rai1, che poi ha fatto assumere come funzionario Gianluca Ciardelli, figlio della segretaria di Licio Gelli. E l'ex vicedirettore del Tg5 Clemente J. Mimun, passato a dirigere il Tg1: ora, compiuta la missione, torna al Tg5 da direttore.

Naturalmente l'essere parenti non esclude l'esser bravi. Anzi, ce ne sono parecchi, di bravi.

Ma l'aspetto curioso dell'intemerata berlusconica è che a casa sua, MEDIASET, se possibile, è anche peggio.

Nel '95,quando il Cavaliere fece una sparata simile su "Parentopoli", il settimanale "Cuore" si divertì a elencare i parenti nelle sue aziende: il fratello-prestanome Paolo al Giornale (con figlia Alessia al seguito) e all'Edilnord; i figli Marina e Piersilvio detto Dudi a Mondadori e a Mediaset; Guido Dall'Oglio, fratello della prima moglie, "coordinatore dei jingle" della Fininvest; lo zio Luigi Foscale e signora al teatro Manzoni; il cugino Giancarlo Foscale alla Standa e sua moglie Candia Camaggi alla finanza estera in Svizzera; Yives Confalonieri, figlio di Fedele, dirigente a Publitalia insieme al cugino Guido; Lella, nipote di Confalonieri, giornalista al Tg5, col marito Carlo M. Lomartire a Studio Aperto; poi la famiglia Dell'Utri, con Marcello e il gemello Alberto a Publitalia (e dunque a Forza Italia), e un nipote al Giornale. Poi i figli degli amici: quello di Malgara, re dei pubblicitari e dell'Auditel, a Publitalia; quello del giudice corrotto Diego Curtò, inviato del Tg4; quella di Roberto Gervaso, che reclutò il Cavaliere nella P2, al Tg5; e la sorella dell'avvocato Dotti al Tg4. Ora, 12 anni dopo, la lista va aggiornata.

Alla Camera siede Mariella Bocciardo, prima moglie di Paolo Berlusconi. Al Giornale ha una rubrica fissa l'ex fidanzata dello stesso Paolo, Katia Noventa, mentre Silvia Toffanin, compagna di Dudi, conduce "Verissimo" su Canale5 e ha una rubrica su Libero.

MA IL MEGLIO E' IL TG5: più che un telegiornale, un Family Day, pieno com'è - direbbe il padrone - "di fratelli, sorelle, cugini, parenti e affini dei protagonisti della vecchia e nuova politica". Lucrezia Agnes, figlia del dc Biagio. Chiara Geronzi, figlia del banchiere Cesare e cofondatrice della Gea con i figli di Moggi, Tanzi, Cragnotti, Lippi, Calleri e De Mita. Giancarlo Mazzucchelli, figlio della moglie di Petruccioli. Fabio Tricoli, nipote dell'avvocato di Dell'Utri. Valentina Loiero, figlia del governatore Agazio. La vaticanista Marina Ricci, sorella di Rocco e Angela Buttiglione. Giulio De Gennaro, figlio del capo della Polizia Gianni. Sebastiano Sterpa, figlio del forzista Egidio. Elena Caputo, figlia del giornalista e poi sottosegretario forzista Livio. Silvia Reviglio, figlia dell'ex ministro socialista Franco. Giuliano Torlontano, figlio del ds Glauco. Ultimo arrivo: Barbara Palombelli in Rutelli. A Studio Aperto lavora Alessandro Del Turco, figlio del più noto Ottaviano, e da pochi giorni Alfredo Vaccarella, figlio del giudice costituzionale uscente Romano. Il figlio dell'ex presidente della Consulta Vincenzo Caianiello invece si chiama Guido e lavora per Rete4. Poi ci sono Martelli e Pivetti. Non sono parenti dell'ex ministro pregiudicato e dell'ex presidente della Camera. Sono proprio loro.

(Giampaolo Letta, figlio di Gianni, è vicepresidente di Medusa Cinema. Yves Confalonieri, figlio di Fedele, è direttore generale di Mediadigit. Lella Confalonieri, nipote di Fedele. Pietro Suber, genero di Corrado Augias. Lucrezia Agnes, figlia di Biagio. Donata Scalfari, figlia di Eugenio. Veronica Gervaso, figlia di Roberto. Chiara Geronzi, figlia del banchiere Cesare. Barbara Parodi, moglie di Paolo Mieli. Giangiacomo Mazzucchelli, figlio di Giovanna Nuvoletti, moglie di Claudio Petruccioli. Isabella Josca, figlia dell'ex corrispondente del Corriere della Sera Giuseppe. Eduardo Orlando, figlio del giornalista Federico. Marina Ricci, sorella di Rocco e Angela Buttiglione.

La Rai non è soggetta a interferenze politiche. Va detto. E’ invece un ambiente familiare di figli, padri, cugine, cognati e nuore. Impermeabile ai partiti. Un blocco di relazioni indistruttibile che sopravvive a qualunque governo. Con matrimoni combinati sin dalla nascita tra i figli di capostrutture e di programmisti. Una difesa naturale dall’ingerenza della politica e anche della libera informazione. Una riaffermazione dei valori della famiglia e dell’impiego statale. L’elenco che pubblico è in rete da tempo. E’ probabile che sia incompleto o in parte superato. E che tra relazioni affettuose e accoppiamenti dei circa 11 mila dipendenti del gruppo, all’interno e all’esterno della struttura, il numero dei figli di, nipoti di, cognati di, sia proliferato. Un po’ come avviene nelle conigliere.

Figli (f): Tinni Andreatta, responsabile fiction di Raiuno, (f) dell'ex ministro dc Beniamino. Natalia Augias, Gr, (f) del giornalista e scrittore Corrado. Gianfranco Agus, inviato, (f) dell'attore Gianni. Roberto Averardi, Gr, (f) di Giuseppe, ex deputato Psdi. Francesca Barzini, Tg3, (f) dello scrittore e giornalista Luigi junior. Bianca Berlinguer, conduttrice del Tg3, (f) di Enrico, segretario del Pci. Barbara Boncompagni, autrice, (f) di Gianni. Claudio Cappon, direttore generale, (f) di Giorgio, ex direttore generale dell'Imi. Antonio De Martino, Gr, (f) dell'ex ministro socialista Francesco. Antonio Di Bella, direttore Tg3, (f) di Franco, ex direttore del "Corriere della Sera". Claudio Donat-Cattin, capostruttura Raiuno, (f) dell'ex ministro democristiano Carlo. Jessica Japino, programmista regista delle edizioni di "Carramba", (f) di Sergio. Giancarlo Leone, amministratore delegato di Rai Cinema e responsabile della Divisione Uno, (f) dell'ex presidente della Repubblica Giovanni. Marina Letta, contrattista a tempo determinato, (f) di Gianni, sottosegretario alla Presidenza a Palazzo Chigi. Pietro Mancini, Gr, (f) del socialista Giacomo. Maurizio Martinelli,Tg2, (f) del giornalista Roberto. Stefania Pennacchini, Relazioni istituzionali Rai, (f) di Erminio, ex sottosegretario Dc. Claudia Piga, Tg1, (f) dell'ex ministro dc, Franco. Francesco Pionati, notista politico del Tg1, (f) dell'ex sindaco di Avellino. Alessandra Rauti, redattore del Gr, (f) di Pino, segretario del Movimento Sociale-Fiamma Tricolore. Silvia Ronchey, autrice e conduttrice di programmi, (f) di Alberto, ex ministro dell'Ulivo ed ex presidente di Rcs. Paolo Ruffini, direttore Gr, nipote del cardinale e (f) di Attilio, ex deputato e ministro dc. Sara Scalia, capostruttura di Raidue, (f) della giornalista Miriam Mafai. Maurizio Scelba, Tg1, (f) di Tanino, ex portavoce del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Mariano Squillante, ex corrispondente da Londra, poi a RaiNews 24, (f) dell'ex giudice Renato. Giovanna Tatò, Raitre, (f) di Tonino, consigliere di Enrico Berlinguer. Carlotta Tedeschi, Gr, (f) di Mario, senatore Msi. Daniel Toaff, capostruttura e autore della ‘Vita in diretta’, (f) dell 'ex rabbino di Roma, Elio. Stefano Vicario, regista di Giorgio Panariello, (f) del regista cinematografico Marco. Rossella Alimenti, Tg1, (f) di Dante, ex vaticanista Rai. Paola Bernabei, Ufficio stampa, (f) dell'ex direttore generale della Rai, Ettore, proprietario della società di produzione Lux. Giovanna Botteri, Tg3, (f) di Guido, ex direttore sede Trieste Rai. Manuela De Luca, conduttrice Tg1, (f) di Willy, ex direttore generale Rai. Giampiero Di Schiena, Tg1, (f) di Luca, ex direttore dc del Tg3. Annalisa Guglielmi, sede Rai di Milano, (f) di Angelo Guglielmi, ex direttore di Raitre. Piero Marrazzo, conduttore di ‘Mi manda Raitre’, (f) dello scomparso giornalista Giò. Simonetta Martellini, Raiuno, (f) di Nando, radiocronista sportivo. Luca Milano, dell' ufficio contratti, (f) di Emanuele, ex direttore Tg1 ed ex vice direttore generale. Barbara Modesti, Tg1, (f) dell'annunciatrice Gabriella Farinon e del regista Rai Dore. Monica Petacco,Tg2, (f) di Arrigo, storico e consulente di programmi Rai. Andrea Rispoli, Raidue, (f) del conduttore Luciano, ex Rai. Fiammetta Rossi, Tg3, (f) di Nerino, ex direttore del Gr2, e moglie del ex segretario dell'Usigrai, Giorgio Balzoni, caporedattore al politico del Tg1. Cecilia Valmarana, (f) di Paolo, uno dei padri del cinema coprodotto dalla Rai, nella struttura di RaiCinema. Paolo Zefferi, (f) di Ezio, giornalista, è a Rainews 24.

Fratelli (fr) e sorelle (s): Angela Buttiglione, direttore dei Servizi Parlamentari, (s) di Rocco, segretario del Cdu. Nicola Cariglia, sede Rai di Firenze, (fr) di Antonio, ex segretario del Psdi. Silvio Giulietti, telecineoperatore nella sede Rai di Venezia, (fr) di Giuseppe, uomo Rai e Usigrai, ex responsabile dell'informazione dei Ds. Max Gusberti, vice di Stefano Munafò a Raifiction, (fr) di Simona, capostruttura di Raidue. Sandro Marini, Tg3, (fr) di Franco, ex segretario del Ppi. Giampiero Raveggi, capostruttura di Raiuno, (fr) dell'ideatore del programma "Odeon" Emilio Ravel (nome d'arte). Antonio Sottile, programmista regista di "Linea Verde'', (fr) di Salvo, portavoce di Gianfranco Fini. Maria Zanda, capo della segreteria di Roberto Zaccaria, (s) di Luigi, ex responsabile dell'Agenzia del Giubileo.

Mogli e mariti (m): Milva Andriolli, sede Rai di Venezia, è l'ex (m) di Silvio Giulietti, fratello di Giuseppe. Anna Maria Callini, dirigente alla segreteria di Raidue, (m) di Gianfranco Comanducci, vice direttore della Divisione Uno. Roberta Carlotto, direttore Radiotre, (m) dell'ex esponente Pci Alfredo Reichlin. Sandra Cimarelli, Palinsesto Raidue, (m) di Franco Modugno, direttore dei Servizi immobiliari Rai. Antonella Del Prino, collaboratrice a "La vita in diretta", (m) del giornalista Oscar Orefice. Simona Ercolani, autrice di programmi Rai, (m) del giornalista Fabrizio Rondolino, ex portavoce di Massimo D'Alema. Paola Ferrari, conduttrice, (m) di Marco De Benedetti. Anna Fraschetti, vice del capo ufficio stampa Bepi Nava, (m) di Mario Colangeli, vice direttore Tg3 e sorella di Luciano, quirinalista Tg3. Giovanna Genovese, compagna di Sergio Silva, padre della ‘Piovra’ è delegata alla produzione. Ginevra Giannetti, consulente Rai International, (m) di Altero Matteoli, ministro dell'Ambiente, An. Giuseppe Grandinetti, Gr, (m) della senatrice verde Loredana De Petris. Francesca Manuti, produttrice di "Sereno variabile" di Raidue, (m) di Paolo Carmignani, vicedirettore Raidue. Lucia Restivo, capo struttura Raidue, (m) di Sergio Valzania, direttore Radiodue. Anna Scalfati, Tg1, conduttrice di programmi, (m) di Giuseppe Sangiorgi, membro dell'Authority ed ex portavoce di De Mita. Cristina Tarantelli, Servizi Parlamentari, (m) di Carlo Brienza, RaiSport. Daniela Vergara, anchorwoman del Tg2, (m) del conduttore Luca Giurato.

Nipoti (n), cognati (c) e vari: Ferdinando Andreatta, dirigente di Rai- Way, (n) di Nino. Guido Barendson, conduttore Tg2, (n) di Maurizio. Aldo Mancino, dirigente RaiWay (n) dell'ex presidente del Senato, Nicola. Giuseppe Saccà, (n) di Agostino, direttore di Raiuno, nell'orchestra del programma di Raiuno ‘Torno sabato-La lotteria'. Adriana Giannuzzi, ufficio Diritti d'autore, (c) dell'ex senatore ed ex membro del Csm Ernesto Stajano e moglie del vicedirettore della Divisione Due Luigi Ferrari. Alfonso Marrazzo, Tg2, cugino di Piero. Marco Ravaglioli, Tg1, marito di Serena Andreotti, figlia di Giulio. Tommaso Ricci, Tg2, (c) di Angela e Rocco Buttiglione. Carlotta Riccio, regista, (c) di Claudio Cappon direttore generale Rai. Luigi Rocchi, dirigente area Business&development, genero di Biagio Agnes. Laura Terzani,Tg3, nuora di Antonio Ghirelli.

- Richiesta di integrazione: Milva Andriolli è entrata in RAI per concorso (bandito dall'azienda nel '88) e ha incontrato il futuro e poi ex marito Silvio (e futuro e poi ex cognato Beppe) solo nel '92 con l'assunzione presso la sede di Venezia il 2 marzo 1992 (il matrimonio il 26 agosto 1992).
- L'avv. Luca Silvagni, legale del dott. Stefano Ziantoni, comunica quanto segue: "Contrariamente a quanto sino ad oggi pubblicato nella lista denominata "Conigliera RAI" preciso che Stefano Ziantoni non è figlio di Violenzio, ex presidente della provincia di Roma". Ne prendo atto, invitando gli utenti del blog a fare altrettanto.

Riforma Gelmini, inefficace contro i concorsi accademici truccati, ma almeno utile contro parentopoli? Macchè!! Da “Il Messaggero” e dal “Il Corriere della Sera” un ampio resoconto.

Per qualcuno potrebbe essere l’ultimo colpo di coda di parentopoli. Per altri la continuazione di una saga inarrestabile che si tramanda di padre in figlio passando per i nipoti (rare volte spingendosi fino ai trisavoli). E’ successo, dunque a poche ore dalla verosimile approvazione da parte del Senato della legge Gelmini che prevede la proibizione di chiamate universitarie per parenti di dirigenti accademici fino al IV grado.

Università Roma 2, Ateneo di Tor Vergata, quello della spianata, che ospitò la Giornata mondiale della gioventù nel Giubileo 2000. La grande croce è sempre lì. Il rettore no, è cambiato. Da quasi due anni c’è Renato Lauro, 71 anni, preside della Facoltà di Medicina eletto con 727 preferenze. La stessa università che ha chiamato come professore associato alla cattedra di Malattie dell’apparato respiratorio la dottoressa Paola Rogliani. Chi è? E’ la nuora del rettore. Il posto che arriva in zona Cesarini delimita un’epoca. A ridosso del Natale, sotto l’albero, riunisce suocera, figlia e nuora, in pratica mezza famiglia. Nella stessa facoltà e nello stesso dipartimento infatti c’è anche il marito della signora, nonché figlio del rettore, Davide Lauro, 41 anni, professore ordinario di Endocrinologia, cattedra detenuta prima di lui dal padre. E ci sarebbe anche il “nipote”, il dottor Alfonso Bellia, ricercatore di medicina interna. Ma il Magnifico nega quest’ultimo ramo di parentela. «Con il professor Bellia - chiarisce una volta per tutte - non c’è nessun legame neanche leggero di parentela, mi viene attribuito solo perché è siciliano come me». Già. In fatto di parentopoli non esiste una geografia. I legami travalicano qualsiasi confine, le nostre regioni, così diverse tra loro, nel malcostume etico si somigliano più o meno tutte. Renato Lauro, preside della facoltà di Medicina dal 1996 al 2008, oltre a essere rettore e anche direttore del dipartimento clinico di Medicina, quello nel quale lavorano i suoi congiunti, del Policlinico Tor Vergata. La nuora chiamata in cattedra in extremis. Come lo spiega? «Lei scherza? Sono concorsi regolarmente banditi nel 2008, quando io non ero ancora rettore. Inoltre, faccio notare che la legge Gelmini, non ancora approvata, non abolisce i professori, stabilisce solo che i ricercatori sono una qualifica ad esaurimento». «Per gli stessi bandi - continua il rettore - sono stati chiamati già una ventina di vincitori di concorso. Ma vincere non vuol dire prendere servizio visto che ci sono, come è noto, problemi di budget».

In altri punti la legge Gelmini potrebbe prestarsi ad interpretazioni. Su questo punto è chiara: prevede che nelle assunzioni per ordinario e associato siano esclusi i consanguinei dei professori appartenenti al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata. Di docenti ma anche di rettori, direttori generali e consiglieri di amministrazione. E fissa anche un limite per i rettori: potranno rimanere in carica un solo mandato, per un massimo di 6 anni. Nel caso di Tor Vergata, se approvata la legge, Renato Lauro potrebbe avere una proroga di 2 anni dell’incarico rettoriale e restare in carica dunque fino alla quasi venerabile età di 74 anni. Di lui si parlò come «lo zio» cui faceva riferimento nelle intercettazioni l’ex direttore dei Lavori pubblici Angelo Balducci finito in carcere per gli appalti del G8 alla Maddalena. Finito in pasto ai taccuini in quei giorni “caldi”, Lauro rispose: «E allora? Sì, sono io “lo zio” di cui si parla nelle intercettazioni, ma io sono un medico, non sono Provenzano». Durante un incontro con il corpo accademico dell’Ateneo romano, il rettore era stato duramente contestato. E già in passato era finito nell’elenco dei parentopolati per la chiamata del figlio Davide, vincitore, circa 4 anni fa, di un concorso di professore ordinario, non di Medicina interna, ma di tecnologie biomediche, poi passato in endocrinologia. Lauro commenta: «Mio figlio se n’era andato negli Usa a studiare e lì stava benissimo. Basta guardare il suo curriculum per mettere tutti a tacere. Stesso dicasi per gli altri professori associati che hanno vinto i concorsi del 2008: controllate, sono tutti figli di nessuno».

Vigilia dell'approvazione della riforma Gelmini, ultimi colpi di coda dei Baroni. Infatti ecco che spuntano nuove assunzioni e promozioni di parenti negli atenei La Sapienza e Tor Vergata. I protagonisti: i familiari dei rettori: Luigi Frati e Renato Lauro. A poche ore dall'approvazione del ddl università, che impone lo stop alle parentopoli (purtroppo solo attraverso un emendamento dell'ultim'ora) che vieta a padri, figli e parenti di stare negli stessi dipartimenti, sembrerebbe che nei due atenei capitolini si pensi di più a sistemare le famiglie che ai problemi dell'università.

SAPIENZA - Alla Sapienza, Giacomo, 36 anni appena, figlio del rettore Luigi Frati, sta passando da professore associato a quello di ordinario. Le procedure formali sono andate in porto il 19 novembre 2010. Appena in tempo per schivare l'approvazione del ddl. Giacomo Frati, dunque, sarà ordinario a Medicina, la stessa facoltà dove fino a poco tempo fa insegnava la madre e dove insegna anche la sorella Paola, ordinario, laureata in Giurisprudenza. Stessa facoltà di cui il padre è stato preside per anni. Stessa facoltà dove fino a poco tempo fa, prima di andare in pensione, insegnava Storia della medicina la madre di Giacomo e Paola. Cioè Luciana Rita Angeletti, professoressa ordinaria moglie del Magnifico Frati. Proprio lei che prima di approdare nell'università del marito per occuparsi di Storia della medicina, insegnava Lettere al liceo. Quindi ci fu un momento in cui Luigi, Rita, Giacomo e Paola lavoravano allo stesso indirizzo. Anzi festeggiavano il matrimonio di quest'ultima nell'aula Grande di Patologia Generale. Oggi tutta la famiglia Frati può fregiarsi dello straordinario titolo di ordinario.

TOR VERGATA - A Tor Vergata sarebbe stata assunta come professore associato alla cattedra di malattie dell'apparato respiratorio la dottoressa Paola Rogliani, nuora del rettore Renato Lauro, 71 anni, ex preside di Medicina e Chirurgia (stesso percorso di Frati), che respinge le accuse spiegando che i concorsi sono stati banditi «nel 2008», molto prima delle norme anti-parentopoli della Gelmini. Il rettore ha anche il figlio Davide, 41 anni, ordinario di Endocrinologia. Come il padre prima di lui.

I PRECEDENTI - Prima di Lauro era stato Magnifico per 12 lunghi anni Alessandro Finazzi Agrò che si ritrovava nella solita facoltà di Medicina e Chirurgia del suo ateneo non solo il figlio Enrico (professore associato) ma anche i nipoti di primo grado Calogero Foti e Gaetano Gigante (entrambi professori di Medicina riabilitativa con tanto di cattedra e primariato al Policlinico Tor Vergata). Mentre l’altro figlio, Ettore, è ordinario alla facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, tanto per dare il quadretto familiare al completo. Il binomio padri-figli non è però un'innovazione introdotta dagli ultimi rettori. Alla Sapienza Frati ha illustri predecessori: Renato Guarini prima (con le figlie Maria Rosaria e Paola Paola, e il genero Luigi Stedile nei ruoli tecnici) e prima ancora Giuseppe D’Ascenzo (con il figlio Fabrizio) tenevano famiglia in università. Insomma una tradizione che si tramanda da generazioni rettoriali.

Su "Repubblica", su "L'Espresso", su "Panorama" e su altri organi di stampa non si fa che approfondire il fenomeno del nepotismo accademico. Di seguito il riporto delle varie inchieste. Il 13 Settembre 2010 a Palermo, un ragazzo, un cervello italiano, è volato dall'ultimo piano della facoltà di Filosofia. Si è suicidato. Aveva 27 anni, si chiamava Norman Zarcone, era un dottorando in Filosofia del linguaggio e, racconta il padre, da qualche tempo era particolarmente deluso, depresso: gli avevano fatto capire, senza mezzi termini, che per lui non c'era spazio nell'università italiana. Qualche mese prima un altro ragazzo, cinque anni più giovane, Gianmarco Daniele, aveva presentato a Bari, capitale del nepotismo accademico italiano, una tesi di laurea: "L'università pubblica italiana: qualità e omonimia tra i docenti", una ricerca nata per raccontare come le università italiane siano in mano a un gruppo di famiglie. E per documentare come esista un nesso scientifico tra nepotismo e il basso livello della didattica e della ricerca. Daniele ora è all'estero, con una borsa di studio europea. Ma davvero nell'università italiana non c'è spazio per questi talenti, solo per i parenti? Quali sono le grandi dinastie di casa nostra? E a due anni dalla "svolta anti-baroni" annunciata dal ministro Maria Stella Gelmini - che ora torna a invocarla per giustificare nuovi tagli - i baronati stanno davvero segnando il passo? O sono ancora loro a comandare?

LA TOP TEN

A Bari, nella facoltà di Economia, la stessa dove si è laureato Daniele, è cambiato poco. L'economista Roberto Perotti, italiano formatosi al Mit di Boston, in un saggio del 2008 "L'università truccata" (Einaudi) aveva indicato quello come il caso limite, "tanto incredibile da raccontare in tutto il mondo". A Economia 42 docenti su 176 hanno tra loro legami di parentele, il 25 per cento, record assoluto in Italia. I leader indiscussi a Bari e in Italia nella classifica delle famiglie restano così i Massari. Commercialisti affermati, con un passato nel Partito socialista di Craxi, in cattedra hanno almeno otto esponenti, tutti economisti. Uno di loro doveva essere anche in commissione durante la laurea di Daniele, peccato che quel giorno avesse un impegno. "Abbiamo vinto tutti concorsi regolarissimi", rispondono loro, quando vengono tirati in ballo. I capostipiti della dinastia sono i tre fratelli, Lanfranco, Gilberto e Giansiro, che hanno in mano il dipartimento di Studi aziendali e giusprivatistici e, seppur nell'ombra, l'intera facoltà. Le nuove leve sono invece Antonella (ordinaria a Lecce), Stefania, Fabrizio (tutti e tre figli di Lanfranco), Francesco Saverio e Manuela. A fare concorrenza ai Massari, in facoltà, c'è la famiglia Dell'Atti (6) e quella dell'ex rettore Girone, con cinque parenti in cattedra: ci sono Giovanni e la moglie Giulia Sallustio, ormai in pensione, il figlio Gianluca, la figlia Raffaella e il genero Francesco Campobasso. A Foggia conta ancora molto la dinastia dell'ex rettore, Antonio Muscio, secondo con 7 parenti nella top ten nazionale con la new entry Alessandro, assunto nell'ultimo giorno di rettorato del papà e nella sua stessa facoltà, Agraria. Nell'ateneo lavoravano anche mamma Aurelia Eroli (dirigente amministrativa, ora in pensione), la figlia Rossana, la nipote Eliana Eroli, il genero Ivan Cincione e la sorella Pamela. A Roma le grandi casate sono due: i Dolci e i Frati. Un figlio di Giovanni Dolci, uomo chiave dell'odontoiatria italiana, è Alessandro, ricercatore a Tor Vergata. La moglie, Alessandra Marino, è ricercatrice alla Sapienza. Dove lavora anche il genero di Dolci, Davide Sarzi Amedè, marito di Chiara, a sua volta odontoiatra al Bambin Gesù. Un altro figlio di Dolci, Federico, lavora a Tor Vergata, mentre Marco è ordinario a Chieti. Accanto a papà Frati invece c'è sua moglie Luciana Angeletti e sua figlia Paola (insegnano a medicina, ma non sono medici) e il figliolo Giacomo. Sempre molto forti le famiglie a Palermo, come aveva avuto modo di accorgersi Norman Zarcone. Il record è dei Gianguzza, cinque tra Scienze e Medicina. Ma le dinastie palermitane sono cento, sparse in tutte le facoltà, per un totale di 230 docenti "imparentati". Economia è il regno dei Fazio (Vincenzo, Gioacchino, Giorgio), a Giurisprudenza ci sono i Galasso (Alfredo, il figlio Gianfranco, la nuora Giuseppina Palmieri), a Lettere i Carapezza (i fratelli Attilio e Marco, ora associato, il cugino Paolo Emilio, suo figlio Francesco), a Ingegneria (18 famiglie, 38 parenti) i Sorbello o gli Inzerillo, a Matematica i Vetro (Pasquale, la moglie Cristina, il figlio Calogero), Agraria è nelle mani di 11 nuclei familiari. Coincidenze statistiche? Davvero è così nel resto d'Italia e in tutta Europa?

LA RICERCA

Secondo i dati raccolti nella tesi di Daniele, no. Lo studente ha infatti sviluppato un indice medio che misura la percentuale di omonimia in ogni facoltà di ogni ateneo e la percentuale media di omonimia in campioni della popolazione italiana in numero uguale ai docenti presenti nella facoltà osservata. Il risultato è incontrovertibile: in quasi tutti gli atenei l'indice di omonimia è più elevato rispetto alla media nazionale. Dieci volte di più a Catania, poco meno a Messina. Molto superiori alla media sono anche la Federico II di Napoli, Palermo, Bari, Caserta, Sassari e Cagliari. Le più virtuose sono invece Trento, Padova, il Politecnico di Torino, Verona, Milano Bicocca. Certo: non sempre avere lo stesso cognome significa essere parenti. Ma considerando anche che spesso molti familiari di professori hanno cognomi diversi, il dato è un'attendibile quantificazione statistica, per approssimazione, della diffusione del nepotismo. Anche perché gli atenei segnati con la penna rossa da Daniele sono proprio quelli al centro delle inchieste giornalistiche e della magistratura. "Il dato italiano - spiega Daniele - è in controtendenza con il resto d'Europa: quasi ovunque il tasso di omonimia nelle università è minore della media nazionale. Gli atenei tendono ad attrarre docenti da fuori, con cognomi diversi da quelli locali". Lo studio confronta poi i dati sulle omonimie con le valutazioni del Censis sulla qualità delle università. E in media gli atenei con più omonimi sono quelli che producono meno e viceversa. Ma davanti a questi numeri, la politica e il mondo accademico come si comportano? Sono nemici o complici delle grandi famiglie che hanno in mano l'università italiana?

LA RESISTENZA

"Ci prendono in giro", ha tuonato il presidente della conferenza dei Rettori, Enrico Decleva, la cui moglie Fernanda Caizzi è stata condannata in appello, e poi prescritta, per aver pilotato un concorso a Siena nel 2001. "Il qualunquismo sulle parentopoli è una giustificazione per uccidere l'università pubblica". La legge Gelmini approvata al Senato a luglio prevede un codice etico obbligatorio per tutti. Ma a Bari (il primo ateneo ad approvarlo, quattro anni fa) gli escamotage fanno scuola. Virginia Milone è stata assunta quando il padre si è impegnato a trasferirsi nella sede decentrata di Taranto. "Capirai: la nostra facoltà è diventata la valvola di sfogo dei parenti", dice il rappresentante degli studenti Francesco D'Eri. La docente Maria Luisa Fiorella, otorino come il padre, era stata respinta dalla facoltà (a scrutinio segreto). Ora, con un colpo di coda, i baroni vogliono tornare a votare: con l'alzata di mano. Il codice è servito solo a Farmacia: Giulia Camerino ha rinunciato al concorso da ricercatrice bandito nel dipartimento della madre. "Ho studiato tutta una vita, non volevo vivere con un bollino che non meritavo". "Se parliamo di baronati è tutto come prima - dice Mimmo Pantaleo, segretario nazionale della Flc della Cgil - E se le università non bandiscono concorsi, a pagare sono solo i ricercatori figli di nessuno". Il ministro Gelmini promette di trasformarne, con il nuovo piano di programmazione, diecimila in associato. Vuol cambiare la progressione di carriera con un contratto triennale, una successiva valutazione, e quindi un ulteriore contratto triennale per diventare associato. Ma per ora quelli che salgono di grado hanno sempre cognomi pesanti: a Cagliari è appena stato promosso ordinario Francesco Seatzu, figlio d'arte sardo. A valutarlo, in commissione, c'era Isabella Castangia, con la quale Seatzu ha lavorato gomito a gomito negli ultimi anni. "Tutto è come prima, più di prima", attacca Tommaso Gastaldi, professore di Statistica alla Sapienza, instancabile fustigatore del malcostume universitario. L'ultimo esempio, racconta, è la nomina di due docenti: lui aveva previsto i loro nomi già nel 2008. I soliti noti, nonostante i proclami del Governo, continuano a comandare. E non vogliono lasciare il campo ai giovani. Che si ribellano: l'Air, l'associazione italiana dei ricercatori, ha indetto una petizione per bloccare "l'eccessiva "discrezionalità" nei criteri di valutazione dei concorsi universitari".

GLI OVER 70

Molti docenti con più di 70 anni ricorrono ai tribunali amministrativi per posticipare il loro pensionamento, accelerato da una norma voluta dall'ex ministro Fabio Mussi. Vuole rimanere in servizio Emilio Trabucchi, ordinario di Chirurgia e presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Nipote dell'omonimo luminare della Biomedicina e deputato Dc morto nel 1984, Trabucchi ha due nipoti nell'università, Emilio Clementi, straordinario nel dipartimento di Scienze precliniche "Lita Vialba", e Francesco Clementi, ordinario di Farmacologia. "Abbiamo specializzazioni diverse. E in tutti i casi parlano le pubblicazioni", precisa Trabucchi. Ha scelto di ritirarsi, invece, Vittorio La Grutta, nobiltà accademica palermitana: medico il nonno, professore il padre, rettore il fratello (dell'ultima leva è rimasta la figlia, Sabina, psicologa). "Quando siamo saliti in cattedra, eravamo orfani. Ma ce l'abbiamo fatta lo stesso, senza favori". Diverso il destino dei Cannizzaro, altra famiglia storica siciliana. "Stanislao, il grande chimico, era un mio avo - racconta Gaspare, che ora è in pensione ma ha due figli docenti - ma io non sono figlio d'arte. In famiglia c'è sempre stato interesse per la scienza: è una tradizione". A Sassari resistono al pensionamento Mariotto Segni (il cui padre, Giovanni, oltre che presidente della Repubblica è stato rettore) e Giulio Cesare Canalis, il papà della showgirl Elisabetta, direttore della Clinica radiologica. Ma soprattutto l'ex rettore Alessandro Maida, tuttora potentissimo - spinge per bandire 52 concorsi - e ancora per un po' collega dei figli Carmelo e Ivana, piazzati nella sua facoltà, Medicina, del cognato, Giorgio Spanu, della moglie Maria Alessandra Sotgiu, e di altri nipoti e cugini. A Udine, dopo la fusione tra ospedale e università, sono stati nominati i nuovi direttori di dipartimenti. Nessuna sorpresa: i manager, ben pagati, sono tutti baroni di lungo corso come l'ultrasettantenne Fabrizio Bresadola, che ha piazzato il figlio Vittorio, la nuora Maria Grazia Marcellino e un altro figlio, Marco. Laureato in Filosofia ma non per questo escluso: insegna storia della Medicina.

Quattro pronostici azzeccati sui primi cinque concorsi per ricercatore universitario presi in esame da Andrea, il curatore del sito pronosticailricercatore.blogspot.com. Giovane studioso di matematica espatriato per carenza di cattedre (o forse di sponsor adeguati), Andrea ha lanciato il totoconcorsi delle selezioni accademiche svolte con il nuovo sistema. Naturalmente può trattarsi di una coincidenza, o forse i vincitori sono davvero i candidati più qualificati, pertanto non era difficile indovinarne i nomi. Sta di fatto che, esattamente come accadeva con il vecchio sistema, le selezioni accademiche non riservano sorprese.

Per sgombrare il campo da sospetti di combine e favoritismi, la riforma Gelmini del reclutamento universitario (la legge è la numero 1 del 2009) aveva introdotto il principio di casualità nella composizione delle commissioni universitarie. Ovvero, i quattro commissari esterni (due per i ricercatori) non vengono scelti più tramite elezione, ma con un sorteggio tra i primi dodici più votati (i primi sei tra i ricercatori).

Eppure anche in questo caso bisogna registrare un'anomalia. Dal Corriere della Sera si viene a sapere che nelle 1786 commissioni formate per sorteggio per i concorsi da ordinario e associato, si sono dimessi 342 commissari. In sostanza, uno ogni cinque commissari, ed è stato perciò necessario procedere alla sostituzione. In passato le rinunce erano nell'ordine delle decine. Come mai si è arrivati a un tasso di morbilità che sfiora il 20%? Naturalmente perché prima le nomine venivano «concordate», e in qualche caso pilotate. Oggi, invece, è possibile ritrovarsi commissario anche contro la propria volontà. Ma c'è anche chi avanza un altro sospetto: «Una scuola forte, in cui ci sono gruppi di potere consolidati – spiega Giovanni Grasso, docente e animatore del blog Il Senso della misura - può anche condizionare le dimissioni, magari per favorire commissari più malleabili.

Sono tanti con lo stesso nome. Troppi. E anche quando non si chiamano nello stesso modo, spesso sono parenti. Mogli, nipoti, cugini, cognati. Sono loro i padroni dell´Università.

Solo Napoli eguaglia la capitale della Sicilia in questa performance. Palermo è davanti a Catania e a Messina, a La Sapienza di Roma, a Torino, a Milano e a Bari. E il luogo di provenienza dei docenti, come spiega il professore della Bocconi Roberto Perotti nel suo libro «L´università truccata» (Einaudi), è il principale metodo «per quantificare più sistematicamente, anche se indirettamente, il ruolo del nepotismo e delle connessioni nell´università italiana».

L´altro metodo consiste nello studiare la frequenza dell´omonimia.

Se in vita vostra avete solo collaborato a un lavoro «scientifico» di una pagina (una!) scritto con altre cinque persone e presentato a un convegno, ma mai pubblicato su una rivista internazionale, non disperate: potete sempre vincere un concorso universitario - dice Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera" - basta esser nati sotto la giusta congiunzione astrale. Come successe al «professor» Giovanni Lanteri. Che vinse appunto un posto da «associato» all'Università di Messina presentando 2 pubblicazioni. La prima («Studio preliminare sull'espressione immunoistochimica dell'Eritropoietina...») fu subito scartata dagli stessi commissari: «Non venga presa in considerazione ai fini della presente valutazione». La seconda («A new outbreak of photobacteriosis in Sicily») è finita nel fascicolo dell'inchiesta giudiziaria col giudizio del Ministero dell'Università consultato dai magistrati: «Priva di rigore metodologico. Non è possibile individuare il singolo apporto di ciascuno dei sei autori».

L'episodio, sconcertante, è uno dei tantissimi raccolti da Nino Luca, un giornalista del «Corriere.it», in un libro edito da Marsilio: «Parentopoli». Quando l'università è affare di famiglia. Un reportage durissimo e spassoso su uno degli aspetti più controversi dell'università, quello dei concorsi sospetti. Che troppo spesso finiscono col consegnare la cattedra a mogli, figli, cognati, amici e amici degli amici. Immaginiamo già l'obiezione: non ci son solo i baroni e le clientele e le apocalittiche classifiche internazionali! Giusto. È vero che la situazione «cambia drasticamente se si concentra l'analisi sulle singole aree disciplinari» (come ricorda Domenico Marinucci, direttore del Dipartimento di Matematica di Tor Vergata, 19° in Europa tra le eccellenze del settore e meno afflitto dalla cronica povertà di docenti stranieri), vero che nelle «hit parade» avulse la «Normale» è stabilmente nelle prime venti al mondo, vero che tanti ragazzi usciti dai nostri atenei vanno alla conquista del mondo.

Il reportage di Nino Luca, però, proprio per l'abbondanza di episodi così incredibili da risultare irresistibilmente comici, mette spavento. A partire dalla disinvolta e allegra spudoratezza con cui tanti rettori irridono alle perplessità di chi non riesce a capacitarsi di come, ad esempio, possano essere circondati da tanti parenti. Come Gennaro Ferrara, da 22 anni alla guida della Parthenope di Napoli: «Ma lei vuole fare un articolo serio o un articolo scherzoso? No, perché se lei vuole fare un articolo scherzoso, io ci sto». Come mai ha portato con sé all'università la seconda moglie, il di lei fratello, la figlia e i mariti delle due figlie? La risposta: «Se trattiamo “parentopoli” in termini scandalistici non va bene». Poveri figli, poi...«Devono dimostrare ogni giorno di valere...». Alcuni casi raccontati sono noti, come quello d'una torinese bocciata a un concorso che mesi fa si sfogò con «La Stampa» d'esser stata trombata, scusate il bisticcio, perché non aveva «più voluto compiacere sessualmente» il direttore della scuola di specializzazione. O quello della famiglia Massari che «porta l'Università di Bari nel Guinness dei primati» grazie al piazzamento nei dintorni della facoltà di economia di otto-Massari-otto: Antonella, Fabrizio, Francesco Saverio, Gian Siro, Gilberto, Lanfranco, Manuela e Stefania. O quello del preside di Medicina e rettore della «Sapienza» Luigi Frati («Parentopoli? Voi giornalisti sapete fare solo folclore!», ha urlato a Luca), un uomo tutto casa e ufficio dato che nella sua facoltà lavorano la moglie Luciana Angeletti, il figlio Giacomo e la figlia Paola, che nell'aula magna di Patologia ha fatto la festa di nozze. Altri casi sono meno conosciuti. Come quello di un recentissimo concorso per due posti alla Facoltà di Medicina e Chirurgia della Bicocca di Milano con cinque soli concorrenti tra i quali tre figli (due vittoriosi, ovvio) di docenti della stessa Facoltà di Medicina e Chirurgia. O quello della condanna a un anno di reclusione per abuso d'ufficio (pena sospesa) e a uno d'interdizione dai pubblici uffici (per aver danneggiato la professoressa Antonina Alberti durante un concorso) di Fernanda Caizzi Decleva, moglie del presidente in carica della Crui, la conferenza dei rettori.

La cosa più interessante del reportage, però, al di là della sottolineatura di certe bizzarrie (come quella che riguarda l'ex rettore di Bologna Fabio Roversi Monaco, che ha incassato 11 lauree honoris causa da vari atenei mondiali distribuendone in parallelo 160 a gente varia, da Madre Teresa di Calcutta a Valentino Rossi), sono le chiacchierate tra l'autore e alcuni dei protagonisti del mondo accademico italiano. Come quella con Augusto Preti, che diventò rettore a Brescia nel lontanissimo 1983, quando erano ancora vivi Garrincha e David Niven, e scherza: «Io sono il potere assoluto». O Pasquale Mistretta, il rettore di Cagliari, secondo il quale «molti figli illustri, proprio a causa dei complessi d'inferiorità verso i padri, a volte si sono smarriti: alcuni sono finiti anche nel tunnel della droga», quindi forse «quando un padre va in pensione, come un tempo succedeva in banca o all'Enel, è logico che ci sia un occhio di riguardo» per i figli. Il meglio, però, lo dà il professore Giuseppe Nicotina spiegando come il suo Ludovico avesse vinto in solitaria un concorso per ricercatore: «I figli dei docenti sono più bravi perché hanno tutta una "forma mentis" che si crea nell'ambito familiare tipico di noi professori». Insomma: è una questione quasi genetica. Se poi una spintarella aiuta la forma mentis...

CONCORSI TRUCCATI: DIMOSTRAZIONE MATEMATICA

Del prof. Quirino Paris, University of California,

Introduzione

Nella relazione intitolata “L’Università vive il Paese” (20 settembre 2005), il professor Piero Tosi, rettore dell’Università di Siena e presidente della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) ha scritto che i concorsi-truffa sono solo degli episodi nella vita dell’università italiana (pagine 10-11). Il professor Tosi ha ripetuto questa sua affermazione in una trasmissione radiofonica sui concorsi truccati il giorno 21 settembre 2005 durante la quale il sottoscritto ha sostenuto la tesi opposta, vale a dire che i concorsi truccati costituiscono un fenomeno generale del reclutamento universitario italiano. Se così non fosse, non si capirebbe la necessità di riformare ancora una volta la procedura del reclutamento universitario. A dimostrazione della mia tesi, presento in questo articolo un’analisi matematico-statistica di tutte le votazioni nei concorsi di prima fascia del settore AGR/01 (economia ed estimo rurale) tenutisi tra il 1999 e il 2003. Le votazioni per professore associato e per ricercatore mostrano un andamento identico. L’analisi matematico-statistica può essere estesa facilmente a tutti gli altri settori disciplinari, dato che in quasi tutte le votazioni per le commissioni di concorso si sono ottenuti risultati simili a quelli evidenziati nel settore AGR/01.

Concorsi di Prima Fascia in Economia Agraria

Le votazioni per i membri delle commissioni di valutazione comparativa di prima fascia del settore disciplinare AGR/01, condotte nel periodo 1999-2003, mostrano risultati strabilianti. Negli ultimi anni, i professori di prima fascia votanti in queste elezioni sono stati all’incirca un centinaio. In tutte le 27 votazioni (nel 2004 e 2005 altre votazioni mostrano lo stesso andamento), solo i quattro membri eletti hanno ricevuto un consistente numero di voti, e questi voti sono divisi tra i quattro componenti eletti secondo una distribuzione quasi uniforme. Questi risultati, ripetuti per commissione dopo commissione, suggeriscono l’ipotesi che le votazioni siano state rigidamente pilotate: non solo che esista la comunicazione a tutti i cento professori da parte del “pilota” dei quattro nomi da votare; ma anche che i cento professori ordinari (di prima fascia), pur non comunicando tra di loro, abbiano votato disciplinatamente le indicazioni del “pilota” distribuendo i loro voti in modo quasi uguale tra i quattro candidati.

Come argomenteremo dettagliatamente nel corso dell’articolo, i risultati di questo tipo di votazioni attestano la presenza di un disegno da parte di “un’unica fonte” e di un sistema di ferrea disciplina per convincere/costringere i cento professori ordinari a votare secondo le indicazioni fornite dalla “fonte unica” che ha anche determinato quanti e quali voti vadano a ciascun candidato. Dato che ciascun votante ha a sua disposizione un solo voto, i risultati si possono ottenere solo se la “fonte unica” fornisce a ciascun elettore il nome da votare e se costui esegue l’ordine disciplinatamente.

Il motivo ultimo (o primo) del pilotaggio di tutte le votazioni per le commissioni di concorso corrisponde all’obiettivo della “fonte unica” di far dichiarare idonei individui selezionati e predeterminati vincitori (inclusi figli, figlie, mogli, nipoti, fedelissimi, ecc.) prima ancora che tali concorsi siano stati banditi. Tutto questo è avvenuto e tutt’ora avviene in Italia e potrebbe costituire una violazione dell’articolo 97 della Costituzione italiana e dell’articolo 323 del Codice Penale.

La dimostrazione matematico-statistica dell’esistenza di un ferreo disegno di pilotaggio sarà fatta secondo tre distinte argomentazioni:

1. La presentazione dei risultati delle 27 votazioni in forma di istogrammi. Questa discussione fornisce una prima indicazione di tipo informale (ad occhio) della natura improbabile dei 27 eventi (votazioni).

2. La seconda argomentazione si fonda sull’indice di Gini (famoso statistico italiano che ha lavorato nei primi decenni del secolo scorso). L’indice di Gini misura il grado di concentrazione (dispersione) caratteristico di una distribuzione empirica, come è appunto la distribuzione dei voti in una elezione.

3. La terza argomentazione è la più formale dal punto di vista matematico-statistico.

Calcoleremo, infatti, la probabilità che, date le indicazioni di votare per quattro candidati (come si fa nelle liste elettorali di un partito), gli N votanti (che non comunicano tra di loro per ovvie difficoltà di collegamento) distribuiscano i loro voti in modo tale che i quattro eletti ricevano all’incirca lo stesso numero di voti.

Conclusione

L’evidenza matematico-statistica presentata in questo studio per tutti i 27 concorsi di prima fascia del settore AGR/01 (economia ed estimo rurale) tenutisi nell’arco di tempo 1999-2003 conferma l’ipotesi di un disegno preciso e di un ferreo pilotaggio delle votazioni al fine di dichiarare idonei dei già predeterminati candidati. Tra queste votazioni ci sono anche quelle che interessano i parenti e i fedelissimi dei numerosi membri di commissione che compaiono come commissari un numero di volte sproporzionato rispetto a quello di molti altri professori eleggibili.

Il dato matematico-statistico dimostrerebbe come il pilotaggio sia stato preordinato in modo evidente ai fini dell’abuso e per avvantaggiare nel percorso accademico persone di famiglia ed associati privilegiati e prestabiliti al fine di ottenere ingiusti vantaggi. Per questo motivo, il dato matematico-statistico e le formule/istogrammi che precedono servono a corroborare l’elemento soggettivo del dolo e dunque l’intenzionalità di chi ha manovrato tutto il sistema per avere commissioni ben orchestrate per suonare uno spartito ben preciso, senza mai che vi sia stata una nota stonata. La dimostrazione scientifica serve per indicare gli strumenti dell’abuso nella formazione delle commissioni che sono “mezzo” per giungere al “fine”. Sembra quindi di poter concludere con un alto grado di fiducia, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il pilota e il gruppo dei suoi compiacenti collaboratori nelle commissioni di valutazione comparativa del settore AGR/01 si sarebbero procurati ingiusti vantaggi e avrebbero causato danni ingiusti per un lungo periodo di tempo e su tutto il territorio della Repubblica Italiana.

Non riesce proprio a farsene una ragione, l'oncologo Massimo Federico. "E' come se un calciatore avesse vinto la coppa Davis", dice. A Modena è accaduto di recente un fatto assai curioso: un professore associato in dermatologia è diventato ordinario in una prova bandita dal corso di laurea in odontoiatria. L'idoneo ha 36 anni e si chiama Giovanni Pellacani. E' il figlio del rettore, Giancarlo Pellacani (che ha anche un altro figlio docente a Giurisprudenza). Durante la seduta per la chiamata, tre professori hanno votato contro. Uno di questi è l'ex preside della facoltà di Medicina, Maurizio Ponz de Leon: "Non si è mai verificato, almeno negli ultimi trent'anni di storia della nostra facoltà, che un ricercatore riuscisse a diventare ordinario in soli 6 anni e 4 mesi dalla nomina a ricercatore. Certo, potrebbe avvenire per meriti eccezionali. Ma, come visto dall'esame del curriculum, questi meriti non esistono".

Il docente insegna da sei anni, ha un'esperienza all'estero di soli due mesi e i suoi punti di Impact factor (il riscontro dell'attività di ricerca nelle pubblicazioni scientifiche), riguardano solo la dermatologia: non il Med50, il settore, cioè, per il quale ha vinto il concorso. Altra stranezza: "Il concorso non ha visto la partecipazione di nessuno degli associati e dei ricercatori della nostra facoltà". Federico dal canto suo fa osservare che "in Italia esistono 26 professori associati" di quel settore ma nessuno ha fatto domanda. E aggiunge: "Data la delicatezza della decisione, trattandosi di un procedimento che riguarda il rettore, chiedo che la votazione avvenga dopo che la facoltà sia stata edotta delle conseguenze di una chiamata che potrebbe rientrare nel campo della presunzione di nepotismo".

Federico chiede informazioni su dodici punti e qualche settimana dopo, non ottenendo risposte, denuncia tutto alla Procura. Da allora sta perdendo ogni incarico: dalla presidenza della commissione contratti e contenzioso alla direzione della scuola di oncologia. Una convenzione con l'Istituto superiore di sanità, che ha promesso 148mila euro all'università per le ricerche da lui coordinate, è bloccata. E persino nel giornalino dell'università si evita accuratamente di parlare della pur prolifica attività di Federico e dei suoi collaboratori. Il professore, però, non molla. E pochi giorni fa è tornato a chiedere le dimissioni del rettore.

Il magnifico, dal canto suo, reagisce: ha querelato il professore ribelle, che aveva illustrato, in un incontro pubblico, le analogie tra le sue ricerche sulle sindromi familiari e "l'albero genealogico della famiglia Pellacani".

Quello di Modena è solo uno dei tanti fronti caldi della protesta contro i presunti casi di nepotismo nelle università. L'altro è la Sapienza di Roma, dove le polemiche per il mancato incontro con papa Benedetto XVI sono riuscite a far passare in secondo piano la bufera che s'era addensata sul rettore, Renato Guarini. Pochi giorni prima dell'invito del pontefice, Guarini è stato iscritto nel registro degli indagati per abuso d'ufficio: la procura di Roma indaga su un possibile scambio di favori con l'architetto Leonardo di Paola, docente di Estimo ma anche presidente della Cpc, la società che si è aggiudicata i lavori (8,8 milioni di euro) per la realizzazione del parcheggio della città universitaria.

Di Paola è anche il presidente della commissione che ha promosso Maria Rosaria Guarini, figlia del rettore, a ricercatrice in Estimo. Anche in questo caso la denuncia è partita da un docente universitario, Antonio Sili Scavalli, già autore di un'altra denuncia sull'intreccio tra cattedre e appalti.

Alla Sapienza insegna anche Tommaso Gastaldi, ricercatore di Statistica. Mesi fa previde: una rivoluzione sta per scuotere l'università italiana. "Si sta creando un incredibile fronte compatto di persone di buona volontà che va da Napoli a Siena... Possiamo veramente creare un'onda sismica... - scrisse nel suo blog, Concorsopoli". I casi di Modena e Roma mostrano che il terremoto è già in atto: è la rivolta contro il sistema di cooptazione dei professori universitari, spesso assimilato all'affiliazione mafiosa. Dopo i primi scandali di Bari, Bologna, Firenze, Siena, Macerata, Messina e le inchieste che sono seguite, la parola d'ordine è attaccare la "razza barona", la casta che manda in cattedra figli, nipoti, cugini e amanti - ma anche amici e compagni di partito, frammassoni, colleghi di cordata.

Siti come quello di Gastaldi (che ha creato un osservatorio per segnalare in anticipo i concorsi sospetti) si moltiplicano. Si chiamano Ateneo pulito, Malauniversitas, Università degli orrori, Ateneo palermitano. Diari dell'indignazione accademica curati da chi non regge più lo strapotere degli ermellini.

Il pretesto può essere anche un convegno, come quello che si terrà sabato a Pisa, organizzato dalla massoneria toscana. Su Il Senso della misura, il blog curato dal docente Giovanni Grasso, si fa notare che "a Roma e a Pisa l'università si apre al mondo in modo diverso. Credete che la libertà di parola dei massoni sarà messa in discussione a Pisa? Credete che frange estremistiche si ricorderanno che la Toscana è stato il cuore territoriale, quanto meno, della P2?".

Nel suo Universitopoli, Marco Lanzetta, primo chirurgo italiano ad aver effettuato un trapianto di mano, ha pubblicato invece la sentenza del consiglio di Stato che lo proclama finalmente vincitore contro l'università di Varese. "I giudici riportano la legalità nei concorsi universitari", scrive. La sua, alla vigilia della riforma del sistema concorsuale - annunciata dal ministro Fabio Mussi per le prossime settimane - è una convinzione diffusa. E così il Tar di Palermo ha restituito a Maria Rita Gismondo, microbiologa della clinica Sacco di Milano, il posto da ordinario che le era stato soffiato da docenti che, è risultato poi, avevano spacciato per pubblicazioni scientifiche dei semplici atti congressuali. Lo stesso è successo a Bari, dove alcuni docenti di Diritto si sono presentati a un concorso, vincendolo, con fotocopie "edite" da un'anonima stamperia di Benevento. Sempre a Bari è stato necessario l'intervento del Tar perché un professore di biochimica ottenesse il laboratorio che gli spettava, negatogli dall'endocrinologo Francesco Giorgino, peraltro indagato dalla procura, insieme al padre, per il suo concorso da ordinario, grazie al quale ha ereditato la direzione del reparto.

Molti docenti "arrabbiati", ora, cercano di organizzarsi in un network. Fanno il tifo per i magistrati e trovano alleati anche oltre gli atenei. Come Paolo Padoin, prefetto di Padova, che alle nefandezze universitarie dedica una sezione del suo sito Rinnovare le istituzioni, scrivendo: "Manteniamo fiducia nell'azione della magistratura che, anche se in tempi biblici, dovrebbe arrivare alla definizione delle tante azioni penali pendenti in diverse sedi universitarie. Soprattutto la vicenda di Trieste, nella quale sono coinvolti quasi tutti i big di agraria, denunciati dal professor Quirino Paris... ".

Paris, docente della University of California: è emigrato lì dopo un feroce scontro con i suoi colleghi italiani proprio sulle procedure di selezione. Ha inventato un modello matematico delle parentopoli italiane e lo ha fatto pubblicare su una rivista on line americana.

Ovunque si grida alla prova truccata. I professori scrivono ai magistrati, avvertono carabinieri e finanzieri: la vita accademica procede per via giudiziaria. Chiami un docente e ti risponde: "Non posso parlare, sono in procura". Un ricercatore romano segnala in continuazione al ministero - che le gira ai pm - le sue previsioni sui vincitori dei concorsi. "In questo momento - anticipa - ce ne sono in corso due a Roma. In uno è stato richiesto, addirittura, che i candidati presentassero solo tre pubblicazioni. Una follia: significa tagliar fuori chi vanta decine di pubblicazioni internazionali".

Il Tar di Palermo, del resto, ha già sentenziato che non si può scendere, per decenza, sotto una soglia minima di dieci pubblicazioni. A Messina, l'università dove si sono laureati molti figli della 'ndrangheta, non si riesce invece a concludere un concorso di audiologia, in gestazione dal 2002. Tra i candidati, quattro nomi eccellenti: i due fratelli Motta, figli dell'otorinolaringoiatra napoletano Giovanni, e i due fratelli Galletti, figli dell'otorino messinese Cosimo. Due di loro (uno per famiglia) sono vincitori del famigerato concorso del 1988 annullato dalla Cassazione perché sfacciatamente truccato.

A giudicarli, in commissione, saranno tre professori universitari messi in cattedra dai loro genitori. Intanto, nel capoluogo siciliano s'indaga su un altro concorso, quello di Veterinaria, per il quale un gip ha deciso di sospendere il rettore Tomasello. A Siena, invece, una docente, assistita dall'avvocato Massimo Rossi, ha fatto aprire una nuova inchiesta: le è bastato allegare alla denuncia una mail, da lei intercettata, scambiata tra i commissari di un concorso. "Non mi sono sentita in imbarazzo nell'avanzare la proposta di scorrimento della professoressa T. a professore di prima fascia. La candidata ha un curriculum serio".

In effetti, otto mesi dopo la professoressa ottiene lo "scorrimento" a professore ordinario. Ma in Italia divinare il nome del vincitore è quasi la norma: il nome dell'idoneo è deciso in anticipo dalla facoltà nel momento in cui "chiede" il posto. Tutto il resto (pubblicazione del bando in gazzetta ufficiale, elezione dei commissari, loro convocazione nella sede con relativa ospitalità in albergo, prove scritte e orali) è un'inutile messa in scena che per ogni "valutazione comparativa" costa, in media, 20mila euro alle casse dello Stato.

Mentre l'università vive la sua "Mani pulite", i concorsi languono. I posti da associati e ordinari non si bandiscono da maggio del 2006, quelli per ricercatore sono stati, nel 2007, 1188 contro i 1618 del 2006 e contro i 2514 del 2005. Ora, però, stanno per ripartire: Mussi ha stanziato 40 milioni di euro e ha varato un nuovo regolamento che dovrebbe limitare la sfera d'influenza dei commissari, sottoponendo in prima battuta tutti i candidati al giudizio di revisori anonimi. E si torneranno anche ad assumere associati e ordinari. Ma non con il vecchio sistema di concorsi, considerato "un atto di ostilità che ha devastato qualità e bilanci": la riflessione è di Pier Ugo Calzolari, rettore di Bologna, e apre un altro sito di "controinformazione" sugli scandali accademici, Scienzemedicolegali.

L'ateneo bolognese è stato il primo a tentare di reagire agli scandali con un codice etico per prevenire le assunzioni di parenti negli stessi dipartimenti, molto frequenti durante il rettorato precedente del potentissimo Fabio Roversi Monaco. In Paesi come la Nuova Zelanda o il Canada norme di questo tipo già da anni correggono i conflitti d'interesse non solo tra parenti ma anche tra amici o tra colleghi di studi professionali privati che insegnano nell'università. Lo rivendicano anche molti docenti che vogliono il cambiamento.

A Bari, per esempio, è la battaglia del magistrato (e docente di diritto canonico) Nicola Colaianni e dell'associato Carlo Sabbà, che ha fatto aprire, con le sue denunce, l'inchiesta sui concorsi pilotati a Medicina interna nella quale figurano, tra gli indagati - oltre all'ordinario di Medicina interna Giuseppe Palasciano - anche nomi eccellenti, come il milanese Pier Mannuccio Mannucci. Nel capoluogo pugliese, però, dove famiglie come i Massari o i Girone hanno fatto il pieno di cattedre e dove i baroni avevano, fino a poco tempo fa, persino i posti barca gratuiti sul lungomare, le resistenze sono ancora fortissime. Una prima bozza, però, è stata approvata a dicembre e vieta esplicitamente l'assunzione di parenti e altri docenti all'interno delle facoltà. Forse qualcosa cambierà.

«Che faccia i nomi!», protestarono i rettori quando il ministro della Salute Girolamo Sirchia osò osservare come a Medicina e Chirurgia imperassero baroni e nepotismo, «in cattedra vanno tuttora i figli e i cognati». Eppure non era difficile, basta guardarsi un po’ attorno. L’ultima viene del Tar della Sardegna, la sentenza depositata il 9 settembre ha annullato il decreto di nomina a professore associato di Roberto Puxeddu, firmato dal rettore il 7 agosto 2001, e condannato l’Università di Cagliari a 3000 euro di spese legali. I giudici, accogliendo il ricorso d’un candidato escluso, parlano di «illegittimità conseguente a difetto di imparzialità». Il fatto è che nella commissione c’erano due professori, Antonino Roberto Antonelli (ordinario a Brescia) e Alberto Rinaldi Ceroni (Bologna), che il papà di Puxeddu, Paolo, oggi ordinario nella stessa università di Cagliari, aveva promosso in un concorso bandito il 4 agosto ’88, un concorso truccato. I casi della vita: allora Paolo Puxeddu era presidente della commissione e nel frattempo è stato condannato in via definitiva a un anno per falso e abuso d’ufficio. La sentenza d’appello del Tribunale di Roma, citata dal Tar, parlava di «delirio di potere», «interessi sfacciatamente nepotistici e di rafforzamento del potere personale o della fazione di appartenenza», «feudi baronali di famiglia» e «Repubblica delle banane» ma condannati e beneficiati sono al loro posto, stanno nelle commissioni giudicatrici e si presentano pure ai concorsi di altre cattedre perché non si sa mai, con la sentenza definitiva potrebbero perdere la loro.

Storia vecchia, almeno nel campo dell’Otorinolaringoiatria, che in compenso regala ogni giorno delle novità. Nel concorso dell’88 c’erano in palio sedici cattedre e passarono figli di papà e protetti. Bisogna partire da qui, dal padre di tutti gli imbrogli, per capire cosa sta succedendo ancora adesso, come in un gioco di specchi, da Cagliari a Messina, da Roma a Napoli. Lo scandalo scoppiò solo nel ’95, al processo furono condannati cinque docenti, tre della commissione più due padri di candidati. Altri tre professori, per abuso d’ufficio e violenza privata, furono riconosciuti colpevoli per un concorso del ’92, nove cattedre. La pena più alta, un anno e otto mesi, toccò a un luminare dell’Otorinolaringoiatria, Giovanni Motta, ordinario a Napoli e definito dai giudici «despota» della specialità; alla fine vinse anche suo figlio, Gaetano Motta, tuttora ordinario alla seconda università di Napoli. Le condanne della Corte d’Appello, il 1° dicembre 2000, sono state confermate in Cassazione 5 novembre 2001. Il ministero ha chiesto un parere al consiglio di Stato che ha risposto il 20 marzo 2002: il concorso dell’88 è nullo. E allora perché non succede niente?

«Semplice: perché la Corte d’Appello deve annunciare l’annullamento a tutti e 16 i docenti promossi col trucco, solo che a febbraio non erano arrivate quattro notifiche, non li avevano trovati!», sospira il professor Giorgio Molinari, uno dei candidati bocciati nell’88. Ora ha sessantotto anni, «ero associato di Audiologia a Padova e tre anni fa me ne sono andato in pensione anticipata, sapevo che avrebbero continuato a bocciarmi e dopo l’88 non mi sono più presentato ai concorsi da ordinario, non ne potevo più di vedermi passare davanti giovincelli che non avevano un decimo dei miei titoli». I sedici promossi di allora, finché c’è tempo, stanno cercando di risistemarsi. «Gaetano Motta, per dire, quest’anno è stato membro di commissione al concorso di Audiologia a Napoli e al contempo candidato a Catania e Messina». A Messina, in particolare, è stato bandito un posto da ordinario di Audiologia a cui partecipano due dei «figli di» promossi nel famoso concorso dell’88: oltre a Gaetano Motta, il figlio di Giovanni, c’e Francesco Galletti, figlio del professor Cosimo Galletti. Ebbene, tra i commissari d’esame sono stati nominati Raffaele Luciano Fiorella (ordinario a Bari) e Alberto Rinaldi Ceroni (Bologna), promossi docenti nello stesso concorso truccato dell’88. Altri due commissari, Desiderio Passali ed Enzo Mora, furono invece promossi dai papà Motta e Galletti in un concorso precedente, nell’84, peraltro regolare. Giorgio Molinari, sempre lui, ha presentato una dettagliata domanda di ricusazione dei commissari al rettore dell’università di Messina. Respinta.

Anche Paolo Puxeddu, tuttora ordinario a Cagliari, non s’è perso d’animo. Prima che arrivasse il Tar, il 29 gennaio 2003, si è dimesso con annesse maiuscole da «Direttore della Scuola di Specializzazione in Otorinolaringoiatria» per «scadenza dei termini», e al suo posto è stato nominato il figlio Roberto, quello promosso associato dai due professori promossi dal papà nell’88. Nel verbale del consiglio docenti della scuola di specializzazione si legge che «il professor Alessandro Riva, proposto dal consiglio della scuola, dichiara la propria indisponibilità», quindi interpella un paio di candidati che rifiutano e finalmente fa il nome di Roberto Puxeddu, «il consiglio approva all’unanimità», da verbale risulta presente anche il padre. A Roma insegna invece Marco De Vincentiis, ordinario di Otorinolaringoiatria alla Sapienza, anche lui promosso in cattedra nell’88 e figlio del professor Italo, altro papà condannato a un anno. Anche lui rischia di perdere la cattedra ma qualche mese fa ha vinto l’idoneità a Firenze e intanto potrebbe ottenere un altro posto sempre a Roma, presto si riunirà il consiglio di facoltà. Nella stessa facoltà lavora come ordinario di Audiologia anche Mario Fabiani, 55 anni, uno dei bocciati dell’88, «mi ribocciarono nel ’92 e alla fine ho vinto l’idoneità nel 2000, non ci speravo più», sorride, «anche se credo d’essere l’unico ordinario d’Italia che non è primario, al Policlinico Umberto I faccio ancora i turni di notte».

L'UNIVERSITA', AFFARE DI FAMIGLIA. Di Attilio Bolzoni. La stanza numero 24 è quella del professore Giovanni Tatarano, ordinario di Diritto privato. Suo figlio Marco insegna lì accanto, nella stanza numero 4. Sua figlia Maria Chiara riceve gli studenti proprio di fronte a papà, nella stanza numero 12. Tutta la famiglia in un corridoio. E non come quegli altri, che si sono sparpagliati invece su quattro piani e sopra cinque cattedre. Quegli altri che si chiamano Dell'Atti, tutti parenti, tutti docenti. Ma mai tanti e mai tanto esimi come i Massari, nove tra fratelli e nipoti e cugini, probabilmente la tribù accademica più numerosa d'Italia.  Benvenuti all'Università di Bari, benvenuti nella città dove in pochi intimi si spartiscono il sapere e il potere.

Buongiorno, dov'è la stanza del professore Girone? "Girone chi?", risponde spazientito il vecchio custode di Economia e Commercio. Girone Giovanni il Magnifico Rettore o Girone Raffaella che è sua figlia?, Girone Gianluca che è suo figlio o Girone Sallustio Giulia che è sua moglie? In ordine, stanza numero 3, stanza numero 26, stanza numero 58, stanza numero 13. E aggiunge, sempre più infastidito il custode: "Poi se vuole parlare con un altro parente stretto dei Girone, ci sarebbe pure il dottore Francesco Campobasso, associato di statistica, che è il marito della professoressa Raffaella, quinto piano, stanza numero 19".

E' cominciato così il nostro viaggio in quel labirinto che è l'Ateneo pugliese, concorsi pilotati, test truccati, esami comprati e venduti, tentate estorsioni e una Parentopoli che è ormai al di là del bene e del male. Lo scandalo sta dilagando. E a Bari, per la prima volta la razza barona trema. Sussurri, voci, grida. Si sta scoprendo un vero verminaio nell'Università dalle più antiche tradizioni delle Puglie. Facoltà dopo facoltà, dipartimento dopo dipartimento. E anche sotto la spinta di una valanga di anonimi.

Sono tanti i Corvi che volano nel cielo di Bari in queste settimane di paura. Raccontano di tutto e di tutti, spiegano in lunghe lettere (con tanto di allegati grafici e di alberi genealogici) come una mezza dozzina di clan accademici hanno allungato le mani sull'Università. "Arrivano ogni mattina sulle scrivanie dei sostituti con la posta prioritaria", confessa il procuratore aggiunto Marco Dinapoli, il magistrato che coordina le indagini sulla pubblica amministrazione. Denunce di combine nelle commissioni esaminatrici, nomi, cognomi, favori incrociati per piazzare di qua e di là consanguinei o amanti, fidanzati e generi. Ci sono inchieste aperte dappertutto. A Veterinaria e a Matematica, a Scienze delle Comunicazioni, a Cardiologia, a Ginecologia, a Genetica, al Politecnico. Ma è Economia e Commercio - dove il rettore Giovanni Girone è ordinario di Statistica - che è il cuore della razza barona barese, è in quell'edificio grigio a cinque piani il suq delle cattedre.

Sono tutte qui le grandi famiglie accademiche, tutte super rappresentate a cominciare da quella del Magnifico fino agli illustrissimi Massari, tre fratelli - Giansiro, Lamberto e Lanfranco - e poi un nugolo di figli ricercatori. Concorsi a regola d'arte, carte naturalmente sempre a posto come vuole la legge. Tanto a vincere sono soprattutto i parenti. Il preside della facoltà si chiama Carlo Cecchi e allarga sconsolato le braccia: "A me i professori me li regalano le commissioni aggiudicatrici dei concorsi: cosa posso fare io? Io non sono mai stato nelle commissioni di esami".

Senza vergogna e senza pudore una dozzina di clan accademici, anno dopo anno, si sono impadroniti dell'Ateneo. "E' come se ci fosse stata una competizione tra alcuni professori a chi riusciva a collocare più membri del proprio gruppo familiare", commenta Nicola Colaianni, ex magistrato di Cassazione, il docente di Diritto pubblico nominato dal senato accademico a presiedere una commissione d'inchiesta sui buchi neri dell'ateneo. La sua relazione finale l'altro ieri è finita dritta dritta alla procura della Repubblica.

Ci sono i clan ad Economia e Commercio e ci sono quelli al Policlinico, altro girone infernale della cultura universitaria pugliese. Clan e ancora clan, lo scambio di promesse per un posto di ricercatore o di associato, i figli e i nipoti tutti specializzandi, sempre gli stessi nomi che occupano le stesse cattedre: i Ponzio a Lingue, i Foti al Politecnico e via via tutti gli altri. Fino alle grandi famiglie dei "professori" del Policlinico. Quasi tutti hanno trovato un dottorato di ricerca o un incarico nella stessa clinica del padre o dello zio o del cugino. A Psichiatria. A Ortopedia. A Neurochirurgia. A Endocrinologia. A Chirurgia generale. Un elenco infinito. Con il 40 per cento circa dei figli dei primari nella stessa facoltà dei padri e, molto spesso, nella stessa struttura operativa. Con l'età dei "fortunati" parenti a volte molto sospetta, mediamente dieci anni più bassa di quella dei loro colleghi senza blasone.

Privilegi di casta e anche qualcosa di più. Come quell'holding che gestiva concorsi con il trucco a Cardiologia, il fondatore della scuola barese Paolo Rizzon arrestato per associazione a delinquere "finalizzata al falso e alla corruzione", secondo i giudici un componente di rango di una sorta di Cupola che "dirigeva" gli affari della cardiologia. E non solo in Puglia. O come il primario di Ginecologia e ostetricia Sergio Schonauer, indagato per avere votato una commissione che avrebbe dovuto giudicare suo figlio Luca per un posto di ricercatore nella sua stessa clinica. E' la prepotente "normalità" di questa Bari universitaria che si sente impunita, è l'intrigo alla luce del sole, l'omertà delle complicità estese.

Rettore, ma cos'è questa sua Università, una sola grande famiglia? Prima Giovanni Girone travolge con la sua mole un gruppo di giornalisti e si fa sfuggire un magnifico "vaff...", poi si scusa, minaccia la solita querela a chiunque parli o scriva dei suoi e degli altri parenti cattedratici, finalmente si placa e ci fa entrare nella sua stanza. Alle sue spalle due grandi foto, una di Padre Pio e l'altra di Aldo Moro. E alla fine Girone sospira: "I nomi non c'entrano, i concorsi o sono corretti o non sono corretti. E nel caso di mia moglie e dei miei figli è stato tutto regolarissimo: quel che conta è soltanto la produzione scientifica". Così parla il Magnifico rettore dell'Università di Bari, l'ateneo delle grandi tribù.

Una Cupola dotta si spartisce il sapere di Palermo. Sono cento le famiglie che hanno l'Università nelle loro mani, cento clan accademici fatti di figli che salgono in cattedra per diritto ereditario, fratelli e sorelle che succedono inevitabilmente ai loro padri e ai loro zii, nipoti e cugini immancabilmente primi al pubblico concorso. Regnano in ogni facoltà. Si riproducono nell'omertà. Docenti parenti. Cinquantotto a Medicina. Ventuno a Giurisprudenza. Ventitré su appena centoventinove professori ad Agraria, la roccaforte dei patti di sangue.

Se l'Ateneo di Bari è diventato famoso in Italia per la compravendita di esami e per i test superati in cambio di sesso, quello di Palermo ha un primato assoluto che spiega come i "soliti noti" spadroneggino in ogni disciplina. Ordinari, associati, ricercatori: tutti legati uno all'altro da un intreccio parentale. In totale sono almeno 230. Cento famiglie.

Un altro record solo apparentemente innocuo di questa Università è per esempio il luogo di nascita dei suoi docenti: il 54,7 per cento sono palermitani. Più della metà sono di qui e due su tre vengono dalla provincia. Soltanto Napoli eguaglia la capitale della Sicilia in questa performance. Ma il numero che svela fino in fondo la Palermo cattedratica è quell'altro sui legami familiari. Sono piccoli grandi eserciti dislocati dipartimento dopo dipartimento, materia per materia.

Somiglia tanto a un'occupazione militare, chi non fa parte di un clan resta quasi sempre fuori. E tutto nel rispetto della legge e delle procedure. La regola per conquistare un posto in università è solo una: non parlare. Qualcuno - è chiaro - si ritrova suo malgrado in questo elenco nonostante meriti e titoli. Per molti però quello che conta è solo il nome che portano.

Ci sono delle vere e proprie dinasty anche a Scienze, ad Architettura, a Economia. In ogni facoltà ci sono ceppi familiari dominanti, aule e laboratori di ricerca popolati solo da rampolli. Uno scandalo dopo l'altro soffocati nel silenzio.

A Medicina le famiglie che comandano sono 24. Si ramificano dappertutto. Una è la famiglia Cannizzaro. Il padre Giuseppe è ordinario di Scienze farmacologiche, nel suo dipartimento c'è anche il figlio Emanuele (ricercatore), la cognata Luisa Dusonchet (associata) e la figlia Carla che insegna a Farmacia. Ordinario di Scienze stomatologiche è Domenico Caradonna, i figli Carola e Luigi fanno i ricercatori nello stesso dipartimento. Ordinario di Scienze biochimiche è Giovanni Tesoriere, la moglie Renza Vento è a Biologia, la figlia Zeila è entrata in Architettura dove c'è anche suo marito Renzo Lecardane. Zeila è stata nominata a soli 37 anni come associata "per chiamata diretta", il marito - che da un anno era impiegato al Comune di Palermo dopo un'esperienza all'estero - ha conquistato un posto grazie alle norme sul "rientro dei cervelli". Altri nomi eccellenti di Medicina con parenti al seguito: i Salerno (Biopatologia), i Canziani (Neuropsichiatria infantile), i Ferrara (Otorinolaringoiatria), i Piccoli (Neuroscienze cliniche). Dopo i parenti ci sono naturalmente schiere di compari. Li piazzano per grazia ricevuta. A un favore fatto ne corrisponde sempre un altro. E' una catena interminabile, un giro chiuso. Le carte sono sempre a posto, i concorsi a prova di codice penale, un altro discorso è la decenza.

Come a Economia, il reame dei Fazio. Il capostipite è Vincenzo, ordinario di Scienze economiche, aziendali e finanziarie. Nello stesso suo dipartimento ci sono altri due Fazio: i suoi figli, Gioacchino associato e Giorgio ricercatore. Insegnano la stessa materia di papà. Il preside di Economia si chiama Carlo Dominici, suo figlio Gandolfo è anche lui in facoltà per istruire gli studenti in Scienze economiche. Poi ci sono i due Bavetta, Sebastiano ordinario e Carlo associato, figli di Giuseppe che lì a Economia c'era fino a qualche tempo fa. Ora è in pensione. Un ultimo caso di padre e figli di quella facoltà: il docente di economia aziendale Carlo Sorci e sua figlia Elisabetta - ricercatrice - che insegna Diritto commerciale.

A Giurisprudenza i docenti sono 137 e i nuclei familiari che dettano legge 10. Alfredo Galasso è ordinario di Diritto privato, suo figlio Gianfranco insegna la stessa materia, nello stesso dipartimento c'è anche Giuseppina Palmeri che è la moglie del fratello di Gianfranco. Anche Savino Mazzamuto (Diritto privato, ora trasferito a Roma 3) ha lasciato un posto in eredità a suo figlio Pierluigi. La figlia di Aurelio Anselmo, Alice, ha trovato sistemazione all'Università di Trapani: ricercatrice di Diritto pubblico. Salvatore Raimondi, nome pesante, amministrativista di grido ingaggiato per i suoi "pareri" anche dalla Regione siciliana, ha nel suo dipartimento di Diritto pubblico il figlio Luigi. E Rosalba Alessi, ordinario di Diritto privato - e soprattutto potente commissario degli enti economici siciliani, una carica che vale come tre assessorati importanti - ha nello stesso suo dipartimento il nipote Enrico Camilleri.

Ad Architettura c'è una grande famiglia, quella dei Milone. Il preside Angelo è in compagnia del fratello Mario (che è anche vicesindaco di Palermo e - attenzione - assessore ai rapporti con l'Università) e due figli che sono ricercatori: Daniele e Manuela. A Lettere, i Carapezza sono 4. I fratelli Attilio e Marco, il primo che insegna Scienze delle Antichità e il secondo Filosofia e teoria dei linguaggi. Il loro cugino Paolo Emilio è ordinario di Musicologia, suo figlio Francesco è ricercatore nello stesso dipartimento di Attilio. Poi ci sono i Buttita. Nino, il vecchio, antropologo, è stato preside di Lettere. Il figlio Ignazio insegna all'Università di Sassari ma ha supplenze a Palermo. La moglie Elsa Guggino è ordinaria nella stessa facoltà.

L'elenco dei padri e dei figli continua a Ingegneria, 18 famiglie e 38 parenti. Filippo Sorbello e il figlio Rosario, Michele Inzerillo e la figlia Laura, Stefano Riva Sanseverino (cognato di Luca Orlando) e la figlia Eleonora. A Scienze Matematiche Fisiche e Naturali si contendono il numero dei parenti i Gianguzza e i Vetro. Mario Gianguzza, ordinario di Biopatologia a Medicina, a Scienze ha come colleghi i fratelli Antonio (Chimica inorganica) e Fabrizio (Biologia cellulare) e la figlia Paola (Ecologia). Uno dei loro nipoti, Salvatore Costa, è anche lui in Biologia cellulare. L'altra famiglia, i Vetro, è tutta appassionata di matematica. Pasquale Vetro, matematico. La moglie Cristina Di Bari, matematica. Il loro figlio Calogero, matematico.

La facoltà più piena di mogli e mariti e figli è però quella di Agraria. Su 129 docenti 23 sono parenti. Un quinto. Divisi in 11 nuclei familiari. Il preside Salvatore Tudisca ha lì dentro come associata sua moglie Anna Maria Di Trapani. L'ordinario Antonino Bacarella ha la figlia Simona e il nipote Luca Altamore. L'ordinario Giuseppe Chironi ha la figlia Stefania, l'ordinario in pensione Giuseppe Asciuto ha suo figlio Antonio, l'ordinario in pensione Carmelo Schifani ha il figlio Giorgio, l'ordinario Salvatore Ragusa ha il figlio Ernesto, l'ordinario Luigi Di Marco ha la moglie Antonietta Germanà, l'ordinario Vito Ferro ha la moglie Costanza Di Stefano, l'ordinario Antonio Motisi ha la moglie Maria Gabriella Barbagallo, l'ordinario Riccardo Sarno ha il figlio Mauro, l'ordinario Claudio Leto ha la moglie Teresa Tuttolomondo. Cento famiglie. Di queste ce ne sono sessanta con "residenza" fissa in uno stesso dipartimento. E' praticamente casa loro.

BIDELLOPOLI E SUPPLENTOPOLI

L'Italia è il Paese della ''pubblica distruzione'', dove ci sono più bidelli nelle scuole che carabinieri per le strade a garantire la sicurezza dei cittadini. ''Uno scandalo'' denunciato dal quotidiano ''Libero'', che il 23 settembre 2008 ha pubblicato un'inchiesta sul personale non docente e docente delle scuole italiane, riferendo gli ultimi dati Ocse che sottolineano come ''in Italia c'è un insegnante ogni undici alunni. In Gran Bretagna ne hanno uno ogni venti. La media europea è uno ogni sedici''.

''Sono 167mila i non docenti degli istituti italiani, mentre gli agenti dell'Arma non arrivano a 118 mila. Sono 15,6 bidelli per scuola materna o elementare, praticamente 2,2 per classe''.

Citando i dati di ''Tuttoscuola'', del Ministero dell'Istruzione e i dati di  ''Education at a Glance'', Ocse 2008, il quotidiano sottolinea che in Italia, nelle scuole, sono impiegati 167.000 bidelli per 7.751.356 alunni, mentre i Carabinieri in servizio nel nostro Paese, inclusi quelli impegnati nelle missioni all'estero, sono solo 118.000, ben 49.000 in meno dei bidelli.

''Il costo complessivo di questi 'collaboratori scolastici' (la qualifica politicamente corretta) è - scrive il quotidiano di Feltri - di 4 miliardi di euro l'anno. Il 60% sono di 'ruolo', quanto dire super garantiti. E questo dopo una riduzione senza la quale nei prossimi cinque anni la spesa sarebbe salita a 20 miliardi''.

E tra gli sprechi citati da Libero anche ''i 60 milioni di euro che ogni anno si spendono per telefonate e telegrammi per convocare supplenti che, residenti su tutto il territorio nazionale spesso rifiutano''.

Non è tutto. Dopo quelle di Torino, anche a Napoli si scoprono graduatorie scolastiche truccate e manomesse per vie informatiche e - di conseguenza - supplenze, nomine e immissioni in ruolo del tutto arbitrarie. Qualcuno, dotato della password necessaria, è entrato nel sistema del Provveditorato e ha modificato il file relativo. Trecento, forse quattrocento tra insegnanti e bidelli, potrebbero non essere in regola.

La traccia del fenomeno è in una lettera-denuncia del segretario regionale della Cisl scuola, Vincenzo Brancaccio, al suo leader nazionale Francesco Scrima, «Caro segretario - dice la missiva del 12 maggio 2008  - sono costretto a chiederti un intervento urgente presso la Signora Ministro della Pubblica Istruzione per ripristinare legalità e certezza del diritto nella scuola campana. Sarai stato certamente informato sulle graduatorie falsate dei collaboratori scolastici (bidelli - ndr) dell'ufficio scolastico di Torino, secondo gli articoli apparsi su "La Stampa"  del 7 maggio 2008 - ricorda Brancaccio - Bene: in Campania la situazione è drasticamente più grave».

Liste manomesse. Nella provincia di Napoli, per esempio - secondo l’ipotesi su cui sta lavorando la magistratura allertata dall’Ufficio scolastico regionale - le graduatorie truccate sarebbero tre. O, almeno, tre sarebbero quelle su cui sono state rilevate delle manomissioni ma, forse, il fenomeno potrebbe essere ben più esteso e riguardare anche altre province. Occorre ricordare che, per sanare una volta per tutte il fenomeno del precariato e iniziare un nuovo sistema di reclutamento del personale, le graduatorie della scuola sono «ad esaurimento», e quindi bloccate da sette anni. Eventuali novità nei nomi o modifiche dei dati, quindi, sono facilmente rilevabili, anche se comportano l’oneroso lavoro di monitorare circa 90 mila nomi. Tuttavia le magagne sono venute a galla.La prima, nella provincia di Napoli, ha riguardato i docenti inseriti negli elenchi delle «abilitazioni speciali». Spieghiamo: l’abilitazione all’insegnamento, oggi, si può ottenere in due modi: o frequentando le Siss (le scuole biennali di specializzazione) oppure dimostrando di aver insegnato per almeno 360 giorni nella scuola statale. Questo secondo canale consente l'immissione nella graduatoria definita, per l’appunto, delle «abilitazioni speciali».

I professori. Alcune denunce hanno consentito di rilevare che, all’interno di questa graduatoria, che costituisce un trampolino di lancio nell’insegnamento di ruolo, sono stati inseriti dei nomi di persone che non ne avrebbero avuto titolo e che avrebbero fornito «false certificazioni». Si parla di «decine» di nomi, ma il materiale ancora da esaminare è sterminato. Per intanto la Guardia di Finanza ha sequestrato gli atti. Secondo filone. Nelle graduatorie della scuola d’infanzia ed elementare è stato appurato che «almeno» 42 docenti avrebbero visto il proprio punteggio lievitare repentinamente, da un minimo di otto a un massimo di 64 punti, come dire che a qualche docente sono stati attribuiti cinque anni di lavoro in più. L’esame della graduatoria non è ancora concluso e altri nomi potrebbero emergere.

La madre di tutte le truffe. E poi c’è la madre di tutte le truffe: la «bidellopoli» che, dopo quella torinese, ora è in salsa napoletana. Centinaia (il numero è in continuo aumento e non ancora definitivo) sarebbero gli aspiranti bidelli catapultati in graduatoria «non avendone neppure i titoli», cioè mancando perfino della licenza media. Anche qui ci sarebbero false certificazioni prodotte da diplomifici privati o da sedicenti scuole paritarie.

Presidi, concorso col trucco

Il ministero dell'Istruzione ha pubblicato la batteria di 5.750 test dai quali saranno sorteggiati i 100 quiz che saranno sottoposti ai 42 mila aspiranti ad una poltrona di preside. Ma qualcuno ha già "confessato" di essere venuto in possesso delle domande almeno un giorno prima. Non mancano errori e incongruenze. Da un’inchiesta de “La Repubblica”. Tra fughe di notizie ed errori nei test il concorso per dirigente scolastico rischia di naufragare prima ancora di iniziare. Lo scorso primo settembre, il ministero dell'Istruzione ha pubblicato la batteria di 5.750 test dai quali saranno sorteggiati i 100 quiz che fra un mese saranno sottoposti ai 42 mila aspiranti ad una poltrona di preside. Ma qualcuno ha già "confessato" di essere venuto in possesso delle domande almeno un giorno prima. Così, forum, blog e siti internet specializzati sono stati sommersi dai post dei candidati che segnalano errori, incongruenze, inesattezze nelle domande e che non nascondono la preoccupazione di trovarsi di fronte, dopo avere studiato per mesi, ad una selezione "addomesticata". Ma andiamo con ordine. Dopo oltre un anno di attesa e mille anticipazioni, il 13 luglio 2011 è stato bandito il concorso per reclutare 2.386 nuovi dirigenti scolastici. Il bando di concorso, per sfoltire il gruppo di oltre 42 mila candidati che hanno presentato istanza prevede una preselezione attraverso un questionario a risposta multipla, simile a quello per accedere alle facoltà a numero programmato. La prassi, in questi casi, è quella di rendere nota la batteria di test dalla quale saranno sorteggiate le domande per il concorso alcune settimane prima. Durante la conferenza stampa del 31 agosto a Palazzo Chigi, il ministro Gelmini ha annunciato che il giorno dopo sarebbero stati pubblicati i test. Ma non sapeva che mentre lei parlava con i giornalisti qualcuno inviava a un candidato il prezioso file. E che ci sarebbe un "giro di raccomandati" che si sta adoperando per superare il concorso in tutti i modi. La notte tra il 31 agosto e il primo settembre, nel forum aperto sul sito mininterno.net un docente dall'insolito nickname di "Preoccupato" confessa di avere ricevuto un file con le domande "ufficiali" ma di non potere essere sicuro della loro autenticità. Poco prima dell'una e mezza del primo settembre, alcuni candidati con problemi di insonnia si scambiano informazioni in attesa della pubblicazione dei test. E all'una e 46 compare sul web il contributo di "Preoccupato" che scrive: "C'è davvero di che essere preoccupati. Leggete i seguenti quesiti: si tratta dei primi 3 di ciascuna area. Appuntate la data e l'ora di questo post. Domattina capirete che ho scelto bene il mio nick!". "Scusa sono quelli ufficiali?", chiede l'incredula Carmenb. E "preoccupato" risponde: "Ebbene sì!!! (domattina verificherete). Li sto spulciando dalle ore 13.30, quando ne sono venuto in possesso. Li trovo belli tosti. Non posso dire altro, ma questa cosa pone inquietanti interrogativi. Uno tra tutti: se la cosa si ripetesse con i fatidici 100 'sorteggiati'?". In pochissimo tempo si scatena la caccia al file. "O sei un raccomandato o stai sognando nel bel pieno della notte!!", commenta Imma8 e lui risponde: "1) Non sono raccomandato. 2) Come ho già scritto, non c'è alcun link, in quanto li ho ricevuti per e-mail in modo assolutamente casuale: sono del tutto fuori da quel giro. 3) Preferirei stare sognando, poiché mi sentirei più garantito. Su questo punto rinviamo il giudizio a domattina, cioè fra poche ore insonni. Se non si riveleranno quelli giusti sarò molto più soddisfatto: mi saranno serviti da esercitazione. Se saranno quelli giusti sarò sempre più preoccupato".

Dopo alcuni botta e risposta sempre più inquieti i partecipanti al forum decidono di inondare di e-mail il sito del ministero dell'Istruzione. Ma da viale Trastevere finora nessun commento ufficiale. Dal primo settembre le 5.750 domande costituiscono il passatempo migliore per migliaia di candidati al concorso: i quiz sono corredati dalle risposte e occorre memorizzarne il più possibile per avere qualche chance di successo. Scorrendole sono saltati fuori già diversi errori che hanno indotto l'Associazione docenti italiani a scrivere al ministro Gelmini e al capo dipartimento, Giovanni Biondi.

"Da un primo esame della batteria di quesiti pubblicata" il primo settembre "risultano diversi dati preoccupanti: un numero rilevante di errori nelle risposte indicate come esatte, domande prive di contestualizzazione alle quali è pertanto impossibile dare risposta, riferimenti a norme non più in vigore assunte come vigenti, domande incomprensibili o illogiche, inadeguatezza e incoerenza di numerosi quesiti rivolti a un concorso per l'area V della dirigenza". Ci sono anche alcune domande che lasciano perplessi. Quanto è importante per un preside sapere che la "tecnologia controllata dal tocco del dito o altro materiale conduttore di elettricità?" si definisce "touch screen capacitivo", anziché il "touch screen resistivo"?

"Non vorremmo che gli errori fin qui commessi comportassero un pregiudizio per la regolarità del concorso - scrive la presidentessa Alessandra Cenerini - e una facile occasione per un contenzioso giudiziale". Molti candidati "studiano da anni per questo concorso, hanno svolto master e dottorati e ora sono sconcertati di fronte a tale situazione". Il concorso si svolge in ambito regionale - sono stati messi in palio un tot di posti per ogni regione - e coloro che supereranno la preselezione dovranno svolgere due scritti, un periodo di formazione e un esame orale. La speranza, come ha avuto modo di dichiarare il presidente della commissione Cultura della Camera, Valentina Aprea, "è che alla fine vengano reclutati dirigenti scolastici più giovani del precedente concorso: al di sotto dei 45 anni". "La fuga di notizie è grave e dal Ministero nessuna risposta".

"È inutile un concorso per presidi con i test se le regole non sono trasparenti". Gianni Carlini, coordinatore dei dirigenti scolastici della Flc Cgi, ha chiesto un chiarimento al ministero dell'Istruzione sulla presunta selezione "addomesticata". Ed esprime perplessità sugli errori presenti tra le domande.

"E' grave che alcuni siano venuti in possesso della batteria di test in anticipo e rispetto agli errori il ministero sta decidendo il da farsi". Gianni Carlini è il coordinatore dei dirigenti scolastici della Flc Cgil e sul concorso che sta per partire ha le idee piuttosto chiare.

I docenti sono molto preoccupati per la trasparenza del concorso, lei che ne pensa?

"Dopo le polemiche dello scorso concorso, con la preselezione per soli titoli, è un bene che ci sia una preselezione con i test. Ma questa va fatta bene".

In che senso?

"Abbiamo chiesto al ministero, per esempio, di escludere dal gruppo di coloro che hanno partecipato alla stesura dei test professori e dirigenti che stanno tenendo i corsi di preparazione al concorso".

Con quali risultati?

"Il ministero non ci ha dato risposte".

Cosa ne pensa della fuga di notizie sui test?

"E' grave che alcuni siano venuti in possesso della batteria di test in anticipo, perché questa circostanza fa sospettare che altri possano avere avuto i test ancora prima".

Cosa state facendo per assicurare la trasparenza della selezione?

"Stiamo intervenendo per ottenere il massimo delle garanzie possibili perché tra i candidati si sta diffondendo il disagio che il concorso non sia trasparente. Sappiamo che i 100 test cui saranno sottoposti i candidati saranno per tutti uguali. È indispensabile che il sorteggio avvenga in maniera tale che non ci siano fughe di notizie e che tutti i candidati vengano messi nelle stesse condizioni".

E sugli errori già segnalati?

"Anche noi abbiamo rilevato e segnalato diverse domande errate e ci dicono che il ministero sta valutando il da farsi".

Ma alcuni sostengono che alcune domande sarebbero sui generis, che ne pensate?

"In effetti, dalle domande emerge un profilo di competenze del nuovo dirigente scolastico piuttosto diverso da quelle di cui in effetti deve essere in possesso per svolgere il proprio lavoro".

A Palermo il corso-concorso al quale hanno partecipato oltre 600 dirigenti scolastici, è stato dichiarato nullo dal Consiglio di giustizia amministrativa siciliano lo scorso 10 novembre 2009. Per evitare un ulteriore passaggio parlamentare del decreto salva-precari la norma non era stata subito cancellata dal provvedimento. Ora il nuovo decreto legge elimina la norma, ma non le polemiche. Saranno molti gli strascichi legati ai diritti acquisiti da chi era entrato già in servizio, circa 426 presidi. Sembrerebbe che alle presidenze delle scuole occupate da presidi nominati in forza del concorso annullato dal Cga sia giunta una circolare che comunica che il 12 dicembre 2009 tali dirigenti rientreranno nei loro posti di insegnanti precedentemente occupati, mentre gli attuali titolari di quei posti saranno messi a disposizione del Csa. Erano state due concorrenti escluse dal concorso, la nissena Maria Cucciniello e l’agrigentina Giuseppina Gugliotta, a fare ricorso in appello chiedendo l’intervento della giustizia amministrativa, che aveva indotto l’ufficio scolastico regionale, diretto da Guido Di Stefano, a nominare una speciale commissione per rivalutare gli elaborati delle due ricorrenti. Il nuovo esito era stato ancora una volta sfavorevole alle due interessate, ma tanto era bastato perché il Cga intervenisse sull’intera procedura del corso-concorso individuando un motivo di difetto nel mantenimento di un solo presidente per due sottocommissioni a seguito della rinunzia di alcuni commissari. Decine di elaborati scritti a mano esaminati nel giro di poche ore, compiti dei vincitori infarciti di errori di ortografia: è bufera sulla selezione per dirigenti scolastici che si è svolta in Sicilia. Sicilia, concorso pubblico nazionale per dirigenti scolastici. Oltre 1500 docenti, dopo aver superato la selezione per titoli, partecipano alle prove scritte che consistono in un saggio e un progetto. I posti a disposizione sono solo duecento. Quando i risultati degli scritti sono pubblicati, numerosi docenti che non sono stati ammessi all’orale fanno richiesta del proprio elaborato e dei verbali di correzione della commissione. Quello che scoprono è all’origine della loro contestazione e della richiesta di annullare il concorso e rifare tutto. Una delegazione, guidata da Maria Antonietta Cucciniello, Alfredo Pappalardo e Matteo Croce, ha spiegato in trasmissione le anomalie verificate nella correzione dei compiti. Dai verbali, infatti, è stata riscontrata la velocità con la quale i commissari hanno corretto saggi e progetti: tre minuti per leggere elaborati scritti a mano, spesso con grafie incomprensibili, di almeno 6 pagine ciascuno. Ma non basta, come dimostrato dai docenti che contestano i risultati del concorso, questa rapida correzione ha visto premiati, in alcuni casi, scritti con grossolani errori di grammatica. Intervenuto in trasmissione il Direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale per la Sicilia, Guido Di Stefano, ha affermato che solo pochi verbali mettono in evidenza anomalie nei tempi di correzioni ed ha difeso la regolarità delle procedure concorsuali.

Quando a Bari era facile essere ammessi a Medicina. I test di ingresso alla Facoltà pugliese finirono al centro di una brutta vicenda: docenti e studenti avevano messo su un lucroso giro per superare i difficili quiz. I rinvii a giudizio furono 127. Nel 2007 a finire sotto la lente di ingrandimento della magistratura è il test di ammissione a Medicina. A Bari si registra uno strano fenomeno: parecchi ragazzi riescono a risolvere "troppi" quesiti e riescono a totalizzare punteggi di gran lunga superiori agli studenti che nello stesso momento sostenevano gli esami negli altri atenei. Gli esclusi denunciano la cosa alla magistratura che comincia ad indagare e scopre che un docente, in collaborazione con altri colleghi, dipendenti dell'ateneo pugliese, genitori, studenti e perfino il figlio e la moglie avevano allestito una macchina quasi perfetta: da due diversi punti partivano e arrivavano sms con domande e risposte corrette, che venivano poi dirottati agli studenti. Così, superare il test di ammissione diventava un gioco da ragazzi. Ma, resosi conto che la situazione era degenerata, il rettore dell'ateneo decide di annullare il test. Dopo quattro anni, a Bari, 32 indagati per quella vicenda chiedono il patteggiamento della pena, mentre in 14 optano per il rito abbreviato. In quella tornata di test di ammissione anche altri atenei finiscono nella rete degli investigatori: Chieti, Foggia, Ancona. In tutto, sono stati rinviati a giudizio ben 127 persone per quella che il pm Francesca Romana Pirrelli non ha esitato a definire come vera e propria "organizzazione criminale".

Roma, Latina e Salerno corruzione alle elementari. Quello dei dirigenti scolastici non è l'unico scandalo che ha riguardato i concorsi. Per ottenere il posto alle elementari si usavano gioielli, foulard, maglioni e perfino profumi. Nel 2000 il concorso di scuola elementare è stato funestato da una serie di inchieste, con rinvii a giudizio e arresti a raffica. A Roma, Latina e Salerno i commissari d'esame del concorso bandito nel 1999 si sono fatti corrompere, in alcuni casi anche da una bottiglia di profumo. Due i filoni di inchiesta. In quella laziale due precarie non ammesse allo scritto fanno ricorso e scoprono che nella busta col loro nome e cognome ci sono altri compiti, pieni di errori, e denunciano il fatto. Dalle indagini si scopre che i compiti delle due insegnanti escluse, corretti e che avrebbero determinato il passaggio dell'esame, sono andati a finire nelle buste di altre due colleghe. Che interrogate, dapprima negano, e dopo un po' confessano la corruzione: gioielli, foulard, maglioni e perfino profumi per ottenere il posto. I tre insegnanti dall'altra parte della barricata, reclutati come commissari d'esame, erano tutte e tre donne. Per i carabinieri trovare il corpo del reato è stato facile, perché a casa delle tre insegnanti sapevano cosa cercare. A Latina, per lo stesso concorso invece i commissari d'esame hanno chiesto fino a 10 milioni delle vecchie lire e gioielli che sono stati trovati nella cassaforte di uno degli inquisiti. A Salerno finisce sotto inchiesta, per scarsa trasparenza, anche il concorso per la scuola materna.

PARLIAMO DI INSEGNANTI DI SOSTEGNO AI DISABILI.

Un’inchiesta sul Corriere della Sera di Gian Antonio Stella si intitola: “La fabbrica delle cattedre al Sud con i furbetti del sostegnino”.

In quindici anni i docenti per i ragazzi con difficoltà sono triplicati. «Vogliamo più disabili!». L’invocazione surreale che spinse un gruppo di precari ad assediare il Provveditorato di Caserta chiedendo un aumento degli insegnanti di sostegno appare esaudita: la crescita dei portatori di handicap è dieci volte superiore a quella degli studenti. Una notizia da brividi se non ci fosse un sospetto. Che l’impennata sia dovuta alla scoperta da parte di chi aspira alla cattedra di un’equazione: più handicappati, più assunzioni. Soprattutto nel Mezzogiorno. La clamorosa denuncia è contenuta in un dossier di Tuttoscuola. «Nell'anno scolastico 2009-10 gli alunni disabili inseriti nelle scuole statali di ogni ordine e grado hanno superato le 181 mila unità (il 2,3% della popolazione studentesca), con un incremento di oltre 5 mila rispetto all'anno precedente», scrive la rivista diretta da Giovanni Vinciguerra. Peggio: «Negli ultimi cinque anni sono aumentati del 12,3%, mentre nello stesso periodo la popolazione scolastica aumentava dell'1,2». Un decimo. Sgomberiamo subito il campo: quello dei portatori di handicap, come dimostra tra gli altri il libro di Matteo Schianchi, "La terza nazione del mondo — I disabili tra pregiudizio e realtà", è un tema serissimo. Che toglie il sonno ai genitori dei ragazzi affetti da qualche disabilità, costretti ad affrontare il percorso scolastico troppo spesso senza un'assistenza adeguata. Proprio perché il problema esiste, però, suona offensivo il modo in cui alcuni ne approfittano. Come accadde tempo fa ad Agrigento, dove il Circolo della legalità mandò una lettera al ministero sottoscritta da 550 addetti e un esposto alla Finanza per denunciare l'abuso della legge 104. Legge che, a tutela dei dipendenti che abbiano invalidità superiori a un certo limite o debbano farsi carico di un parente disabile, dice che hanno la precedenza in graduatoria per avere un posto più vicino a casa. Norma giusta. Ma utilizzata, stando alla denuncia, da troppi furbi: «Praticamente il 100% dei posti nelle "materne" è stato assegnato negli ultimi tempi grazie alla legge 104. C'è una dilagante e prepotente disonestà che coinvolge non solo chi usufruisce dei benefici della Legge, ma anche chi consente queste pratiche fraudolente». Di più: «Il sistema sta dilagando». Dice oggi il dossier Tuttoscuola che «nel 1995-96, con una popolazione scolastica complessiva superiore a quella attuale, gli alunni con disabilità erano 108 mila. In quindici anni sono aumentati di quasi il 70%. I docenti di sostegno, che in quell'anno erano 35 mila, sono diventati ora più di 90 mila». Quasi il triplo: «Allora vi era un docente di sostegno ogni tre alunni disabili; oggi c'è un docente ogni due». Sia chiaro: è bene che i ragazzi più sfortunati vengano aiutati. E sotto questo profilo la legge italiana è migliore di tante altre al mondo. E lo riconosce anche la rivista di Vinciguerra: «È cresciuto molto negli ultimi 10-15 anni lo sforzo dello Stato verso un settore che sotto molti aspetti rappresenta un fiore all'occhiello» della nostra scuola. Ormai «l'Italia investe circa 3 miliardi di euro l'anno solo per il personale di sostegno». E quell'esercito di 90 mila insegnanti specializzati è maggiore più di tutti gli psicologi (70 mila) e i pediatri (14 mila) messi insieme. Che ci sia qualcosa che non va lo dice la mappa, da cui emergono squilibri sorprendenti»: «Ci sono più studenti disabili al Centro e nel Nord Ovest, ma lo Stato destina gli insegnanti di sostegno (a tempo indeterminato o precari) soprattutto al Sud e nelle Isole. E tra questi offre posti stabili (immissioni in ruolo a tempo indeterminato) molto di più proprio al Sud e nelle Isole che nel resto del Paese: il 52% dei posti fissi sono assegnati infatti nel Meridione». Dove vive circa il 27% degli italiani e dove risultano (sulla carta) il 40% degli alunni bisognosi di un appoggio. Dice la legge che ogni 100 insegnanti di sostegno 70 devono essere stabili ma questa percentuale sale all'89% in Campania e in Sardegna e crolla al 56% in Lombardia e in Veneto, si impenna al 91% in Basilicata e precipita al 55% in Emilia Romagna. Perché differenze così abissali? Tuttoscuola risponde che dipende «probabilmente in buona misura dai diversi criteri utilizzati dalle Asl per la valutazione delle disabilità» e questo nonostante «la legge richieda l'utilizzo dei parametri internazionali dell'Organizzazione Mondiale per la Sanità: e non a caso la manovra finanziaria di inizio estate ha introdotto la responsabilità per danno erariale da parte dei medici preposti». Quanto al «numero di docenti di sostegno e, tra questi, di quanti sono assunti stabilmente, si tratta di decisioni prese dal Ministero dell'istruzione». Di più: la sproporzione negli ultimi anni «si è accentuata». La spiegazione è una sola: c'è qualcuno negli uffici assai disponibile a fare piacerini agli amici e agli amici degli amici. C'è chi dirà che anche qui si tratta di un «risarcimento» al Mezzogiorno, come lo chiamava Mastella. Ma che c'entra il riscatto del Sud coi «furbetti del sostegnino»? Spiega il dossier che il posto d'insegnante di sostegno è in realtà una scorciatoia, tanto più in questi tempi di magra e di riduzione del personale, per la conquista della cattedra a vita. Basti dire che «dei 10 mila posti di docente per le nuove immissioni in ruolo 2010-11, più della metà (5.022) sono per posti di sostegno». Posti che dopo 5 anni, una volta guadagnata l'assunzione, si possono abbandonare per «passare all'insegnamento tradizionale». Ma come si diventa insegnanti di sostegno? Penserete: chissà quanti studi! No: basta frequentare «un semestre aggiuntivo all'università, per 400 ore totali. E non sempre la preparazione è all'altezza: per gli alunni con disabilità visiva, ad esempio, non è raro imbattersi in docenti di sostegno che non conoscono l'uso del Braille, la scrittura per ciechi».

DAL CONCORSO TRUCCATO AL RAPPORTO TEMPESTOSO TRA CITTADINI E FISCO

Il 7 giugno 2012 alle ore 10.30 si è tenuta la Conferenza Provinciale Permanente presso la Prefettura di Taranto. E’ stato invitato il Presidente della Provincia ed i sindaci delle maggiori città, tra cui Taranto. Sono state invitate le massime autorità cittadine, (polizia, carabinieri e Guardia di Finanza). Sono stati invitati i rappresentanti delle associazioni di categoria economica e sociale e di difesa del consumatore. E’ stato invitato il dr Antonio Giangrande, quale presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, iscritta presso alla Prefettura all’elenco antiracket ed antiusura. Il Prefetto ha aperto ed inoltrato i lavori con una sua relazione sui problemi della Comunità: crisi economica, instabilità e disagio sociale, rischio di usura. Il dr. Antonio Giangrande riguardo agli aspetti trattati ha comunicato ai presenti che, data la sua esperienza nazionale, con Tele Web Italia, la sua web tv nazionale, che ospita tutte le web tv locali, dà visibilità gratuita al territorio ed alle aziende che ivi producono per superare la crisi di mercato; considerando che le vittime del racket e dell’usura non hanno bisogno di visibilità, ha reso noto che ha predisposto uno sportello telematico affinchè le vittime, senza ausilio di intermediari, possano accedere agli strumenti di autotutela più adeguati previa informazione senza filtri sui benefici di legge, questo perché gli sportelli antiracket aperti a Lecce, Taranto e Brindisi sono solo strumenti di propaganda politica e di speculazione economica per attingere ai progetti POR; ha invitato ad una collaborazione reale la Camera di Commercio e le associazioni di categoria attraverso l’accesso ai Cofidi o gli Interfidi per superare l’ostacolo della mancata fruizione di finanziamenti dalle banche, per evitare il fallimento delle aziende o l’accesso al mondo usuraio dei cittadini. Il Prefetto ha replicato che l’intervento non era in tema. Meno male che Giangrande, esperto anche di economia, non ha fatto cenno all’usura bancaria ed all’usura di Stato con i tassi ed emolumenti riconosciuti ad Equitalia; non ha fatto cenno alle cartelle pazze, non ha fatto cenno alle esecuzioni giudiziarie con mancato diritto di reciprocità: cioè le esecuzioni di Equitalia sono reali, quelle contro Equitalia sono bloccate. Certo non per colpa di Equitalia, ma dei parlamentari che approvano norme che dovrebbero rappresentare i cittadini e non i poteri forti. Dalle prime battute, però, è stato chiaro che la conferenza era solo incentrata, secondo l’intento di stabilire la pace sociale e garantire allo Stato ed agli statali i sovvenzionamenti, sul gettare acqua sul fuoco riguardo i rapporti burrascosi tra il sistema sociale ed economico con Equitalia, che, purtroppo sfocia in vessazioni e disservizi da una parte e suicidi dall’altra. L’esordio del Prefetto è stato: niente polemiche, se no tolgo la parola; per cui il susseguirsi degli interventi è stato sulla falsariga intimata. Gioco facile per i rappresentanti di Equitalia replicare alle inconsistenti contestazioni dicendo che si impegneranno ad aprire centri di ascolto ed ad ampliare e dilazionare le riscossioni. Troppo poco per le aspettative di alcune associazioni presenti, che magari avrebbero voluto parlare delle sofferenze dei loro iscritti. Bene per i soliti personaggi genuflessi che fanno del lisciare il pelo al potere la loro missione quotidiana, anziché tutelare i loro associati. Molto bene per Equitalia che si è sentita a casa sua, ospite tutelato, al di là dei suoi meriti. La conferenza è stata chiusa dal Prefetto, istituzione a difesa di altra istituzione Equitalia con capitale Inps ed Agenzia delle Entrate, con un invito a vittime e carnefici di morandiana memoria: stiamo uniti e niente polemica. Subisci e taci, direbbe qualcuno.

L'Italia non è solo concorsi truccati, ma anche concorsi inutili. L'Inchiesta di Antonio Fraschilla su Repubblica: Il bluff dei concorsi inutili 100mila vincitori senza posto. In un anno 7mila gare. Speranze deluse, denaro sperperato: per le commissioni lo Stato spende 3 miliardi l'anno, ma le prove sono una beffa ai candidati che riescono a superarle. Il compenso di esaminatore può arrivare a 7.500 euro. Ma per il Ministro ci sono 300mila esuberi.

Simona Polselli da anni attende che arrivi la raccomandata che potrebbe  -  e che anzi avrebbe dovuto  -  cambiarle la vita. Era certa di riceverla, tanto che con mamma, papà e fidanzato ha già festeggiato. Mittente atteso, il Comune di Roma. Una bella lettera di assunzione come vincitrice di concorso per educatrice di asili nido. Ogni giorno Simona guarda la casella della posta, ma dal Comune riceve solo multe. Un caso isolato? Non proprio. In Italia altre 100 mila persone sono nel limbo di Simona: hanno vinto un concorso e festeggiato un'assunzione mai arrivata. Un'attesa infinita. Spesso l'ente locale ha preferito nel frattempo rivolgersi a precari (per chiamata diretta). Oppure il ministero di turno ha puntato sulle consulenze esterne. E poi ogni anno, puntuale come un orologio, nelle leggi finanziarie è arrivato il blocco del turnover con il taglio delle piante organiche. Peccato però che la macchina dei concorsi e delle illusioni continui ad andare avanti imperterrita. Perché? Per produrre cosa? Con quali speranze per i concorrenti? E infine: quanto costa alla collettività questo continuo promuovere ed eseguire concorsi che alla fine non creano occupazione?

La macchina delle illusioni. Magari prima o poi, a patto di resistere tanti anni, l'assunzione arriverà. Tuttavia le spese della fabbrica dei concorsi sono esorbitanti. Il "giro d'affari" è pari a 3 miliardi di euro all'anno, tutto a carico delle amministrazioni costrette a pagare commissioni e a volte società esterne per la correzione dei compiti. Nell’ultimo anno sono stati banditi dalle amministrazioni pubbliche oltre 7 mila concorsi. Che rischiano di non approdare a nulla, con il ministro della Funzione Pubblica che addirittura stima in 300 mila gli esuberi nel comparto pubblico e minaccia altri blocchi alle assunzioni. Secondo la Funzione pubblica Cgil oggi in Italia ci sono appunto 100 mila tra vincitori e idonei a concorsi banditi negli ultimi dieci anni che attendono di essere chiamati in servizio. "È una stima che abbiamo fatto raccogliendo le graduatorie pubblicate da diversi enti ", dice il segretario nazionale della Fp Cgil, Fabrizio Fratini. Istituto commercio estero, ministero dell'Interno, ministero dei Beni culturali, ministero di Grazia e giustizia, e poi Inps e Inail, per non parlare di grandi Comuni, da Roma a Palermo, passando per Regioni come la Campania: non c'è amministrazione pubblica che non abbia persone da assumere con regolare concorso già concluso. Le storie sono le più disparate. E alcune vale la pena di raccontarle. Per esempio quella di Maria Cristina Tomaselli. Una storia che inizia a maggio del 2004, quando il ministero di Grazia e giustizia bandisce il concorso per 39 psicologi da assegnare agli istituti penitenziari, visto il tasso crescente di suicidi in carcere che si registrava fin dal 2001. "Ho pensato che per me, psicologa precaria, era arrivata finalmente l'occasione giusta", dice Tomaselli che, allora trentenne, si mette a studiare giorno e notte. Supera una prova selettiva nella quale si presentano in 3 mila, poi altri due scritti e infine l'orale. Nel 2006 il ministero pubblica la graduatoria definitiva: "Quando ho chiamato al ministero è ho chiesto di sapere a che posto mi ero classificata, non credevo alle mie orecchie: "Tomaselli? Lei è nelle prime trenta". Ho riattaccato il telefono. Ho richiamato, perché non ci credevo. E invece era vero, finalmente avevo un posto di lavoro fisso. Da Milano, dove vivevo allora, ho chiamato i miei genitori e il mio fidanzato, ero al settimo cielo. La sera stessa ho festeggiato in pizzeria con i miei amici più cari". Da allora, più di quattro anni, non una comunicazione ufficiale né un avviso sul sito Internet. "Non abbiamo più saputo nulla, nonostante ricorsi al Tar e sentenze del giudice del lavoro che ci riconoscono il diritto a essere assunti. Nel frattempo molti miei colleghi che hanno vinto quel concorso sono entrati in depressione, perché la delusione è stata troppo forte dopo i sacrifici immani per vincere quel concorso".  Simona Polselli, l'educatrice mancata di asili nido, ha un'altra storia: "Ho vinto un concorso bandito nel 2005 per 150 insegnanti. Ci siamo presentate in 4.500". Nel 2009 dopo tre prove d'esame è stata pubblicata la graduatoria: cento assunte dal Comune tra il novembre 2009 e settembre scorso. "Le altre 50, tra cui ci sono io, non saranno assunte. Ci hanno detto che i posti non sono più disponibili perché nel frattempo l'amministrazione ha stabilizzato 1.200 precarie. E dire che quando ho saputo di aver vinto quel concorso ho comprato, con un prestito, il posto auto sotto casa. Il prestito l'ho fatto, l'assunzione non è più arrivata". Vicende come quelle di Simona le hanno vissute i 150 vincitori del concorso per ispettori di vigilanza bandito dall'Inps, i 500 funzionari che nel 2008 hanno vinto il concorso del ministero dei Beni culturali, altri 230 amministrativi del ministero della Pubblica istruzione, o i 100 del concorso per categoria B del Miur. O, ancora, i promossi del concorso bandito dall'Inail nel maggio del 2007: prima prova al Palalottomatica di Roma con 15 mila concorrenti, seconda prova a Castelnuovo di Porto, terza prova orale nella sede dell'Inail all'Eur. Dopo la proclamazione dei vincitori, a febbraio del 2010, l'ente si è scordato del concorso. "Per vie informali - spiegano i vincitori - abbiamo saputo che a causa del blocco del turnover solo 25 saranno assunti entro l'anno e altri 25 nel 2011".

Concorsi per l'ente che non esiste. Uno dei casi più eclatanti riguarda il ministero della Difesa: "Qui ci sono 2 mila vincitori del concorsone per figure che vanno dagli elettricisti agli assistenti amministrativi, e solo 23 sono stati assunti. Non ha fatto meglio però il ministero dell'Interno che deve assumere ancora 115 assistenti amministrativi contabili e 80 collaboratori che nel 2008 hanno vinto delle prove di selezione", dice Alessio Mercanti, che guida il comitato "dei vincitori di concorso non assunti", che il mese scorso ha manifestato davanti a Palazzo Montecitorio. "Da Palermo ad Avellino, da Ragusa a Palagonia, passando per la Regione Campania e quella siciliana, sono decine gli enti che hanno bandito concorsi-bluff per chi li ha fatti e per giunta vinti, demolendo l'ultima certezza in questi tempi di lavoro precario: e cioè che chi vince un concorso ottiene un posto di lavoro". Mercanti, da quando è a capo del comitato, riceve ogni giorno segnalazioni da tutta la Penisola. Ci sono addirittura casi in cui l'amministrazione appare schizofrenica. C'è da chiedersi: come è possibile? Come può accadere che da una parte stabilisca che un ente deve scomparire o ridurre la pianta organica e dall'altra approvi concorsi per nuove assunzioni che poi rimarranno solo sulla carta? Un caso esemplare è quello dell'Istituto del commercio estero, che nel 2008 ha messo a bando 107 posti in categoria C1. Alle prove si sono presentati in 15 mila. A questo concorso ha partecipato anche Giulia Nicchia, 31 anni, laureata Scienze internazionali, dottoranda e conoscenza di tre lingue, inglese, francese e russo: "Abbiamo svolto tre prove molto dure, e questo era il quinto concorso che provavo - dice Nicchia - Nell'aprile 2010 viene pubblicata la graduatoria definitiva. Ero a New York per studi e non credevo ai miei occhi: tra le prime 60 dell'elenco". Giulia torna in Italia a maggio: "Appena arrivata scopro che Tremonti ha previsto il taglio degli enti inutili, e tra questi c'è l'Ice. Ho capito subito che il mio sogno si sarebbe infranto". In Parlamento il testo della legge cambia e l'Ice rimane a galla. Ma arriva l'obbligo di ridurre l'organico del 10 per cento e avviare il blocco del turn over fino al 2013. "Siamo andati a parlare con il responsabile del personale: ci ha detto che ci avrebbero assunti da qui a 10 anni". Al Senato 30 deputati del Pd hanno presentato un'interrogazione. La domanda era semplice: perché l'Ice ha bandito un concorso da cento posti e non ha assunto nessuno? La riposta è stata laconica: "L'Ice ha calcolato male il suo fabbisogno in organico". Insomma, per l'istituto il concorso era inutile. I vincitori hanno chiesto l'accesso agli atti, scoprendo che nella pianta organica, nonostante il taglio, ci sono 107 posti da occupare. Intanto l'Ice vanta oltre 80 milioni di crediti dal ministero dell'Economia, che ne ha riconosciuti soltanto 40 e anche nel 2011 punta ad accorpare l'ente o riproporne la cancellazione.

Chi ci guadagna con gli esami. Nonostante il blocco del turnover, il taglio dei finanziamenti agli enti locali e gli annunci del ministro che stima in 300 mila gli esuberi nel comparto pubblico, la macchina dei concorsi in Comuni, Regioni, Province e ministeri vari è perennemente in moto. Soltanto a novembre scadono i bandi di 659 concorsi banditi dalla Lombardia alla Sicilia. Nell’ultimo anno si stimano in circa 7 mila i concorsi in enti pubblici. Con costi a dir poco elevati. Ma chi ci guadagna? Chi mette in tasca questo enorme flusso di denaro pubblico che spesso viene speso inutilmente? I compensi per i componenti di commissione variano da ente a ente. In media un commissario per un concorso riceve un gettone che varia da 123 a 309 euro, più un ulteriore bonus per ogni compito esaminato che varia da 0,1 a 0,5 euro: per concorsi con 15 mila partecipanti si può arrivare a ricevere come commissario anche 7.500 euro, anche se a volte le amministrazioni fissano dei paletti, come il Comune di Treviso che non dà ai singoli commissari più di 3 mila euro. Ma Treviso è un'eccezione. L'Agenzia delle entrate ha calcolato, per un concorso bandito recentemente, il costo di 1.500 euro per ognuno dei 500 posti messi a gara: totale, 750 mila euro. Il Comune di Napoli ha bandito un concorsone per 534 posti da amministrativo (112 mila i candidati): stimando un costo di 3,2 milioni di euro e affidando al Formez l'incarico di correggere le prove scritte. Conti alla mano, facendo la media dei 7 mila concorso banditi, il giro d'affari per società del settore e componenti delle commissioni, che vengono scelti tra professionisti, giudici del Tar e dirigenti di altre amministrazioni interni o esterni, è di circa 3 miliardi di euro: tutti a carico delle casse pubbliche. Uno spreco? Sì, se si pensa al blocco delle assunzioni, fino al 20 per cento di chi va in pensione, stabilito per legge in tutti gli enti e le amministrazioni pubbliche. Allo stesso tempo, non mancano però i casi i cui a pagare sono i concorrenti. Il Comune di Roma ha pubblicato 22 bandi di concorso per 1.995 posti: i disoccupati che hanno fatto domanda sono 10 mila e hanno pagato 10 euro a testa per presentare la documentazione. Comunque a fronte dei concorsi con vincitori non assunti, non mancano i casi di assunzioni e incarichi affidati per compiti uguali a quelli messi a bando dalla stessa amministrazione. Qualche esempio? Il Comune di Palermo ha bandito nel 2001 un concorso per 400 posti da vigile urbano: un centinaio dei vincitori a oggi attende la chiamata ma la pianta organica dei caschi bianchi palermitani è stata riempita lo stesso, con la stabilizzazione dei cosiddetti "lavoratori socialmente utili", che non hanno mai affrontato alcuna selezione. Stesso discorso per 300 vincitori del concorso all'assessorato ai Beni culturali della Regione siciliana: dopo dieci anni non sono stati chiamati in servizio, nel frattempo è nata la Beni culturali spa, società solo formalmente privata dove sono state assunte per chiamata diretta 700 persone. Il ministero di Grazia e giustizia, che non assume nelle carceri 39 psicologi che hanno vinto il concorso nel 2006, continua a dare incarichi all'esterno per lo stesso impiego, per una spesa che supera il milione di euro all'anno: e in pianta organica nelle carceri ci sono solo 14 psicologi per 60 mila detenuti. A volte invece accade che la stessa amministrazione freni alcuni concorsi e acceleri su altri, magari perché tra i vincitori ci sono parenti di politici e dirigenti dell'ente. Una commissione interna del ministero della Difesa ha scoperto, a esempio, che tra il 2005 e il 2008 in diversi concorsi banditi dall'amministrazione sono stati assunti mogli, figli e cognati di alti dirigenti del ministero che, puntualmente, sedevano nelle commissioni d'esame, scambiandosi favori. Altre amministrazioni invece, se hanno posti vacanti in pianta organica non chiamano gli idonei dell'ultimo concorso bandito, ma provano a farne altri: così i 2 mila idonei del concorso per vigili del fuoco eseguito nel 2000 rimangono a casa, mentre il comando dei vigili affronta altre spese per altri concorsi. E c'è chi non si pone nemmeno il problema di fare concorsi, volando alto sopra blocchi del turn over e stop alle assunzioni: la Protezione civile ha assunto 171 impiegati e dirigenti nel maggio 2010, trasformando contratti diretti di co. co. co in contratti a tempo indeterminato. I vincitori di concorso degli altri rami dell'amministrazione intanto attendono sempre meno fiduciosi.