Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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IL COGLIONAVIRUS

 

OTTAVA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

GLI ESPERTI

 

 

 

 

INDICE PRIMA PARTE

IL VIRUS

 

Introduzione.

Le differenze tra epidemia e pandemia.

I 10 virus più letali di sempre.

Le Pandemie nella storia.

Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia.

La Temperatura Corporea.

L’Influenza.

La Sars-Cov.

Glossario del nuovo Coronavirus.

Covid-19. Che cos’è il Coronavirus.

Il Coronavirus. L’origine del Virus.

Alla ricerca dell’untore zero.

Le tappe della diffusione del coronavirus.

I 65 giorni che hanno stravolto il Mondo.

I 47 giorni che hanno stravolto l’Italia.

A Futura Memoria.

Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.

Sintomi. Ecco come capire se si è infetti.

Fattori di rischio.

Cosa risulta dalle Autopsie.

Gli Asintomatici/Paucisintomatici.

L’Incubazione.

La Trasmissione del Virus.

L'Indice di Contagio.

Il Tasso di Letalità del Virus.

Coronavirus: A morte i maschi; lunga vita alle femmine, immortalità ai bimbi.

Morti: chi meno, chi più.

Morti “per” o morti “con”?

…e senza Autopsia.

Coronavirus. Fact-checking (verifica dei  fatti). Rapporto decessi-guariti. Se la matematica è un'opinione.

La Sopravvivenza del Virus.

L’Identificazione del Virus.

Il test per la diagnosi.

Guarigione ed immunità.

Il Paese dell’Immunità.

La Ricaduta.

Il Contagio di Ritorno.

I preppers ed il kit di sopravvivenza.

Come si affronta l’emergenza.

Veicolo di diffusione: Ambiente o Uomo?  

Lo Scarto Infetto.

 

INDICE SECONDA PARTE

LE VITTIME

 

I medici di famiglia. In prima linea senza ordini ed armi.

Dove nasce il Focolaio. Zona rossa: l’ospedale.

Eroi o Untori?

Contagio come Infortunio sul Lavoro.

Onore ai caduti in battaglia.

Gli Eroi ed il Caporalato.

USCA. Unità Speciali di Continuità Assistenziale.

Covid. Quanto ci costi?

La Sanità tagliata.

La Terapia Intensiva….Ma non per tutti: l’Eutanasia.

Perché in Italia si ha il primato dei morti e perchè così tanti anziani?

Una Generazione a perdere.

Non solo anziani. Chi sono le vittime?

Andati senza salutarci.

Spariti nel Nulla.

I Funerali ai tempi del Coronavirus.

La "Tassa della morte". 

Epidemia e Case di Riposo.

I Derubati.

Loro denunciano…

Le ritorsioni.

Chi denuncia chi?

L’Impunità dei medici.

Imprenditori: vittime sacrificali.

La Voce dei Malati.

Gli altri malati.

 

INDICE TERZA PARTE

IL VIRUS NEL MONDO

 

L’epidemia ed il numero verde.

Coronavirus, perchè colpisce alcuni Paesi più di altri? 

Perché siamo i più colpiti in Occidente? Chi cerca, trova.

Il Coronavirus in Italia.

Coronavirus nel Mondo.

Schengen, di fatto, è stato sospeso.

Quelli che...negazionisti, sbeffeggiavano e deridevano.

…in Africa.

…in India.

…in Turchia.

…in Iran.

…in Israele.

…nel Regno Unito.

…in Albania.

…in Romania.

…in Polonia.

…in Svizzera.

…in Austria.

…in Germania.

…in Francia.

…in Belgio.

…in Olanda.

…nei Paesi Scandinavi.

…in Spagna.

…in Portogallo.

…negli Usa.

…in Argentina.

…in Brasile.

…in Colombia.

…in Paraguay.

…in Ecuador.

…in Perù.

…in Messico.

…in Russia.

…in Cina.

…in Giappone.

…in Corea del Sud.

A morte gli amici dell’Unione Europea. 

A morte gli amici della Cina. 

A morte gli amici della Russia. 

A morte gli amici degli Usa. 

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CURA

 

La Quarantena. L’Immunità di Gregge e l’Immunità di Comunità: la presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.

L'Immunità di Gregge.

L’Immunità di Comunità. La Quarantena con isolamento collettivo: il Modello Cinese.   

L’Immunità di Comunità. La Quarantena con tracciamento personale: il Modello Sud Coreano e Israeliano.   

Meglio l'App o le cellule telefoniche?

L’Immunità di Comunità: La presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.

Epidemia e precauzioni.

Indicazioni di difesa dal contagio inefficaci e faziose.

La sanificazione degli ambienti.

Contagio, Paura e Razzismo.

I Falsi Positivi ed i Falsi Negativi. Tamponi o Test Sierologici?

Tamponi negati: il business.

Il Tampone della discriminazione.

Tamponateli…non rinchiudeteli!

Epidemia e Vaccini.

Il Vaccino razzista e le cavie da laboratorio.

Il Costo del Vaccino.

Milano VS Napoli. Al Sud gli si nega anche il merito. Gli Egoisti ed Invidiosi: si fanno sempre riconoscere.

Epidemia, cura e la genialità dei meridionali..

Il plasma della speranza, ricco di anticorpi per curare i malati.

Gli anticorpi monoclonali.

Le Para-Cure.

L’epidemia e la tecnologia.

Coronavirus e le mascherine.

Coronavirus e l’amuchina.

Coronavirus e le macchine salvavita.

Coronavirus. I Dispositivi medici salvavita: i respiratori.

Attaccati all’Ossigeno.

 

INDICE QUINTA PARTE

MEDIA E FINANZA

 

La Psicosi e le follie.

Epidemia e Privacy.

L’Epidemia e l’allarmismo dei Media.

Epidemia ed Ignoranza.

Epidemie e Profezie.

Le Previsioni.

Epidemia e Fake News.

Epidemia e Smart Working.

La necessità e lo sciacallaggio.

Epidemia e Danno Economico.

La Mazzata sui lavoratori…di più sulle partite Iva.

Il Supply Shock.

Epidemia e Finanza.

L’epidemia e le banche.

L’epidemia ed i benefattori.

Coronavirus: l’Europa ostacola e non solidarizza.

Mes/Sure vs Coronabond.

La Caporetto di Conte e Gualtieri.

Mes vs Coronabond-Eurobond. Gli Asini che chiamano cornuti i Buoi.

I furbetti del Quartierino Nordico: Paradisi fiscali, artifici contabili, debiti non pagati.

"Il Recovery Fund urgente".

Il Piano Marshall.

Storia del crollo del 1929.

Il Corona Virus ha ucciso la Globalizzazione del Mercatismo e ha rivalutato la Spesa Pubblica dell’odiato Keynes.

Un Presidente umano.

Le misure di sostegno.

…e le prese per il Culo.

Morire di Fame o di Virus?

Quando per disperazione il popolo si ribella.

Il Virus della discriminazione.

Le misure di sostegno altrui.

Il Lockdown del Petrolio.

Il Lockdown delle Banche.

Il Lockdown della RCA.

 

INDICE SESTA PARTE

LA SOCIETA’

 

Coronavirus: la maledizione dell’anno bisestile.

I Volti della Pandemia.

Partorire durante la pandemia.

Epidemia ed animali.

Epidemia ed ambiente.

Epidemia e Terremoto.

Coronavirus e sport.

Il sesso al tempo del coronavirus.

L’epidemia e l’Immigrazione.

Epidemia e Volontariato.

Il Virus Femminista.

Il Virus Comunista.

Pandemia e Vaticano.

Pandemia ed altre religioni.

Epidemia e Spot elettorale.

La Quarantena e gli Influencers.

I Contagiati vip.

Quando lo Sport si arrende.

L’Epidemia e le scuole.

L’Epidemia e la Giustizia.

L’Epidemia ed il Carcere.

Il Virus e la Criminalità.

Il Covid-19 e l'incubo delle occupazioni: si prendono la casa.

Il Virus ed il Terrorismo.

La filastrocca anti-coronavirus.

Le letture al tempo del Coronavirus.

L’Arte al tempo del Coronavirus.  

 

INDICE SETTIMA PARTE

GLI UNTORI

 

Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid?

Un Virus Cinese.

Un Virus Americano.

Un Virus Norvegese.

Un Virus Svedese.

Un Virus Transalpino.

Un Virus Teutonico.

Un Virus Serbo.

Un Virus Spagnolo.

Un Virus Ligure.

Un Virus Padano e gli Untori Lombardo-Veneti.

Codogno. Wuhan d’Italia. Dove tutto è cominciato.

La Bergamasca, dove tutto si è propagato.

Quelli che… son sempre Positivi: indaffarati ed indisciplinati.

Quelli che…i “Corona”: Secessione e Lavoro.

Il Sistema Sanitario e la Puzza sotto il Naso.

La Caduta degli Dei.

La lezione degli Albanesi al razzismo dei Lombardo-Veneti.

Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.

I Soliti Approfittatori Ladri Padani.

La Televisione che attacca il Sud.

I Mantenuti…

Ecco la Sanità Modello.

Epidemia. L’inefficienza dei settentrionali.

 

INDICE OTTAVA PARTE

GLI ESPERTI

 

L’Infodemia.

Lo Scientismo.

L’Epidemia Mafiosa.

Gli Sciacalli della Sanità.

La Dittatura Sanitaria.

La Santa Inquisizione in camice bianco.

Gli esperti con le stellette.

Epidemia. Quelli che vogliono commissariare il Governo.

Le nuove star sono i virologi.

In che mani siamo. Scienziati ed esperti. Sono in disaccordo su tutto…

Virologi: Divisi e rissosi. Ora fateci capire a chi credere.

Coronavirus ed esperti. I protocolli sanitari della morte.

Giri e Giravolte della Scienza.

Giri e Giravolte della Politica.

Giri e Giravolte della stampa.

 

INDICE NONA PARTE

GLI IMPROVVISATORI

 

La Padania si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?

Il Coglionavirus ed i sorci che scappano.

Un popolo di coglioni…

L’Italia si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?

La Padania ordina; Roma esegue. L’Italia ai domiciliari.

Conta più la salute pubblica o l’economia?

Milano Economia: Gli sciacalli ed i caporali.

 “State a Casa”. Anche chi la casa non ce l’ha.

Stare a Casa.

Ladri di Libertà: un popolo agli arresti domiciliari.

Non comprate le cazzate.

Quarantena e disabilità.

Quarantena e Bambini.

Epidemia e Pelo.

Epidemia e Violenza Domestica.

Epidemia e Porno.

Quarantena e sesso.

Epidemia e dipendenza.

La Quarantena.

La Quarantena ed i morti in casa.

Coronavirus, sanzioni pesanti per chi sgarra.

Autodichiarazione: La lotta burocratica al coronavirus.

Cosa si può e cosa non si può fare.

L’Emergenza non è uguale per tutti.

Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.

Dipende tutto da chi ti ferma.

Il ricorso Antiabusi.

Gli Improvvisatori.

Il Reato di Passeggiata.

Morte all’untore Runner.

Coronavirus, l’Oms “smentisce” l’Italia: “Se potete, uscite di casa per fare attività fisica”.

 

INDICE DECIMA PARTE

SENZA SPERANZA

TUTTO SARA’ COME PRIMA…FORSE

 

In che mani siamo!

Fase 2? No, 1 ed un quarto.

Il Sud non può aspettare il Nord per ripartire.

Fase 2? No, 1 e mezza.

A Morte la Movida.

L’Assistente Civico: la Sentinella dell’Etica e della Morale Covidiana.

I Padani col Bollo. La Patente di Immunità Sanitaria.

“Corona” Padani: o tutti o nessuno. Si riapre secondo la loro volontà.

Le oche starnazzanti.

La Fase 3 tra criticità e differenze tra Regioni.

I Bisogni.

Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.

L’Idiozia.

Il Pessimismo.

La cura dell’Ottimismo.

Non sarà più come prima.

La prossima Egemonia Culturale.

La Secessione Pandemica Lombarda.

Fermate gli infettati!!!

Della serie si chiude la stalla dopo che i buoi sono già scappati.

Scettici contro allarmisti: chi ha ragione?

Gli Errori.

Epidemia e Burocrazia.

Pandemia e speculazione.

Pandemia ed Anarchia.

Coronavirus: serve uno che comanda.

Addio Stato di diritto.

Gli anti-italiani. 

Gli Esempi da seguire.

Come se non bastasse. Non solo Coronavirus…

I disertori della vergogna.

Tutte le cazzate al tempo del Coronavirus. 

Epidemia: modi di dire e luoghi comuni.

Grazie coronavirus.

 

 

 

 

 

 

IL COGLIONAVIRUS

 

OTTAVA PARTE

 

GLI ESPERTI

 

·        L’Infodemia.

Il conflitto tra idee opposte resuscita la politica. Fausto Bertinotti de il Riformista il 14 Giugno 2020. La convocazione da parte del Governo Conte degli Stati generali induce a riflettere ancora più stringentemente sullo stato della politica, della nostra democrazia e sulla gravità della loro malattia. Difficile sfuggire alla domanda di fondo, se cioè essa sia ancora curabile e, se sì, per quale rottura radicale con l’ordine delle cose esistenti. È difficile intanto, proprio a partire dall’evocazione degli Stati generali, sottrarsi alla famosa formula di Marx, secondo cui nella storia, la prima volta è una tragedia, la seconda è una farsa. In ogni caso, si può annotare che in Francia per passare dagli Stati generali dei rappresentanti dei tre ordini (clero, nobiltà, borghesia) all’Assemblea generale, che avrebbe voluto dar vita alla volontà del popolo, c’è voluta nientemeno che una rivoluzione. Da noi un’inflazione di comitati senza popolo, radunati senza un’ispirazione chiara e dichiarata, sono stati chiamati a far da corona al governo e a fornire una legittimazione tecnico-scientifica alle sue scelte. La politica, svuotata dalle sue caratteristiche principali, che ne fanno il fondamento della vita pubblica e del suo governo, è diventata la grande assente, proprio quando una situazione di emergenza avrebbe richiesto la messa in campo della sua forza e, quando possibile, della sua potenza. Inabissatasi la vera politica, quando riemerge, essa prende la sostanza e la forma di una deforme caricatura. La sua cifra è allora quella che ci appare ora dinnanzi, la forma del litigio che prende il posto della contesa e dell’alternativa; un litigio impotente, quanto permanente, tra governo e opposizione, dentro il governo, dentro le opposizioni, tra lo Stato centrale e le autonomie regionali locali, con gli “esperti” e tra gli “esperti”. È la condizione del tutti-contro-tutti sull’inessenziale, al solo fine di alzare un proprio vessillo da mostrare nella grande giostra delle comunicazioni di massa. Sotto la turbolenza della superficie regna una calma piatta che riveste di sé i drammatici processi materiali in corso, i quali così diventano i nuovi sovrani. Essa inoltre opacizza i conflitti e le intese, insomma le scelte politiche che vengono compiute nel frattempo e con particolare peso nella dimensione europea. Solo così si spiega il caso di un governo come quello in carica, un governo sempre moribondo, ma che non muore mai. Anche il conflitto sociale in questo quadro viene anestetizzato, la drammaticità di tante realtà, a partire da chi si ritrova a dover vivere senza alcun reddito, spunta a fatica, accanto a manifestazioni di cattivo folklore, qualche volta persino osceno, e accanto ad altre confinate nella loro ritualità. C’è anche altro, per fortuna, che si affaccia promettente, prima fra tutti la piazza antirazzista di vicinanza alle possenti manifestazioni negli Usa conto l’infame uccisione di George Floyd, da parte degli agenti di polizia. Ma certo, il conflitto sociale non è protagonista sulla scena pubblica e la politica lo esorcizza. Al contrario, l’orizzonte proposto è quello della tregua sociale e, in politica, dell’unità nazionale. Il governo moribondo non muore anche perché l’unico suo accompagnamento è di ordine evolutivo, una sorta di possibile mutazione nel governo dei capaci e degli onesti, guidati dalle ragioni di una ripresa comandata dal mercato e dall’impresa. La politica, come l’intendenza di de Gaulle, dovrebbe solo seguirle. Sarebbe il primato neoborghese instaurato sul completamento dell’eutanasia della politica, così come si era affermata in tutta la modernità. Non so se essa possegga ancora un residuo di forza per rompere questo cerchio e tornare ad affermarsi, ma se ce l’avesse, dovrebbe al contrario del dissolversi nell’unità nazionale, tornare al classico, tornare alla fonte della sua esistenza, cioè ricominciare a dare vita ad una contesa aperta, comprensibile al “colto e all’inclita”, innervata sulla partecipazione popolare, una contesa tra la sinistra, il centro e la destra, affinché il popolo possa tornare protagonista di una scelta tra opzioni di società diverse, meglio se tra loro alternative. A partire proprio dalla risposta all’emergenza e alla crisi. A partire da queste risposte, dovrebbero prendere corpo e forza le diverse opzioni. Si è affermata a questo proposito una retorica su come il Paese affrontò l’uscita dalla Seconda guerra mondiale con la ricostruzione, si può anche assumere il riferimento storico degli anni Cinquanta, ma la verità in esso contenuta è il contrario di ciò che ci viene strumentalmente proposto. Altro che unità nazionale! Le sinistre vennero cacciate dal governo De Gasperi mentre erano ancora in corso i lavori per la Costituzione della Repubblica. Un intero ciclo politico, dentro il quadro più generale della Guerra fredda nel mondo, fu caratterizzato dallo scontro tra le sinistre e i governi neocentristi con conflitti elettorali portentosi e con un conflitto sociale acutissimo. Nella divisione sindacale, la Cgil di Di Vittorio animò un panorama di lotte sociali con occupazioni di fabbriche e grandi scioperi, accompagnati dalla proposta del Piano del lavoro. La polizia sparava sugli operai. La discriminazione sindacale era un’arma padronale. Ma proprio quelle lotte sociali, lo scontro politico tra sinistra e centro-destra, la presenza nel popolo di una cultura che parlava di una società diversa consentirono di contenere le drammatiche conseguenze sociali delle politiche liberiste e aprire la strada verso un nuovo e diverso ciclo politico, quello degli anni Sessanta. Non si tratta di ripetere una storia conclusa, ma di smentire una narrazione mortifera per la politica dell’oggi. Oggi c’è bisogno di restituire al popolo una possibilità di scelta sulle risposte della crisi e su quale prospettiva di modello economico, sociale ed ecologico avviare. Oscurati nella politica, i conflitti di interessi, di potere, per i diritti, di aspettative di vita sono invece acutissimi nella realtà sociale del Paese. Basterebbe per tutti assumere il prisma delle diseguaglianze. Se non ci si vuole impegnare, come pure si dovrebbe, nell’inchiesta partecipata sul campo, ci si affidi almeno agli ultimi dati dell’Oxfam sul divario intollerabile tra ricchezza e povertà. L’Italia del Coronavirus li sbatte in faccia a tutti come uno scandalo. Se il conflitto standard tra sinistra, centro e destra è uscito dalla politica, esso rivive duramente, sebbene incompiutamente, nella società. Il ritorno al classico chiede questa operazione vitale per la politica, quella di estrarre dalla realtà composita del mondo contemporaneo, dalla realtà dell’economia dello scarto e della disumanizzazione che lo connota, dal nuovo e inedito conflitto tra capitale e lavoro, i materiali da rielaborare in proposte politiche e culturali tra loro diverse. A dire che il conflitto tra capitale e lavoro è tutt’altro che obsoleto, ce lo ricordano ancora in questi giorni non solo Bonomi, ma anche il rapporto Colao, evidenziando così tutto l’arco delle posizioni pro-impresa. Un arco peraltro assai stretto che già lascia vedere le basi fondative di una nuova destra economica. Per rinascere la politica deve riscoprire le ragioni di fondo della contesa che l’ha fatta nascere nella modernità e che solo può dare senso e forza alla sua rinascita. La competizione, il confronto e lo scontro tra ordini di proposte programmatiche di ispirazioni diverse, a partire dalla concretezza drammatica e immediata dell’oggi, come sulle diverse alternative di società per il futuro, sono diventate questioni di vita (la sua rinascita) e di morte (quella già annunciata) della politica. Questo scontro può continuare a chiamarsi il conflitto tra sinistra, centro e destra. Sarebbe un inedito ritorno al classico, al fine di reinventarsi e ricostruirsi, dopo la fine dei due secoli che l’hanno fatta grande. Hic Rhodus, hic salta. Altrimenti la scena resterà occupata da morti che camminano, finché la società civile aprirà essa direttamente un conflitto con la politica.

Monti: "Stati generali? Una Bilderberg dei 5 Stelle..." Pubblicato il: 12/06/2020 da Adnkronos. "Gli Stati generali? Si potrebbero definire la Bilderberg dei 5 Stelle, direi io". Questo il commento ironico del senatore Mario Monti, ospite di Lilli Gruber a "Otto e mezzo" su La7, sugli Stati generali di Villa Pamphili. Quanto a Conte, "non penso che il premier abbia bisogno di fondare un suo partito per restare in politica, è stato presidente del Consiglio per ben due volte senza averne uno" dice Monti.

Il Club Bilderberg di Conte.  Andrea Indini il 15 giugno 2020 su Il Giornale. Otto e mezzo. In collegamento c’è Mario Monti che, trattenendo a stento il riso, parla degli Stati Generali indetti dal premier Giuseppe Conte per far ripartire l’economia nostrana. “Li possiamo chiamare la Bilderberg dei Cinque Stelle”. In studio anche Lilli Gruber trattiene a stento la risata. Entrambi, d’altra parte, sanno bene come funzionano le cose quando, una volta l’anno, il club creato nel 1954 dal banchiere statunitense David Rockefeller si riunisce per stabilire le sorti dell’ordine mondiale. Se la ridono, forse, perché lo standing delle conferenze organizzate in questi giorni a Villa Pamphili non eguaglia quelle a cui sono soliti partecipare. Eppure i grillini, che hanno a lungo demonizzato i gruppi di potere e la finanza che si riuniscono al Bilderberg, sono riusciti a replicare l’esperimento. Un luogo appartato (la residenza progettata nel Seicento da Alessandro Algardi e Giovanni Francesco Grimaldi), uno stuolo di boiardi con una sfilza di ricette (e di richieste) e l’estromissione della stampa. Filtra solo quello che deve filtrare. Il resto rimane tra i commensali. Il primo giorno, sabato scorso, ci è toccata la passerella dei vertici europei. Ieri, poi, si sono presi un giorno di pausa. E oggi è stata la volta di Vittorio Colao, capo della task force governativa per la “fase 2″. Domani toccherà alla Confindustria e alle associazioni di categoria. In queste prime ore nessuno ha fatto magie. Dal cilindro magico di Conte non sono uscite sorprese. E molto probabilmente non ne usciranno nemmeno da qui a domenica prossima quando chiuderà i battenti di Villa Pamphili e se ne tornerà a Palazzo Chigi con lo stesso pugno di mosche con cui è partito. I problemi del Paese, al termine di questa scampagnata, saranno tali e quali a quelli che ha lasciato quando l’auto blu l’ha portato fuori dalle mura capitoline. Le decisioni prese (almeno quelle in chiaro) potevano tranquillamente essere trattate nelle sedi istituzionali. È lì, infatti, che devono essere affrontate le crisi. L’emergenza economica, in cui il coronavirus ha gettato l’intero Paese, deve essere risolta al più presto e per farlo non servono le passarelle-show tra le siepi. Il parlamento non è chiuso per ferie, almeno per qualche settimana ancora. Perché il governo non ha scelto di confrontarsi con i parlamentari? Perché non ha scommesso sul dialogo tra maggioranza e opposizione per provare a far ripartire il sistema economico italiano? Forse, sotto sotto, c’è la presunzione di voler fare da solo. La sceneggiata di Villa Pamphili genera tra chi assiste inerme lo stesso scetticismo con cui i grillini sono soliti guardare gli invitati che si rinchiudono negli alberghi affittati per l’occasione dagli organizzatori del Gruppo Bilderberg. Al netto dell’inutilità dell’appuntamento, infatti, fanno sorgere più di un sospetto gli inviti estesi ai vertici di Commissione europea (c’è la presidente Ursula Von der Leyen), Banca centrale europea (c’è la governatrice Christine Lagarde) e Fondo monetario internazionale (c’è la direttrice Kristalina Georgieva). La Troika al gran completo, per intenderci. E qui il dubbio (più che lecito visti i trascorsi a Bruxelles degli ultimi mesi) è che quanto viene suggerito (se non imposto) a Conte non sia esattamente la ricetta migliore per il nostro Paese. A far loro le pulci non ci sarà alcun giornalista. Li hanno tenuti tutti fuori. Alla faccia della trasparenza… e dello streaming.

Il paradosso degli Stati Generali, i grillini alla corte dei poteri forti. Deborah Bergamini su Il Riformista il 13 Giugno 2020. Nel 2013 i 5Stelle entrarono in Parlamento dicendo di voler disintermediare tutti: stampa, politici, associazioni di categoria, lobby e chi più ne ha più ne metta. Dicevano che erano solo i cittadini a contare, e che loro erano proprio questo, cittadini delegati da altri cittadini. Sono passati 7 anni, e oggi quei cittadini celebrano il loro l’ingresso nell’alta società politica ed economica con un evento, battezzato “Stati Generali dell’Economia”, che sa molto di Gran Ballo dei debuttanti. Sede dell’evento, Villa Doria Pamphilj. La storica residenza seicentesca che un tempo appartenne all’omonima famiglia della nobiltà romana, venne espropriata nel Novecento e in seguito divenne sede di alta rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ad aprire le danze, la Troika. Nulla di male in tutto ciò: è giusto che chi governa crei occasioni per confrontarsi con chi subisce gli effetti delle sue decisioni. Ed è anche un bene che i 5Stelle abbiano capito che a non dare ascolto ai corpi intermedi della società si possono commettere errori fatali. Certo è paradossale, se si pensa a come e perché è nato il Movimento 5Stelle, vedere il loro leader maximo invitare a corte tutti quei poteri forti che un tempo dicevano di voler buttare fuori per sempre dai palazzi della politica. La dura realtà, che ha il nome di emergenza Coronavirus, ha spinto i pentastellati a cambiare il proprio modello decisionale: prima si decideva sulla piattaforma Rousseau, adesso si decide con le task force guidate dai manager internazionali o tra le siepi dei giardini segreti un tempo appannaggio della nobiltà romana. Ma qua l’attenzione non va tanto al trasformismo del Movimento 5Stelle, bensì al corretto funzionamento della democrazia e a cosa occorre fare per difenderla. È bene ricordare che nel nostro ordinamento il potere di fare le leggi spetta al Parlamento eletto dal popolo e che il potere esecutivo è esercitato dal governo che deve avere la fiducia del Parlamento. La Costituzione non prevede né task force né Stati generali: prevede appunto Parlamento e Governo. E se il governo proprio non ce la fa e ha bisogno di una mano, prevede il Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) che ha proprio funzione consultiva in materia economica e sociale. Se il Parlamento non è più il luogo che ha capacità di prendere decisioni, se queste vengono esternalizzate a terze parti che non hanno alcun mandato popolare, si corre il rischio di umiliare la democrazia parlamentare e in altri termini umiliare il popolo. Chi siede in Parlamento (o nei corridoi del Parlamento, dove ora i membri eletti sono costretti a votare – fuori dall’aula – sempre per ragioni Covid), checché ne dicano i 5Stelle non rappresenta semplicemente un partito: ogni parlamentare rappresenta un pezzo di società, di popolo, di culture, di territorio, che nessuna forma di aristocrazia moderna potrà mai sostituire. Ci sono sia alla Camera che al Senato 14 task force permanenti, divise per competenze, che sono le migliori disponibili, anche perché rispecchiano proporzionalmente l’elettorato: si chiamano Commissioni parlamentari e sono dedicate proprio a questo, a confrontarsi con i corpi sociali ed elaborare proposte. A differenza di quelle istituite dal governo Conte, sono task force che rispondono al popolo. Chi ne fa parte, se fa male il proprio lavoro, va a casa perché non viene rieletto. Intendiamoci: è bello – e non solo esteticamente – indire Stati generali come occasioni di confronto. Ma chi governa deve avere chiaro che è il Parlamento ad avere il compito di rappresentare gli interessi di tutti i cittadini nel loro insieme, e nessun altro. E deve avere chiaro che questa funzione decisionale non può essere un mero esercizio di forma, perché se così fosse si ridurrebbe il Parlamento a passacarte di un governo orfano di una qualsiasi legittimazione elettorale. Non so cosa abbia portato i 5Stelle a cambiare così tante volte modus operandi nel tempo. Ma se il loro obiettivo non è la fine della democrazia parlamentare, sarebbe bene che iniziassero a tutelare gli equilibri costituzionali che consentono al popolo di esercitare la sua sovranità. Forse, se lo facessero, si renderebbero conto che tutti gli esperti di cui si sono avvalsi nelle fasi dell’emergenza li avrebbero trovati in Parlamento e nella costante interlocuzione del Parlamento con i segmenti della società. In questo senso ridurre il numero dei parlamentari con la scusa dei risparmi avrà come unico effetto quello di costringere chi governa ad affidarsi sempre di più a professionisti che non dovranno mai affrontare il giudizio popolare per i loro errori. Un po’ come nelle aristocrazie del tempo che fu.

Francesco Merlo per la Repubblica il 14 giugno 2020. Cosa rimane del gran debutto degli Stati Generali? Il recinto del potere, l' Italia che governa l' Italia nascondendosi all' Italia, la processione di autoblu e di scorte armate, l' informazione ridotta ai pizzini di Casalino, le immagini preconfezionate per i tg a reti unificate. Poi alle 18 una breve conferenza stampa con un' autocelebrazione davvero imbarazzante: «siamo stati d' esempio », «ci è stato riconosciuto di avere indirettamente salvato vite umane in Europa». E via con l' elogio del proprio coraggio, della propria ambizione, «non ci accontenteremo della normalità». E mai una sola giornata sarà sottratta al servizio del Paese, che è il più vecchio luogo comune della retorica italiana, di Renzi, di Berlusconi, di Andreotti, di Craxi e, arretrando ancora, di Mussolini: tutti lasciavano la luce sempre accesa. E, manco a dirlo, negli spazi di reality confezionati per noi da Casalino ieri c' era sempre Giuseppe Conte immortalato in mezzo agli ospiti illustri: soddisfatto vip fra i vip, Ursula von der Leyen che sussurra in italiano «l' Europa s'è desta », Christine Lagarde, Sassoli, Gentiloni, Michel, tutti ospiti virtuali. E poi nel pomeriggio il governatore Visco e un bel panel di economisti, incolpevolmente esibiti come la testa d' alce sopra il camino di un club inglese, anche se il modello qui sono i muri delle pizzerie romane dove il pizzaiolo è abbracciato a Bonolis, Totti e Pippo Baudo. Odiosa, infine, l' evasività di Conte sulla decisione del governo di vendere due navi da guerra all' Egitto offendendo certo Paola e Claudio Regeni e la memoria del loro Giulio, ma soprattutto le enormi questioni di diritto e di libertà che quel nome evoca non solo nel Paese di Al Sisi dove è stato torturato e ucciso. Anche lo slogan "verità per Giulio" è diventato così un pretesto per le solite ritualità italiane. Probabilmente non era il caso di trattare come un colpo di teatro neppure l'accordo con Germania, Francia e Olanda sul vaccino che, studiato a Oxford, sarà prodotto a Pomezia, in Italia. Il ministro Speranza, accentuando l' espressione dolente che gli è naturale, sembrava persino a disagio in quel lungo tavolone rettangolare con la tovaglia arancione mentre raccontava di aver firmato un contratto con la società AstraZeneca per 400 milioni di dosi «da destinare a tutta la popolazione europea». Nella cultura di Speranza, che è sempre riuscito a tenere se stesso e il ministero della Sanità fuori dal populismo di governo e dalle incompetenze grilline, il vaccino di cui tutti avranno bisogno dovrebbe essere prodotto come «bene comune» e distribuito a tutti, dovunque. Forse dunque l' argomento andava protetto dalla scenografia fru-fru di quel salone e tenuto lontano dalle lunghe trecce d' edera che - tocco berlusconiano - ornavano il Casino del Bel Respiro. La corsa al vaccino (si parla di mille euro a dose) sta infatti accentuando le diseguaglianze, eccitando i nazionalismi e alimentando conflitti tra Stati e tra popoli. Ieri sembrava invece una di quelle pubblicità che fateci caso - stanno caratterizzando la riapertura dell' Italia e coinvolgono lo yogurt, le automobili e persino la carta igienica: "È prodotto in Italia!". Mai come ieri mattina, sfilando sull' invisibile red carpet dell' Aurelia antica, stretta e senza marciapiedi, e subito nascondendosi dentro il casino del Bel Respiro, il nuovo potere italiano aveva mostrato la sua verità di nomenklatura e chissà se lo è diventato a poco a poco o a scatti. Oppure forse c' è stato, nei due lunghi anni di governi dominati dai grillini, un momento fatale che ha cambiato il "contediprima" nel "contedipoi", e non nel senso del banale trasformismo politico, ma in quello antropologico. Chissà come ha fatto il professore che dilatava i suoi titoli e truccava il suo curriculum universitario a diventare l' uomo solo al comando, fastoso come Berlusconi, spavaldo come Renzi, sapiente nelle promesse e nel Rinvio come Andreotti, e "nazionalista" come Salvini nell' esibizione dei simboli italiani, da padre Pio al tricolore nella cravatta, dalle dichiarazioni d' amore per la Patria identificata con se stesso, sino «alla bellezza ci salverà» di ieri mattina: «abbiamo scelto questa location perché crediamo nella bellezza italiana» dove la password è "location". Villa Pamphili per lui non è bene comune, opera d' arte, luogo della memoria, parco, ma "location", una parola che individua il fondale per le cerimonie, il set cinematografico, le scene da matrimonio, la scenografia di questo nuovo potere, il rococò del populismo italiano. Rimane vero che nel parco di Villa Pamphili è stata tagliata l' erba e, per terra, tra gli alberi bellissimi ieri non c' erano più i soliti sacchetti vuoti, le siringhe,le bottiglie di plastica e le cartacce, nonostante siano rimasti rarissimi i cestini dei rifiuti. A Villa Pamphili, che è grandissima, gli habitués si sono accorti solo di questo: «non c' è più la spazzatura» mi dice la signora che raccoglie le foglioline d' edera, «solo le più tenere si possono ripiantare nei vasi». Cani e padroni si riconoscono tra loro, Argo e Medea sono bellissimi, il più disobbediente è Jack: «Er segreto è dargliele sur sedere ». Eh? «Colle mani, dico, mai col bastone». L' anno scorso qualcuno qui uccise una volpe. Villa Pamphili, si sa, è un posto dell' anima, un florilegio di capricci edilizi in mezzo al bosco. Ora Conte, come l' Adriano della Yourcenar, dice: «Io sono il custode della bellezza». Ma forse andrebbe incoraggiato l' uso statale delle ville e dei parchi di Roma, Colle Oppio e Villa Ada, la Caffarella e Villa Sciarra, Monte Mario e l' Appia Antica Sarebbe un modo per rimediare, ogni tanto, ai disastri della sindaca Raggi. L'esempio storico virtuoso è quello di Luigi Einaudi che per far restaurare Caprarola, che oggi è una meraviglia dell' umanità, decise di andarci in vacanza. Conte direbbe: la scelse come "location". Dunque i giornalisti, gli operatori e i fotografi sono stati tenuti fuori dalla bella "location", come in un campo profughi, come i baraccati che sulla via Vitellia anche ieri si arrangiavano sotto le mura di villa Pamphili. E infatti sono state diffusi solo video e foto ufficiali, tutte uguali, tutte agiografiche, e l' informazione è diventata un umiliante pissi pissi, un passaparola, con una grande produzione di pizzini. Già al mattino leggo che «il presidente Conte ha detto che". Ma come «ha detto» se sono solo le 9.45 e il benvenuto è previsto alla 10.30? Finito il tempo degli arrivi a piedi, in taxi o persino in bici, adesso hanno tutti la macchinona di Stato, l' autista e pure due auto di scorta e quando riconosciamo il faccino di Conte in mascherina «presidente!» gli gridiamo perché anche noi non abbiamo occhi che per lui. Ci guarda, scruta i nostri visi, forse cerca amici che non trova: le porte chiuse, che per l' Italia in quarantena sono state l' odiosa reclusione, ciascuno nel proprio appartamento, qui diventano grottesche autopromozioni, una gran voglia di autocertificarsi come una specie di "gruppo Bilderberg". Ma ci credono solo i simpatici compagni di Potere al popolo, di Rifondazione comunista, dei Cobas, un centinaio di militanti che ordinatamente sventolano le bandiere rosse già alle nove del mattino: «Mentre ci rubate il futuro fate festa. Saremo noi a farvi perdere la testa». Ecco, gli antagonisti, i ribelli, i rivoluzionari non lo sanno, ma spacciano la medesima allucinazione di Casalino, e cioè che a Villa Pamphili stia nascendo l' imbattibile Contepensiero: i pensieri di Conte come i pensieri di Mao.

Francesco Bechis per formiche.net il 14 giugno 2020. “Gli Stati generali mi ricordano una vecchia edizione del Grande Fratello. C’era Alessia Marcuzzi che metteva tutti di fronte al divano e iniziava a parlarci, con la mora, il biondo, quello più o meno famoso. Ecco, tutto questo sta succedendo ora, a Villa Pamphili”. Nicola Porro non ci va per la leggera. La grande kermesse radunata dal premier Giuseppe Conte per parlare di economia, rilancio, ripresa e dintorni nella storica villa romana è “una presa in giro colossale”, dice a Formiche.net il conduttore di Quarta Repubblica e vicedirettore del Giornale. C’è chi l’ha definita “la Bildelberg” del Movimento Cinque Stelle. Lo ha detto con un ghigno in tv Mario Monti, l’ex premier che, ai tempi di Palazzo Chigi, era già nel mirino del rampante movimento di Beppe Grillo e ora sorride di fronte al via vai di ministri pentastellati con il gotha dell’economia e della politica europea. “Ma quale Bilderberg, non scherziamo. Il Bilderberg è una cosa seria – dice Porro fra il serio e il divertito – lì almeno si fa networking, le persone si incontrano, parlano davvero. Questo è un happy hour ma con gli stuzzichini. Solo acqua e caffè, così ha deciso il geniale spin di Palazzo Chigi”. Gli chiediamo un bilancio della prima giornata. La passerella non era da poco. In fila, sono intervenuti i tre presidenti Ue, Ursula von der Leyen, Charles Michel, David Sassoli. Con loro il commissario all’Economia Paolo Gentiloni, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Discorsi di incoraggiamento, e tante congratulazioni al modello-Italia durante la crisi. Ma non sono mancati moniti più o meno velati da Bruxelles. Michel ha detto che c’è ancora molta “strada da fare” nei negoziati Ue per gli strumenti della ripresa e che rimangono “divergenze significative”. La von der Leyen ha ricordato che ai fondi devono seguire, subito, riforme strutturali in Italia. Porro sorride. “La cosa più divertente è che inviti la Troika e ti aspetti che dica cose diverse da queste. Bastava che Conte facesse una telefonata a Tsipras e avrebbe avuto un anticipo”. “Io non ho ancora visto nell’universo mondo, a meno che non sei Madre Teresa di Calcutta, qualcuno che dona senza chiederti qualcosa in cambio – aggiunge – L’Ue non ci regala nulla, ci dà una mano, non servono gli Stati generali per capirlo”. E se i fondi non mancano, ora il vero rischio è un altro, dice il giornalista. “Non sappiamo spendere qualche centinaio di milioni per il raddoppio Maglie-Leuca, né quelli per finire la Gronda. Non sappiamo erogare la Cassa integrazione. Figuriamoci la pioggia di soldi in arrivo. Lo dico da ora: i miliardi per la Sanità in arrivo dal Mes saranno un disastro. Meglio erogarne uno per macroregione che prenderli tutti insieme”. Conti a parte, c’è il bilancio politico del maxi-evento a Roma. Un bilancio netto. “È un’iniziativa di Conte-Casalino, con la speranza di rilanciare l’immagine un po’ ammaccata del premier affiancandolo alla von der Leyen. Nessuno, neanche loro, crede che da questo possa nascere mezza soluzione”. E se Pd e Cinque Stelle, salvo qualche rumore di sottofondo, hanno alla fine sposato l’iniziativa del premier, c’è un grande escluso che, dice Porro, darà filo da torcere a Conte: Davide Casaleggio. “Oggi ci sono due partiti, quello di Conte e quello di Casaleggio, ormai rivali in casa. Nell’intervista di oggi (al Corriere, ndr) ha messo più di un bastone fra le ruote di questo governo. Ha detto che non si deve fare il terzo mandato. E che bisogna passare dallo stimolo dei consumi agli investimenti. L’esatto contrario del reddito di cittadinanza. Una mazzata micidiale”.

Umberto Giovannangeli per ilriformista.it il 14 giugno 2020. «Siamo giunti a un punto di saturazione storica del potere costituito che non potrà mai essere potere costituente». È una lezione di storia e di politica, di passione civile e lucidità intellettuale, quella che viene da un signore di 93 anni, uno degli ultimi “Grandi vecchi”, e grandi per statura politica e non per anzianità acquisita, della politica italiana: Rino Formica. Dar conto di tutti gli incarichi di primo piano, di governo – ministro delle Finanze, dei Trasporti, del Commercio con l’estero, del Lavoro e della Previdenza sociale – e di partito, che il senatore Formica ha ricoperto, prenderebbe tutto lo spazio di questa intervista. A dar forza ai suoi ragionamenti, ai sui giudizi sempre puntuali e taglienti, non è il suo cursus honorum, ma quel mix, un bene oggi introvabile sul mercato della politica italiana, di sentimenti e di ragione che Formica offre ai lettori de Il Riformista.

Senatore Formica, in una intervista a questo giornale, Giovanni Maria Flick, che è stato ministro di Grazia e Giustizia nel 1996, chiamato a questo importante incarico da Romano Prodi, oltre che trentaduesimo presidente della Corte Costituzionale, ha affermato, dolente: «Che pena e che tonfo questa magistratura dilaniata da faide interne». E questo nel mezzo della bufera del Palamara-Gate. La storia si ripete?

«La storia si ripete nel senso che quelle che erano delle registrazioni è ciò che si ricava grazie alle tecnologie attuali. C’è da domandarsi: ma quando non c’erano queste tecnologie, queste cose avvenivano o no? Qui mi sovviene una cosa: nel 1991, il ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, scrisse una lunga lettera, oltre tre pagine, al presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, in cui denunciava che nel Consiglio Superiore della magistratura, tutto era ferocemente lottizzato e che l’Associazione Nazionale magistrati gestiva quello che poi è emerso dalle registrazioni attuali. Qui nasce un problema serio, che mi pare essere l’intenzione difensiva di Palamara: in sostanza, tutto avveniva da sempre e tutto era a conoscenza di tutti e tutti coloro che all’interno della magistratura volevano concorrere a ricoprire incarichi direttivi, avevano perseguito e perseguono le strade del comparaggio associativo. Ma qui la questione si fa più grave, molto più grave…»

E da cosa nasce questa gravità?

Dall’atteggiamento di Palamara, che non sostiene, per ipotesi, che tutti non potevano non sapere, ma che tutti sapevano. A questo punto si pone un problema che investe l’intero corpo istituzionale del Paese. Ma senza una rivoluzione, si potrà mai fare questo processo? Siamo giunti a un punto di saturazione storica del potere costituito che non potrà mai essere potere costituente».

E in tutto questo, che ne resta della sinistra?

«Niente. Perché se si guarda bene, nell’attuale farsa da circo equestre degli “Stati generali” si esibiscono forze politiche, di governo e di opposizione, che non hanno una vita democratica interna. Tre donne in Europa – la cancelliera tedesca Angela Merkel, la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen – hanno con un colpo solo distrutto la democrazia diretta e la piattaforma Rousseau dei 5 Stelle. Hanno demolito l’entrismo governativo opportunistico dei post-comunisti e dei post-democristiani e hanno liquidato la rumorosa combriccola sovranista del centrodestra a guida Salvini».

Ora, ma davvero c’è qualcuno che non ha portato il cervello all’ammasso e che mantiene un minimo di decenza intellettuale, che possa sostenere che una confusa parata di gitanti post segregazione virus, possa tirar fuori un piano di stabilità politica da presentare all’Europa, per realizzare riforme che richiederebbero un periodo di tempo dai 10 ai 15 anni?

«Si tratta di un arco temporale che copre almeno due legislature, quando non si riesce a far previsioni sulla vita di un governo per i prossimi 10-15 giorni. Questo è il punto».

Un punto che chiama in causa un deficit di leadership politica?

«Non è la leadership politica che manca, fosse solo questo… Quello che manca davvero è il pensiero politico. Vede, la tradizione occidentale dice che la vita politica delle nazioni era regolata da forze politiche in concorrenza tra di loro, sulla base di serrati confronti di dottrina e di prassi nel realizzare prospettive storiche non sovrapponibili. In Italia la sbornia dello splendido ed isolato isolazionismo sovranista, avrebbe virtuosamente ed automaticamente gestito il progresso della nazione. Tutto questo era sufficiente per coprire la pigrizia mentale di classi dirigenti raccattate alla men peggio. Ma davvero pensiamo di poter affrontare le immani sfide del presente senza un pensiero forte, e critico, in grado di misurarsi con una rottura, già avvenuta e resa ancora più deflagrante dalla crisi pandemica, dell’ordine istituzionale, politico, economico e sociale, sia nella dimensione nazionale che in quella globale? Chi lo pensa, e magari ha anche responsabilità di governo, è pericoloso per sé e per gli altri».

Senatore Formica, ciclicamente si torna a parlare, scrivere, evocare, denunciare i “poteri forti”. Ma a cosa si vuole alludere?

«Ci sono poteri forti extranazionali che svolgono la loro pressione sulla realtà nazionale, ma non sono affezionati a occuparsi in eterno dei guai di questo Paese, e quindi sono poteri che a un certo punto potrebbero anche disinteressarsi dell’Italia. Quanto ai poteri forti nazionali, residuali, sono Eataly di Farinetti, l’associazione degli albergatori e il sindacato dei bar e dei ristoranti… Francamente mi pare troppo poco per affidare a questi il potere sostitutivo delle istituzioni democratiche per far volare in Europa le ragioni di un grande Paese».

Ad alludere a poteri forti che tenterebbero di minare il cammino del governo da lui presieduto, è il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Come lo definirebbe?

«Un mediatore operoso, vicino alla figura del sensale».

E questo “mediatore operoso” può reggere un governo alle prese con la crisi pandemica e le sue pesanti ricadute economiche e sociali?

«Può reggere in una fiera del bestiame».

Lei ha attraversato la sua lunga e impegnativa vita politica nel campo del socialismo. italiano. Le chiedo: socialismo, è oggi ancora una parola pronunciabile?

«Si, è pronunciabile ma a una condizione: che i socialisti, quelli che restano dei vecchi e quelli che, giovani, vogliono abbracciare i vecchi ideali, la smettano di fare lunghi discorsi sulla distruzione del Partito socialista da parte dei suoi avversari, di destra e di sinistra, e comincino a ragionare sul perché nel ‘92-’96 non vi fu una resistenza socialista».

Cosa sono gli Stati Generali convocati dal governo per rilanciare l’economia. Redazione su Il Riformista il 10 Giugno 2020. Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha lanciato l’idea degli Stati Generali dell’economia, un’occasione di confronto e dialogo con le parti sociali – sindacati, Confindustria, Confcommercio, Confagricoltura e Pmi – , soggetti economici e rappresentanti politici per discutere su provvedimenti e misure da adottare per uscire dalla crisi causata dalla pandemia da coronavirus. Una proposta che ha scatenato più di qualche perplessità, soprattutto nell’opposizione. L’appuntamento partirà venerdì a Villa Doria Pamphili a Roma con gli incontri proprio con le opposizioni. Sabato sarà dedicato agli incontri con organismi internazionali e poi si continuerà da lunedì 15. Secondo l’Adnkronos gli Stati Generali dureranno per tutta la prossima settimana. Dovrebbero concludersi sabato.

CENNI STORICI – L’idea degli Stati Generali nasce in Francia nel XIV secolo. Secondo quanto riporta la Treccani, erano formati dall’assemblea generale dei rappresentanti di clero, nobiltà e “terzo Stato”, la borghesia. Il primo a convocarli il re Filippo il Bello il 10 aprile 1302 nella chiesa di Notre-Dame a Parigi. Alcuni rappresentanti venivano eletti prima a livello locale – dove si riunivano e stilavano i cosiddetti cahiers de doléance, nei quali raccoglievano lamentele e voti – e poi questi ultimi eleggevano i deputati all’Assemblea Generale. Alla convocazione degli Stati Generali ciascun ordine si riuniva separatamente e redigeva un proprio cahier. Un solo deputato parlava all’assemblea seguendo l’ordine clero, nobiltà e borghesia. Gli Stati Generali vennero convocati periodicamente, intervenendo nella deliberazione e ripartizione delle imposte, a partire dal 1484 fino al 1789, quando vennero trasformati in una Assemblea nazionale costituente. Gli Stati, a livello provinciale, votavano i sussidi richiesti dal sovrano e avevano competenze fiscali. Gli Stati Generali, nell’unione delle Province Unite, erano l’organo federale composto dai delegati provinciali. Vennero istituiti dai duchi di Borgogna nel XV secolo e riuniti nel 1576 per la costituzione di un esercito federale delle province cattoliche e riformate. L’organo divenne federale dopo il fallimento del trattato del 1756 e con l’Unione di Utrecht del 1579. Furono attivi fino al 1795, sostituiti dall’Assemblea Generale.

L’APPUNTAMENTO – In preparazione degli Stati Generali in programma a partire da venerdì 12 giugno, il premier Giuseppe Conte sta conducendo dei colloqui con i ministri (specie di brainstorming) del suo esecutivo. L’obiettivo è quello di arrivare all’appuntamento del 18 giugno, quando si deciderà sul Recovery Fund, con delle proposte precise.

Venerdì saranno ospitate le opposizioni. Sia il leader della Lega Matteo Salvini che quella di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni hanno mosso delle perplessità sull’appuntamento. “Non so ancora nulla, non so dove, come, quando e perché, poi vado, per carità”, aveva affermato Salvini. Ancora più critica Meloni: “Non ho capito bene che cosa siano. Mi pare che ci sia enorme confusione. Se devo andare a fare una bella serata, non ci vado da parlamentare della Repubblica … Se devo andarci come parlamentare della Repubblica, gli Stati Generali a casa mia si fanno nel Parlamento della Repubblica …”. Di avviso diverso Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia: “Sono sicuro che si debba andare. Decideremo una linea comune e dovremo partecipare ad un appuntamento che, pur tardivamente, va nella strada che abbiamo indicato. Speriamo che stavolta l’ascolto non sia soltanto un atto formale”. Sabato sarà il turno degli incontri internazionali. Ci sarà sicuramente il Presidente del Parlamento europeo David Sassoli, forse la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Da lunedì gli incontri saranno dedicati alle parti sociali. La dieci giorni di incontri e confronti è stata voluta fortemente dal premier e ha trovato resistenze anche nella maggioranza oltre alle critiche sollevate dalle opposizioni. L’appuntamento sarà chiuso alla stampa, tranne per la conferenza finale e un probabile altro momento stampa che dovrebbe tenersi in corso, forse a metà della settimana prossima.

La storia degli Stati Generali, di cui si parla tanto. L'idea nacque nella Francia del XIV secolo, quasi cinquecento anni prima della Rivoluzione, quando gli Stati Generali, scrive la Treccani, erano costituiti dall’assemblea generale dei rappresentanti dei 3 ordini o Stati: clero, nobiltà e "terzo Stato", ossia la borghesia.  Agi il 06 giugno 2020. La convocazione degli Stati generali dell'Economia e l'illustrazione del "Recovery plan" da parte di Giuseppe Conte sono state criticate dal Pd come iniziative "unilaterali", "delle uscite a freddo" del Presidente del Consiglio. Ma cosa sono questi Stati Generali di cui si parla tanto.

Chi partecipa agli Stati Generali. L'idea nacque nella Francia del XIV secolo, quasi cinquecento anni prima della Rivoluzione, quando gli Stati Generali, scrive la Treccani, erano costituiti dall’assemblea generale dei rappresentanti dei 3 ordini o Stati: clero, nobiltà e "terzo Stato", ossia la borghesia.

Chi li convocò per primo. Furono convocati per la prima volta dal re Filippo il Bello il 10 aprile 1302 nella chiesa di Notre-Dame a Parigi. Le elezioni dei rappresentanti  procedevano attraverso una prima designazione di elettori locali (mediante gli Stati provinciali), i quali si riunivano nel capoluogo, elaboravano i cahiers de doléances (quaderni nei quali erano raccolte, per ciascun ordine, le lamentele e i voti da presentare al sovrano) ed eleggevano i deputati all’assemblea generale.

Cosa facevano gli Stati Generali prima della Rivoluzione. Durante la convocazione, i 3 ordini si riunivano separatamente per redigere un cahier unico basato su quelli provinciali e un solo deputato per ogni stato parlava nell’assemblea generale e nell’ordine: clero, nobiltà e terzo stato. Poi si scioglievano senza attendere la risposta del governo del re. Dal 1484 furono convocati periodicamente e intervennero nella deliberazione e ripartizione delle imposte. L’ultima convocazione si ebbe nel 1789, quando furono trasformati in una Assemblea nazionale costituente. Negli Stati provinciali, a differenza dei generali, la rappresentanza dei 3 ordini era elettiva solo in minima parte, il terzo stato non essendovi rappresentato che dalle città, le quali delegavano uno o più ufficiali municipali.

Cosa facevano gli Stati provinciali. La funzione principale degli Stati provinciali era di votare i sussidi richiesti dal sovrano; erano inoltre competenti in materia fiscale, venendo le imposte stabilite, ripartite ed esatte secondo le usanze e per mezzo di funzionari provinciali. Nell’unione delle Province Unite, gli Stati generali erano l’organo federale composto dai delegati, con precisi incarichi delle singole province. Istituito dai duchi di Borgogna (XV secolo), furono riuniti nel 1576 per deliberare la costituzione di un esercito federale delle province cattoliche e riformate; fallito il trattato del 1576, con l’Unione di Utrecht (1579) divenne, con il consiglio di Stato e gli statolder, organo federale. Gli Stati Generali rimasero attivi fino alla rivoluzione del 1795, quando vennero sostituiti dall’Assemblea generale.

Stati generali, che cos’erano e perché portano male. Alessandro Di Stefano l'11 giugno 2020 su startupitalia.eu. L'organismo consultivo affonda le sue radici nella storia medievale francese. La premessa è d’obbligo: il Governo Conte nulla ha in comune con l’assolutismo francese dell’Ancient Régime. Ma la convocazione degli Stati Generali previsti a Roma durante il week end, per raccogliere le idee sulla ricostruzione post pandemia, solleva più di una domanda sulla scelta del nome di questo appuntamento. Bizzarra sia per la storia degli Stati generali, sia perché il partito di maggioranza relativa che esprime il Governo – il Movimento Cinque Stelle – è solito pescare nomi e spunti dalla storia francese (basti pensare al nome della piattaforma di democrazia partecipativa Rousseau, ispirata a uno dei filosofi di riferimento della Rivoluzione francese). Ma andiamo con ordine.

Stati generali: cosa erano. Gli Stati generali sono l’antico parlamento feudale francese. La loro prima convocazione avvenne nel 1302 a Parigi, dentro Notre Dame, e l’ultima andò in scena nel 1789. Di fatto non dobbiamo pensare a un organo legislativo moderno che si riunisce con cadenza regolare: erano piuttosto un organismo di consultazione che il Re convocava soltanto nei momenti di grave crisi. Gli Stati generali erano formati su base elettiva e rappresentavano i tre Stati in cui era suddivisa la società francese. Nobiltà, clero e Terzo Stato.

Differenze tra oggi e ieri. Se gli Stati generali convocati dal governo Conte vogliono ricostruire l’Italia dopo il lockdown e gli effetti devastanti della pandemia sull’economia, quelli di fine Settecento in Francia rappresentano invece un organismo da cambiare radicalmente. Così avvenne nella storica seduta del 5 maggio 1789, quando il Terzo Stato chiese la votazione per «testa», anziché per «ordini». Pochi giorni dopo l’organismo cambiò nome, divenendo l’Assembla Nazionale (il 17 giugno) e a seguito del giuramento nella sala della Pallacorda – sciogliersi soltanto con una nuova Costituzione e cedere soltanto alla forza delle baionette – prese inizio la prima fase della Rivoluzione francese, poche settimane prima dell’assalto alla Bastiglia. La storia non si ripete mai: il secondo tempo, al limite, rischia la farsa.

In Francia si chiusero con la ghigliottina.  Armando Moro Libero Quotidiano l’11 giugno 2020. Un Paese fortemente indebitato; un ministro delle Finanze che, per ottenere dalle banche prestiti a tassi sostenibili, si vede costretto a ridurre l’enorme disavanzo dello Stato e pensa di farlo aumentando la tassazione sugli immobili; disordini in varie città... Siamo nella Francia di ne ’700, la Francia di re Luigi XVI, il monarca che, per affrontare la grave crisi economica, decide infine (è il 5 maggio del 1789) di convocare a Versailles gli Stati generali. Si trattava dell’assemblea che riuniva i rappresentanti delle parti sociali dell’epoca: nobiltà, aristocrazia e terzo stato (cioè la borghesia, che però ormai pensava a sé stessa non come a una parte ma come alla rappresentante dell’intera nazione). Quel consesso non era una novità: la prima convocazione risaliva addirittura al 1302. Ma dall’ultima riunione erano passati più di centosettant’anni. E gli animi di tutti erano profondamente commossi. Ragion per cui i lavori, in quel 1789, furono assai turbolenti. Il governo, per la verità, aveva provato a ricondurre il tutto a una questione di risorse da trovare. Un soporifero discorso (tre ore di durata) del ministro delle Finanze Necker (un tecnico prestato alla politica: nella sua vita precedente faceva il banchiere, ed era pure svizzero) provò a tranquillizzare i convenuti: il disavanzo non ammonta a 105 milioni come si dice in giro, ma quasi alla metà. Insomma, se collaboriamo insieme ce la faremo. Il terzo stato non lo ascoltò, anzi disconobbe il consesso e si trasformò in assemblea nazionale. La rivoluzione travolse la Corona. E il 21 gennaio del 1793, a meno di quattro anni dalla convocazione degli Stati generali, re Luigi XVI venne ghigliottinato. Luigi XVI convocò clero, nobili e borghesia per affrontare la crisi. Poi perse la testa... In Francia si chiusero con la ghigliottina.

Testo ripreso da un libro del 2017. La figuraccia di Colao e dei cervelloni della task force: copiati e incollati dati sbagliati per il rilancio dell’Università. Redazione de il Riformista il 15 Giugno 2020. Parte del piano per il rilancio dell’Università copiata da un libro pubblicato nel 2017, che vede tra gli autori uno dei componenti della task force guidata da Vittorio Colao, a sua volta basato su alcuni dati errati diffusi dagli economisti. E’ quanto dimostra, con tanto di alcune parti integrali del libro, il sito Roars.it (Return On Academic Resarch and School). Lo “Spunto di riflessione – Una differenziazione smart per il sistema universitario” contenuto nel Rapporto redatto dal Comitato di esperti in materia economica e sociale è stato ripreso da un libro, intitolato “Salvare l’università italiana“, dei tre autori Giliberto Capano, Matteo Turri e Marino Regini, quest’ultimo parte del comitato di esperti che il Governo ha selezionato per affrontare l’emergenza coronavirus. Tre le pagine riprese dal libro uscito nel 2017 e al cui interno sono presenti anche dati sbagliati perché i tre autori avevano a loro volta ripreso un post degli economisti di LaVoce.info, senza curarsi di verificare cosa c’era veramente scritto nel rapporto VQR.  “Il testo dello spunto di riflessione di Colao riporta letteralmente, con qualche taglio, gran parte delle pagine 146-148 del volume di Capano, Regini e Turri” si legge su Roars.it. L’unica modifica “rilevante” fatta dal team di esperti della task force è cambiare “differenziazione intelligente” con “differenziazione smart”. Un lavoro di “copia e incolla” rilanciato tre anni dopo e con al suo interno anche diversi errori. “Non è vero  – spiega Roars.it – che ‘i ricercatori valutati tutti come eccellenti erano solo 296 (poco più del 6%)”. Nella VQR 2004-2010 i ricercatori di area economica che presentarono “lavori valutati tutti come eccellenti” furono infatti 440 pari al 9,6% (lo si legge a pagina 30 del rapporto ANVUR, Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca, di Area 13). Tra questi 440, scrive ANVUR, si distinguono “144 soggetti con un numero di lavori attesi inferiore a 3 (si tratta in massima parte di giovani ricercatori assunti …) e i 296 soggetti valutati con 3 valutazioni eccellenti (6,4% del totale)”. “Non è vero che quei “296 … erano distribuiti in ben 59 atenei”; erano distribuiti su 52 atenei. Mentre ad essere distribuiti su 59 atenei erano i 440 ricercatori eccellenti (tabella 4.14 del rapporto VQR); infine non è vero che quei 296 appartenessero a “93 dipartimenti diversi”. Secondo il testo del rapporto ANVUR (p. 31) sono i 440 totali che si distribuivano su 93 dipartimenti diversi. (Peccato solo che il dato riportato nel rapporto ANVUR non coincida con quanto contenuto nella tabella 4.15 dello stesso rapporto, dove i dipartimenti con almeno un ricercatore “tutto eccellente” sono 107. Ma si sa dei dati dell’ANVUR non c’è da fidarsi)”. L’errore è dovuto a una serie di dati copiati e incollati (citando la fonte) da un post firmato dagli economisti della Voce.info e non da una pubblicazione scientifica o da un rapporto originale Anvur.

Alberto Baccini per roars.it il 16 giugno 2020. Lo “Spunto di riflessione-Una differenziazione smart per il sistema universitario” contenuto nel Rapporto redatto dal Comitato di esperti in materia economica e sociale, presieduto dal top manager Vittorio Colao, già oggetto di un tagliente post di Giuseppe De Nicolao, è stato copiato e incollato (senza citazione) da un libro uscito nel 2017 per i tipi de Il Mulino. Il libro è intitolato Salvare l’università italiana. Gli autori di quel volume sono Giliberto Capano, Matteo Turri e Marino Regini, quest’ultimo parte della task-force capitanata da Colao. Evidentemente per rilanciare l’università dopo l’emergenza COVID, non c’era niente di meglio da fare che rispolverare una ricetta di qualche anno fa (fortunatamente) dimenticata. Il testo dello spunto di riflessione di Colao riporta letteralmente, con qualche taglio, gran parte delle pagine 146-148 del volume di Capano, Regini e Turri. Per essere precisi, Colao e la sua task-force hanno fatto un solo intervento rilevante sul testo originario: hanno trasformato la “differenziazione intelligente” di Capano et al. in “differenziazione smart“, come richiede un testo dal piglio manageriale. Nella figura riportata sopra si confrontano visivamente il testo di Colao (in celeste a sinistra) e quello originario di Capano et al. (a destra). Nelle tre pagine di destra sono evidenziate in giallo le parti copiate e incollate dalla task-force. L’effetto è a tratti esilarante. Il lettore del rapporto è portato a credere che Colao e la sua task-force abbiano effettivamente elucubrato e discusso e poi scritto: “E’ possibile allora … stimolare ciascuna università a a definire la propria particolare vocazione in una specifica combinazione di quelle funzioni per ciascuna delle aree scientifiche al suo interno, tendendo conto delle risorse disponibili e delle esigenze del territorio di riferimento? Noi riteniamo di sì.“ Peccato che quella domanda e quel “noi riteniamo di sì” siano stati scritti non da Colao e dalla task-force, ma da Capano e coautori a pagina 148 del loro libro. Una volta trovato l’originale, è stato facile trovare ricostruire anche la fonte originaria della supercazzola sui dati VQR sbeffeggiata nel post di Giuseppe De Nicolao. Una supercazzola di terza mano, come vedremo.

Scrive la task-force: “La qualità scientifica in Italia non e concentrata in pochi atenei eccellenti, ma e relativamente diffusa. Prendiamo l’esempio dell’area economica: nel primo esercizio di valutazione della qualità della ricerca (Vqr) i ricercatori che hanno presentato lavori valutati tutti come "eccellenti" erano solo 296 (poco più del 6% del totale), ma distribuiti in ben 59 atenei e 93 diversi dipartimenti.”

La task force ha copiato e incollato le frasi in rosso della precedente citazione dal testo di Capano e coautori. Purtroppo i tre dati contenuti in quelle frasi sono tutti sbagliati: non è vero che "i ricercatori valutati tutti come eccellenti erano solo 296 (poco più del 6%)”. Nella VQR 2004-2010 i ricercatori di area economica che presentarono “lavori valutati tutti come eccellenti” furono infatti 440 pari al 9,6% (lo si legge a pagina 30 del rapporto ANVUR di Area 13). Tra questi 440, scrive ANVUR, si distinguono “144 soggetti con un numero di lavori attesi inferiore a 3 (si tratta in massima parte di giovani ricercatori assunti …) e i 296 soggetti valutati con 3 valutazioni eccellenti (6,4% del totale)”; non è vero che quei “296 … erano distribuiti in ben 59 atenei”; erano distribuiti su 52 atenei. Mentre ad essere distribuiti su 59 atenei erano i 440 ricercatori eccellenti (tabella 4.14 del rapporto VQR); infine non è vero che quei 296 appartenessero a “93 dipartimenti diversi”.  Secondo il testo del rapporto ANVUR (p. 31) sono i 440 totali che si distribuivano su 93 dipartimenti diversi. (Peccato solo che il dato riportato nel rapporto ANVUR non coincida con quanto contenuto nella tabella 4.15 dello stesso rapporto, dove i dipartimenti con almeno un ricercatore “tutto eccellente” sono 107. Ma si sa dei dati dell’ANVUR non c’è da fidarsi). Ma perché Capano, Regini e Turri riportano dati sbagliati? Perché pure loro li hanno presi di seconda mano, senza controllare cosa c’era veramente scritto nel rapporto VQR. Li hanno copiati e incollati (citando la fonte) non da una pubblicazione scientifica o dal rapporto originale di ANVUR, ma da un post firmato dagli economisti della Voce.info (che evidentemente essendo eccellenti e avendo a suo tempo occupato in forze il panel di valutazione della VQR, non possono certo scrivere dati sbagliati). Nel post pubblicato sul sito del FattoQuotidiano il 22 luglio 2013, rilanciato il giorno successivo sul blog lavoce.info, gli economisti della voce avevano scritto: coloro che hanno ricevuto la valutazione massima in ciascuno dei lavori presentati… sono complessivamente 296 (poco più del 6 per cento del totale), e presenti in 59 diversi atenei e 93 dipartimenti distinti. Quindi, per riassumere, la task-force capitanata da Colao, per tratteggiare i dati essenziali sulla ricerca in Italia, fa copia-incolla da un libro di Capano, Regini e Turri; i quali a loro volta, invece di verificare i dati alla fonte, li avevano ripresi da un post su internet, errori inclusi. Se il rilancio dell’Italia è affidato a questi esperti, che possiamo dire? Andrà tutto bene!

Il piano Colao e il male dei tecnici: la politica li sceglie ma poi diffida. Francesco Damato Il Dubbio il 10 giugno 2020. Accusati di essere troppo rigidi e di non capire le sfumature della politica sottovalutando le ricadute elettorali e gli equilibri con gli alleati. Il mio amico Stefano Folli -il cui approccio giovanile alla politica avvenne, come quello di Maurizio Molinari, che ora ne è il direttore, in un ambiente molto sensibile ai tecnici come il Partito Repubblicano- dev’essersi messo le mani nei capelli osservando dalla sua postazione di Repubblica quello che nell’editoriale, o “punto”, ha definito “il cortocircuito” tra tecnici e politici a proposito del cosiddetto “piano Colao”. Che, concepito originariamente dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in pieno tempo di coronavirus, come un aiuto nella gestione di una crisi economica e socialista prevedibile con l’epidemia virale, è sorprendentemente diventata una specie di arma contundente di Matteo Salvini nell’assalto quotidiano al governo. Liquidato immediatamente, prima ancora che ne fossero rese note le 46 pagine e le 102 “idee”, come infarcite del peggiore “lobbismo” dal giornale allo stato delle cose più filogovernativo e più filo-Conte che è Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, il piano del povero Vittorio Colao, già amministratore delegato di Vodafone, è diventato un po’ la pietra dello scandalo in vista degli Stati Generali dell’Economia. La ciliegina sulla torta è stata o è apparsa -in politica non fa molto differenza- la mancata firma dell’economista di fiducia, consigliera e quant’altro di Conte in persona, che è la professoressa Mariana Mazzucato. Alla quale qualche giornalista ha strappato, non so se davvero o con una forzata interpretazione, una spiegazione del tipo: ho avuto ben altro di cui occuparmi. Oltre alle mani di Stefano Folli fra i capelli sono tentato di pensare a quelle di Conte fra i suoi. Non mi azzardo invece a pensare a quelli bianchissimi e folti di Sergio Mattarella al Quirinale, dove pure temo che non saranno rimasti insensibili di fronte al clamore provocato delle cronache politiche. A consolazione di tutti gli interessati, da Conte a Mattarella, coi loro trascorsi peraltro accademici, debbo dire e ricordare che i tecnici sono sempre stati un po’ spine nei fianchi dei politici.Aldo Moro, anche lui approdato alla politica dai suoi studi giuridici, divenuto nel 1959 segretario della Dc succedendo ad Amintore Fanfani, un altro professore giunto in seconda battuta in Parlamento, volle cominciare la sua esperienza al vertice del partito incontrando separatamente e diligentemente tutti i consiglieri, consulenti, esperti del suo predecessore. Fra i quali c’era, per le questioni istituzionali, il giovane professore Gianfranco Miglio: sì, proprio lui, quello destinato a diventare nella cosiddetta seconda Repubblica l’ideologo della Lega di Umberto Bossi. Che rimase incantato anche dal tedesco col quale il luminare sapeva contare, insieme con la moglie, le galline dell’orto accompagnando gli ospiti verso casa. Moro rimase non meravigliato ma scioccato dalla demolizione “tecnica” che Miglio fece anche a lui, come aveva fatto con Fanfani senza però turbarlo, della Costituzione in vigore da soli 11 anni. Essa già meritava, secondo il professore dell’Università Cattolica, profonde modifiche sulla strada del presidenzialismo. Non parliamo poi dei ritardi che il federalista Miglio considerava scandalosi nell’applicazione delle norme costituzionali sulle regioni a statuto ordinario, i cui consigli in effetti sarebbero stati eletti per la prima volta solo dopo altri undici anni, nel 1970. Terminato l’incontro, di prima e insolita mattina, come se avesse ascoltato un mezzo guerrigliero, il prudentissimo Moro, che peraltro aveva la pressione bassa e carburava solo sul tardi, confidò tutto il suo sconcerto al povero Franco Salvi. Che era qualcosa più del segretario personale e meno di un vice segretario politico. Fu proprio lui che mi confidò -prima che i nostri rapporti non si rovinassero per la frequenza con la quale parlavo con Moro senza chiedergli il permesso- di avere ricevuto dal nuovo capo della Dc l’invito ad eliminare Miglio dall’elenco dei consulenti di Piazza del Gesù. Diventato nel 1963 presidente del Consiglio del primo governo “organico” di centro-sinistra, col trattino e a partecipazione diretta dei socialisti, al posto dei liberali archiviati con l’esperienza centrista di stampo degasperiano, Moro promosse fra i suoi consiglieri economici, alle prese con la mitica “programmazione” voluta dai socialisti, l’allora giovane professore Beniamino Andreatta. Che poi sarebbe diventato politico pure lui: e che politico, di stazza superiore anche a quella fisica che aveva. Ebbene, parlandomene una volta come persona ”preparatissima, per carità”, che avrebbe peraltro avuto fra i suoi allievi un altro pezzo da novanta della politica come Romano Prodi, l’allora presidente del Consiglio mi disse che il suo consigliere andava “ascoltato ma non sempre seguìto” perché, adottandone alla lettera ricette, indicazioni e quant’altro, sarebbe stato impossibile governare non solo con i socialisti ma con nessun altro. Esse erano -mi spiegò- di una durezza tale che si sarebbe rischiata una “guerra civile”. Mica male, come paura. Di Giulio Andreotti e dei suoi consiglieri, fra i quali ci fu per un certo tempo anche Michele Sindona, ben lontano naturalmente da quel che sarebbe poi diventato, non posso raccontarvi nulla perché Andreotti non si abbandonava molto a confidenze, almeno con me. Una sola volta comunque lo sentii borbottare, ma in pubblico, contro un tecnico della finanza durante una riunione del Consiglio Nazionale della Dc: era il già allora potentissimo Enrico Cuccia. Ne bisbigliò tuttavia il nome solo rispondendo ai giornalisti che lo assediavano chiedendogli a chi avesse voluto riferirsi nel suo discorso. Mi accordo di essermi dilungato anche troppo. Ma consentitemi almeno di ricordare i problemi creati nella cosiddetta seconda Repubblica al pur volitivo imprenditore di successo Silvio Berlusconi dal “tecnico” Giulio Tremonti, costretto alle dimissioni da ministro da un supponente Gianfranco Fini che lo accusò a Palazzo Chigi di non capire niente di politica. Ma la parola fu ben diversa.

 “Quando il mondo verrà distrutto, non sarà ad opera dei pazzi, ma dagli esperti e dai burocrati”. Davide Ricca, Esperto di politiche attive del lavoro, su Il Riformista il 3 Giugno 2020. Non ho trovato un titolo migliore per queste riflessioni se non la famosa citazione di John le Carré. Ci voleva, infatti, il Covid 19 per farmi constatare che in Italia, perfino in queste settimane, c’è chi vive in un mondo perfetto, asettico, fatto di regole ideali definite a tavolino senza bisogno di alcuna verifica pratica. Purtroppo il divario tra i garantiti e i non garantiti cresce e si allarga. L’imbarazzante prestazione che la burocrazia ha fornito in queste settimane è stata un’ulteriore conferma della sua inadeguatezza e di quale costosissimo fardello costituisca per il Paese. Leggetevi le norme per la riapertura delle attività turistiche e dei pubblici esercizi. Schematizziamo il ragionamento: vi sono delle prescrizioni che sono palesemente inapplicabili e che costringeranno molti a non riaprire. Un approccio che trascura la sostanza per tutelare unicamente gli estensori del provvedimento, senza alcuna preoccupazione per gli esiti della norma e degli effetti che determinerà. Quando si compiono scelte politiche o si definiscono atti amministrativi, la prima regola dovrebbe essere la preoccupazione di prevedere quali conseguenze essi determineranno. Una disposizione non può essere svincolata dalle sue conseguenze e dalla concreta applicabilità, secondo la vecchia regola “non dare mai un ordine che sai già non potrà essere eseguito” perché ne va della tua credibilità. Ma questo non vale per la nostra burocrazia, che non ha avuto uno scatto di orgoglio neanche in questi mesi disgraziati. La qualità della democrazia è però indissolubilmente legata al suo funzionamento, che presuppone una burocrazia selezionata con criteri meritocratici, trasparente, rapida nelle decisioni, capace di leggere la realtà per viaggiare alla stessa velocità. Il disallineamento della Pubblica Amministrazione con la società reale è un nodo potenzialmente dirompente da affrontare, ma è una delle condizioni imprescindibili per riprendere la strada della crescita, ed è quindi un tema non più dilazionabile. La debolezza della politica, sempre più in difficoltà al cospetto dell’opinione pubblica, acuisce il problema. Quando la politica perde la sua prerogativa più alta, ovvero la capacità di convincere le persone della bontà delle proprie idee, deve trovare altrove la giustificazione delle proprie scelte e porsi in secondo piano rispetto ai tecnici, ai sondaggi, alla piazza. Ecco che la perdita di autorevolezza della politica la porta di volta in volta all’incapacità di assumersi responsabilità in proprio. Abbiamo così assistito in questo periodo a scelte che hanno trovato la propria giustificazione nel dettato dei comitati tecnici, dei comitati scientifici, degli esperti. Nulla contro le professionalità di costoro, ma se la politica deroga completamente al proprio ruolo, se non ha il coraggio e la capacità di decidere, di assumersi le sue responsabilità, ragionando solo nella logica di rispondere alle pressioni del momento senza guardare al medio periodo, è semplicemente inutile. Da qui il trionfo della burocrazia, delle procedure e l’inasprirsi della distanza tra chi vede ormai lo Stato come un avversario, se non come un nemico, piuttosto che come un alleato nel fare impresa, nel sostegno al reddito o alla salute, nella formazione propria o dei suoi figli, …Il rimpallo di responsabilità tra Governo e Regioni su colpe e attribuzioni di competenza è solo l’ultima manifestazione di un processo lungo e di mali antichi che hanno segnato la retrocessione dell’Italia in posizioni sempre più di rincalzo all’interno del consesso internazionale. La modernità presuppone tempi rapidi. Inevitabilmente si rende necessaria la sburocratizzazione e la relativa semplificazione delle norme. Spero che la pandemia faccia avere, in questo senso, uno scatto di reni a tutta la classe politica o saranno guai seri per il nostro Paese.

L'"effetto Peltzman" del virus. Leopoldo Gasbarro, Venerdì 17/04/2020 su Il Giornale. Si chiama «Effetto Peltzman» e misura il vantaggio parallelo ottenuto grazie a decisioni prese per motivazioni diverse rispetto a quelle che l'effetto contabilizza. Un esempio? Per arginare il contagio da Covid-19 si è deciso di tenere la gente in casa. Sta funzionando. Ma Peltzman ci dice che di vantaggi ce ne sono altri. Cominciamo? Nell'ultimo mese quante persone saranno morte per incidenti stradali? L' 80% in meno. E per le normali malattie respiratorie e influenzali che sono state diffuse molto meno proprio a causa dell'isolamento? Anche qui la risposta è molto alta, circa il 50% in meno. Sta diminuendo anche la mortalità per malattie cardiovascolari. Il freddo è spesso causa d'infarto e febbraio di solito è uno dei mesi più freddi dell'anno. La riduzione è consistente anche in questo caso. Negli Usa, dove i dati sono puntualmente disponibili, si stanno registrando cali generali di mortalità che superano il 50%. Ed inoltre, tutti siamo preoccupati per Covid-19, ma sono pochi quelli che, a ragione, considerano il virus già formalmente sconfitto. La ricerca continua ad avanzare e sono almeno 70 i vaccini già in fase di sperimentazione ed aumentano i farmaci che vengono usati in terapia e che stanno alleggerendo notevolmente le unità intensive: le persone vengono curate meglio e a casa. Ma se non ci fosse il vaccino, se dopo tutti i sacrifici in autunno il virus dovesse tornare a colpire? Saremmo già pronti sapremmo come individuarlo ed affrontarlo. Insomma, Covid-19 ha i giorni contati. Ma non lo percepiamo. Ne volete un'altra? Il Fondo monetario internazionale ci racconta di una possibile profonda recessione per l'Italia quest'anno del -9,1%. I titoloni negativi si sono sprecati. Ma nessuno si è accorto che sempre l'Fmi per il 2021 prevede un Pil italiano al 4,8%? Sarebbe tra le crescite maggiori degli ultimi trent'anni. Ma di questo chi ne parla? Mister Peltzman ci aiuta lei?

Laura Cesaretti per ''il Giornale'' il 16 aprile 2020. Ha resistito per settimane. Ha fatto muro di gomma, rifugiandosi dietro l’emergenza sanitaria, il numero di morti, la priorità di tenere sotto chiave gli italiani. C’è chi racconta di vere e proprie sfuriate: «Il premier sono io e non mi faccio commissariare. Non ho nessun bisogno di super-manager per sapere cosa decidere per il Paese». Poi Giuseppe Conte ha capito che alla pressione del Quirinale e a quei pezzi di maggioranza che reclamavano da tempo una cabina di regia per gestire la Fase due non poteva continuare ad opporre solo dinieghi, e ha provato ad aggirare l’ostacolo, per svuotare dall’interno una manovra che serviva, effettivamente, a far presidiare da competenze esterne un governo estremamente debole e confuso. Mettendo sul mercato politico nomi che potrebbero tornare preziosi per un eventuale (e da molti auspicato) dopo-Conte. Così ha consentito al suggerimento insistente del Colle («La situazione è gravissima, devi farti aiutare, servono competenze indiscutibili»), ha fatto buon visto a cattivo gioco e si è occupato lui stesso di far filtrare il nome di Vittorio Colao, facendola passare per una sua scelta e non – come sostanzialmente è stata – per un’imposizione. E attorno a Colao ha creato una sorta di comitato di studi monstre, del tutto privo di poteri ma accuratamente lottizzato, per appesantire e rendere inefficace l’operazione. Sedici nomi, alcuni scelti dal premier, altri da lui richiesti come indicazione ai partiti di maggioranza e ad altri soggetti sul cui appoggio Conte vuole poter puntare: per fare un esempio, l’illustre (e sconosciuto) Franco Ficareta, molisano che fa l’assistente di Diritto del lavoro a Bologna, è stato caldeggiato dal capo Cgil Stefano Landini, con l’avallo della ministra del Lavoro grillina Catalfo. Altri nomi sono stati suggeriti da Zingaretti o Franceschini, da Di Maio e dalla Casaleggio, dallo stesso premier (che già li aveva infilati tra i suoi consiglieri, come Mariana Mazzuccato o Filomena Maggini). Colao si è così ritrovato sul groppone una pletora di psicologi e sociologi, sindacalisti e economisti (alcuni di indubbia fama, altri meno) senza avere grande voce in capitolo. Tant’è che sulla squadra già filtrano le sue perplessità. Così come le sue critiche alla farraginosità burocratica con cui il governo si è finora mosso: «In Albania hanno già la app e noi ancora andiamo avanti con decine di moduli diversi di autocertificazione». Giuseppe Conte non si intende granché di governo, ma di gestione del potere sì, eccome. E sembra essere riuscito, per ora, nell’intento di neutralizzare il secondo tentativo (dopo il «caso Draghi») di provare a togliere progressivamente la regia della peggiore crisi dal dopoguerra dalle mani sue e di Rocco Casalino. Ora però, racconta chi conosce Vittorio Colao, bisogna vedere se e quanto un manager di statura e riconoscimento internazionale come lui, abituato a comandare, sarà disponibile a farsi bruciare dalle nebbiose lotte di potere romane. «Entro un mese – dice un dirigente dem assai critico con il governo – la task force dovrebbe indicare le possibili ricette per gestire quello che si prefigura come un cambiamento epocale di parametri. Non credo che Vittorio Colao sia disponibile a mettere in gioco la sua credibilità, se verificherà che non ci sono le condizioni per fare un lavoro serio, e tutto quel che gli si consente è di dirigere una sorta di gruppone variopinto di consiglieri del Principe».

Dall'articolo di Lorenzo Salvia per il ''Corriere della Sera'' il 16 aprile 2020. Non è un mistero che la composizione originaria della task force dovesse essere più snella, otto componenti in tutto. E che, dicono nel Pd, sia stato proprio il premier Giuseppe Conte a volerla allargare per annacquarla un po', per evitare che si trasformasse in un vero e proprio governo ombra. Ma ci sono anche altre contraddizioni. Tra i temi affrontati dalla commissione c' è anche la ripartenza della pubblica amministrazione, quando il ministero competente ha già emanato le direttive per la sua fase 2, con gli appuntamenti da prendere in anticipo per evitare assembramenti. Mentre manca un esperto di turismo, forse il settore più colpito in assoluto. Anche per questo a metà giornata, dalla commissione filtra una delle proposte allo studio, quella sullo scaglionamento degli orari di entrate e di uscita dal lavoro, che in realtà era già uscita due giorni fa. Insieme a quella per lo smart working obbligatorio nelle sedi al di sopra di un certo numero di dipendenti, sempre con l' obiettivo di alleggerire la congestione sui mezzi pubblici. Un segnale di vitalità. E una reazione all' assedio che c' è intorno.

Maurizio Belpietro per la Verità il 19 aprile 2020. Le aziende messe in crisi dall' epidemia di coronavirus non hanno ancora visto un euro dei 400 miliardi promessi da Giuseppe Conte. E nonostante le rassicurazioni del presidente del Consiglio, migliaia di lavoratori a tutt' oggi rischiano di perdere il posto. In compenso, il governo ha già creato 450 consulenti, un esercito di professionisti o presunti tali chiamati ad affiancare premier e ministri nel momento dell' emergenza. Sì, qualcosa di positivo il Covid-19 lo ha fatto: ha dato una ribalta - e forse un compenso - a una legione di professori o presunti tali, i quali sono stati chiamati a svolgere un ruolo di supervisori e super consiglieri, senza ovviamente dover rendere conto a nessuno, perché le diverse task force ministeriali non hanno un ruolo preciso, non sono inquadrate nella pubblica amministrazione e come referente hanno solo chi ha deciso di volerli al proprio fianco. A fare l' elenco del plotone di consulenti schierato da Palazzo Chigi contro il virus è stato Il Sole 24 Ore, che con pazienza si è preso la briga di censire tutti gli esperti di cui si sono circondati i ministri del Conte bis. Già il titolo del quotidiano confindustriale la dice lunga sulla necessità di arruolare una truppa così numerosa, infatti il giornale salmonato parla di caos fra le diverse task force, le quali sono così numerose da farsi ombra l' una con l' altra e da infastidirsi a vicenda. Anche perché ogni esponente del gabinetto di guerra allestito dal governo ha voluto al fianco una propria squadra. Tra i primi a circondarsi di consulenti, dopo aver capito di non aver capito niente di ciò che stava succedendo, è stato Roberto Speranza, il parlamentare di Leu che dovrebbe difendere la nostra salute. Dopo aver dato assicurazioni a destra e a manca sulle misure messe in atto, Speranza (nomen omen) ha preferito tutelarsi con una sua personale guardia pretoriana di consulenti. In totale se ne contano otto, tutti provenienti dagli alti gradi degli enti sanitari. Ma se il ministro della Salute ha voluto la task force, poteva la Protezione civile non avere la sua? Ovvio che no e così anche Angelo Borrelli, il ragioniere a cui è stata affidata la cura degli italiani, ha insediato il suo comitato di esperti. Non volendo essere da meno, il revisore dei conti che non è riuscito a rivedere gli ordini di mascherine protettive per i medici, ha insediato 15 consulenti, chiamandoli a far parte del comitato tecnico scientifico. Se il capo della Protezione civile ha la sua squadra, posso non averla io, deve aver pensato Francesco Boccia, il ministro che deve tenere i rapporti con le Regioni. E quindi ecco insediata la cabina di regia tra governo ed enti locali, con 40 componenti. Lucia Azzolina, ministro dell' Istruzione, ha però deciso di sbaragliare sia Speranza che Boccia, nominando una task force di 100 esperti, con dentro dirigenti del ministero, esponenti della protezione civile, pediatri, responsabili territoriali e, perché no, anche studenti. Ma, per non farsi mancare niente, al Miur, cioè al ministero dell' Istruzione, dell' università e della ricerca, hanno deciso di fare una seconda task force: la prima per l' emergenza, la seconda per il dopo emergenza, con altri 15 esperti. Vi sembra troppo? Beh, non avete ancora letto ciò che sono riusciti a fare negli altri ministeri. All' economia Roberto Gualtieri e i suoi hanno insediato la task force per la liquidità del sistema bancario (35 consiglieri), all' Ambiente Sergio Costa si è fatto il suo bravo gruppo di lavoro per l' accesso delle imprese green al credito (9 consulenti), alla Giustizia Alfonso Bonafede ha voluto la task force delle carceri (40 esperti), mentre Paola Pisano, ministro dell' Innovazione, ha creato un super gruppo di lavoro composto da 76 tecnici per vigilare sui dati. Le commissioni più interessanti però sono quelle della ministra della Famiglia, Elena Bonetti, e quella predisposta dal sottosegretario all' editoria, Andrea Martella: la prima ha insediato una task force denominata «Donne per un nuovo Rinascimento» (13 membri), il secondo ha voluto al suo fianco una pattuglia contro le fake news (abili e arruolati in 11). È finita? No, ci sono ancora i magnifici 40 ingaggiati dal commissario Domenico Arcuri, i 20 di Bonafede per la Giustizia e gli otto chiamati a far parte della cabina di regia tra governo ed enti locali per la fase due, una super task force pretesa da Speranza e Boccia, perché delle commissioni che avevano già insediato non ne avevano abbastanza. Per finire, c' è poi la commissione della riapertura, già soprannominata Colao Meravigliao, dal nome del suo esponente più illustre, l' ex amministratore delegato di Vodafone: 20 esperti che dovranno decidere se si è usciti dall' emergenza e si può tornare a una vita normale. Certo, parlare di vita normale non è facile. Soprattutto se si considera che l' Italia, pur avendo il più alto numero di parlamentari e di burocrati, è costretta a farsi aiutare e rappresentare da 450 signori che nessuno conosce, ma che soprattutto nessuno ha mai eletto. Pensandoci, ci vorrebbe una task force che insegni la democrazia al professore Giuseppe Conte, primo ministro senza voti ma con tanti consulenti.

Mario Ajello per “il Messaggero” il 30 novembre 2020.  Stavolta, nella nuova super-commissione, sono in 300. Forse per smentire la certezza di Benedetto Croce secondo il quale, in politica, «l' unica commissione in grado di fare qualcosa è quella con un numero di componenti pari che sia inferiore all' uno». Ovvero, zero. Sennò si straparla e si litiga senza approdare a nulla. Magari in questo caso non sarà così e viene da canticchiare «Eran trecento, giovani e forti...», anzi no perché quella spedizione (di Pisacane) non andò bene. Il fatto è che la Repubblica delle commissioni, dei comitati, delle task force, dei commissari e dei conferenzieri (quelli degli Stati Generali di maggio non resteranno nella storia della concretezza politica) ha trovato il suo apice e il suo apogeo in questo ultimo anno un po' per via del Covid, che richiede la moltiplicazione degli sforzi, e un po' per un altro motivo. Ossia per via dello pseudo machiavellismo per cui il modo migliore per decidere in proprio, o per non decidere proprio, è quello di allargare a dismisura gli organi di consulenza. Nella speranza di suscitare l' effetto bla bla. Fin dall' inizio della vicenda Recovery, la Repubblica dei commissari che rischia la paralisi per eccesso di commissari aveva pensato che per coordinare le politiche di sviluppo bastasse moltiplicare i titolari o presunti tali: e via con il Cipess, il Dipe, il Mattm, Benessere Italia, Investitalia, Commissione nazionale per lo sviluppo sostenibile, più il Ciae (Comitato interministeriale affari europei) e corrispondente Dipartimento per le politiche europee. E adesso a dare manforte (sembra quasi di stare alle Termopili) sono arrivati i 300 di Leonida-Conte contro Serse re di Persia che sarebbe la crisi provocata dal Covid. Ma c' è poco da sorridere. E infatti il titolare della celebre Task Force per la Ripresa, Vittorio Colao alla guida di 15 super-esperti con il compito di non fare ombra al premier e al governo, ha sempre rilasciato pochissimi sorrisi. Una giungla popolata dall' inizio dell' emergenza virus da una ventina di commissioni - più tutte quelle regionali, provinciali, comunali - e da 1400 incarichi affidati, secondo il calcolo di Openpolis, a uomini e donne. Poche donne e basti pensare che il Comitato tecnico-scientifico è al 100 per cento maschile. Un commissario come Arcuri può anche essere pluri-commissario, ossia moltiplicare l' eccezionalità di cui è investito. E lo stesso posto di commissario può passare di mano anche quattro volte in pochi giorni come nel caso Calabria. In verità si rischia di perdere il conto: task force Carceri (40 componenti), task force Giustizia (in 20 e 3 tavoli tecnici), task force Finanza Sostenibile (del ministero Ambiente, 9 componenti), due task force della ministra Azzolina ( 115 persone in tutto), la task force Donne per un Nuovo Rinascimento (in 13 nominate dal dicastero Pari opportunità), la task force Data Drive per Immuni (74 componenti). E via così, in una sbronza collettiva che, in nome della semplificazione, non semplifica. Generando sovrapposizioni, e anche invidie e ripicche. Mentre Palazzo Chigi coordina il procurato caos animato da virologi ed epidemiologi (e fin qui ci siamo) ma anche da tuttologi, politologi, sociologi, psicologi, manager veri e manager emozionali, sapienti veri e imbucati. Se non sei un commissario, non conti nulla. E c' è chi dice che la commissionite e la commissarite rappresentano la via italiana al problem solving. Già descritta da Cesare Pascarella più di un secolo fa: «E invece de venì a 'na decisione, / Sa, je fecero, senza complimenti, / Qui bisogna formà 'na com

Borrelli, Arcuri, Colao: Conte ha paura di decidere e si auto commissaria. Deborah Bergamini de Il Riformista il 15 Aprile 2020. Mentre impazza la discussione sul ricorso al Mes che rischia di mettere sotto commissariamento l’Italia, prendiamo atto che di fatto l’Italia è già commissariata. A decidere del futuro sanitario ed economico di tutti noi ci sono commissioni per ogni palato: c’è il comitato tecnico-scientifico che si occupa di supportare la Protezione Civile su questioni di carattere epidemiologico; c’è il commissario straordinario per l’emergenza Borrelli, che si occupa di coordinare e organizzare il lavoro della Protezione Civile; c’è l’altro commissario straordinario per l’emergenza, Domenico Arcuri, che si occupa dell’approvvigionamento delle forniture sanitarie; c’è la task force tecnologica di 64 esperti voluta dalla Ministra Pisano, e da ultimo c’è Vittorio Colao, chiamato a guidare la task force che si occuperà di immaginare, insieme ad altri, la cosiddetta fase 2, e cioè la ricostruzione economica del Paese. A fronte di tutti queste commissioni e comitati tecnici si evidenzia, e macroscopica, l’assenza della politica. Sì, perché il coinvolgimento di quest’ultima, da parte del Presidente del Consiglio, è al minimo. La cosa non è strana, essendo Conte espresso da un partito, il M5S, che, considerando l’esercizio della politica solo un costo, si batte per la democrazia diretta e il taglio dei parlamentari. E immaginiamo – ma non siamo certi – che tutti questi esperti e commissari lavorino peraltro a titolo gratuito, a cominciare dalla Task Force fase 2, perché sarebbe assurdo voler abbattere un costo – quello degli eletti dal popolo – per sostituirlo con un altro, quello di figure non elette per fare quello che dovrebbero fare gli eletti, e cioè decidere per il bene comune. Fatto sta che l’avvocato Conte, mai eletto a sua volta, ha perso l’opportunità di coinvolgere nella gestione dell’emergenza uno strumento disponibile e molto valido, oltre che molto politico: le commissioni parlamentari, quelle sì legittimate da libere elezioni. Decine di parlamentari lavorano in quelle commissioni, sono divisi per competenze e potrebbero benissimo audire gli esperti e svolgere un ruolo chiave nell’aiutare il governo sui provvedimenti da assumere. Invece sono ridotti a vidimatori di decisioni già elaborate nelle segrete stanze. Tutto ciò non vuol dire esautorare il Parlamento, ma umiliarlo sì. Non si capisce infatti perché non potevano essere le commissioni permanenti preposte (dove comunque Pd e 5stelle hanno la maggioranza), o commissioni ad hoc, il luogo in cui raccogliere e trasformare in leggi i consigli di virologi, economisti, medici, esperti e via dicendo. Se il governo intende delegare tutte le scelte rilevanti a tecnici esterni, non legittimati da un voto popolare, a cosa serve il Parlamento, a cosa serve la politica: a ratificare le decisioni prese da terze parti? Oppure, ma spero non sia così, Conte e Zingaretti non reputano i loro presidenti di commissioni parlamentari all’altezza di raccogliere i pareri dei tecnici e decidere sui provvedimenti da adottare? Chissà perché, ad esempio, il senatore Stefano Collina, presidente della Commissione Sanità al Senato per il Pd, non è stato incaricato di audire tutti gli esperti del caso e svolgere un efficace lavoro sui contenuti, così da consentire al Parlamento di assumersi la corresponsabilità delle scelte indispensabili per fronteggiare l’emergenza sanitaria? Perché non si è chiesto alle Commissioni economiche o di altro tipo di sentire imprenditori, associazioni di categoria, economisti, esperti, per preparare la fase 2? Perché, proprio nel momento in cui il governo è chiamato a definire le scelte più importanti ha preferito esternalizzare questa responsabilità a soggetti non votati da nessuno? E infine: a cosa serve una politica che non sa decidere e che appalta all’esterno scelte così importanti? Se si vuole pensar male viene il dubbio che chi governa proprio questo voglia: non assumersi la responsabilità politica e giuridica delle proprie scelte ed eventualmente dei propri errori, delegandola a soggetti terzi. È singolare che un movimento giustizialista voglia tenersi al riparo da eventuali risvolti penali. Nessuno, né Conte né Arcuri né Borrelli, vuole fare la fine di Bertolaso che dopo essersi prodigato per il post-terremoto a L’Aquila ha dovuto passare anni nel tritacarne mediatico-giudiziario prima di essere assolto. Nessuno vuole patire quel che hanno patito Berlusconi, per essersi opposto ai diktat della magistratura, o Salvini, che per aver bloccato gli sbarchi sulle nostre coste si è visto recapitare avvisi di garanzia. La paura di questa classe politica verso il sistema giudiziario è tale che un emendamento al decreto Cura Italia firmato dai dem Paola Boldrini e Stefano Collina metteva le mani avanti e prevedeva una limitazione “ai soli casi di dolo e colpa grave” della “responsabilità civile, penale e amministrativa dei titolari di organi di indirizzo o di gestione che abbiano adottato ordinanze, direttive, circolari, atti o provvedimenti la cui attuazione abbia cagionato danni a terzi”. Poi hanno fatto marcia indietro. Questo conflitto perenne tra politica e giustizia, tra burocrazia e diritti dei cittadini, oltre a dimostrare che in Italia non esiste una vera separazione dei poteri, rallenta un Paese che ora più che mai ha bisogno di andare veloce. Conte e i suoi ministri non possono ragionare con la mentalità dei burocrati che evitano di decidere in autonomia per paura di avere delle grane: in una situazione di emergenza il loro compito non è difendere la propria reputazione ma difendere il Paese. E costruire comitati, commissioni, task force, la cui unica finalità è non assumersi la responsabilità di governo, non dimostra condivisione, ma paura. La storia di questo periodo, comunque vada, non porterà come prima la firma di Borrelli, Arcuri o Colao, porterà la firma del Governo Conte, che nel bene o nel male – speriamo nel bene – dovrà rendere conto di tutte le sue azioni o omissioni.

Una cinquantina di task force e quasi 1.500 incarichi. Ecco come è cresciuta in Italia la macchina dell'emergenza. Gli organismi, secondo uno studio di Openpolis, si sono moltiplicati sia a livello nazionale che regionale. E in tutto sono stati emanati duecento atti. Emanuele Lauria il 28 aprile 2020 su La Repubblica. La macchina dell'emergenza Coronavirus ha sfornato, in Italia, già 1.500 nomine. Commissari, esperti, consulenti in movimento da mesi, con ruolo spesso inutili o sovrapposti, e figli di una profilerazione di strutture, sia a livello statale che regionale. Basti pensare che, da gennaio a oggi, sono stati 17 gli organismi coinvolti a livello nazionale nella gestione della crisi, ai quali però vanno sommati 16 task force e 19 unità di crisi costituite dai governatori. ... 

Marco Benedetto per Blitzquotidiano.it il 28 aprile 2020. Un comitato di 17 + 2 per prima cosa non lo doveva formare. Per via dei numeri e della scaramanzia. Leggetevi poi l’elenco dei componenti. Tranne Giovanni Gorno Tempini e Enrico Giovannini risulta difficile vedere in quella lista di eccelsi qualcuno che sia in grado di dare un contributo alla ripresa dell’Italia post Covid-19. Infatti l’esordio dell’accoppiata Conte-Colao è stato deludente. Con sfumature di ridicolo. Riaprono i parrucchieri il primo giugno? Impossibile: il primo giugno è lunedì e di lunedì i parrucchieri sono chiusi. Lo sanno anche i neonati. O chi non vive in Italia, come Colao fino a poco tempo fa. Bene è andata che non è passata l’idea di bloccare in casa in una sorta di coprifuoco le persone con più di 60 o 70 anni. Ma è l’impressione complessiva a deludere. Come ha detto Massimo Cacciari, sarebbe l’ora di smettere di dire parole in libertà. Ci si aspettava un colpo d’ala, un progetto, un’idea. Non quando riprenderanno gli allenamenti del calcio. Giuseppe Conte conosce bene il principale guaio dell’Italia: la burocrazia. L’intorcinamento di leggi, commi, rinvii, procedure, pareri eccetera che paralizzano l’Italia. Tutto il resto sono chiacchiere. Quante volte abbiamo sentito parlare di Sblocca-Italia? Quante leggi sono ancora bloccate, a 10 anni dall’annuncio? Leggi anche approvate, due, tre votazioni. Poi definite meglio nei regolamenti. Poi i decreti…Conte doveva prendere i quattro direttori generali di ministero più direttamente interessati al gioco al massacro delle procedure e fare come fa la Chiesa. Chiuderli in una stanza di Palazzo Chigi come in Conclave, senza lasciarli uscire fino a quando non avessero risposto alla domanda chiave. La domanda doveva essere: come si fa a far sì che un ordine del primo ministro o una legge del Parlamento diventino esecutive in giorni se non ore? Invece Conte ha messo assieme un gruppo di persone una meglio dell’altra, ciascuna nel proprio campo specifico. Nessuna però mi appare in grado di sciogliere la domanda di Turandot. E Colao non è Calaf, non canta il mio mistero è chiuso in me. Uno che si è occupato tutta la vita di telefonini, tranne un breve e non felicissimo interludio nei giornali, anche se in possesso del metodo universale McKinsey che tutto capisce e tutto risolve, tra tabelle, grafici e scale logaritmiche, quanto può capire e risolvere i misteri della pubblica amministrazione. La pubblica amministrazione, la burocrazia, il potere carsico dell’alta dirigenza politica, militare, giudiziaria non è una invenzione della Repubblica, prima seconda terza. Erano già lì ai tempi di Vittorio Amedeo di Savoia e del marchese d’Ormea. Erano lì quando si trattava di mandare Garibaldi a morire sulle Alpi (senza riuscirci). E anche quando mandarono i nostri soldati a morire nelle nevi ucraine con le scarpe di cartone. Dei comitati di Conte e Colao se ne fanno un baffo. Nessuno ci ha spiegato perché sia stato scelto Colao. Colao non ha spiegato i criteri di scelta dei suoi colleghi. Mi ha colpito la presenza di tale Raffaella Sadun, Professor of Business Administration, Harvard Business School, secondo il sito del Governo. Vive nel Massachusets, possibile che non ci sia qualcuno di più addentro nei misteri italiani? Mi do una risposta. Sadun è fra i tre autori di un articolo pubblicato un mese fa sulla Harvard Business Review. Repubblica lo aveva presentato così: “Harvard boccia le misure italiane sul coronavirus: rischi sottovalutati e tanti errori”. Risposta implicita: ci vuole Mario Draghi. Di Mario e Supermario gli italiani dovrebbero averne abbastanza. Ricordino il SuperMario Monti. Da Monti Conte sembra avere appreso una lezione. Ai tempi del suo Governo, Monti era costantemente sotto attacco del duo Alesina-Giavazzi. Fino a quando ebbe una idea geniale. Incaricò Francesco Giavazzi di studiare una grande spending review, alla ricerca del tagli di spesa. La spending review fece tacere Giavazzi. Ingoiò anche il bravissimo Enrico Bondi, risanatore di aziende, infelice salvatore della Parmalat, regalata da Berlusconi ai francesi per averne l’appoggio a postarlo alla Bce. Secondo me, è bastato l’articolo sulla rivista di Harvard per motivare Conte. Penso male? Il risultato mi pare simile a quello di Monti. Come la tanto conclamata spending review finì in fumo, il Comitato Colao ha portato guai. Le conclusioni del Comitato che sono alla base della Fase 2 di Conte, sono banalità che un qualunque giornalista di provincia avrebbe concepito. Un buon giornalista non avrebbe proposto l’errore di tenere chiuse le chiese (e, presumo, sinagoghe, chiese protestanti varie e moschee). Mettete il naso in una chiesa un giorno feriale. Scoprirete che sono vuote. La domenica (o il sabato o il venerdì) si trattava di applicare i metodi in vigore per i supermercati. Le organizzazioni religiose erano e sono perfettamente in grado di gestire il servizio d’ordine, senza aggravare il lavoro delle Forze dell’Ordine. E ora pare che Conte farà una umiliante retromarcia. Poteva evitarsela. Bastava chiedere consiglio a un commesso di Palazzo Chigi. Altra scemenza: quella di non potersi spostare da una regione all’altra. E di non potersi recare, chi ce l’ha, in una seconda casa. Quanti italiani possiedono una seconda casa in altra regione, diversa da quella di residenza? Se la sua seconda casa è in Liguria, ad esempio, o in Val d’Aosta, si attacca. Sì è rotto un tubo? C’è una perdita? O una infiltrazione nel tetto? Niente da fare. Ma per il ministro dei trasporti Paola De Micheli nemmeno nella stessa regione un poveraccio può andare a vedere, dopo mesi di assenza, se tutto è in ordine. Siamo un po’ nel regno dell’assurdo. Chissà quale recondito calcolo politico muove la De Micheli. Scusi, ma se salgo in macchina a Torino, tanto per dire, arrivo a Varigotti (Savona) che dovrebbe essere più o meno deserta. Entro in casa e mi ci chiudo dentro. Non incontro nessuno, non saluto nessuno. Se vedo qualcuno gli parlo da 2 metri con mascherina. Come posso passare per untore? O infettarmi? Siamo stati in tanti a sentire Conte parlare in tv domenica sera. Premetto che finora ho guardato Conte con ammirazione. Assurto a presidente del Consiglio per ragioni che un cittadino normale non riesce a spiegarsi (ma fu così anche con Monti, quindi orma ci siamo abituati), sballottato per un anno fra Scilla-Salvini e Cariddi-Di Maio, si è ritrovato in autunno a capo di una coalizione impensabile un mese prima. Non era, penso, una esistenza semplice. Quelli del Pd non sono folcloristici come Salvini, ma vengono da lontano e vanno lontano. Esplosa la crisi del Coronavirus, Conte è stato bravissimo. Navigava in un mare in tempesta, fra gli scogli delle autonomie locali e il vento della politica e dell’economia che cambiava forza e direzione ogni ora. Chiedeva aiuto ai tedeschi e il suo ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, metteva in piazza, su giornali siti e tv, il rischio di infiltrazioni mafiose negli appalti. Come indignarsi se la Welt, giornale di Germania, dice le stesse cose? Come sostenere che scrive fesserie? La signora prefetto Lamorgese bastava che lo scrivesse ai suoi colleghi sottoposti prefetti o al capo del suo Governo, o ai ministri interessati. C’era bisogno di un comunicato stampa, di mettere, come si dice, il guano nel ventilatore? Conte ha glissato su tutto. Ha cavalcato il Covid come Tarzan cavalcava l’ippopotamo inferocito. Penso sia stato decisivo nel far crollare di 5 punti il consenso della Lega. Anche se non si può negare che gli errori di Giulio Gallera (peraltro non leghista ma di Forza Italia) e il volto attonito di Attilio Fontana una mano gliela hanno data. E poi è stato bravo, dite quello che volete. Ha fatto suo il motto di Antonio Ferrer, Gran cancelliere spagnolo di Milano ai tempi della peste, che in tanti abbiamo conosciuto a scuola: “Pedro, adelante con juicio”. Avanti con prudenza, riporta Alessandro Manzoni nei promessi sposi. E lui si è mosso con accortezza, ottenendo eccellenti risultati, pur fra errori, incertezze e in mezzo alla tempesta. La strategia ha pagato. Cala il numero dei morti e dei malati. Sale il consenso attorno a Giuseppe Conte. Conte è riuscito a isolare i veri virus che stanno a cuore a lui: Salvini e Draghi. Ma la partita non è ancora finita, basta un piccolo errore e sei fatto. Se gli va bene, Conte diventa intoccabile come Garibaldi… Ma domenica 26 si è avvertito un crack. In quello che veniva detto sul teleschermo. E in quello che si intravvedeva dietro le quinte. Che sia in atto una certa tensione fra Conte e Colao era stato anticipato da un articolo sul Fatto di Luca De Carolis. L’eloquio di Conte ha confermato i sospetti. Troppe volte, almeno 5 o 6, Conte ha fatto riferimento al Comitato e a Colao. Chi ha un po’ di esperienza di vita associativa o aziendale, sa che più uno lo nomini, più intensamente lo detesti. Ma allora perché lo ha nominato? Misteri d’Italia.

Su grandi vicende la politica si prenda le sue responsabilità. Iuri Maria Prado de Il Riformista il 26 Febbraio 2020. Io ai miei figli ho sempre suggerito di seguire questa regola irregolare: se un’idea è maggioritaria, allora molto spesso è un’idea sbagliata. Quando mi hanno domandato perché, gli ho risposto con una domanda e cioè se a loro giudizio la maggioranza è fatta di persone intelligenti e che sanno tante cose, o no. Non serviva spiegare altro, avevano già capito. Non serviva cioè aggiungere: «E dunque, se la maggioranza non è fatta di persone intelligenti e che sanno tante cose, ma perlopiù di stupidi e ignoranti, non credete che facilmente l’idea della maggioranza sia sbagliata?». Mi piace pensare che ci abbiano pensato in questi giorni virali, ascoltando i discorsi di “quelli che comandano” (loro chiamano così i politici), tutti uniti a spiegare che «bisogna lasciare la parola agli scienziati». A questa scemenza si sono abbandonati veramente tutti, nella solerte unanimità che sempre muove il cosiddetto “senso comune”, questa comoda e riposante dimora delle pubbliche imbecillità. «La politica faccia un passo indietro», dicono; «Facciamo parlare i tecnici», spiegano. Dovrebbe essere esattamente il contrario. Davanti alle gravi vicende, quando si tratta di decisioni importanti da prendere e comunicare, la politica dovrebbe semmai fare un passo in avanti e i tecnici dovrebbero piuttosto lavorare, ma zitti. Che cosa si fa se c’è una guerra? Il capo dello Stato va in televisione e spiega che «la parola passa ai generali»? Tu, politico, gli scienziati e i tecnici li convochi, li ascolti in contraddittorio, ti fai un’idea, scremi (perché stupidità e stupidaggini abbondano anche nelle parole dei tecnici), e poi decidi prendendoti la responsabilità della tua decisione. Tra gli scienziati cui la stupidità maggioritaria ha appaltato la linea c’è chi, per esempio, se n’è uscito con la bella trovata di spiegare in mondovisione che chiunque abbia trentasette e mezzo di febbre dovrebbe farsi fare il tampone. Dagli ospedali avvertono che è stato già un macello farne quattro o cinque mila, e quest’altro viene a dirci che bisogna farlo a chiunque presenti una linea di febbre, cioè a circa mezzo milione di cittadini. Che è una pericolosissima, doppia sciocchezza. Primo, perché è impossibile. E secondo (anche peggio) perché genera panico e senso di abbandono in qualcosa come quattrocentonovantacinquemila cittadini che non saranno, perché non potranno essere, sottoposti al tampone. Una classe politica che non si dice buona, ma appena responsabile, dovrebbe semmai essere unita a contenere se non a togliere la parola a simili scienziati, anziché ad attribuirgliela in esclusiva. E invece no: «Siano i tecnici a parlare». Attenzione, per evitare fraintendimenti. Alla tecnica, alla scienza, bisogna certamente affidarsi, ma non per la gestione della cosa pubblica e tanto meno nei casi di emergenza. Altrimenti, appunto, se c’è una guerra mettiamo un colonnello a capo del governo e se c’è una crisi finanziaria mettiamo un analista al ministero dell’Economia: l’uno e l’altro magari anche bravissimi nel loro lavoro, ma dargli la linea di comando, o anche solo consentirgli di spiegarla, è quanto di peggio si possa fare in un sistema democratico non arretrato. C’è ancora un motivo (e questo ai miei figli ancora non posso spiegarlo) per cui allo scienziato non dovrebbe essere consentito di impancarsi: ed è che la scienza che accede alla politica, che “si fa” politica, assume veste di sacro, e allora naturalmente, inevitabilmente tira a giustificare le proprie scelte e a ordinare i nostri comportamenti in funzione della sacralità del proprio ruolo. Come fa il sacerdote. Come fa il santone. Come fa il tiranno. Con la maggioranza che sta a guardare.

Coronavirus, la vita tra quarantena e infodemia. È la prima volta che in Italia vengono sospesi diritti e movimenti per far fronte a un virus. Tra iper informazione e ricerca di risposte, nelle aree del Nord Italia sospese dall'isolamento e dalla paura del contagio. Rita: «Almeno noi siamo in quattro, e possiamo confrontarci in casa. Penso che fatica dev'essere per le persone sole». Francesca Sironi il 24 febbraio 2020 su La Repubblica. Lo stato d'eccezione ha un suono: è il rumore della tv accesa in sottofondo. Del flusso costante di notizie, di titoli a ripetizione sul coronavirus. È la colonna sonora nelle stanze del Nord Italia, dove la paura del contagio segna per chiunque la nuova convivenza con il virus o la sua ombra. Rita vive a Codogno da 20 anni. Ha due figli, il più grande frequenta Economia all'Università, l'altro fa uno stage. Entrambi, come il marito, sono a casa, in quarantena preventiva, insieme a lei. Stanno bene, ma sono cinturati nella zona rossa del lodigiano, «anche se i controlli sono molto inferiori di quanto dicono», insiste Rita. Questa mattina si è mossa da casa per la prima volta in quattro giorni. «Guardo Canale 5, principalmente», racconta: «Ascolto le notizie, cerco risposte sui social, scambio messaggi con i residenti sulla pagina "Sei di Codogno se...". Sono in ansia perché mio marito deve assolutamente andare a un presidio sanitario a Casalpusterlengo e non riesco a capire se ci faranno entrare. I numeri verdi, sia quello della regione che quello nazionale, sono sempre occupati. Sul gruppo whatsapp giravano testimonianze di persone che hanno aspettato anche cinque ore al telefono per avere un'informazione». Nel flusso costante di messaggi, allarmi, domande, sui suoi gruppi girano vocali e foto, «che spesso i miei figli mi mostrano essere false: loro sono più bravi a capirlo, seguono siti specializzati. Almeno noi siamo in quattro, e possiamo confrontarci in casa. Penso che fatica dev'essere per le persone sole». Non si sono ancora dovuti inventare strategie per passare il tempo, continua, «perché tutto il nostro tempo lo dedichiamo a cercare risposte, a discutere con gli altri, a provare di capire costa sta succedendo veramente con questo virus». La quotidianità stravolta di Rita, la sua ricerca di risposte, sono l'esempio perfetto di quella che l'Organizzazione mondiale della Sanità definisce infodemia. Ovvero «una sovrabbondanza di informazioni – alcune accurate altre no – che rende difficile alle persone trovare fonti attendibili e indicazioni affidabili quando ne hanno bisogno». Non è solo una questione di bufale o di fake news. Ma solamente di eccesso: di troppe voci, incessanti, che pur nell'eccedere, non bastano. Non servono a molto. Perché quello di cui hanno bisogno le persone, in questo momento, sono risposte concrete che in quei flussi faticano a trovare spazio: dove posso trovare i supermercati aperti; come mi comporto con il cane; quanto durerà la chiusura; come fare se si sta male per sintomi diversi dal Covid19, in un momento in cui ospedali e presidi sanitari in Lombardia sono in frontiera contro il virus. E questo riguarda le esigenze pratiche. Le domande invece più ampie, continue e incessanti anche quelle, sull'estensione, le origini, la gravità della malattia e la necessità delle drastiche misure di contenimento adottate in Italia, sono le stesse che accomunano gli abitanti di tutta Europa. «Siamo di fronte a un problema di comunicazione fin dall'inizio», riflette Guido Bertolini, capo del laboratorio di Epidemiologia Clinica dell'Istituto Mario Negri: «Ci è stato sostanzialmente detto che la malattia fosse gravissima, ma che non ci avrebbe riguardato. Entrambe le affermazioni sono false. La patologia causata dal Covid-19 è seria, ed è un problema di sanità pubblica perché si tratta di un virus nuovo a cui non siamo preparati dal punto di vista delle difese immunitarie». I dati epidemiologici sono quelli più volti comunicati, legati ora al primo e più esteso studio pubblicato sul Chinese Journal of Epidemiology pochi giorni fa , basato sulle diagnosi di 72.314 pazienti nell'area di Hubei.L'80,9% delle infezioni risulta di lieve entità. Sintomi come l'influenza, che passa. Il 13,8% delle infezioni è più grave. E nel4,7% dei pazienti si tratta di casi critici, come polmoniti, con sintomi quali insufficienza respiratoria, shock settico o insufficienze a più organi contemporaneamente. La mortalità indicata in Cina è del 2,3 per cento. «Malattie come Ebola, o la Sars del 2003, avevano un tasso di mortalità molto più elevato. Ciò non toglie che la letalità del nuovo coronavirus sia alta. E per questo vada assolutamente controllato il rischio che il contagio si estenda: è comprensibile a chiunque quale sarebbero le conseguenze se gli infetti diventassero milioni, come accade per l'influenza, che ha un tasso di mortalità 20 volte inferiore», spiega dall'Istituto Mario Negri Guido Bertolini: «Gli interventi di salute pubblica, per ridurre il più possibile i contatti, sono in questo senso necessari e giusti. È vero che la paura di polemiche può innescare catene di "politica difensiva", ma è bene aver preso seriamente la questione del contenimento». Antonio è un operaio specializzato. Lavora alla Tecnim di Codogno, un'azienda che si occupa di fabbricazione di impianti di manutenzione. È a casa da venerdì. Per tutto il weekend non è uscito di casa. «Mio figlio Samuele, 14 anni, ha paura anche a uscire sul balcone. Io e mia moglie stiamo reagendo abbastanza bene, anche se non riesco a dormire per il nervosismo, e ho momenti neri, perché anche domani non potrò tornare a lavorare». Lunedì mattina Antonio è andato al supermercato del paese. Ha mandato un video della coda di carrelli. Solo le persone con la mascherina, poche per volte, venivano fatte entrare. «Ho preso il necessario e sono tornato subito a casa». Per informarsi Antonio segue i telegiornali «e leggo il sito di Codogno su Facebook. Poi facciamo lunghe conversazioni su Skype: noi qui siamo soli, i nostri familiari abitano altrove». La solitudine pesa. «Faccio lavatrici, cucino, dò una mano a mia moglie, i bambini giocano con la Xbox o vanno su YouTube». Le giornate si allentano, si svuotano, ma la fame di risposte non può diminuire. È la prima volta che in Italia vengono sospesi diritti e movimenti per far fronte a un virus. La quarantena, lo stato d'eccezione. L'ansia che ne consegue: c'è chi l'affronta razionalmente, chi meno. I supermercati a Milano sono in gran parte pieni e sereni, ma l'immagine diventata virale è quella degli scaffali d'acqua e scatolette svuotati per le scorte. Per strada, fra bar poco frequentati e traffico diminuito, i discorsi convergono quasi esclusivamente sul coronavirus e le sue conseguenze. Sul proprio sito il ministero della Salute ricorda alle persone di rivolgersi al numero verde 800.46.23.40. In caso di dubbi o sospetti, dice di chiamare il numero apposito: 1500. Alla presenza di sintomi l'invito è a non andare assolutamente al pronto soccorso o in ospedale, ma a chiamare il 118. Le chiamate al 118 sono in effetti esplose in questi giorni. La preoccupazione collettiva invade i dipartimenti di medicina d'urgenza. Le sale d'aspetto dei pronto soccorso, che erano diventate in Italia l'anticamera comune in caso di malattie o dolori anche lievi, sono inaccessibili. Il rapporto con la salute pubblica cambia completamente. È una delle tante pratiche sospese o travolte dall'epidemia. Per avere rassicurazioni bisogna andare altrove, ma inseguendo il virus finiamo per sapere troppo, e troppo poco al tempo stesso. L'iper rappresentazione del problema corre sul filo fra informazione e paranoia. Rassicurare, nell'eccesso di fonti, funziona a fatica. Per strada, come sui social, il bisogno di comunicare, lo scambio di solidarietà oppure di insulti, di richieste o segnalazioni, diventa velocemente il ricettacolo dell'altra epidemia; quella infodemica.

Andrea Fontana per formiche.net il 25 febbraio 2020. Abito a Milano da una ventina d’anni. Sono uno di quei milanesi adottivi – accolti dalla città meneghina – per lavoro. Milano mi ha dato molto: identità professionale e tante occasioni di vita. La Lombardia, ma in senso l’Italia – che giro in lungo e largo per motivi professionali – sono sempre state per me sinonimo di: speranza, futuro, bellezza. Tra sabato 22 febbraio e domenica 23 febbraio un terremoto comunicativo ha messo tutto in discussione. Da circa 48 ore siamo in piena e totale infodemia. Non solo siamo stati attaccati da un virus influenzale severo ma siamo anche sotto un’epidemia cognitiva. Come ci ricorda la Treccani il termine infodemia compare per la prima volta nel dibattito pubblico nel 2003 a seguito di un articolo di David J. Rothkopf, il quale ne parla in questo suo scritto comparso nel quotidiano «Washington Post», When the Buzz Bites Back. Il termine Infodemic ricorrerà poi nei documenti ufficiali dell’Organizzazione mondiale della Sanità. In sostanza è la circolazione eccessiva di informazioni contraddittorie. Spesso non vagliate con precisione, o che non possono essere verificate, che rendono difficile orientarsi su un determinato tema, argomento, scelta per la difficoltà di individuare fonti non solo affidabili ma anche certe. In queste ore però in Italia stiamo vivendo qualcosa di più profondo e rilevante. Mentre l’epidemia biologica avanza, e speriamo si fermi al più presto, l’epidemia cognitiva accelera con informazioni di tutti i tipi date da fonti rilevanti. Medici, virologhi, esperti della salute pubblica in queste ore hanno fatto affermazioni che sono poi state spesso riportate, dai mezzi informativi, in modo contradditorio tra di loro. Tra i tanti modi di diffondere notizie mi ha colpito questo: alcune dichiarazioni del prof. Fabrizio Ernesto Pregliasco e poi della prof.ssa Maria Rita Gismondo, prima diffuse dal Huffpost Italia e poi riprese anche da altre testate giornalistiche. Nel leggere queste notizie un cittadino non esperto in medicina come me ovviamente si sente abbastanza confuso e forse anche un po’ spaventato. Perché la notizia che arriva è totalmente contraddittoria: da una parte una rassicurazione dall’altra una sorta di minaccia necessaria per un bene superiore. Nel frattempo, sempre quel cittadino – non esperto come me in questioni biologico-politiche – ha visto nella sera di sabato 22 febbraio, la conferenza stampa del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che riporta la decisione del Consiglio dei Ministri di approvare un decreto-legge che introduce misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-2019. Nello stesso tempo sente amici o parenti nelle zone focalaio i quali manifestano ansie e preoccupazioni legittime. E domenica 23 febbraio 2020 ha sentito il Governatore della Regione Lombardia affermare: “Misure come a Wuhan se situazione degenera” mentre i supermercati sono presi d’assalto da cittadini che fanno provvista. Sembra un B Movie apocalittico degli anni Novanta, ma è la nostra attuale realtà. La questione non è banale. Perché la domanda rimanda al quesito: chi deve parlare nelle democrazie occidentali nel momento in cui queste sono sottoposte a eventi potenzialmente catastrofici che possono generare un danno collettivo enorme? La risposta non è affatto semplice. Potrebbe essere: tutti visto che è un diritto democratico. Ma nello stesso tempo, l’epidemia cognitiva sta mettendo in evidenza i limiti dell’informazione nelle emergenze quando non è chiara, tempestiva ed univoca. La domanda allora diventa: perché le agenzie informative prendono dichiarazioni così diverse con l’autorevolezza di un “camice bianco” che mette sempre in scena una competenza, senza però specificare chi è virologo, chi è infettivologo, chi è epidemiologo, chi è un analista di dati di laboratorio, etc. La questione forse è che un’emergenza catastrofica si affronta anche a livello comunicativo e che in questo momento siamo tutti responsabili:

i politici nell’avere una visione chiara del fenomeno e nel dare una comunicazione specifica alle loro comunità di riferimento;

i giornalisti nell’avere un’uniformità di messaggi verificati capaci di dare un quadro chiaro della situazione;

gli esperti del settore medico ed infettivologico nelle interviste che fanno;

noi cittadini che siamo chiamati a un esercizio di comprensione notevole e di pace sociale (anche nei nostri social media).

Dobbiamo fare sistema. L’infodemia cognitiva e forse anche l’epidemia biologica si batte in modo sistemico. Oggi è lunedì 24 febbraio 2020. Le scuole saranno chiuse, gli Atenei lombardi e veneti anche. Una parte della pianura padana sarà isolata. Molte aziende applicheranno lo smartworking e altre cercheranno di capire cosa fare in questo momento di confusione informativa. Non so cosa succederà a Milano, in Lombardia o in Italia. Ma voglio provare a vivere con il massimo della speranza sapendo che solo se ci sentiremo uniti e faremo sistema potremo affrontare la sfida che ci attende.

·        Lo Scientismo.

Scientismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Lo scientismo viene descritto dal Devoto Oli come quel «movimento intellettuale sorto nell'ambito del positivismo francese (seconda metà del XIX secolo), tendente ad attribuire alle scienze fisiche e sperimentali e ai loro metodi, la capacità di soddisfare tutti i problemi e i bisogni dell'uomo». Il vocabolo assume spesso un'accezione negativa «per indicare l'indebita estensione di metodi scientifici validi nell'ambito di scienze particolari (come quelle naturali) ai più diversi aspetti della realtà, con pretese di conoscenza altrettanto rigorosa».

Storia. Nella storia della filosofia, lo scientismo nasce in Francia nella seconda metà dell'Ottocento,[2] da una costola del Positivismo, sia come termine che come concetto, per indicare l'atteggiamento intellettuale in base a cui il sapere scientifico deve essere a fondamento di tutta la conoscenza in qualunque dominio, anche in etica e in politica. Per estensione, è una posizione filosofica che ritiene rilevante da un punto di vista conoscitivo solo ed esclusivamente la scienza (nelle sue varie branche, a partire dalle scienze fisiche). Quest'accezione del termine, originata dal Positivismo, ritiene che l'universo sia essenzialmente conoscibile, ma che nessuna conoscenza sia accettabile se non stabilita dal metodo scientifico. Pertanto è respinta ogni forma di metafisica tradizionale. Critiche. Dal XX secolo, il termine ha prevalentemente una connotazione negativa, come ad esempio in Gaston Milhaud, per criticare un dogmatico eccesso di fiducia nella possibilità di estendere con successo i metodi scientifici al di fuori dei loro ambiti naturali. Secondo le tesi del Convenzionalismo e del Costruttivismo, indica una mancanza di consapevolezza del fatto, supportato dallo studio delle grandi rivoluzioni scientifiche, che l'intero approccio epistemologico della scienza, i suoi metodi, i contenuti e lo stesso paradigma dominante in una data epoca storica sono soggetti a continue variazioni, e non possono essere fissati una volta per tutte. Alla problematica, il sociologo Friedrich von Hayek ha dedicato un testo, Scientism and the Study of Society, in cui contesta l'applicazione del metodo della scienza naturale alla risoluzione dei problemi relativi alle istituzioni sociali e alla collettività. Lo scientismo infatti, secondo Hayek, ha la presunzione di saper comprendere realtà complesse come le istituzioni sociali sulla base delle proprie fallibili conoscenze scientifiche, ignorando che le società e i rapporti in essa vigenti sono sempre il risultato non voluto e non intenzionale delle azioni dei singoli individui, e non possono essere disegnate e ricostruite a piacimento. Critiche a una tale razionalità costruttivista, su cui si fonda lo scientismo, sono venute anche da Karl Popper, che rifacendosi ad Hayek intravede nel dogmatismo metodologico tipico dello scientismo il presupposto del totalitarismo, dato che esso ritiene di avere cognizioni sufficienti per pianificare ogni progettualità umana in maniera oggettiva, escludendo i fattori soggettivi come dei fastidiosi inconvenienti; ne deriva un modo di pensare «ingegneristico» e collettivista, incline a degenerare nel collettivismo politico. Lo scientismo inoltre, secondo Popper, non tiene conto che la scienza non procede passivamente per induzione, ma è sempre il frutto dell'inventiva umana e dunque occorre rivalutare il ruolo fondamentale che in essa assumono altre forme di pensiero come la metafisica. Egli considera un grande pericolo la passività tecnica tipica dell'addestramento scientifico, temendo «l'eventualità che ciò divenga una cosa normale, proprio come vedo un grande pericolo nell'aumento della specializzazione, che è anch'esso un fatto storico innegabile: un pericolo per la scienza e, in verità, anche per la nostra civiltà». Scettico sulla possibilità di approdare a una qualunque certezza in ambito scientifico, ma non sulla necessità di ricercare la verità che è invece il presupposto del razionalismo critico, Popper sostiene l'inconsistenza di concetti come quello tanto invocato di metodo scientifico, con cui si valuta una teoria in base a un presunto criterio oggettivo: «Non esiste alcun metodo scientifico in nessuno di questi tre sensi: [...] non c'è alcun metodo per scoprire una realtà scientifica; non c'è alcun metodo per accertare la verità di un'ipotesi scientifica, cioè nessun metodo di verificazione; non c'è alcun metodo per accertare se un'ipotesi è probabilmente vera.»

Massimo Gramellini per il Corriere della Sera l'1 maggio 2020. Quando GiusHappy Conte, in versione intellettuale della Magna Grecia, si è inerpicato sulle pareti della speculazione filosofica per illustrare la superiorità dell' Episteme rispetto alla Doxa, nell' aula di Montecitorio c' è stato un momento di comprensibile panico. A Salvini, per la tensione, si è addirittura oscurata la mascherina. Qualcuno tra i più colti avrà pensato che Doxa fosse il cognome di una cantante, ma nel dubbio tutti hanno applaudito. Tale doveva essere la sorpresa che non ci si è fermati troppo a riflettere sul contesto. E cioè che a criticare la Doxa, la volatile opinione comune, era un politico indicato dal movimento che sull' esaltazione della Doxa ha costruito le sue fortune. E che l' elogio dell' Episteme, la solida conoscenza degli esperti, si riferiva a una vicenda, quella del virus, in cui gli esperti non hanno fatto una grande figura, mostrandosi in disaccordo su tutto e con tutti, a volte persino con sé stessi. Nessuno intende farne loro una colpa, forse le nostre aspettative erano troppo alte. Ma c' è un limite anche all' incoerenza e a superarlo è stato uno dei capi dell' Organizzazione Mondiale della Sanità, quando ieri ha elogiato pubblicamente gli svedesi per avere affrontato la pandemia senza mai chiudersi in casa, dopo che a noi per due mesi era stato intimato di tenere il comportamento esattamente contrario. Cornuti e mazziati, per dirla con Aristotele. E questa non è Doxa, ma Episteme di quelle furenti.

CONTE, I FILOSOFI, IL COVID-19 E LA ROVINA DELLO SCIENTISMO. Andrea Staiti il 30 aprile 2020 su glistatigenerali.com. Ieri mattina il Presidente del Consiglio Conte ha voluto nobilitare il suo intervento alla Camera dei Deputati con un riferimento dotto: “La filosofia antica da Platone ad Aristotele distingueva la doxa – la credenza, l’opinione -, dall’episteme, che è la conoscenza che ha salde basi scientifiche”. Conte intendeva così giustificare le sue scelte restrittive riguardo alla riapertura progressiva del Paese mentre ancora imperversa nel mondo l’emergenza COVID-19. Sarebbe pedante e dunque poco incisivo far notare che il riferimento è in realtà fuori luogo: né per Platone, né per Aristotele le ‘basi scientifiche’ dei virologi, epidemiologi, ecc. evocati da Conte soddisferebbero gli standard per essere considerate episteme, rientrando invece ancora interamente nella sfera della doxa. Gli scienziati si occupano del mondo empirico e transeunte delle cose sensibili, virus inclusi, sebbene cerchino di prevederne effetti e comportamenti con strumenti teorici più rigorosi e raffinati di quelli disponibili al senso comune. Per i filosofi antichi l’episteme è il sapere riferito ai principi eterni e immutabili delle cose e trae la sua superiorità e autorità rispetto alla doxa dal diverso statuto ontologico dei suoi oggetti, non dalla raffinatezza dei suoi metodi. Ma, dicevamo, questa potrebbe essere semplice pedanteria. È un altro, invece, il punto sostanziale e rivelatore. Le parole di Conte, a prescindere dalle sue effettive intenzioni e conoscenze in materia filosofica, ci presentano la scienza naturale come un’episteme platonica, dando così involontariamente voce allo scientismo diffuso che domina la cultura occidentale da almeno un paio di secoli. Beninteso, non intendo affatto a questo punto riproporre la litania post-moderna per cui la scienza non è che una pratica umane tra le tante pratiche umane, socialmente costruita ecc. Quelle sono, appunto, litanie che hanno fatto il loro tempo. Si tratta invece di rendersi conto che la miglior manifestazione di stima e di fede nella scienza è prenderla sul serio per ciò che essa è veramente, invece che per ciò che vorremmo essa fosse. Fanno sorridere (o piangere) lo scandalo e il senso di smarrimento che hanno accompagnato la scoperta che, ahinoi, i virologi la pensano diversamente su un sacco di cose. Un gustoso siparietto sul tema è stato offerto dal Presidente del Land tedesco Nordrhein-Westfalen Armin Laschet in TV qualche giorno fa, che in un famoso talk show ha sbottato: “ogni paio di giorni cambiano idea!”

Già. La scienza cambia idea. Lo ha fatto sul sistema solare, sulla combustione, sul modello che meglio descrive la luce, … Più un fenomeno è nuovo e ignoto, più la forza della scienza si esprime proprio nel suo cambiare spesso idea al subentrare di nuovi dati e nuove prospettive teoriche. Questo NON perché la scienza non sia affidabile, ma proprio perché lo è in sommo grado, vale a dire, proprio perché, pace Conte, NON è un’episteme platonica. Il vero scienziato ha lo sguardo fisso sul mondo sensibile, mutevole, incerto e problematico che ci circonda e cerca di comprenderlo teoricamente trattandolo come se fosse una totalità matematica. È uno sguardo molto particolare, quello dello scienziato, perché per esercitarsi efficacemente deve prescindere da una dimensione realissima del mondo che ci circonda: quella delle persone e dei valori. La scienza astrae dalla dimensione valoriale e tratta il mondo come una totalità retta da leggi matematiche nella quale la presenza di soggetti è del tutto superflua. Si tratta di un’astrazione necessaria e legittima, senza della quale del mondo che ci circonda sapremmo poco o nulla. Ma pur sempre di un’astrazione. Lo scientismo, invece, è la visione del mondo che attribuisce alla scienza superpoteri che sono del tutto alieni alla sua pratica effettiva, sognando che essa assuma da sé una funzione salvifica e riformatrice per la cultura, regalandoci certezze di contro alle bugie della politica e delle religioni. Lo scientismo è, in effetti, la religione dei non-religiosi.

Guardando indietro agli scorsi due mesi risulta evidente anche che lo scientismo è l’atteggiamento dominante con cui, come rivela il riferimento fuori luogo di Conte, i governi occidentali hanno affrontato la crisi del COVID-19. Nei virologi hanno sognato di trovare dei re filosofi platonici, forti di un sapere certo e insindacabile che da sé ci avrebbe indicato la strada per non soccombere, non solo fisicamente, ma anche politicamente, socialmente e moralmente. Ora lo possiamo dire chiaro e tondo: lo scientismo si è rivelato per quello che è: un sogno che, quando la realtà bussa alla porta, si trasforma in un incubo. Trovandoci a dover immaginare, partendo da zero, come uscire dal vicolo cieco in cui ci siamo infilati con il lockdown più duro d’Europa, occorrerà anzitutto risvegliarsi dal sonno dogmatico dello scientismo e rendere agli scienziati l’onore e il rispetto che gli è dovuto, trattandoli cioè non da re filosofi platonici ma da validi collaboratori, le cui legittime divergenze corredate di curve e tabelle multicolore appartengono però al mondo dei laboratori e delle aule accademiche, non a quello della politica.

La politica, sì. Anche la politica può e deve cambiare idea quando le circostanze lo richiedono ma la politica è attività che si svolge in un’arena ontologica ben diversa da quella in cui lavorano gli scienziati. La politica si muove nel mondo dei soggetti umani, riconoscendo la realtà di persone e valori e immaginando, in base a questo riconoscimento, prospettive nuove per la società. La scienza può contribuire alla decisione politica fornendo elementi preziosi invisibili all’occhio del senso comune, ma essa, in quanto scienza, è esonerata dal contesto di realtà in cui la decisione politica si esercita proprio dai suoi presupposti ontologici e metodologici. Lo scienziato può, certo, prendere decisioni politiche se ricopre un ruolo pubblico legittimamente attribuitogli ma quando lo fa, non lo fa in quanto scienziato, perché lo scienziato in attività lavora in un mondo deliberatamente rarefatto dove valori e persone non sono e non devono essere contemplati. Non esattamente il tipo di mondo da cui possiamo trarre spunti per capire come orientarci nel mare in tempesta nel quale ci troviamo attualmente a navigare. Una volta constatato il fallimento dello scientismo non resta che ripartire da persone e valori, riproponendo sulla crisi attuale un’angolatura politica e culturale, starei per dire umanistica, nel senso più nobile di questi termini.

Visto che nel suo discorso il premier ha scomodato, almeno implicitamente, un altro filosofo sostenendo che è un “imperativo categorico decidere su basi scientifiche”, aiutiamoci con Kant a immaginare come quest’angolatura potrebbe configurarsi. Un imperativo categorico è un imperativo (“fai così!”, “agisci così!”) cui dobbiamo obbedire indipendentemente dai desideri e dalle inclinazioni che ci capita di avere in un dato momento. Quindi è palese che decidere su basi scientifiche non è un imperativo categorico: si tratta al massimo di un imperativo ipotetico cui dobbiamo obbedire se riteniamo che farlo sia un mezzo efficace in vista di un determinato fine, ad esempio uscire dall’emergenza sanitaria. Ma “decidere su basi scientifiche” non significa “far decidere gli scienziati”, bensì integrare gli input (discordanti, mutevoli, ecc.) che ci vengono dalla comunità scientifica con i fini e i principi valoriali che reggono la nostra comunità umana e politica. Come? Ad esempio, passandoli al vaglio dei veri imperativi categorici. Kant ha suggerito tre formulazioni dell’imperativo categorico (qualcuno dice quattro, ma non divaghiamo), consideriamone due.

(1)   “agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale”

(2)   “agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”

Questi, secondo Kant, sono imperativi cui dobbiamo obbedire sempre e indipendentemente dai nostri desideri contingenti se vogliamo onorare pienamente la nostra natura razionale agendo in maniera autonoma e non etero-diretta dai nostri impulsi. Un esempio classico di azione in contrasto con la prima formulazione è mentire per il proprio tornaconto. Se mento per mio tornaconto, ad esempio promettendo di restituire dei soldi ma senza l’intenzione di farlo davvero, è palese che la mia azione è efficace solo in un mondo dove in genere le persone non mentono. Se la massima del mio comportamento diventasse una legge universale, la menzogna stessa perderebbe la sua efficacia, perché in un mondo dove tutti sistematicamente mentono, nessuno mi presterebbe soldi a fronte della mia promessa di restituirli. Mentendo per perseguire il proprio tornaconto, la ragione pratica entra così in contraddizione con sé stessa. Ritorniamo al presente. Immaginiamo uno scenario in cui un lockdown invocato e prolungato per proteggere il nostro sistema sanitario e la salute di una certa fascia di cittadini comporti delle conseguenze economiche talmente gravi da minare alla base il sistema sanitario a salvaguardia del quale era stato introdotto, esponendo così la salute dei suddetti cittadini a rischi ancora più gravi di quelli costituiti dal virus da cui tutto era partito. Evitare questo scenario sarebbe, seguendo Kant, una scelta conforme al vero imperativo categorico nella prima formulazione riportata. Si badi bene che non si tratta qui di un calcolo utilitaristico di costi e benefici del lockdown, che lasciamo di buon grado agli economisti, ma della consistenza intrinseca della ragione pratica, che, nello scenario evocato, negherebbe con la sua decisione le stesse identiche ragioni che aveva dapprima esibito come i suoi motivi. Non sappiamo se lo scenario in questione sia realistico, ma se lo fosse non sarebbe “su basi scientifiche” che esso andrebbe evitato, ma su basi filosofiche, politiche e valoriali. Distruggere il sistema sanitario per salvaguardare il sistema sanitario non è il tipo di massima che possa essere elevata a legge universale.

Veniamo alla seconda, più famosa formulazione. L’umanità delle persone dev’essere sempre trattata anche come un fine e mai solo come un mezzo. Anzitutto notiamo che l’umanità delle persone non coincide con la loro salute ma con la pienezza di una vita vissuta secondo ragione e animata da sentimenti ed emozioni adeguate alla ricchezza (estetica, morale, ecc.) del mondo che ci circonda. Quante volte nelle scorse settimane abbiamo sentito affermazioni assurde come “la salute viene prima di tutto”. Come?? Se davvero fosse così perché stimiamo tanto i medici e gli operatori sanitari che, infischiandosene della propria salute, hanno servito in prima linea rischiando di ammalarsi e di contagiare i propri cari? Se la salute venisse prima di tutto costoro sarebbero dei folli, non degli eroi. La salute è un mezzo in vista di un fine: il pieno esercizio della propria umanità. Perché questo sia possibile non basta non essere malati. Occorre vivere in un mondo umano dove siano garantiti un certo livello di prosperità e soprattutto alcuni diritti fondamentali. Un perseguimento cieco e spasmodico della salute sopra tutto e sopra tutti che arrivi a minare le fondamenta di un mondo del genere non è segno di rispetto dell’umanità delle persone, bensì di una sua riduzione a mezzo in vista di un fine, dove la salute diventa quel fine ultimo a cui tutto il resto può essere sacrificato. Anche questa, dunque, sarebbe una violazione dell’imperativo categorico, che si rivela ben diverso da quello prospettatoci dal nostro premier.

L’auspicio quindi, sia ben chiaro, non è ricacciare gli scienziati nei laboratori, ma tenerseli stretti, possibilmente senza lasciarli inebriare troppo al calice della celebrità, integrando però le loro divergenti prospettive con le esigenze e le istanze ben più univoche che emergono sempre più forti dal mondo umano in cui viviamo. Sopravvivere al coronavirus per morire di crisi economica, desertificazione spirituale, vuoto educativo e solitudine affettiva è una prospettiva tutt’altro che desiderabile. Questa sì, caro premier, è un’affermazione candidabile al rango di episteme platonica…

COSA FA LA POLITICA. UNA COSTITUENTE DEI SAPERI. Fabio Cavallari il 5 aprile 2020 su glistatigenerali.com.

Abbiamo vissuto un periodo temporale in cui il dispregio del sapere, della cultura, della competenza, tecnica e scientifica, sembrava essere diventato il mantra del nuovo millennio. La politica, una passeggiata da affrontare con le arti del televoto. Si doveva parlare esattamente come la pancia delle persone pretendeva, guai ad affrontare un tema cercando di travalicare il comune senso della retorica. Dai terrapiattisti, ai no-vax, al, complottismo casalingo, sino alla ricca diaria dei migranti, ad un’idea della geografia che nemmeno in prima elementare. Un’idea del mondo spazzato via dal coronavirus, dall’emergenza, dalla paura, dalla morte senza commiato. Sembrava di potersene addirittura rallegrare all’inizio di questa vicenda, senza accorgersi che il “male” stava e sta alla radice. Si può, infatti, credere a tutto e al contrario di tutto, quando non c’è più un’idea strutturata del mondo, una visione dell’uomo e delle cose che non sia semplicemente un compendio finanziario del mercato. Così siamo passati dal dilettantismo come dovere, alla consegna incondizionata al parterre scientifico per ogni decisione politica. Come se la scienza fosse una teologia, con una verità unica e rivelata, e soprattutto neutra al cospetto dell’economia e del capitale. Con la frase “facciamo quello che ci dirà il comitato tecnico-scientifico” la polis ha dismesso la sua funzione, trasformando il Parlamento nel passacarte dello scientismo. E in un Paese privo di leader, di intellettuali, di una narrazione da costruire, la massa è pronta a sposare il primo “guru” di turno. Agli insipienti di ieri, si sono sostituiti i tecnici di oggi. Essi hanno competenze specifiche, che nessuno discute, ma la “crisi” di oggi non contempla semplicemente una “disfunzione” sanitaria ma una molteplicità di implicazioni che richiedono una “Costituente dei saperi”. Si badi bene, non è il mondo scientifico ad attentare alla polis. Certo, non mancano individualità che hanno assunto l’immagine della “sancta sanctorum” e che spopolano in ogni dibattito televisivo da mattina a sera, ma questa è la storia dell’uomo e del suo narcisismo. Il succo sta altrove, sta alla radice. Sta in quella inconsistente idea del mondo. Stiamo assistendo alla plastica fotografia di quel vulnus che le macerie del Novecento ci hanno consegnato. È sempre la stessa medaglia, lo stesso difetto d’origine. Cambiano i protagonisti, tutti sfuggevoli al tempo veloce della società moderna, ma il “male” è rimasto il medesimo. Oggi con ancor meno consapevolezza. È un patto costituente quello di cui avremmo bisogno, negli Stati Uniti d’Europa.

La Salvezza e la conoscenza. Covid19, il trionfo degli gnostici. Luca De Netto il 30 aprile 2020 su loccidentale.it. Se per Carl Marx le leve del mondo erano di fatto mosse dall’Economia, e se per Carl Schmitt, invece, ogni conflitto assumeva carattere riconducibili al Politico, la complessità della natura umana, così come la storia delle grandi rivoluzioni, ha fatto emergere il carattere centrale dell’elemento religioso. Il c.d. fattore “R”, la scelta di senso che ogni essere umano compie, volente o nolente, dal momento in cui viene al mondo, assume ricadute fortissime sul piano storico, sociale, politico, economico. Basterebbe, a titolo di esempio, citare il noto saggio di Max Weber sul rapporto tra etica protestante e spirito del capitalismo, in verità corretto dal più nostrano lavoro di Amintore Fanfani “Cattolicesimo e protestantesimo nella genesi storica del capitalismo”, o gli studi di personalità del calibro di Augusto del Noce, di Sameck Ludovici, come anche dei laicissimi lasciti di Hans Jonas, per avere contezza dell’importanza del fenomeno. In termini molto semplici, alla base della storia dell’Umanità, in ogni epoca, vi sarebbe un conflitto tra Verità e Gnosi, che, in ambito cristiano, viene ricondotta alla scelta per Dio o contro Dio. Ad Ennio Innocenti si deve la precisazione e la distinzione tra vera e falsa Gnosi, ossia tra Gnosi pura, che coincide con la conoscenza della Verità che rende liberi (Gv. 8,32). E Gnosi spuria, ossia la Gnosi a cui facciamo riferimento.

Ma cosa intendiamo per Gnosi (spuria o falsa)?

Va premesso, in via molto approssimativa, che la Gnosi è quell’idea che vede la realtà del mondo come una caduta: per lo gnostico, l’Uomo è Dio, ma è stato imprigionato nella materia a causa di un inganno da parte di forze negative che hanno dato origine all’universo, alla terra, al corpo, disgregando l’unità originaria. Tutto ciò che noi vediamo, dunque, è opera del Male. L’essere umano, fintanto che vive su questa terra, è quindi prigioniero, in gabbia: la sua natura non è di corpo, anima e spirito, ma di puro spirito luminoso, in quanto, appunto, Dio.

L’obiettivo dello gnostico è tornare dunque alla condizione divina, tramite la conoscenza (gnosi) di questa verità che disprezza tutto ciò che è realtà materiale. Lo gnostico, infatti, è uno spiritualista. Ciò non deve sorprendere: ricordiamo che Chesterton, con una nota battuta, chiosava: “l’opera del Cielo fu materiale, la costruzione di un mondo materiale; l’opera dell’inferno è interamente spirituale”.

Ma attenzione: soltanto una ristretta cerchia di iniziati, di illuminati, può tornare ad essere Dio. La maggior parte è destinata a restare prigioniera delle forze telluriche. Costoro, non sono degni di sapere, non sono degni della divinità, e quindi devono perire con il mondo fisico. Anzi, dato il loro legame con la realtà materiale, hanno imbruttito sempre di più la terra, che deve essere liberata quanto prima dallo loro infausta presenza, affinché torni ad essere quantomeno una sorta di specchio del paradiso perduto, un’unità indifferenziata per pochissimi in attesa che gli eletti tornino in Alto. Ogni forma di gnosi, sia antica che contemporanea, si caratterizza inoltre per il disprezzo nei confronti delle norme morali e nell’attacco al Diritto, che assume un’importantissima funzione katechontica: esso, infatti, non va confuso con la Legalità, ma identificato con la Giustizia che è insita nella Legge naturale. Che per la Gnosi è male o non esiste. Ma se il Katechon viene rimosso, se la funzione del Politico viene meno, come desiderano gli gnostici, vi è il dilagare del Mistero dell’Iniquità e l’instaurarsi del dominio dell’Anti-Cristo. Cioè di Chi e di Cosa si oppone a Cristo. Ossia proprio le svariate sfaccettature della Gnosi. Ancor più chiaramente: se Cristo è Dio che si fa Uomo, l’Anti-Cristo è l’uomo che si fa Dio, che indica sé stesso come Dio e siede al posto di Dio (cfr. 2 Ts. 6-7).

Ma se è vero che la Gnosi, nel corso dei millenni, è mutata, nascondendo la sua caratteristica religiosa e diventando una forma mentis, ed assumendo così le vesti dell’idealismo, del marxismo, del malthusianesimo, dello scientismo, della rivoluzione sessuale, essa mantiene dei tratti fondamentali che consentono di rintracciarla anche negli eventi che stanno sconvolgendo il mondo in questi ultimi periodi. Già da diverso tempo, alcune voci preziose hanno sottolineato il carattere gnostico della teoria del gender, dove il corpo è inteso come prigione per la mente, che pertanto è la sola realtà determinante ed importante, sì da modificare anche la propria realtà biologica per adeguarla all’idea che si ha di sé. Cornelio Fabro sottolineava, del resto, come tutta la Modernità, intrisa di idealismo, faccia dipendere la Realtà dal pensiero.

Ma anche l’ambientalismo, oggi nella sua versione climatista, che combatte una battaglia perenne contro la presenza nel mondo dell’uomo, ritenuto colpevole dei mali che affliggono il pianeta – concepito come Gaia, un “essere vivente” – nonché di un presunto imbruttimento, è una forma di gnosi, nonché evidente falsificazione della realtà del Peccato originale. Né è da meno l’animalismo, che, eliminando le differenze tra uomo e animale, non fa altro che ridurre l’essere umano non eletto ad uno stato animalesco, o, persino inferiore alle bestie. O, dall’altro lato, a ripristinare l’ideale unità indistinta di marca panteista, dove tutto è Dio. L’elenco è lungo, e potrebbe continuare.

Ciò che però dovrebbe suscitare qualche riflessione, è il carattere gnostico che sembra aver assunto la nota vicenda del COVID-19: non solo i corpi bruciati senza riti religiosi, le fosse comuni, l’isolamento e spesso l’abbandono degli ammalati o di presunti tali, ma soprattutto la dinamica dogmatica del “distanziamento”, con tanto di mascherine, guanti, plexiglas. Fino al punto che, contro ogni logica, marito e moglie sono impossibilitati a viaggiare insieme in auto. Se ci soffermiamo a pensare, infatti, per la prima volta nella storia dell’umanità, su scala globale, si mette sotto accusa la corporalità, e si bandisce ogni contatto fisico. L’uomo è posto sotto una teca di plastica, impossibilitato – vuoi per norme, vuoi perché terrorizzato dalla campagna mediatica – ad abbracciare, a toccare, a baciare, a stringersi la mano. E’ uno scenario unico sulla cui possibile tentazione gnostica vale la pena interrogarsi. Anche alla luce della constatazione che lo Scientismo è Gnosi, come molti Autori hanno ben rilevato. Ed è proprio da quello Scientismo dominante, tanto da reggere oggi le sorti del pianeta e alle cui decisioni si piegano governi e popoli, che provengono queste “soluzioni”.

Una casta di eletti – ma non eletti – espressione di un potere tecnocratico senza alcuna garanzia di natura etica o controllo popolare, assume di fatto enormi poteri decisionali in virtù di una presunta conoscenza ritenuta di rango superiore che libererebbe l’umanità dalle menzogne, dalle credenze, dalle fake news. In virtù, appunto, di una forma di Gnosi, un “sapere che sa”. “Chi è illuminato non ascolta più, perché ha già visto” sintetizza Sameck Ludovici, stigmatizzando l’atteggiamento gnostico di presunzione, di illusione di possedere la conoscenza, di chiusura alla Realtà e alla Verità. E dovrebbe far riflettere anche l’esultanza di taluni verso un “ritorno della natura libera ed incontaminata” (dall’uomo), grazie alle chiusure disposte a causa del COVID. Ma attenzione: non stiamo dicendo che tanti scienziati onesti, capaci, che fanno bene il proprio mestiere, abbiano artatamente ipotizzato tali “soluzioni”. Anche perché abbiamo visto la grandissima confusione che regna nel mondo scientifico. Più semplicemente, venendo meno il ruolo katechontico della Politica, dello Ius, una forma mentis scientista e tecnocratica, presente in alcuni, o meglio nella formazione di alcuni, è dilagata, anche grazie ai mezzi di comunicazione di massa, lasciando libero sfogo alla tentazione gnostica. Da questi “iniziati”, proviene così un attacco alla realtà corporea considerata mera entità biologica. Aggregato di cellule. Fonte del male e di contagio. E non, invece, tempio dello Spirito. Non più il corpo aristotelico, di cui l’anima è la forma.

Non più l’Uomo nel suo complesso, capace di conoscere ed amare il Buono, il Bello, il Giusto. Capace di vivere la propria naturale socialità a contatto con gli altri. Un contatto sia morale che fisico, sia spirituale che corporeo, sia sentimentale che sessuale. Un uomo completo, appunto. (Cfr. Benedetto XVI, Enciclica “Deus Caritas est”). Che oggi invece si scontra con un rovesciamento del divino “noli me tangere”, “non mi toccare!”. Solo Dio, a fin di bene, può dare quel comando di “distanziamento”. O l’uomo che crede di essere Dio. Lo gnostico, appunto. Dimenticando però che il vero Dio, che si era fatto vero Uomo, comanda di mettere il dito nel segno dei chiodi e nella ferita del costato. Che quel vero Dio fonda tutto sulla Sua Incarnazione, santificando così la Carne, e sulla Resurrezione del Corpo. Ed è sempre presente, grazie proprio al Suo Corpo e al Suo Sangue. Quello che è stato infatti impedito di ricevere. Ma qui emerge l’errore spiritualista, quella forma di Gnosi – opposta ma speculare a quella pelagiana – che fa coincidere la Salvezza con un percorso intimo, personale, domestico, a prescindere dalla Realtà della Carne, e, in ambito cattolico, dei Sacramenti. Errore grave, denunciato, tra l’altro, dalla recente lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede, “Placuit Deo”, del marzo 2018. Intanto, la Gnosi prosegue la sua battaglia.

Attacco alla natura umana. “Immuni” sì, ma dal giacobinismo. Luca De Netto il 23 aprile 2020 su loccidentale.it. Privacy. La parola ormai è pesantemente inflazionata. Famoso è il GDPR che dovrebbe tutelarla. Tornata di moda dopo l’ipotesi di tracciamento che il Governo vorrebbe porre in essere tramite l’applicazione “Immuni”. Il problema, però, non è affatto la tutela della riservatezza in sé. Così come, a maggior ragione, non è la libertà quella maggiormente castrata dalla retorica del “restate a casa”. Un sguardo realista, ci fa infatti comprendere che il pericolo maggiore consista nell’attacco alla natura umana, sulla cui unicità si è soffermato anche Roger Scruton in uno dei suoi ultimi scritti. E la natura umana si caratterizza essenzialmente per due peculiarità: l’uomo come animale sociale per natura (Anthropos physei politikon zoon) e l’uomo come essere religioso (homo religiosus). Se vogliamo, riconducibili ad un concetto: l’uomo come creatura razionale che vive di relazioni, verso l’Alto, e con gli altri.

Impedire, danneggiare, distruggere queste relazioni, significa colpire al cuore l’essenza dell’essenza dell’essere umano. Ed è interessante notare anche la gerarchia di queste due relazioni, in senso verticale, ed in senso orizzontale, ben rappresentate dal simbolo della croce, dove divino ed umano si incontrano proprio sulla Croce. Dagli studi di Julien Ries, Mircea Eliade e tanti altri, è stato dimostrato che la dimensione religiosa, l’asse verticale, non può essere in alcun modo divelto o distrutto. L’uomo mantiene sempre un’essenza religiosa. Anche la persona più atea, alla fine crede religiosamente in qualcosa. Con tutta probabilità crede in sé stesso, nelle proprie granitiche convinzioni, nei propri dogmi. Comunque resta essere religioso. E non si sfugge. Dunque l’asse verticale, può essere al massimo proiettato verso il basso, rovesciato verso gli istinti primordiali, verso il regno animale. Come diceva il Santo Curato d’Ars: togliete i parroci, chiudete le chiese, e presto le persone adoreranno gli animali. O si inchineranno davanti alla nuova religione dell’umanità vagheggiata da Comte: la Scienza. Ossia lo scientismo dogmatico che non ammette ricerca, confronto, interrogativi. Nel piano orizzontale, invece, ossia nelle relazioni con gli altri, l’asse di questa croce se non può essere del tutto divelto, può essere rovinato e spezzato. In modo da trasformare l’uomo in una monade infelice, isolato dagli altri, e chiuso nella sua gabbia di odio, rancore, consumo, istinti. Nel quadro di questo processo, realizzato da diversi fenomeni storico-politici, si cerca di distruggere ogni tipo di relazione umana in modo da poter esercitare un controllo totale ed evitare che la gente cooperi, inducendo una diffidenza capillare nei confronti di chiunque. Tutti sono sospetti. Tutti sono nemici. L’essere umano è completamente solo, fragile, debole, senza potersi fidare di nessuno, in balia della propaganda mediatica di chi detiene il potere. La croce è spezzata.

Ed oggi, non corriamo forse questi rischi? La psicosi del virus, quando tutto sarà riaperto, non farà tenere le persone a distanza? Ognuno non vedrà forse l’altro come potenziale minaccia alla propria salute? La fiducia è già ridotta a zero. Perché il terrore ha preso il sopravvento, anche grazie ad una narrazione mediatica martellante. Fino al punto che la gente preferisce nascondere un infarto, piuttosto che chiedere aiuto ai sanitari. Per paura di infettarsi e morire di COVID-19. Purtroppo, però, a volte muore proprio di infarto. O di altre mille malattie e problemi che sono passati tutti in secondo piano. O addirittura scomparsi.

E chi non indosserà la mascherina, sarà visto come nemico pubblico, come queste settimane ci hanno insegnato? Saranno affissi cartelli all’ingresso dei supermercati e dei ristoranti – sempre che qualcuno ci torni – con le scritte “vietato l’ingresso ai deboli”? Vietato l’ingresso a chi non ha determinati profili immunologici? Una volta nella Germania nazista si vietava gi ingresso agli Ebrei. Oggi saranno stigmatizzati altri, coloro che non superano certi profili sierologici? Coloro che non risulteranno ”immuni”. Non siamo forse alla minaccia concreta della ghettizzazione di nuove categorie sociali indicate come “deboli”: anziani, malati cronici, chiunque rifiuti di scaricare un’app o, liberamente, di sottoporsi a determinati trattamenti sanitari?

Non c’è forse il rischio di tenere alla larga dalla vita pubblica, in un rinnovato darwinismo, quelli che le linee guida di un ministero riterranno i meno adatti a sopravvivere? Ma magari saremo prontissimi ad accogliere in pizzeria i cani. Perché il virus non si trasmette ai nostri animali da compagnia. E perché “gli animali sono migliori delle persone”, come sostiene la propaganda anti-umana della gnosi animalista. Ma nel delirio giacobino che si prospetta, neanche la malattia sarà più una colpa sociale. Siamo già oltre. Sarà la potenziale malattia a rappresentare una colpa. Sarà l’essere potenzialmente deboli una colpa sociale. Non avere l’app. Non essere “immuni”. O non essersi sottoposti a determinati trattamenti sanitari, in alcuni casi per scelta, in altri perché costo inutile per lo Stato. Sarà mantenere la propria personalità la grande colpa che questi esperimenti di ingegneria sociale, ben  noti, vogliono innescare. In fin dei conti, la grande colpa sociale, sarà il restare autenticamente umani. Ossia razionali e relazionali. Ecco che davanti all’attacco alla natura umana, anche la diatriba su privacy e libertà perde di senso. Perché chi non è più de facto uomo, non ha diritto né alla privacy, né alla libertà. E soltanto difendendo la natura umana, la croce integra, verso l’Alto e verso gli altri, hic et nunc, qui ed ora, abbiamo qualche speranza.

La legge è per l’uomo, non l’uomo per la legge. Luca De Netto il 20 aprile 2020 su loccidentale.it. Quelli che “ma l’OMS ha detto…” tutto e il contrario di tutto ha detto! Ma gli scienziati dicono…” Uno contro l’altro, peggio che andar di notte!! “Eh, ma in Cina…” in Cina? E perché non guardiamo alla Svezia, all’Australia, alla Nuova Zelanda o a Singapore? Chiariamo dunque un fatto: non spetta né ai comitati di “esperti” decidere il da farsi, né a quelli di certe organizzazioni internazionali. E nemmeno ai giornali o alla finanza internazionale o alla BCE! La decisione spetta alla Politica con la P maiuscola. E come si prende una decisione politica autentica e giusta? Semplice. La Scienza deve accertare i fatti correttamente in base alle conoscenze che si hanno fino a quel momento. Essa è quindi relativa, fallace e sempre perfettibile per definizione. Fosse dogmatica e assoluta, sarebbe religione (come la voleva Comte, padre dello scientismo moderno). Ma anche il Diritto tende a stabilire i fatti correttamente. Il Diritto, però, a differenza della Scienza, subordina l’accertamento dei fatti all’obiettivo primario: assumere una decisione giusta ed efficace. Razionale e non dannosa. Perché si ha a che fare con le persone. Intese integralmente come esseri sociali inseriti in un ordine naturale. Non con agglomerati biologici (come sono i virus) scomposti ed isolati. Ecco perché il Giurista può utilizzare le conoscenze che la Scienza gli fornisce. Anzi, deve conoscere l’intera realtà delle cose, cioè avere una visione complessiva del Reale (che non è una visione settoriale). Proprio perché non deve mai dimenticare che la decisione spetta a lui, e non alla Scienza (o alla Finanza…). E la decisione pubblica del Giurista, quella che una volta si chiamava “primato della Politica”, affinché sia davvero giusta, deve tendere al bene comune. Ed è qui il problema principale. Cosa è il bene comune? Perché riguarda la visione della Realtà tutta. E’ un problema ontologico che richiama la funzione dello Stato e la realtà delle persone in un ordine complessivo che è dato oggettivamente. E su cui si stagliano diversi errori di impostazione, che qui sarebbe inutile e lungo elencare. E dove emerge l’assenza di cultura di chi governa ed assume le decisioni. L’assenza di una classe dirigente formata, attrezzata, consapevole. L’amara constatazione che non è vero che c’è troppa politica. Ma l’esatto contrario: non esiste più! C’è solo gestione del potere fine a se stesso. Ed è ancor più grave che ci sia assenza di una vera cultura giuridica. Che non è affatto la conoscenza delle norme (su cui, del resto, si sono pur viste certe storture…). Perché il Diritto non è mera tecnica al servizio del potere costituito, come vorrebbero i normativisti, e nemmeno pura scienza sociale, come vorrebbero certe scuole sociologiche, ma fenomeno naturale, storico e politico al tempo stesso perché fondato sull’uomo, sia come singolo che nelle sue relazioni e formazioni sociali, che non si esaurisce nelle norme, ma ha una primaria dimensione fattuale e una giustificazione razionale. Esso cioè è in primis Cultura, conoscenza della realtà umana e dell’agire umano. In tal senso è servizio all’uomo e all’intera Comunità, perché la legge è fatta per l’uomo, e non l’uomo per la legge. E in questo senso trascende le stesse norme e trova il suo fondamento ultimo nella natura umana e nella natura delle cose. Ontologicamente date e naturalmente ordinate. Questa è la concezione realista del Diritto. Ma il realismo giuridico (non quello anglosassone, ma quello latino e tomista) è merce rarissima… Scomparso quasi del tutto persino dalle Università italiane. Ecco perché poi ci affidiamo all’onda. Vuoi quella emozionale dei social networks. Vuoi quella dei diktat dell’Eurozona. Vuoi quella dell’esperto di turno. Vuoi quella della narrazione dei media. Mala tempora currunt. Sed peiora parantur.

·        L’Epidemia Mafiosa.

Mario Giordano contro i colossi della farmaceutica: "Ecco quali dati divulgano e perché. Ha un senso?" Libero Quotidiano il 02 luglio 2020. Dito puntato contro i colossi della farmaceutica, oggi più che mai, con il mondo alle prese con il coronavirus e con la sfida tutt'ora in atto per mettere a punto un vaccino. A puntare il dito è Mario Giordano, che nel corso di un'intervista a Money.it, spiega: "Spero che la batosta presa negli ultimi mesi ci aiuti a capire che su queste cose non si può scherzare. Oggi conosciamo solo il 40% delle ricerche effettuate in ambito farmacologico: lasciandole solo alle aziende farmaceutiche, decidono o no di pubblicare i dati, nella loro convenienza. È legittimo, ma è un sistema sensato?", si interroga il giornalista. E ancora: "Se sono uno scienziato ho bisogno di sapere tutte le ricerche per aumentare la mia conoscenza. Se conosco solo i dati che è conveniente per qualcuno pubblicare, andiamo avanti più lentamente", conclude Mario Giordano.

Coronavirus, "Autopsie e altri errori non casuali. L'ombra del Deep State". Angelo Maria Perrino su Affari italiani Lunedì, 8 giugno 2020.  Da Alberto Contri (Università Iulm) una requisitoria e un j'accuse contro il Deep State e gli interessi dietro il Coronavirus. Un gruppo di scienziati e di medici ha deciso di scrivere al presidente del Consiglio, al ministro della Salute e ai governatori delle Regioni per chiedere chiarimenti su molti punti controversi dell'emergenza coronavirus, chiedendo "per quale motivo si siano impediti gli esami autoptici, che si sono invece rivelati, quando effettuati, una fonte insostituibile di preziosissime informazioni e che hanno consentito di scoprire che la causa principale dei decessi non era la virulenza della patologia, ma una sua errata cura”. Alberto Contri, docente di Comunicazione Sociale all’Università IULM, pur non essendo un medico, aveva sollevato il problema a fine aprile, analizzando e criticando la comunicazione istituzionale sulla pandemia.

Professor Contri, come ha fatto ad anticipare con anticipo e tempestività un giudizio di carattere tipicamente medico?

«Per venti anni, su cinquanta di quelli impegnati in comunicazione, ho lavorato nella più grande agenzia multinazionale specializzata nell’informazione alla classe medica. Con tutto quello che ho dovuto studiare, penso che mi potrei presentare a sostenere gli esami di diverse specialità. Per parlare della mia esperienza di virus, mi piace ricordare che il primo documentario scientifico sull’HIV in cui si richiamava l’attenzione su una rara polmonite interstiziale che si stava diffondendo nelle comunità gay della California, fu realizzato dall’immunologo Aiuti e da me. Ma a parte questo, sono rimasto e sono in contatto con molti illustri medici e clinici che si sono trovati ad affrontare il coronavirus sul campo, e da loro, in tempo reale, ho appreso cosa stava accadendo e come si stava modificando la  malattia. Confrontando le loro analisi e il loro vissuto con le azioni del Governo, mi sono ben presto reso conto di due cose: innanzitutto che virologi ed epidemiologi vedono le persone e i pazienti come numeri su un grafico, e seguono poco gli aggiornamenti della pratica clinica. Poi. che la troppo prudente lentezza delle istituzioni della Sanità non ha saputo far tesoro delle acquisizioni dei medici sul campo che si succedevano in tempo reale. Concentrandosi su un’unica, granitica certezza, il vaccino, che invece è tuttora una speranza assai labile».

Ma non è paradossale, visto che il vaccino è per l’appunto di là da venire?

«Gli approcci terapeutici individuati dai medici di Napoli, Pavia e Mantova hanno fanno in pochi giorni il giro del mondo salvando molte vite. Certo che lo è. Il Dr. Vincenzo Cennamno, direttore dell’Unità operativa complessa di Gastroenterologia ed Endoscopia dell’Ausl di Bologna, ha affermato: “Penso che sia molto importante investire nella condivisione e comunicazione dei dati clinici. Nel caso del coronavirus l’allarme dato sui social dall’esperienza di medici sul campo (il primo fu un oculista) è stato ignorato dall’apparato ufficiale e invece ascoltato ad esempio da Taiwan....con i risultati che tutti sappiamo. Avremmo potuto battere il virus con una comunicazione virale sanitaria e creare una PandeMedia che avrebbe evitato la Pandemia”. E’ stato anche sorprendente notare come istituzioni che dovrebbero tutelare la salute pubblica hanno nicchiato o cercato di dichiarare poco utili approcci terapeutici che in tutto il mondo ora stanno facendo la vera differenza tra la vita e la morte. L’ultima gaffe, ma è un eufemismo, riguardo la circolare dell’OMS che vietava l’impiego dell’Idrossiclorochina sulla base di uno studio pubblicato su Lancet  costruito con dati inverificabili. In base a una protesta di 120 medici e ricercatori, Lancet ha chiesto scusa, l’OMS ha ritirato la circolare e così alcuni baluardi della Scienza Ufficiale hanno perso molta credibilità. Già Report aveva segnalato che dopo il ritiro dei fondi americani, l’OMS è di fatto un ente finanziato da privati, tra cui Bill Gates è il primo, oltre che da imprese del Big Pharma. Ciononostante i grandi mezzi di comunicazione ne sono di fatto il portavoce, accreditando l’ipotesi del vaccino come unica via d’uscita. Ma sono stati battuti dai social media, grazie ai quali la comunità scientifica di tutto il mondo si è tenuta in contatto passandosi le informazioni chiave sulle autopsie che poi sono state addirittura vietate. Cose da non credere. Perché è proprio grazie alle autopsie che alcuni medici intelligenti hanno capito che la polmonite era l’ultimo effetto della trombosi dei microvasi polmonari. Intervenendo per tempo, gli usuali anticoagulanti (insieme ad altri farmaci antiinfiammatori) si sono rivelati in grado di rallentare il flusso dei ricoveri ospedalieri annullando quello verso ke Terapie Intensive, riportando l’infezione da Covid 19 al livello di una grave influenza. E’ sempre grazie ai social che si sono diffuse assai rapidamente le intuizioni del Prof. Luciano Gattinoni (ex presidente della Società Mondiale di Terapia Intensiva) sui vantaggi della posizione prona dei pazienti con gravi difficoltà respiratorie, oltre che la raccomandazione di ridurre la pressione dell’ossigeno nei respiratori, che stava facendo danni letali a polmoni troppo ammalorati».

Sembra quindi ci sia stato uno scollamento tra i Comitati Scientifici, il Governo e la classe medica operante sul campo.

«Temo proprio di sì. Un ulteriore paradosso è costituito dal fatto che proprio le Istituzioni parlano continuamente di medicina del territorio, mentre i medici di base sono stati lasciati senza kit di protezione e informazioni adeguate. A sentire i più impegnati, un vero punto di svolta è stata proprio la comunicazione circolare che si è stabilita volontariamente tra loro e i medici ospedalieri. Eppure il Governo ha deciso di investire somme cospicue in molte nuove Terapie Intensive, quando le attuali sono vuote o quasi. Denaro che potrebbe servire a moltiplicare i medici di base, con adeguata formazione, così da farli agire come vera sentinella contro il virus (e non solo) mettendoli anche in grado di visitare i pazienti a domicilio. Qualcuno ricorda per caso un medico di base uscito per una visita domiciliare? Forse c’è stato qualche eroe volontario. Invece di affrontare sul serio questo problema, ci spaventano con la seconda ondata, investendo in trincee nel posto sbagliato (le Terapie Intensive) invece che nel potenziamento vero della cosiddetta medicina del territorio, che rimane una vuota espressione sempre più abusata».

C’è chi pensa che gli errori commessi non siano casuali, ma dettati dalla pressione delle imprese interessate al vaccino.

«Su questo tema si rischia di entrare in un campo minato, perché a chi pensa così viene subito lanciata un’accusa di complottismo. Ma se guardiamo alle notizie che emergono un poco alla volta, si scopre una realtà ben diversa dalla versione cosiddetta ufficiale. Innanzitutto trovo sorprendente la velocità con cui è stato maltrattato un Premio Nobel come Montagnier, che si era permesso di ritenere il virus frutto di una manipolazione in laboratorio. Il giorno dopo la sua intervista, tutti i media del mondo si sono scatenati all’unisono a delegittimare lui e la sua versione, incluso i virologi nostrani che straparlano da tv, radio e giornali, in alcuni casi senza nemmeno avere un curriculum adeguato.

Bene, da un paio di giorni è uscito uno studio molto autorevole anglo-australiano che sostiene la tesi di Montagnier. Mentre un altro studio israeliano dimostra che a dicembre tutte le infezioni arrivate da loro erano di origine americana. Gli esperti mi hanno spiegato che i virus hanno in realtà una carta di identità che permette di risalire alla vera origine, oltre ad una sorta di biglietto di viaggio che indica tutte le tappe che ha fatto…Motivo per cui, è solo questione di tempo, ma tra non molto tutta la verità potrebbe venire fuori. E molti scienziati si troverebbero in forte imbarazzo».

Nei suoi post e nelle sue interviste, lei ha sempre anticipato i tempi con verità che poi sono state dimostrate incontrovertibili. Nell’attuale momento, è in grado di anticiparci qualcosa?

«Posso ringraziare qualche amico che sta nei posti giusti condividendo con me analisi basate su fatti in genere ignorati o poco conosciuti. Però vorrei ugualmente usare il condizionale, finché non verranno fuori le carte di identità e i biglietti di viaggio che qualcuno avrebbe già trovato, ma che aspetta ad esibire, perché siamo ancora troppo lontani dalle elezioni americane. E già questo è un bell’indizio.Ci sono insistenti voci che indicherebbero il virus sintetizzato nello stesso laboratorio americano in cui era stato sintetizzato l’antrace, e sotto l’amministrazione Obama. Laboratorio poi chiuso per l’eccessiva pericolosità dei suoi esperimenti, che sono stati trasferiti quindi a Wuhan. Da lì potrebbe essere uscito intenzionalmente o per errore (data la forza della censura cinese, non è certo semplice scoprirlo). C’è un indizio che potrebbe avallare l’operato intenzionale: a ottobre ci sono state le Olimpiadi militari a Wuhan. Larga parte degli atleti ha raccontato di essersi ammalata, con tipici sintomi da Covid 19. In quelle olimpiadi prevalgono le discipline guerresche (scherma, equitazione, pentathlon, lotta, ecc.) in cui gli atleti militari americani sono da sempre ai primi posti nel mondo. Ebbene, dalle informazioni in mio possesso, questa volta il medagliere ha visto gli americani posizionarsi al 33° posto. Segno che l’esercito ha mandato a Wuhan gli atleti più scarsi. Come sapeva che ci sarebbe stata una pericolosa epidemia? E’ uno dei tanti puntini da unire, per cercare di vedere emergere il disegno reale».

Un’ultima cosa: Chi potrebbe essere interessato a creare una pandemia che ha messo in ginocchio l’economia mondiale? Cui prodest?

«Man mano che le verità ufficiali si sgretolano una alla volta, sembra consolidarsi l’ipotesi della manina di un agglomerato di interessi militari, finanziari, industriali che da tempo ha preso il nome di Deep State. Che sarebbe disposto a qualsiasi accelerazione pur di evitare la rielezione di Trump e di scardinare gli attuali equilibri mondiali. Continuando con le ipotesi, potrebbe anche essere che l’attuale diffusione della pandemia sia stata preterintenzionale: proprio per la pericolosità degli esperimenti sul coronavirus in questione fu chiuso il laboratorio americano, che per l’esattezza era situato nella North Carolina. E se riflettiamo sul fatto che la pandemia da Covid 19 ha provocato finora nel mondo 252.000 morti, mentre quelli annui per gli incidenti stradali sono 1,35 milioni, e 8 milioni quelli per il fumo, senza che nessuno abbia chiuso le strade o le tabaccherie, ma tutto il resto si, qualche ulteriore domanda ce la dovremmo porre»

VACCINI & BUFALE / AUTORIZZATI A PARLARE SOLO SCIENZIATI E GIORNALISTI PRO. Bagarre vaccini. Prosegue la campagna di “disinformazione di massa”. E continuano le “cannonate” di Repubblica contro chi “osa” mettere in discussione la “non nocività” dei vaccini. Tutto comincia – nomina sunt consequentia rerum – con la trasmissione Virus condotta da Nicola Porro e le frasi anti vaccini di Red Ronnie (“Non puoi obbligare a vaccinare i bambini. Quanto sono i morti per gli effetti collaterali”?). Insorge il virologo Roberto Burioni, che non ha tempo per illustrare via Rai2 le sue alte doti scientifiche e esterna la rabbia su facebook, dove implora (scrive una “accorata” lettera) l’aiuto della Vigilanza Rai, chiamando in campo il consigliere Pd Michele Anzaldi. Ecco, fior tra fiori, le chicche del Burioni pensiero. Ti vaccini oggi e ti viene un attacco epilettico domani? No problem, per il Vate in camice bianco: “una semplice coincidenza”, pontifica. “Già basterebbe ma in realtà i medici sono molto testardi, la medicina va avanti perchè, come diceva Goethe, il sapere è come una sfera che aumentando aumenta il suo contatto con l’infinito”. Sfere e palle a parte, eccoci al nodo dell’Einstein de noantri. “Quasi tutti i bambini che hanno sviluppato l’epilessia avevano proprio questi difetti e il vaccino non ha avuto altro ruolo che quello di svelare una malattia preesistente, e non di causarla, perchè queste alterazioni erano presenti dalla nascita e non possono essere state indotte dalla vaccinazione”. Ma è nelle metafore che il prossimo Nobel di fiale & provette riesce a dare il meglio di sé: “è come se una persona stonata si mette a cantare: fino a quando non canta non sappiamo che sia stonata, ma a nessuno verrebbe in mente di dire che la canzone che ha cantato l’ha fatto diventare stonato!”. Meraviglioso: proprio come Volare…. Ecco la spiegazione del Mistero: “con il vaccino accade la stessa, identica cosa: un bambino ha dei difetti genetici o congeniti che causano l’epilessia e il vaccino semplicemente la svela. Ma non ne costituisce la causa”. E la metafora finale: “Immaginate una crepa nel muro, il vaccino è la luce che ve la mostra”. La luce divina che conduce alla Verità il popolo bue, tramite il Verbo di Vate Burioni. Ma la lezione del Maestro non è finita. E le sue sferzate colpiscono soprattutto quei luridi giornalisti che diffondono il seme del Terrore. “Un giornalista che sa fare il suo dovere – ammonisce – subito dopo aver riportato il terribile grido di dolore dei genitori, dovrebbe avere la correttezza professionale di informarsi, sentire qualcuno che se ne intende e scrivere quello che sto scrivendo io”. In attesa che arrivi il 113 per prelevarlo, il Profeta trova ancora il modo di raccontare la sua ultima metafora: “un giornalista dovrebbe capire che il parere del capo dei vigili del fuoco sulla prevenzione degli incendi non vale tanto quanto quella di un piromane incallito”. E ancora, mentre viene indotto ad indossare una certa camicia: “dovrebbe sapere che un conto è farsi spiegare i viaggi su Marte dal direttore della Nasa, un conto è chiedere ad una fattucchiera che fa gli oroscopi”. E in un soffio finale: “non sempre esistono ‘due campane da sentire’, ma ne esiste solo una in quanto dovrebbe essere facile distinguere i rintocchi dai ragli dei somari”. E alla quinta metafora l’ambulanza chiude il portellone e parte a sirene spiegate. L’ineguagliabile scienziato, però, viene addirittura insidiato, nella performance, dal giornalista scientifico di Repubblica, Marco Cattaneo, a quanto pare collaboratore del National Geograpich, che sta veleggiando in brutte acque. Già impegnato a fiancheggiare un’altra Cattaneo, la senatrice- farmacista a vita Elena, sul fronte della vivisezione (con l’altra firma scientifica del quotidiano fondato da Scalfari, Elena Dusi), l’intrepido Marco randella chiunque gli capiti a tiro e osi solo nominare i vaccini. Le frasi di Red Ronnie diventano “terrificanti sciocchezze” e “affermazioni sgangherate”, la malefica correlazione vaccini-autismo “pur essendo stata negata da un’infinità di studi, continua pericolosamente a fare proseliti”, magicamente il profilo del Maestro-Virilogo diventa “frequentatissimo”, “5 milioni di visualizzazioni”, il nostro un Paese infestato da “stregoni che possono mettere in pericolo la vita della gente” (sarebbero – incredibile ma vero – le parole di Anzaldi), “il Paese dei casi Di Bella e Stamina” (facendo un incredibile minestrone parascientifico). Le parole conclusive di Cattaneo sono scolpite nella Roccia e – da domani – nelle coscienze di tutti gli italiani: “dal dopoguerra in poi i vaccini hanno salvato milioni di vite, permettendo di debellare nel mondo una malattia terribile come il vaiolo, contro la quale infatti non ci si vaccina più”. Eccoci al finale, un colpo da Maestro: “sarebbe una buona cosa se a parlarne, in tv, ci andasse solo chi è competente. E che l’informazione sul servizio pubblico non si prestasse a veicolare messaggi socialmente pericolosi. Ora la parola è alla Vigilanza”. E alle Emergenze del 113, costrette a intervenire una seconda volta.

5 Gennaio 2017 di: PAOLO SPIGA su La Voce delle Voci.

CASO VACCINI / IL QUASI NOBEL BURIONI NON PARLA  COL POPOLO BUE. Caso vaccini, un must per i media negli ultimi mesi. A fare il botto, dopo quelli di Capodanno, è il 5 gennaio la sparata della scienziato che oggi va per la maggiore, la star del San Raffaele, il mago di tutti i vaccini, Roberto Burioni. Al quale, con tutta evidenza, i vaccini danno alla testa. Ecco tutta l’overdose in diretta, frase per frase, così come fedelmente riportata dalla giornalista scientifica del Corriere della Sera, Simona Ravizza – un cognome che evoca la celebre casa farmaceutica – in un’intera paginata dedicata ai vaccini e alle picconate del cattedratico. In neretto, tra giganteschi virgolettoni, campeggia il Verbo del prof, che per i profani viaggia via Facebook: “preciso che questa pagina non è un luogo dove la gente che non sa nulla può avere un ‘civile dibattito’ per discutere alla pari con me”. Ecco l’incipit dell’umile quasi Nobel. Che ai suoi pazienti mortali spiega: “è una pagina dove io, che studio questi argomenti da 35 anni, tento di spiegare in maniera accessibile come stanno le cose impiegando in maniera gratuita il mio tempo che in generale viene retribuito in quantità estremamente generosa”. Niente fattura stavolta, tanta scienza miracolosamente ‘a gratis’! Chiarisce ancora il Vate: “il rendere accessibili i concetti richiede semplificazione: ma tutto quello che scrivo è corretto e, inserendo immancabilmente le fonti, chi vuole può controllare di persona la veridicità di quanto riportato”. Ma ecco l’avvertimento, per mettere in guardia furbi e furbetti d’ogni razza: “però non può mettersi a discutere con me. Spero di aver chiarito la questione: qui ha diritto di parola solo chi ha studiato e non il cittadino comune. La scienza non è democratica”. Capito? Genuflessa, Ravizza si scioglie davanti al “virologo del San Raffaele diventato una star grazie al coraggio di stroncare i fabbricanti di bufale. Soprattutto sui vaccini. In uno dei suoi ultimi post su facebook, letto da oltre 2 milioni e 400 mila lettori, il medico ristabilisce le (giuste) distanze tra chi sa e chi no”. E aggiunge: “la scienza non va a maggioranza. Anche se per il 99 per cento della popolazione mondiale pensa che due più due fa cinque, due più due continuerà sempre a fare quattro”, in un improbabile italiano. Forte, invece, in matematica il prof, e anche in sport, visto un altro raffronto: “chi ascolterebbe una cronaca di calcio da qualcuno che non sa cos’è il fuorigioco?”. Imperdibile. Del resto, il quasi Nobel aveva sfornato quarti di scienza qualche mese fa davanti alle telecamere Rai per la trasmissione – guarda caso – Virus, in un replay organizzato apposta per lui. Nicola Porro, infatti, finì quasi fucilato per non avergli dato lo spazio giusto in una puntata sui vaccini. Al round seguente, quindi, Burioni a tutto campo, pronto a sciorinare i suoi fiumi di sapere senza alcun contraddittorio scientifico.

Del resto non c’è mente che possa reggere il confronto. Nel corso di una trasmissione di Colorsradio e alle domande del direttore David Gramiccioli, a proposito di alcuni medici che osavano parlare di vaccini (e soprattutto di attenzioni e cautele nel loro utilizzo, e anche sui necessari controlli per garantire dei prodotti di qualità a monte) Vate Burioni picconò: “Ma quali studi scientifici hanno mai fatto costoro? Quali pubblicazioni hanno nel loro curriculum? Chi ha pubblicato i loro studi? Non mi confronto con chi non ha i miei titoli”.

6 Gennaio 2017 di: PAOLO SPIGA su La Voce delle Voci.

ILARIA CAPUA / L’ESPERTA PLANETARIA DI VACCINI E AVIARIA APRE IL SUO CUORE A SETTE. Il Genio che l’Italia si fa sfuggire dalle mani. La madame Curie lasciata scappare all’estero. Il prossimo Nobel da noi mai compreso. E’ il ritratto pieno di calore ed emozione che trasuda dalle due pagine d’intervista dedicata da Sette, il magazine di casa Corsera, alla scienziata Ilaria Capua, “una delle massime esperte planetarie di influenza aviaria, pluripremiata e strapubblicata”, come sobriamente descrive la didascalia della foto (titolo del pezzo “Portare avanti compagne contro le vaccinazioni è una scelta criminale”). A firmare l’esclusiva, altrettanta planetaria, Vittorio Zincone, che in poche righe d’esordio pennella la figura della nostra Mente, che “ora vive in Florida, tra praticelli ben rasati, scoiattoli e fenicotteri. Si è trasferita in un piccolo paradiso della ricerca americana perchè ustionata dall’inferno kafkiano della giustizia italiana”. Mancano solo i Sette nani, farfalle e orchi cattivi. Breve ma efficace la sintesi che sgorga dalla penna di Zincone: “nel 2013 Mario Monti le chiede di partecipare alle Politiche nella lista professorale di Scelta Civica. Viene eletta. Un anno dopo scopre, leggendolo in un servizio di copertina dell’Espresso, di essere coinvolta in una pesantissima inchiesta. Titolo, Trafficante di virus”. Pochi mesi fa “il giudice per le indagini preliminari di Verona emette il verdetto: prosciolta perchè il fatto non sussiste”. L’incontro a Roma, “in una stanzetta della Luiss che qualche mese fa l’ha accolta nel consiglio d’amministrazione”, l’intervista, che sgorga pura e limpida come acqua sorgiva. Il Vate in camice immacolato – scrive il De Amicis prestato a Sette – “alterna l’italo-inglese scientifico a slanci in romanesco”: vale mezzo viaggio a Stoccolma. Ma ecco, fior tra fiori, quelli più odorosi, proprio come in quel magico praticello della Florida. Appena cito l’inchiesta che l’ha coinvolta – scrive l’Autore – le si piega un po’ la voce: “hanno sparato a un passerotto col cannone”. In un praticello di casa nostra. Quando accenno al dibattito sull’opportunità di vaccinare i bambini – continua Zincone – si inalbera. “E’ da criminali portare avanti campagne contro le vaccinazioni. La forza di questi movimenti è la disinformazione. Vanno combattuti. I vaccini sono la principale conquista del Ventesimo secolo. Senza i vaccini né io né lei saremmo qui”. Più o meno lo stesso copione di un altro quasi Nobel, Roberto Burioni, cui ha appena dedicato un’altra paginata – guarda caso – il Corriere della Sera. A proposito di quell’articolo dell’Espresso: “ho sentito una colata di cemento invadermi il cuore”. “Ho cercato pure di chiamare l’Espresso ma non ci sono riuscita. Erano riportate frasi decontestualizzate. Mi sono sentita violentata. Gelo. Gola secca. Mi accusavano di essere un mostro. Di aver commesso reati da ergastolo”. Massacrata, di più. “Frequento una psicoterapeuta e una psichiatra. Le vittime di stupro hanno bisogno di supporto”. A proposito dei rapporti tra ricerca & impresa, finalmente un fascio di Luce: “il mondo della ricerca deve dialogare con il mondo imprenditoriale. Se non lo fa rende inutili le sue scoperte. E’ normale che chi non fa ricerca seria si stupisca per certi meccanismi o non li capisca”. A proposito della vivisezione, pardòn della "sperimentazione animale", chiodo fisso per soloni & scienziati (sic) di casa nostra, a cominciare dalla senatrice e farmacista a vita Elena Cattaneo, ecco il Capua-Pensiero: “Ricordo una conversazione avuta con un parlamentare del Movimento Cinque Stelle. Cercavo di spiegargli che mettere delle limitazioni alle sperimentazioni animali avrebbe bloccato la ricerca sui tumori. Alla fine lui ha replicato: "Tu non hai capito". A me. Gli ho chiesto: "Scusa, ma tu che formazione hai?". E lui: "Ho fatto qualche esame di biologia". Ma si rende conto?”. Sì, ci rendiamo perfettamente conto. Sempre in tema, il genuflesso Zincone domanda: “Una grande passione per gli animali?”. E lei pronta: “Neanche troppo. Volevo fare ricerca e andare via da Roma”. Racconta la sua solitudine politica, la futura Nobel per la medicina (bersaglio del resto sfiorato, un quarto di secolo fa, anche da Sua Sanità Franco De Lorenzo): “avrebbero dovuto respingere le mie dimissioni per dare un segnale contro il giustizialismo che mi ha travolto”. E oggi, per ridarle credibilità? “Che ne so… Renzi avrebbe potuto proporre il mio nome per lo Human Technopole, il centro di ricerca che dovrebbe sorgere negli spazi dell’Expo milanese, e invece…”. Invece è pronto il volo per Miami, dove già sogna una cena col ‘nemico’ Donald Trump…

REAZIONI AVVERSE. REPORT RAI 3 PUNTATA DEL 17/04/2017 DI Alessandra Borella - Salute. Il papilloma virus (HPV) è stato collegato all’insorgere del tumore al collo dell'utero. Per prevenirlo l’Italia è stata il primo paese in Europa ad introdurre il vaccino anti-papilloma virus, tra i più costosi in età pediatrica. Le nostre autorità sanitarie hanno potuto contare su una valutazione positiva dell’Agenzia Europea del Farmaco, che ha dichiarato sicuro questo tipo di vaccini. Ma le segnalazioni sui possibili danni causati dal vaccino anti HPV sono state correttamente valutate? Se lo chiede un team di ricercatori indipendenti danesi della rete “Cochrane Collaboration”, che ha presentato un reclamo ufficiale a Strasburgo. L’accusa è contro l’Agenzia Europea del Farmaco: avrebbe sottovalutato le reazioni avverse e ci sarebbero anche dei conflitti d’interesse che non sono stati dichiarati.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Si stima che nel corso della vita il 75 per cento delle persone venga a contatto con il virus del Papilloma umano, che si trasmette per via prevalentemente sessuale. Molti sono portatori sani, senza saperlo. Sono 120 i ceppi del virus. Tredici quelli che dopo una latenza di circa 20-30 anni, possono causare lesioni, che solo nell’uno per cento dei casi si trasformano in tumore. I vaccini presenti sul mercato sono: il Cervarix, prodotto dalla Glaxo. Protegge contro due dei tredici tipi più pericolosi. E il Gardasil, di Merck e Sanofi Pasteur, che estende l’immunità a nove. A oggi circa 80 milioni di persone sono state vaccinate nel mondo. Un milione solo in Italia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO: Allora, l’Italia è stato il primo Paese europeo a mettere a carico del Sistema sanitario nazionale i costi della vaccinazione dell’Hpv. Ultimi dati disponibili, fino al 2015, abbiamo speso 306 milioni di euro. Dal gennaio del 2017 la vaccinazione riguarderà anche noi maschietti che siamo portatori sani. Allora, la prima cosa importante che diciamo è che questa inchiesta non è contro l’utilità dei vaccini, si tratta in tema di prevenzione probabilmente della scoperta più importante degli ultimi 300 anni. Parliamo però di farmacovigilanza. Cioè che cosa accade quando ti inietti il vaccino e hai una reazione avversa. La legge prevede che il medico, appena venuto a conoscenza, debba informare l’ufficio di farmacovigilanza entro 36 ore. Ma in quanti lo fanno? Alessandra Borella.

GIULIA DUSI: Io ho un dolore cronico al corpo tutti i giorni, tutto il giorno, che non va via con nessun farmaco... Mi hanno riempito di cortisone, di qualsiasi antidolorifico possibile, morfina in vena, anestesia della sala operatoria...

ALESSANDRA BORELLA: Cosa ti hanno detto?

GIULIA DUSI: Che io sono una pazza, che tutti i sintomi che ho sono letteralmente inventati...

ALESSANDRA BORELLA: Tu ti riconosci nelle parole di Giulia?

GIULIA LUPPINO: Anche io ho dolori a tutto il corpo, tutti i giorni per tutto il giorno... non c'è niente che li fa passare…

ALESSANDRA BORELLA: Anche tu hai consultato tanti medici, cosa hanno detto?

GIULIA LUPPINO: Eh, che sono da ricoverare in psichiatria…

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Ci sono voluti quattro anni per cambiare diagnosi. Eppure i sintomi delle ragazze sono tra gli effetti indesiderati descritti nel bugiardino del vaccino.

ANNA PEZZOTTI – ASSOCIAZIONE RAV HPV REAZIONI AVVERSE PAPILLOMA: Un medico ha voluto ascoltarci e ha aperto un'inchiesta presso la farmacovigilanza. Qui mi è stato detto che a dicembre 2014 vi erano 900 segnalazioni di reazioni avverse al vaccino anti-papilloma virus, 180 di queste segnalazioni già presenti avevano gli stessi sintomi descritti di mia figlia… Io non sono assolutamente contro i vaccini, anzi…

ALESSANDRA BORELLA: Voi fate parte di una rete di quaranta famiglie. Di queste famiglie, in quante sono riuscite a fare la segnalazione?

ANNA PEZZOTTI - ASSOCIAZIONE RAV HPV REAZIONI AVVERSE PAPILLOMA: Quattro famiglie. Le altre non riescono perché il medico si rifiuta di inoltrare la segnalazione. La giustificazione è la letteratura scientifica ad oggi asserisce che non vi è nessuna correlazione tra i sintomi delle ragazze e il vaccino anti papilloma virus.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Eppure un medico, per legge, è tenuto a farla subito la segnalazione di qualsiasi sospetta reazione avversa. Nel caso dei vaccini entro 36 ore. La madre di Giulia ha cercato risposte anche in Israele. Nell’ospedale Sheba Medical Center di Tel Aviv, lavora il professor Shoenfeld. Per lui i sintomi della ragazza sono una tipica reazione autoimmune al vaccino. Che forse si potrebbe prevenire attraverso gli studi genetici.

YEHUDA SHOENFELD – IMMUNOLOGO: Possiamo identificare i marcatori genetici che predispongono a sviluppare reazioni autoimmuni. Questa ragazza ha 16 anni, dopo aver preso il Gardasil è sprofondata in uno stato vegetativo. Questa è la madre, vede, ha dichiarato: “Abbiamo mandato a scuola una ragazza sana e non è più tornata la stessa”.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Shoenfeld è diventato in questi anni il punto di riferimento di chi sospetta di aver subito danni dal vaccino.

YEHUDA SHOENFELD – IMMUNOLOGO: Io sono a favore dei vaccini, penso che siano la migliore rivoluzione degli ultimi 300 anni. Ma non sono convinto che il vaccino contro l’HPV possa prevenire il cancro. Lo sapremo tra 20 anni. Per ora è stata rilevata una riduzione delle lesioni pre-cancerose. La durata della copertura vaccinale è ignota. E ogni giorno vedo troppe reazioni avverse.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Una sospetta reazione al vaccino l’ha avuta anche Martina. I suoi genitori sono riusciti a segnalare il caso alla farmacovigilanza solo dopo sei anni.

GLORIA MARCHESAN: Martina ha fatto la prima dose del vaccino e la nostra vita è cambiata…

MARTINA TROIAN: Mi sento veramente ingabbiata, mi sento rinchiusa in un corpo che non è il mio. Non riesco a fare tantissime cose con la stanchezza, perdo la memoria, inizio a studiare, mi addormento sui libri...

ALESSANDRA BORELLA: Dopo queste reazioni che cosa vi hanno detto al centro della Asl?

GLORIA MARCHESAN: Che non è causato dal vaccino, assolutamente di stare tranquilla...

ALESSANDRA BORELLA: Con certezza.

GLORIA MARCHESAN: Sì, sì.

ALESSANDRA BORELLA: Quando avete potuto fare la segnalazione della farmacovigilanza?

GLORIA MARCHESAN: Nel 2016 dopo che abbiamo contattato il professor Palmieri.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Un medico che ha fatto conoscere alle mamme uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità, proprio sulle reazioni avverse.

BENIAMINO PALMIERI – MEDICO CHIRURGO UNIVERSITÀ MODENA E REGGIO EMILIA: Che ha riscontrato, partendo dal 2008 e fino al 2011 come il 60 per cento delle ragazze vaccinate con i due classici vaccini Gardasil e Cervarix anti-HPV manifestassero delle reazioni avverse.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Il 60 per cento di un campione di 12mila donne tra i 9 e i 26 anni, da 9 regioni diverse. Vista la percentuale forse meritava di essere approfondito, ma non ci risulta sia stato fatto.

BENIAMINO PALMIERI – MEDICO CHIRURGO UNIVERSITÀ MODENA E REGGIO EMILIA: Io auspicherei che il Ministero della Sanità veramente ci fornisse, e anche gli osservatori epidemiologici regionali dei vaccini, ci potessero fornire informazioni ulteriori, cosa che abbiamo già fatto un anno fa e hanno risposto circa il 2/3 per cento degli enti a cui abbiamo richiesto questo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO: La direttiva europea imporrebbe trasparenza, massima trasparenza sui dati della farmacovigilanza, ma ogni Regione fa un po’ a modo suo: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna segnalano sul singolo farmaco, Sardegna e Piemonte fanno report generici sulla categoria dei principi attivi. Friuli, Toscana, Umbria e Marche non pubblicano dati online. La Basilicata ci dice “ho problemi con il sito. Abbiamo solo un archivio cartaceo, raccogliamo i dati e ve li inviamo”. Mai arrivati. Il Molise dice “abbiate pazienza, li stiamo raccogliendo per voi”, e anche qui, non sono mai arrivati; la Puglia dice, l’ufficio, la farmacovigilanza l’abbiamo messo in piedi pochi mesi fa, abbiamo un po’ di difficoltà”. Valle d’Aosta, Umbria e Lazio non forniscono dati ai giornalisti, ci hanno detto. Però tutti hanno assicurato di aver fornito i dati all’ufficio della farmacovigilanza dell’Aifa, cioè dell’Agenzia italiana del Farmaco. Poco male, a noi poco importa, nel senso che se li forniscono a loro a noi va benissimo, il problema è che poi i conti però non tornano. A vedere per esempio i dati del 2012, Aifa riporta complessivamente su tutto il territorio nazionale 293 casi di reazioni al vaccino, la sola Lombardia invece per lo stesso anno ne registra 692. Delle due l’una, o l’Aifa sottovaluta o la regione Lombardia largheggia. Che cosa è successo invece in Danimarca, si son fatti due conti e dei ricercatori indipendenti hanno presentato un reclamo al Mediatore europeo, a questa signora qui, Emily O’Reilly, che ha il compito di indagare sulle denunce fatte nei confronti di enti dell’Unione Europea. Questa volta sul banco degli imputati c’è l’EMA, cioè l’Agenzia del 4 Farmaco europea, per i medicinali, europea: è accusata di poca trasparenza nella valutazione di immissione sul mercato del vaccino e di aver sottovalutato le reazioni avverse. ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO In Giappone il governo ha ufficialmente smesso di raccomandare l’uso del Gardasil e del Cervarix. Reazioni al vaccino si sono registrate anche in Francia e Inghilterra. Ma è in Danimarca che si sono verificati i casi più gravi. Il professor Gøtzsche, medico, chimico e biologo, è il leader della sezione danese di un’organizzazione mondiale di ricercatori indipendenti. Che puntano il dito contro l’azienda farmaceutica.

PETER GØTZSCHE – DIRETTORE NORDIC COCHRANE: La Sanofi Pasteur ha già ingannato il Ministero della Sanità. Le è stato chiesto di cercare i casi di gravi effetti collaterali tra i dati a sua disposizione. E le è stato detto anche come cercarli. Non si capiva come mai ne avesse trovati così pochi rispetto a quelli già conosciuti dal Ministero. Hanno scoperto che la casa farmaceutica aveva usato una diversa strategia di ricerca. Io questa la chiamerei frode.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Il centro che raccoglie i dati delle reazioni avverse per conto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità si trova a Uppsala, in Svezia. Ha registrato finora oltre 71mila casi. E si tratterebbe di numeri in difetto. La stessa OMS stima che solo il 10 per cento di chi ha effetti collaterali li denunci. Allarmato dai numeri, il Ministero della Sanità danese ha chiesto all’EMA, l’Agenzia Europea dei Medicinali, la revisione del vaccino. Le carte le hanno studiate qui, nella sede di Londra dell’EMA. Sono finite sulla scrivania della dottoressa Alteri, che è stata a capo del Comitato per i medicinali per uso umano. Alla fine hanno deciso che il vaccino si poteva continuare a iniettare.

ALESSANDRA BORELLA: Io leggo in alcuni documenti ufficiali che questo vaccino non ha causato reazioni avverse preoccupanti o gravi. Come si può dichiarare questo, sono 71mila secondo l’Uppsala…

ENRICA ALTERI – DIRETTORE RICERCA E SVILUPPO MEDICINALI A USO UMANO (EMA): Guardi che... sì, ma ci stanno 100 milioni di persone che sono state vaccinate. La maggior parte di queste segnalazioni vengono perché c’è quella che si chiama una relazione temporale, diciamo, “io ho un vaccino e il giorno dopo mi fa male la testa”. Quello che dobbiamo domandarci è: “Questi eventi succedevano prima del vaccino?” La risposta è sì. Quello che dico è che può essere una coincidenza.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Potrebbe. Ma secondo i ricercatori danesi le case farmaceutiche non sarebbero andate a fondo sugli effetti collaterali. Alcuni studi sarebbero viziati alla base.

PETER GØTZSCHE – DIRETTORE NORDIC COCHRANE: Negli studi di controllo con il placebo, invece di usare una sostanza inerte come acqua salina, hanno iniettato spesso alluminio, che è presente nel vaccino come adiuvante, o addirittura un altro vaccino, quello dell’epatite. Non è più un placebo! Non si distingue dal farmaco, potrebbe causare le stesse reazioni avverse e quindi i dati ottenuti non sono attendibili.

ALESSANDRA BORELLA: Di chi possiamo fidarci sui report di questi dati?

PETER GØTZSCHE – DIRETTORE NORDIC COCHRANE: Di certo non possiamo fidarci delle case farmaceutiche e nemmeno dell’Agenzia europea, che si è fidata dei loro dati e non li ha ricontrollati.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Durante il processo di revisione sono emerse anomalie. I nomi di alcuni consulenti sono oscurati dai report. Impossibile capire chi è stato critico nei confronti del vaccino. Nel rapporto confidenziale del Comitato, mai pubblicato, c’è l’ipotesi della correlazione con due sindromi diagnosticate ad alcune pazienti vaccinate. Ma nelle conclusioni divulgate l’Agenzia dice soltanto: “Non c’è prova che il vaccino sia la causa: non sulla base dei dati a disposizione, che però, riconosce, sono limitati”. Troppe incongruenze, dunque, secondo i ricercatori danesi, che si sono rivolti a ottobre al Mediatore europeo, che giudica sulle denunce contro gli enti dell’Unione. Nel dossier, accolto l’8 novembre, la prima accusa è: mancanza di trasparenza.

ALESSANDRA BORELLA: Il punto cruciale è proprio la mancanza della possibilità di consultare quello che è accaduto, o il disaccordo.

ENRICA ALTERI – DIRETTORE RICERCA E SVILUPPO MEDICINALI A USO UMANO (EMA): Ci sono dei rapporti iniziali del relatore, che sono stati a seguito chiarificati, discussi nel comitato, in questo caso il PRAC, il comitato della farmacovigilanza e il rapporto finale era consensuale…

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Sulle modalità di valutazione dell’EMA è critico anche Silvio Garattini, direttore dell’istituto di ricerca farmacologica Mario Negri di Milano. C’è anche la sua firma sul reclamo al Mediatore europeo.

ALESSANDRA BORELLA: Mi conferma che durante questo processo di valutazione non si rifanno anali, trial clinici?

SILVIO GARATTINI – DIRETTORE ISTITUTO RICERCA FARMACOLOGIA MARIO NEGRI: Non c’è certamente la replicazione dei dati e questo naturalmente rappresenta un importante conflitto di interessi perché siccome il dossier può essere per un farmaco può essere presentato solo dall’industria farmaceutica, è chiaro che abbia il massimo interesse a mettere in evidenza le cose favorevoli. Lo stesso impegno a cercare i benefici deve essere trasmesso anche a cercare i rischi.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Per farlo, Garattini propone da tempo, così come i ricercatori danesi e il professor Shoenfeld in Israele, che almeno uno degli studi clinici prima dell’immissione di un farmaco sul mercato, venga fatto da un ente indipendente.

YEHUDA SHOENFELD – IMMUNOLOGO: Le industrie farmaceutiche non sono necessariamente interessate alla tua salute, sono interessate ai soldi. Quindi non mi importa se mi criticano. Noi dobbiamo rivolgerci agli enti controllori. Sono loro i nostri interlocutori, devono ascoltarci, non soffocare la voce di quei ricercatori che dicono “attenzione possono esserci effetti indesiderati”.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: I controllori però si mantengono di fatto con i soldi dei controllati. Per la valutazione e approvazione di un farmaco da introdurre sul mercato, le industrie pagano circa 250 mila 6 euro, più un contributo annuale. Praticamente l’82 per cento delle entrate dell’EMA derivano dalle industrie farmaceutiche, che finanziano anche tutti gli studi clinici.

ENRICA ALTERI – DIRETTORE RICERCA E SVILUPPO MEDICINALI A USO UMANO (EMA): Io non ho nessun problema che l’industria farmaceutica finanzi degli studi, sono loro poi che vendono le medicine quindi per quale motivo non dobbiamo mettere su di loro il peso del costo di questi studi.

ALESSANDRA BORELLA: Però ci dobbiamo fidare, diciamo, che non ci sia nessun tipo di pressione…

ENRICA ALTERI – DIRETTORE RICERCA E SVILUPPO MEDICINALI A USO UMANO (EMA): Noi dobbiamo proteggere i nostri comitati durante il lavoro di valutazione da qualsiasi influenza che li possa diciamo, sviare dal loro lavoro puramente scientifico.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Il sistema di protezione però non ha funzionato proprio nel 2008. Nel comitato di valutazione dell’EMA che ha approvato il vaccino c’era una vecchia conoscenza di Report: Pasqualino Rossi.

DA REPORT DEL 10/10/2016 GIULIO VALESINI: Dottor Rossi? Salve, Valesini di Report.

GIULIO VALESINI: …Ma in cambio di cosa lei riceveva tutti quei regali da Matteo Mantovani? Perché non mi spiega dottor Rossi? Tranquillamente.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: È proprio Rossi che svela informazioni riservate e addirittura la password dei terminali dell’Agenzia europea a Matteo Mantovani, il manager che curava gli interessi delle case farmaceutiche. Secondo i magistrati lo scopo era quello di informarlo sull’iter dell’approvazione del vaccino. In cambio, Mantovani ha pagato a lui e famiglia vacanze in un resort, mobili, infissi, un televisore da 46 pollici e 4 mila euro. Rossi viene arrestato nel 2008, dopo essere stato filmato mentre incassava una mazzetta da un altro manager. Ma dopo sette anni è scattata la prescrizione.

ENRICA ALTERI – DIRETTORE RICERCA E SVILUPPO MEDICINALI A USO UMANO (EMA): Non sono al corrente di questo caso specifico, nel 2008 non ero in agenzia …

ALESSANDRA BORELLA: Però la robustezza del sistema che non permette a un singolo di intervenire … e poi in realtà scopriamo che un singolo qui dentro …

ENRICA ALTERI – DIRETTORE RICERCA E SVILUPPO MEDICINALI A USO UMANO (EMA): Ovviamente non è accettabile, io questo signore non lo conosco… Non so chi sia, non è qui.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Non più. È a Bruxelles infatti. Rossi è stato inviato dal ministro Lorenzin all’ufficio di rappresentanza a tutelare la nostra salute alimentare e quella animale. Un salto di carriera. Ma il suo caso oggi viene citato nel reclamo presentato al Mediatore europeo: per i ricercatori danesi è una ulteriore prova che non ci si può fidare delle case farmaceutiche e nemmeno di come l’Agenzia europea dei medicinali svolga la sua funzione di controllore. Antonietta Gatti si occupa di nanopatologia: nel corso degli ultimi 10 anni ha analizzato al microscopio, anche su mandato delle procure 44 tipi diversi di vaccini. Tra questi anche tre fiale di vaccino per il papilloma virus.

ALESSANDRA BORELLA: Cosa avete trovato dentro questi due vaccini?

ANTONIETTA GATTI – FISICO E BIOINGEGNERE: Prendiamo ad esempio il Cervarix, oltre ad esserci l’alluminio, ovviamente che ce n’è una quantità abbastanza importante, abbiamo trovato anche delle polveri di silicio magnesio, delle polveri di rame stagno piombo, ferro cromo, acciaio, calcio zinco. Per il Gardasil io ho trovato piombo bismuto.

ALESSANDRA BORELLA: Secondo lei come mai ci sono queste sostanza, questi materiali all’interno dei vaccini che avete analizzato?

ANTONIETTA GATTI – FISICO E BIOINGEGNERE: È difficile da dire… Se io avessi potuto entrare dentro all’azienda, probabilmente avrei identificato alcune procedure che potevano presentare contaminazioni.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Le aziende farmaceutiche, però, non hanno risposto. Un decreto del 2001 del ministro Umberto Veronesi, impone di denunciare il ritrovamento di corpi o sostanze estranee all’interno di un medicinale. La dottoressa Gatti non l’ha fatto, ma ha pubblicato il suo studio e lo ha inviato all’Agenzia europea dei medicinali che risponde che lo considera privo di valore: le quantità di sostanze non sono rilevabili, e comunque entro certi limiti è normale che ci siano, e non rappresenterebbero un pericolo per la salute. L’EMA cita degli studi francesi che però, particolare non trascurabile, si riferiscono al vaccino contro la meningite.

ALESSANDRA BORELLA: Le normative non prevedono che si cerchino questi materiali all’interno dei vaccini, è corretto?

ANTONIETTA GATTI: E ovviamente non c’è neanche un limite.

ALESSANDRA BORELLA FUORI CAMPO: Bianca ha avuto gli stessi sintomi di Giulia e Martina dopo il vaccino anti-HPV. Una dottoressa che si occupa di malattie rare le aveva consigliato un esame per rilevare una intossicazione da metalli pesanti. Ma del risultato delle analisi non c’è traccia.

BIANCA CESARONI: Mi hanno fatto appunto il prelievo e mi hanno dimesso dicendo che da lì a breve tempo sarebbero arrivati i risultati finché dopo parecchi mesi, mi sembra 4-5 mesi è stato detto finalmente “guardi le analisi non le abbiamo potute fare perché non c’erano abbastanza fondi e soltanto per una persona non si potevano effettuare queste analisi”.

ALESSANDRA BORELLA: Bianca ha fatto la vaccinazione anti-HPV e poi è stata male.

ANTONELLA CRISCIOTTI: Lei ha fatto la prima dose e non è successo nulla, tutto tranquillo, seconda dose, novembre 2008, e dopo 15-20 giorni sono cominciate una serie di problematiche…

ALESSANDRA BORELLA: Quali?

ANTONELLA CRISCIOTTI: Tra cui questa sensazione di dolore muscolare forte, non riusciva nemmeno ad alzarsi dalla poltrona, dal letto… E mio marito la portò tranquillamente al centro vaccinale, mi arrivò questa telefonata dal medico che mi disse che tutte queste problematiche di mia figlia al 99 per cento, non poteva logicamente metterlo per iscritto, ma al 99 per cento erano derivate dal vaccino e mi disse “guardi, io se fossi in voi non la farei la terza dose”. Mi disse che era importante a questo punto fare la scheda di segnalazione avversa di reazione al vaccino…

ALESSANDRA BORELLA: E gliel’ha fatta e firmata lui.

ANTONELLA CRISCIOTTI: Sì, me l’ha fatta e me l’ha firmata lui.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO: Le ha lasciato anche una copia firmata come prevede la legge. La mamma di Giulia, invece non è riuscita ad averla questa copia. La mamma di Martina ha impiegato sei anni, tutte le altre mamme invece non sono riuscite a fare la segnalazione alla farmacovigilanza La sensazione è un po’ quella che se ti va male, forse è meglio non saperlo. Ora, premesso che se anche sono casi rarissimi, queste persone non devono sentirsi abbandonate. E premesso anche che forse si potrebbero anche prevenire questi casi di reazioni avverse se fossero implementati gli studi, come gli studi genetici, come suggerisce il professor Shoenfeld. Ora premesso tutto questo, se la farmacovigilanza però funziona così, come facciamo a sapere con esattezza quanti sono i casi di reazioni avverse? I conti non tornano anche per quello che riguarda la mortalità per il tumore al collo dell’utero. Da cui il vaccino dovrebbe in qualche modo proteggerci. Secondo gli ultimi dati disponibili e parliamo del 2012, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sarebbero i morti 13mila l’anno, secondo invece l’Agenzia per il Medicinale europea sarebbero 20mila, secondo gli ultimi dati che ci sono arrivati adesso adesso, l’Associazione europea del cancro cervicale, 30 mila. E non tornano neanche in Italia, perché secondo l’Aifa, la nostra Agenzia per il Farmaco, sarebbero 1.500 i morti l’anno, secondo l’Associazione per la ricerca contro il cancro, 1.016 e secondo il nostro Istituto Superiore di Sanità sarebbero 700 l’anno. Ora, metti tutto questo, e metti che i controllori sono finanziati dai controllati. E metti anche che chi era nel comitato di valutazione del vaccino è stato beccato mentre percepiva una mazzetta da chi doveva appunto valutare e che invece di essere cacciato via è stato promosso. Ecco, tutto questo, secondo noi, non fa altro che alimentare le campagne contro l’utilizzo di questi farmaci. Se si volesse utilizzare un vaccino, vero, contro la diffidenza, sarebbe il caso di utilizzare maggiore trasparenza e lotta alla corruzione, vera.

REAZIONI AVVERSE. PUNTATA DEL 24/04/2017. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO: Ma prima lasciatemi fare due precisazioni sul tiro incrociato a cui è stato sottoposto Report in questa settimana: riguarda il tema che abbiamo trattato lunedì scorso, quello sul vaccino che rende innocuo il papilloma virus che è importante perché previene alcune forme di tumore al collo dell’utero. Abbiamo detto che si tratta di un vaccino utile, che l’inchiesta non era contro l’utilità dei vaccini, abbiamo anche detto che il vaccino è la più grande scoperta in tema di prevenzione degli ultimi 300 anni, e abbiamo anche specificato che il tema era quello della farmacovigilanza e cioè dei casi anche di reazioni avverse. Nonostante tutto questo è passato il contrario, è passato come se fosse un’inchiesta contro i vaccini. C’era chi aveva capito bene, chi aveva capito male, chi ha giudicato senza neppure vedere. Bene, se siamo stati fraintesi la responsabilità è anche mia perché forse evidentemente siamo stati poco chiari. Però questo non era vero, ribadisco l’utilità del vaccinarci. Però, attenzione, avevamo posto due questioni: i casi, i numeri di reazioni avverse al vaccino, perché non collimano tra quelli denunciati dalle regioni e quelli presentati dall’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco e poi perché non è stato possibile per alcuni pazienti che hanno avuto quelle reazioni avverse denunciare entro 36 ore dai medici alla farmacovigilanza dell’Aifa come richiede la legge? Queste sono domande che sono rimaste senza risposta ancora oggi.

Burioni: «Basta bufale sui vaccini, la scienza non può essere democratica», scrive Daniele Zaccaria il 4 gennaio 2017 su "Il Dubbio". «Le opinioni di persone ignoranti non possono avere lo stesso valore delle valutazioni di chi ha dedicato la vita a studiare un argomento, non è una posizione totalitaria ma puro buon senso».

«Se il 99% degli abitanti del pianeta sostenesse che 2+ 2 fa 5, 2+ 2 continuerebbe ugualmente a fare 4». Roberto Burioni, medico virologo e immunologo all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano preferisce la logica all’opinione, l’evidenza scientifica alla credenza popolare. E nel campo dei vaccini ha intrapreso da tempo una battaglia contro la continua divulgazione di menzogne che avvelenano i pozzi del web. In particolare la “madre di tutte le bugie”, e cioè il rapporto di causa- effetto tra le vaccinazioni e l’autismo nei bambini, vera e propria leggenda metropolitana fabbricata dal medico britannico Andrew Warkfield successivamente radiato dal suo ordine professionale per truffa (aveva contraffatto i suoi studi). Nella sua pagina Facebook (seguita da 120mila persone) Burioni si è recentemente scagliato contro l’odiosa bufala dei migranti africani che avrebbero portato in Italia il ceppo del meningococco C. Una fandonia creata ad arte dal gruppo xenofobo Forza Nuova che il virologo ha smontato con semplicità, dimostrando come i ceppi presenti nel continente africano sono diversi da quelli presenti in Europa ( A, W- 135 e X) e tra questi non c’è il meningococco C, alla radice degli ultimi casi di meningite avvenuti in Italia. Di fronte alle opinioni razziste di alcuni internauti Burioni ha deciso per la prima volta di cancellare i commenti dalla sua pagina per non alimentare il telefono senza fili della propaganda anti- immigrati: «Non ritengo che in un dibattito scientifico chi dice che i neri sono meno intelligenti debba essere invitato a parlare. C’era gente che diceva delle bugie che potevano avere un riflesso sociale che ho ritenuto inaccettabile, non mi andava che sulla mia pagina ci fossero derive xenofobe».

Lei ha affermato che la scienza non è democratica.

«Ed è proprio così, le opinioni di persone che non conoscono nulla in un determinato campo scientifico non possono avere lo stesso valore delle valutazioni di chi ha dedicato la vita a studiare quel campo scientifico. Non si tratta di una posizione totalitaria o arrogante, ma di puro buon senso. Peraltro è qualcosa che accade in tutte le discipline: non sentirete mai una partita di basket commentata da chi non ne conosce le regole o un telecronista di calcio che non sa cosa sia il fuorigioco. Allo stesso modo non tollero che sulla mia bacheca vengano propagandate falsità e bugie».

Facebook è uno strumento orizzontale che permette una straordinaria diffusione della conoscenza ma anche alle bugie di viaggiare più in fretta e raggiungere più persone.

«Per questo evito di addentrarmi in discussioni con persone ignare delle basi della medicina, i dibattiti possono avvenire solo tra persone che conoscono gli argomenti di cui parlano. Qualche mese fa in una trasmissione televisiva sono stato costretto a replicare al signor Red Ronnie il quale sosteneva la grande bufala della correlazione tra vaccini e autismo, non mi pare che Red Ronnie sia un grande esperto di virologia. Comunque ricevo ogni giorno migliaia di commenti e quesiti da parte di chi mi segue e a questi applico un metodo, tento cioè di rispondere a più persone possibile cumulando le domande per tema e argomento».

Uno degli argomenti più usati dagli antivaccinisti è che la scomparsa delle malattie è dovuta al miglioramento delle condizioni di vita.

«Si tratta di un’affermazione falsa. In un capitolo del mio ultimo libro (Il vaccino non è un’opinione, Mondadori) analizzo quel che è successo in Germania. Nel povero Est la vaccinazione a tappeto è stata introdotta nel 1960, nel ricco Ovest invece solo due anni dopo. Cosa è successo? Ebbene: nel 1961 e nel 1962 a Est ci sono stati rispettivamente 126 e 4 casi di polio, all’Oest 4198 e 4673, una statistica che dimostra un’ovvietà».

Si è chiesto perché attorno alla medicina spesso nascono queste leggende?

«Vorrei correggere la sua affermazione: questo fenomeno accade quasi esclusivamente con i vaccini. Intorno alla produzione di nuove valvole cardiache o, che so, sulle nuove scoperte dell’ortopedia non mi pare che nascano grandi polemiche o si alimentino leggende».

Questo scetticismo sui vaccini sembra un tratto della modernità. Fino a qualche decennio fa nessuno si sarebbe sognato di metterne in discussione l’efficacia.

«Un tempo c’era molta più fiducia nella scienza, eravamo riusciti a sconfiggere la poliomelite e la difterite salvando milioni di vite con le campagne di vaccinazioni di massa. Oggi che l’efficacia delle vaccinazioni non è un argomento sindacabile non si avverte più nel senso comune il pericolo rappresentato da alcune malattie gravi. Per paradosso si può dire che i vaccini sono vittime del loro stesso successo».

Per propagandare falsità c’è bisogno di un pubblico disposto a crederci. Viene in mente il caso Stamina.

«Anche se la cura delle malattie neurodegenerative non è il mio campo di ricerca il caso Stamina (la pseudoterapia a base di cellule staminali inventata dal non- medico Stefano Vannoni n. d. r.) è emblematico su come sia facile approfittare della debolezza di genitori disperati, confrontati al dramma di avere dei figli affetti da patologie incurabili. In questi casi è lo Stato che deve intervenire per proteggere le persone dagli impostori».

La proliferazione delle medicine alternative, le promesse di guarigioni miracolose, le bordate al metodo scientifico, stiamo forse vivendo un ritorno al passato?

«Purtroppo sta venendo a mancare il principio di autorità e allo stesso tempo assistiamo a un processo di dequalificazione nei vari mestieri, le competenze e le professionalità contano sempre di meno. Questo, mi permetta, vale anche per voi giornalisti e in generale per la sfera dell’informazione. Oggi chiunque può aprire un blog o un sito web e diffondere notizie false, prive di fonti riscontrabili, scritte in un italiano zoppicante. Immagino che un giornale serio abbia un caporedattore che verifichi l’attendibilità di una notizia e che presti attenzione agli errori e ai refusi negli articoli. Si può capire quanto questo principio sia importante nella medicina e per chi si occupa di salute pubblica».

 

 Gaia Scorza Barcellona per repubblica.it il 6 giugno 2020. Le mascherine vanno indossate nei luoghi pubblici e non più solo da operatori sanitari, malati di Covid-19 e chi li assiste. Lo stabilisce l'Organizzazione mondiale della Sanità che ha diffuso le nuove linee guida sui dispositivi di protezione ormai in uso da mesi per l'emergenza coronavirus, diffondendo i consigli per sanificarli e smaltirli. Anche se da sole non bastano, come ha ribadito ieri il direttore generale, Tedros Adhanom Ghebreyesus, nel consueto briefing sulla pandemia a "proteggere contro il Covid-19". Un bel cambio di rotta in piena pandemia. Fino ad ora l'Oms aveva infatti rimarcato il "falso senso di sicurezza" trasmesso dall'indossare una copertura sul viso, senza specificare l'importanza dell'utilizzo. Ma considerate le nuove prove sulla trasmissione del coronavirus che si sta cominciando a conoscere l'organizzazione torna sui suoi passi rispetto al documento rilasciato il 6 aprile, allargando l'obbligo di indossarle perché utili a contenere i contagi. Le nuove linee guida, ha spiegato il capo dell'Agenzia dell'Onu, "sono un aggiornamento di quello che diciamo da mesi". "Alla luce della situazione attuale, l'Oms raccomanda i governi ad incoraggiare l'uso delle mascherine dove c'è un'ampia diffusione del virus e la distanza fisica è difficile da mantenere, come i trasporti pubblici, i negozi o in altri ambienti chiusi e affollati", ha sottolineato il direttore. In particolare, l'invito è rivolto anche agli operatori sanitari "che non trattano pazienti Covid-19. Alle persone di età superiore ai 60 anni o quelle con patologie pregresse è consigliato di indossare una mascherina medica in situazioni in cui il distanziamento sociale non può essere mantenuto". Tutti gli altri "devono indossare mascherine di tessuto a tre strati". Nelle nuove indicazioni dell'Oms ci sono anche tutte le istruzioni per fabbricarle in casa. Si tratta di suggerimenti per realizzare mascherine in tessuto, con dettagli su strati e materiali da utilizzare. Fino ad ora l'Oms aveva infatti rimarcato il "falso senso di sicurezza" trasmesso dall'indossare una copertura sul viso, senza specificare l'importanza dell'utilizzo. Ma considerate le nuove prove sulla trasmissione del coronavirus che si sta cominciando a conoscere l'organizzazione torna sui suoi passi rispetto al documento rilasciato il 6 aprile, allargando l'obbligo di indossarle perché utili a contenere i contagi. Le nuove linee guida, ha spiegato il capo dell'Agenzia dell'Onu, "sono un aggiornamento di quello che diciamo da mesi". "Alla luce della situazione attuale, l'Oms raccomanda i governi ad incoraggiare l'uso delle mascherine dove c'è un'ampia diffusione del virus e la distanza fisica è difficile da mantenere, come i trasporti pubblici, i negozi o in altri ambienti chiusi e affollati", ha sottolineato il direttore. In particolare, l'invito è rivolto anche agli operatori sanitari "che non trattano pazienti Covid-19. Alle persone di età superiore ai 60 anni o quelle con patologie pregresse è consigliato di indossare una mascherina medica in situazioni in cui il distanziamento sociale non può essere mantenuto". Tutti gli altri "devono indossare mascherine di tessuto a tre strati". Nelle nuove indicazioni dell'Oms ci sono anche tutte le istruzioni per fabbricarle in casa. Si tratta di suggerimenti per realizzare mascherine in tessuto, con dettagli su strati e materiali da utilizzare. In Italia è d'obbligo l’uso della mascherina nei luoghi chiusi accessibili al pubblico, per esempio mezzi di trasporto pubblico, mercati ed esercizi commerciali. Ma alcune regioni hanno introdotto norme più restrittive che resteranno in vigore anche dopo le riaperture del 3 giugno. In Piemonte e Lombardia, ad esempio, sarà obbligatorio coprire naso e bocca all’aperto almeno fino al 14 giugno. Così come in Friuli Venezia Giulia, in Campania e a Genova. Mentre in Veneto, dove il governatore Zaia ha definito le mascherine "una delle condizioni sine qua non" per le riaperture nella regione, l'obbligo di indossarle all'aperto decade dal 1 giugno. Altri assessorati alla Salute, come quello siciliano  (stessa linea adottata in Sardegna), raccomandano in generale l'uso della mascherina in quanto "oltre che un dispositivo di protezione personale, è un segno di rispetto per le persone che ci circondano. Portarla sempre con sé, anche nei luoghi all'aperto, e indossarla quando non si può garantire una distanza interpersonale idonea a proteggere dal rischio del contagio, è un obbligo". Eccetto per chi fa attività motoria (e mantiene la distanza di sicurezza di due metri), i bambini al di sotto dei sei anni e le persone con disabilità. Anche nel resto del mondo ci si era regolati finora in modo non omogeneo. E' di ieri il dietrofront del Regno Unito, solo per fare un esempio, dove l'indicazione di indossarla è stata estesa a tutti i visitatori e a tutto lo staff sanitario e amministrativo degli ospedali, rafforzando le linee guida - finora decisamente blande sul punto, - solo dopo l'annuncio di ieri sull'obbligo di coprirsi il volto a partire dal 15 giugno valido per i passeggeri dei trasporti pubblici. Preoccupazioni analoghe si sono manifestate in altri Paesi dove la pandemia sta obbligando i governi a prendere misure più forti, soprattutto alla luce di maxi assembramenti e proteste. Non a caso l'Organizzazione mondiale della sanità ha fatto riferimento ai fatti di cronaca di questi ultimi giorni, rivolgendosi ai manifestanti scesi in piazza dopo la morte negli Stati Uniti di George Floyd durante un arresto e ricordando la necessità di proteggere se stessi e gli altri dal virus SarsCov2. Un allarme giustificato dal fatto che negli Usa si segnalano oltre 20 mila nuovi casi di contagio al giorno. "Abbiamo di sicuro assistito a molta passione questa settimana, con gente che ha sentito il bisogno di uscire ed esprimere i propri sentimenti. Chiediamo loro di ricordare che è necessario proteggere se stessi e gli altri", ha detto la portavoce dell'Oms Margaret Harris. Quindi, un monito: "Non è finita. Non sarà finita fino a quando non ci sarà più il virus in nessuna parte del mondo", ha concluso Harris ricordando come l'epicentro della pandemia sia al momento in Paesi dell'America Centrale, del Sud e del Nord America

Luca Fraioli per ''la Repubblica'' il 6 giugno 2020. Il coronavirus non ha mandato in tilt solo le terapie intensive di mezzo mondo. Ha fatto collassare anche il sistema delle riviste scientifiche: una pandemia di articoli si è abbattuta sulle redazioni e sui referee , gli scienziati che valutano le ricerche altrui e danno il via libera alla pubblicazione. Con effetti dirompenti, come dimostra il caso dell' idrossiclorochina. È il 25 maggio quando l'Oms sospende la sperimentazione di quella sostanza per la cura del Covid 19. Il farmaco per l' artrite reumatoide aveva mostrato possibili effetti benefici, ma uno studio pubblicato qualche giorno prima sulla rivista medica Lancet sostiene che i pazienti trattati con l' idrossiclorochina hanno una mortalità da coronavirus persino più alta degli altri. E così l' Oms ferma tutto. Fino a tre giorni fa, quando torna sui suoi passi e invita i medici a riprendere i test. Perché nel frattempo si è scoperto che l' articolo di Lancet è completamente sbagliato e che i dati usati per realizzarlo sono fasulli. Protagonista della storia è Sapan Desai, amministratore delegato della SurgiSphere, un' azienda americana che si vanta di gestire un database con numeri provenienti da migliaia di ospedali in tutto il mondo. Desai, che è anche un medico, viene contattato da un team guidato da Mandeep Mehra, della Harvard Medical School: vogliono usare i dati della SurgiSphere per capire l' impatto dell' idrossiclorochina sui malati di Covid 19. Mehra e colleghi pubblicano su Lancet il loro studio, firmato anche da Desai. Poi un secondo, anche questo firmato dall' ad della SurgiSphere e basato sul suo presunto database, esce sul New England Journal of Medicine : sostiene che gli Ace inibitori (farmaci contro l' ipertensione arteriosa) non hanno controindicazioni per chi è infetto da coronavirus. L' Oms si fida delle riviste e delle affiliazioni dei ricercatori coinvolti: l' Harvard Medical School, il Policlinico universitario di Zurigo, l' Università dello Utah. E ferma i test sull' idrossiclorochina. Ma alla comunità scientifica qualcosa non torna. «Tutto è iniziato alla Columbia University di New York», racconta Enrico Bucci, professore di Biologia alla Temple University di Philadelphia. «Lì i colleghi hanno notato incongruenze statistiche contenute nei due articoli. Se ne è cominciato a discutere in Rete tra scienziati e si è scoperto che il database su cui tutta la ricerca poggiava non era accessibile a chi volesse fare controlli. E non c' era traccia delle autorizzazioni degli ospedali a usare dati così sensibili». Inoltre, secondo lo studio di Lancet, il 25% dei contagi e il 40% dei decessi da coronavirus in Africa si sarebbero verificati nei pochi ospedali del continente di cui Surgi-Sphere raccoglie i dati. «Una cosa poco credibile», commenta Bucci. Alla fine 182 scienziati, che avevano scoperto falle nei due studi, hanno scritto a Lancet e al New England Journal of Medicine . Nel frattempo il Guardian ha svelato che tra i pochi dipendenti dichiarati dalla Surgi-Sphere una è un' autrice di fantascienza e un' altra, formalmente direttrice del marketing, una modella per adulti. Dopo le scuse delle riviste, i tre scienziati ieri hanno infine deciso di ritrattare i loro articoli. Ma resta un dubbio: sono stati ingenui o conniventi? «Penso si siano fidati, senza controllare i dati che venivano loro forniti», ipotizza Bucci. «È un errore grave. Così come è grave che una verifica sul database non l' abbiano fatta i referee degli articoli». La vicenda si inserisce in uno scenario caotico, con migliaia di team scientifici e aziende che inseguono il risultato di una cura contro il virus. Dove c' è chi addirittura affida i suoi presunti risultati ai comunicati stampa, anziché ad articoli scientifici, come ha fatto Moderna giorni fa, rivendicando che il suo vaccino aveva prodotto anticorpi efficaci. «Ma la vicenda dell' idrossiclorochina ci ricorda che anche la pubblicazione su una rivista prestigiosa non è il punto di arrivo, ma l' inizio di un confronto nella comunità scientifica», conclude Bucci. «E dovrebbero ricordarlo anche istituzioni come l' Oms, che hanno disimparato a leggere i nostri articoli». Biologo Enrico Bucci insegna Biologia dei sistemi alla temple University di Philadelphia.

Da corrieredellosport.it il 27 giugno 2020. Acceso scontro sui social network tra Massimo Clementi, virologo dell’università Vita-Salute San Raffaele di Milano, e Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Oms e membro del comitato tecnico scientifico che sta affiancando il governo italiano nella lotta al Coronavirus: “Avete sentito Ricciardi e avete letto Guerra? Fate le vostre conclusioni per favore. Io qui non posso dire di più”, il post di Clementi, che contestava il parallelismo fatto dai colleghi tra la possibile seconda ondata di contagio da Coronavirus e quanto accaduto con l’influenza spagnola, poco più di un secolo fa. Guerra replica negando l’addebito: “Basta aprire la pagina di Agorà e ascoltare. No? Troppo difficile per alcuni immagino”. E Clementi esplode: “Sei un saccente. Non puoi insultare chi parla con te. Ma chi ti credi di essere?”. Dura la risposta di Guerra: "Io sono nessuno. Lei che insulta invece è qualcuno da cui guardarsi. Torni nelle fogne". Clementi, a questo punto, minaccia una denuncia: "Sei troppo nervoso. Di quanto hai appena scritto risponderai legalmente. Posso accettare questo commento da un membro dell'Oms? Premetto che non lo ho insultato, ma gli ho chiesto ragione di un comportamento irriguardoso verso una signora. Se la filosofia della commissione tecnico scientifica Cts è quella di Ranieri Guerra ce lo facciano sapere per favore".

Galli risponde a Guerra: «Seconda ondata come la Spagnola? Non siamo nel 1918. Ma attenti ai nuovi focolai». Giovanni Ruggiero su Open il 27 giugno 2020. Il primario dell’ospedale Sacco di Milano è scettico su un ritorno della pandemia in autunno paragonabile alla prima ondata. L’attenzione però non può calare fino ad allora, soprattutto alla luce dei recenti focolai scoppiati in varie parti d’Italia. Su un dato sono d’accordo il primario dell’ospedale Sacco di Milano, Massimo Galli, e il direttore aggiunto dell’Oms, Ranieri Guerra: la pandemia di Coronavirus non è affatto finita. Ma sul timore di una seconda ondata per il prossimo autunno paragonabile a quella della Spagnola, Galli è molto meno drastico del collega. Galli ha spiegato quanto il virus stia dimostrando di «serpeggiare dall’emisfero settentrionale a quello meridionale, e viceversa». Potrebbe essere questo aspetto ad aumentare i rischi di un ripresa dei casi a settembre: «ma non necessariamente con una seconda ondata e con le conseguenze della Spagnola, non siamo nel 1918». L’attenzione non può che restare alta, soprattutto alla luce dei nuovi focolai scoppiati in Italia. Situazioni che devono «preoccupare quanto basta», dice Galli che sottolinea il lato positivo proprio nell’aver individuato quei focolai: «Aver trovato questi 10 focolai può essere l’espressione della capacità affinata di fare interventi a livello territoriale – dice il professore – e accorgersi di fenomeni come questi prima che sia troppo tardi». La loro stessa presenza , comunque, dice una cosa su tutte: «La storia non è finita».

La resa dei conti interna al mondo scientifico nel dopo Covid. Mauro Indelicato , Sofia Dinolfo su Inside Over il 5 novembre 2020. Dilaga il coronavirus e, con esso, anche la confusione nel mondo scientifico e, di conseguenza, fra i cittadini che un giorno seguono la linea espressa dai più ottimisti e, un altro, il filone dei pessimisti. Il settore scientifico risulta diviso e questo accresce le perplessità di tutti in merito a come affrontare la propria quotidianità con il virus. La spaccatura dai piani alti della scienza ha la conseguenza di favorire nel popolo la libera interpretazione circa la pericolosità del coronavirus. Una situazione questa che fa pensare a cosa accadrà nel post pandemia, con domande che sorgono spontanee: alla fine dell’emergenza sanitaria ci sarà una resa dei conti nel mondo scientifico per accertare eventuali responsabilità sulla confusione?

Le notizie non univoche.

Da quando è esplosa la pandemia la maggioranza della popolazione si è incollata ai televisori ascoltando una vasta moltitudine di pareri. Ma di fondo c’era e c’è tutt’oggi un problema: la mancanza di un’informazione univoca. E che questa lacuna arrivi proprio dal mondo scientifico è un aspetto che ha un impatto rilevante fra i cittadini i quali, di conseguenza, preferiscono prendere scelte in modo autonomo nonostante l’esistenza dei protocolli anti Covid. C’è così chi, per troppa paura, si isola da tutti e chi, invece, su una linea del tutto opposta adotta comportamenti poco prudenti. Poi c’è anche la linea estrema dei negazionisti che negano appunto la presenza della pandemia e la necessità delle conseguenti misure di sicurezza per prevenirne i casi di contagio. La comunicazione mai come adesso ha acquisito un ruolo di fondamentale importanza ed invece, proprio in questa fase, sembra si stia manifestando impreparata. Una giustificazione poteva essere accettata ad inizio pandemia, quando il mondo è stato travolto dalla morsa del virus. Ma adesso, dopo la tregua estiva che doveva consentire di fare il punto della situazione con una strategia condivisa da tutti, la situazione appare peggiore di quella della scorsa primavera. Che la mancanza di una comunicazione unitaria sia stata determinante lo ha confermato gli scorsi giorni lo studioso Pierluigi Fagan su InsideOver: “Sin dall’inizio c’è stato un grosso problema di comunicazione. Su tutti i canali televisivi – ha detto l’esperto di comunicazione – ci sono stati e ci sono epidemiologi, virologi, che esprimono il loro punto di vista alimentando diversi pensieri, in alcuni casi contrapponendosi. Manca una comunicazione centrale, affidabile e credibile espressa in termini semplici ma diretti verso la popolazione in modo da far capire veramente il problema”.

“L’Oms un organismo più politico che scientifico”.

Quanto accaduto in questi mesi potrebbe aver avuto conseguenze anche all’interno dello stesso mondo scientifico. L’arrivo della pandemia ha evidenziato come qualcosa evidentemente non sia andata per il verso giusto. A partire dal ruolo e dalle responsabilità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “Quando tutto questo sarà finito – ha dichiarato a InsideOver il virologo Massimo Clementi – Occorrerà capire cosa è successo in Cina e perché l’Oms si è mossa così in ritardo”. Una posizione, quella del professore del San Raffaele, che è arrivata anche da un’oggettiva constatazione: “Nel 2009, in occasione dell’epidemia da A/H1N1, ci si è mossi per tempo – ha fatto notare Clementi – Oggi no. Forse perché oggi l’Oms è più un organismo politico che scientifico”. E del resto dubbi sull’operato dell’organizzazione sono stati avanzati da più parti negli ultimi mesi. A partire dall’ambito politico, con in testa il presidente Usa Donald Trump che ha più volte accusato l’Oms di aver nascosto i veri dati su pressione della Cina. Nel Libro Nero del Coronavirus di Andrea Indini e Giuseppe De Lorenzo è stato messo in evidenza come tra gennaio e febbraio i delegati dell’Oms abbiano più volte elogiato gli sforzi cinesi per il contenimento dell’epidemia, senza rilevare grandi criticità. Osservazioni però ben smentite dai fatti, visto che il virus non è stato affatto contenuto e si è dovuto attendere l’11 marzo per dichiarare la pandemia. In quel momento il Covid era già diffuso in buona parte del pianeta. A gettare ulteriore sospetto sulle azioni dell’Oms in Cina, anche la figura del segretario Tedros Adhanom Ghebreyesus. Eletto al vertice dell’organizzazione nel 2017, da ministro degli Esteri dell’Etiopia, come raccontato da Gian Micalessin su IlGiornale, è risultato molto vicino alla Cina e anche sulla sua nomina ci sarebbe lo “zampino” di Pechino. Da qui le critiche verso la sua azione, ritenuta profondamente orientata verso gli interessi cinesi soprattutto a inizio emergenza.

Le tensioni interne al mondo scientifico.

Ma non è soltanto l’Oms ad essere potenzialmente nel mirino di una possibile vera e propria resa dei conti all’interno del mondo scientifico. L’impressione è che la comunità scientifica al momento si sforzi di apparire compatta soltanto perché impegnata a combattere contro il nemico comune rappresentato dal coronavirus. Una volta terminata l’emergenza però, i nodi potrebbero salire tragicamente al pettine. Un buon numero di virologi sta iniziando a chiedersi se forse non sia il caso di fare “mea culpa”, usando ancora una volta le parole di Maurizio Clementi. Questo perché le avvisaglie su una possibile pandemia c’erano tutte e da tanti anni. Eppure non si è riusciti a intervenire per tempo. La Sars del 2003 e la Mers del 2012 non sono servite da monito, le lezioni di quelle epidemie non sono state imparate. Forse i focolai spenti relativamente presto hanno repentinamente fatto passare le paure, portando quindi a una fatale sottovalutazione del problema. Fatto sta che quando il coronavirus è arrivato ci si è fatti cogliere di sorpresa, a livello sia politico che scientifico. E c’è già chi ha iniziato a pensare al dopo emergenza, quando da più parti si chiederà conto delle responsabilità dell’attuale situazione e dei disastri procurati dal non controllo della pandemia. In poche parole, non è dato sapere se il mondo post Covid sarà o meno uguale a quello di prima, mentre è assai probabile che il panorama scientifico subirà scossoni molto profondi.

Tutti gli errori dell’Oms sul Covid-19. Federico Giuliani il 28 giugno 2020 su Inside Over.  Sulla gestione della pandemia di Covid da parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità abbiamo già scritto e detto molto. Tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, quando il Sars-Cov-2 iniziava a mietere vittime nell’epicentro di Wuhan, l’Oms ha agito con estrema lentezza e titubanza. Anziché indagare subito sulle origini del misterioso virus, se necessario incalzando anche il governo cinese, l’istituto specializzato dell’Onu per la salute ha perso giorni preziosi senza alzare un dito. Altre settimane sono passate prima che il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, si decidesse a dichiarare la pandemia in seguito alla diffusione su scala globale del Sars-CoV-2. Da quel momento in poi l’organizzazione con sede a Ginevra ha inanellato una gaffe dietro l’altra. Sia chiaro: il virus che sta mettendo in ginocchio il mondo intero è inedito, ancora sconosciuto e quindi imprevedibile. Questo non giustifica tuttavia il comportamento approssimativo tenuto dall’Oms durante le varie conferenze stampa. Le istruzioni sanitarie fornite ai vari governi non sono mai state (e non lo sono tutt’ora) precise. Due sono gli esempi emblematici: l’uso della mascherina e le linee guida sui tamponi.

Mesi di gaffe. Per quanto riguarda le mascherine, inizialmente sembrava che indossarle potesse servire a stroncare la catena del contagio. In un secondo momento (siamo a inizio giugno, quindi dopo almeno tre mesi dallo scoppio della pandemia in Occidente) l’istruzione dell’Oms ha rivisto le indicazioni fornite, invitando a indossare i dispositivi di protezione individuale nei luoghi pubblici e non più solo da operatori sanitari, malati di Covid e chi li assiste. Non solo: un ruspante Ghebreyesus dichiarava inoltre che le mascherine, da sole, non bastano “a proteggere contro il nuovo coronavirus”. Paradossale anche l’inversione a U sui tamponi. Da pochi giorni l’Oms non raccomanda più il doppio tampone negativo per certificare la guarigine da Covid e liberare i malati dalla quarantena. Bastano tre giorni senza sintomi. E questo vale indipendentemente dalla gravità dell’infezione. Detto altrimenti, non è più richiesto il doppio tampone negativo per certificare la fine della malattia.

Le dichiarazioni di Guerra. Eppure l’Oms, al netto di tutti i misteri ancora da svelare sul Covid, dovrebbe essere un organo autorevole e come tale dovrebbe comunicare con il mondo intero. Che dire delle parole rilasciate ad Agorà, su Raitre, da Ranieri Guerra, vice direttore delle iniziative strategiche dell’Oms? L’andamento della pandemia “è previsto e prevedibile, si sta comportando come avevamo pensato. La Spagnola ebbe un’evoluzione dello stesso tipo andò giù in estate per riprendersi ferocemente a settembre e ottobre, facendo 50 milioni di morti durante la seconda ondata. È quello che dobbiamo evitare”. Alla luce delle poche certezze che abbiamo in mano – e considerando i numerosi buchi nell’acqua dell’Oms – ha senso spaventare i cittadini profetizzando scenari aleatori? Nel frattempo, sul web, Guerra è stato protagonista di uno scambio di battute piuttosto animato con il virologo dell’università Vita-Salute San Raffaele di Milano Massimo Clementi. Tutto nasce da un commento a un post dello stesso Clementi, nel quale una lettrice sottolineava come Guerra avesse smentito di aver paragonato, intervenendo ad Agorà, la possibile seconda ondata di Covid a quella, che ci fu, della Spagnola. L’esperto Oms ha replicato seccamente: “Basta aprire la pagina di Agorà e ascoltare. No?? Troppo difficile per alcuni immagino”. Al che è intervenuto Clementi: “Ranieri Guerra sei un saccente. Non puoi insultare chi parla con te. Ma chi ti credi di essere? Ripeto, chi ti credi di essere?”. Durissima la replica di Guerra: “Io non sono nessuno. Lei che insulta invece è qualcuno…da cui guardarsi. Torni nelle fogne”. Al che, Clementi ha chiuso così: “Ranieri Guerra sei troppo nervoso. Di quanto hai appena scritto risponderai legalmente”. Al netto di chi ha torto o ragione, possono l’Oms e i suoi membri commettere simili leggerezze comunicative in un momento di massima tensione?

Mara Magistroni per wired.it il 29 ottobre 2020. Qualche settimana fa vi abbiamo raccontato del balletto dei Centri di controllo e prevenzione delle malattie statunitensi (Cdc) che prima pubblicano un aggiornamento sulle modalità di trasmissione del coronavirus evidenziando la possibilità di trasmissione aerea (airborne), e poi lo ritirano. Un errore, dicono: una bozza non sottoposta a revisione che non doveva ancora essere pubblicata. Adesso quella bozza, forse un po’ edulcorata, è tornata online. Sulla base di evidenze scientifiche crescenti, gli esperti dei Cdc riconoscono che la modalità di trasmissione aerea (a più di un metro di distanza) tramite aerosol (goccioline più piccole di 5 micron) del coronavirus è possibile, sebbene più rara di quella per contatto diretto con una persona infetta o tramite droplet. Le condizioni per la diffusione airborne sarebbero spazi chiusi, non adeguatamente ventilati e affollati. Insomma, sempre più organizzazioni nazionali e esperti mondiali mettono sostengono la questione airborne, trovandosi così in disaccordo con l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), reticente all’aggiornamento delle proprie linee guida. Che cosa la blocca?

Le prove crescenti di trasmissione airborne. Già a luglio 239 scienziati avevano sollecitato con una lettera l’Oms a modificare il proprio punto di vista, sottolineando come le prove di trasmissione aerea di Sars-Cov-2 si stessero accumulando. E oggi alcuni di loro rincarano la dose, con una nuova lettera pubblicata su Science. “Ci sono prove schiaccianti che questa è un’importante via di trasmissione per Covid-19, e abbiamo un disperato bisogno di una guida federale in questa direzione”, ha dichiarato al Washington Post Linsey Marr, esperta di aerosol alla Virginia Tech e tra gli autori della lettera su Science. “Vorrei sottolineare che la trasmissione aerea a corto raggio quando le persone sono a stretto contatto, ovvero l’inalazione di aerosol, probabilmente è più importante della trasmissione da parte di goccioline di grandi dimensioni che vengono spruzzate sulle mucose”. Secondo questi scienziati ci sarebbero casi ben documentati in cui il coronavirus si è diffuso in modo ampio e rapido in un ambiente chiuso: un ristorante a Guangzhou, in Cina, un autobus nella provincia cinese di Zhejiang, un call center a Seoul, un coro nello stato di Washington (dove un membro ha infettato più di 50 persone). Episodi che gli esperti dei Cdc hanno ritenuto sufficienti per modificare le proprie linee guida. Gli aerosol e la trasmissione aerea “sono l’unico modo per spiegare gli eventi di superdiffusione che stiamo vedendo”, ha aggiunto sempre al Washington Post Kimberly Prather dell’Università della California a San Diego, anche lei tra gli autori del nuovo documento. Secondo l’esperta una volta che la via aerea verrà ufficialmente riconosciuta diventerà un problema risolvibile attraverso un’adeguata ventilazione e indossando sempre le mascherine al chiuso. Perché una distanza sociale sicura non esiste in ambienti chiusi.

La reticenza dell’Oms: motivazioni e critiche. Come aveva già dichiarato Benedetta Allegranzi, responsabile tecnico del settore dedicato al controllo delle infezioni dell’Oms, l’organizzazione non nega che il coronavirus possa diffondersi anche per via aerea tramite aerosol oltre la distanza di sicurezza attualmente raccomandata. Sostiene tuttavia che dal punto di vista scientifico le prove siano ancora insufficienti: le condizioni in cui si verificherebbe la trasmissione aerea sarebbero particolari e più rare, e gli scienziati non sarebbero ancora riusciti a replicarle per studiare le dinamiche di diffusione. Una visione troppo rigida e medicalizzata secondo molti esperti, che contestano anche le definizioni di airborne e aerosol dell’Oms, ritenendole formali e in fin dei conti fittizie. Ma non sarebbe solo questo a frenare l’Oms. Stando a quanto dichiarato da Paul Hunter dell’Università dell’East Anglia in Gran Bretagna, l’organizzazione deve tenere conto delle questioni geopolitiche. Le linee guida si rivolgono a ogni Paese del mondo e non tutti hanno le medesime risorse: spostare l’attenzione su una modalità di trasmissione al momento ritenuta meno determinante potrebbe indurre alla migrazione di quelle poche risorse negli stati a basso e medio reddito. Anche questa motivazione, però, è soggetta a critiche da parte di alcuni esperti internazionali, che reputano l’atteggiamento dell’Oms un po’ paternalistico.

L’ENNESIMO DIETROFRONT DELL’OMS (NON NE PIGLIANO UNA): «LIBERI DOPO TRE GIORNI SENZA SINTOMI» ISOLAMENTO, I DUBBI SULLA LINEA DELL'OMS. M.D.B. per il “Corriere della Sera” il 22 giugno 2020. Cambiare la politica italiana dei tamponi? Gira la domanda ai tecnici del comitato scientifico (Cts) il ministro della Salute Roberto Speranza. Nuove linee guida dell'Oms (Organizzazione mondiale della sanità) hanno proposto diversi criteri per interrompere l'isolamento dei pazienti risultati positivi al Sars-CoV-2. Non più il doppio tampone negativo a distanza di almeno 24 ore il primo dal secondo. I pazienti sintomatici potranno essere «liberati» dopo 10 giorni dall'inizio dei sintomi più altri 3 senza sintomi (un totale di 13), per quelli asintomatici via libera 10 giorni dopo la diagnosi di positività. Si tratta di raccomandazioni, di indicazioni non vincolanti per i singoli governi, come è per tutti gli scientific brief dell'agenzia Onu. Un asterisco nel documento chiarisce bene che i «Paesi possono continuare a usare i test come criteri di rilascio» dei pazienti secondo le iniziali raccomandazioni «di due test negativi» a 24 ore di distanza. Speranza sollecita un approfondimento da parte degli esperti coordinati da Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di sanità: «Le nuove linee segnano un cambiamento che può incidere significativamente sulle disposizioni finora adottate. Chiedo che il delicato tema venga affrontato nel Cts fermo restando il criterio di massima precauzione che finora ci ha guidati». Una riunione del Comitato è in programma già oggi sul tema della scuola. È possibile che si parli anche di questo argomento. La decisione non dovrebbe arrivare a tamburo battente. Non c'è fretta. L'Italia si è mossa finora con estrema prudenza ed è stata ripagata. L'epidemia sembra sotto controllo e i costi sono sostenibili. Se si scegliesse di alleggerire le procedure, cambierebbe molto invece sul piano della libertà individuale. Oggi una persona positiva rischia di restare «in ostaggio» anche un mese, nonostante la scomparsa dei sintomi, finché il tampone non si negativizza. Quindi la possibilità di stoppare l'isolamento e consentire il rientro in tempi più brevi avrebbe un valore sociale di rilievo. Dall'altra parte però ci sono le incognite legate al virus. L'Oms non afferma infatti che l'applicazione dei nuovi criteri più snelli sia esente da rischi. I dati giornalieri continuano a volgere al bello. Nuovo calo di positivi e morti. Hanno contratto il virus 238.499 persone, con un incremento rispetto al giorno precedente di 224 casi. Gli attualmente positivi sono 20.972, 240 meno del giorno prima. Ieri le vittime sono state 24, in tutto sono 34.634. In sedici regioni non si sono registrati decessi. Calano i ricoveri in terapia intensiva: sono 148, 4 in meno tra sabato e ieri.

Elena Dusi per “la Repubblica” il 22 giugno 2020. Quando si è guariti dal Covid? In Italia, dopo due tamponi negativi consecutivi. Solo così si può uscire dall'isolamento. Nella maggior parte dei Paesi basta aspettare 2-3 giorni dalla fine dei sintomi. Questa è l'indicazione data a marzo dai Cdc ( Centers for disease control ) americani: 3 giorni dalla scomparsa dei sintomi e 10 dal loro inizio. L'8 aprile anche l'ente europeo Ecdc ha emanato indicazioni simili: si può uscire di casa senza timore di contagiare gli altri dopo 8 giorni dall'inizio dei sintomi e 3 dalla fine. In Germania ne bastano 2 dalla guarigione, mentre in Gran Bretagna basta che ci si senta bene e siano passati 7 giorni dall'inizio dei sintomi. Il 17 giugno a questa linea si è allineata anche l'Organizzazione mondiale della sanità, che oggi considera un paziente guarito tre giorni dopo la fine dei sintomi. Perché l'Italia ha regole diverse? Si è adeguata alle raccomandazioni precedenti dell'Oms, che il 12 gennaio richiedevano i due tamponi negativi. Il nostro Paese ha seguito molti dei suggerimenti dell'Oms, nonostante a volte da Ginevra siano arrivate indicazioni discutibili (su tamponi, mascherine, asintomatici). Ieri il ministro della Salute Roberto Speranza ha chiesto agli esperti del Comitato tecnico scientifico di rivalutare la regola dei due tamponi. «Le nuove linee guida dell'Oms sulla certificazione della guarigione segnano un cambiamento che può incidere sulle disposizioni vigenti». Secondo l'Oms di oggi, «alcuni pazienti hanno probabilmente cessato di essere infettivi nonostante il test positivo». Quali sono i rischi? Il rischio è che un paziente, anche senza sintomi, resti contagioso. «In realtà siamo propensi a credere il contrario» spiega Carlo Federico Perno, virologo dell'università di Milano e del Bambino Gesù di Roma. «Chi non ha più sintomi, molto raramente si riammala. E i resti di virus che si possono trovare nei tamponi sono quasi sicuramente incapaci di replicarsi e infettare. I dati degli altri paesi ci spingono a credere che uscire di casa sia sicuro, quando scompaiono i sintomi». Sappiamo però che i sintomi del Covid sono vari e sfumati. «Parliamo di fine della febbre e delle difficoltà respiratorie» spiega Perno. «È normale che restino tosse, mal di testa, diarrea, mancanza di forze. Questi non sono sintomi, ma postumi della malattia e con il Covid durano fino a un paio di mesi. Anche l'influenza dà sintomi per 3-4 giorni: il periodo di contagiosità. Ma prima che le cellule dell'albero respiratorio si ricostituiscano e quindi scompaia la tosse possono passare 20 giorni». Perché dopo la scomparsa dei sintomi il tampone resta positivo? Nelle vie respiratorie possono restare residui di virus, quasi sicuramente non vitali. Prima di raggiungere i due tamponi negativi, ci sono persone costrette in isolamento per 50-60 giorni. «La soluzione più sicura - per Perno - sarebbe affiancare il tampone alla diagnosi del medico e al test sierologico. La presenza di anticorpi protettivi è un altro segnale che la malattia è stata messa alle spalle».

Lo studio che smentisce l'Oms sulle infezioni da asintomatici. Il ruolo degli asintomatici nella trasmissione del virus. Le parole dell'Oms. E quella ricerca sui contagi in famiglia. Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 11/06/2020 il giornale. Non è ben chiaro se quello dell'OMS sia un problema di comunicazione oppure di sostanza. Quel che appare lampante però, complici anche un po’ di leggerezze giornalistiche, è che l’unica certezza di questa pandemia sia l’incertezza con cui Ginevra ha affrontato il dossier coronavirus. Mascherine sì, mascherine no. Guanti sì, guanti nì. Tamponi solo ai casi sospetti, anzi “test, test, test”. L’ultimo pastrocchio comunicativo riguarda quando dichiarato dal capo del team tecnico anti Covid-19, Maria Van Kerkhove, durante un briefing dell’Agenzia Onu: "È molto raro - ha detto - che una persona asintomatica possa trasmettere il coronavirus”. Le parole della Van Kerkhove hanno scatenato un putiferio. Per Walter Ricciardi, membro del comitato esecutivo dell'OMS, si tratta di una “risposta inaugurata e sbagliata”, visto che “la trasmissione da sintomatici è tipica di questo virus” ed è ciò che lo differenzia da Mers e Sars. Andrea Crisanti, l’ormai noto virologo di Vo’, suggerisce una cura dimagrante ad una organizzazione dove "ci sono troppi burocrati e pochi esperti con competenze". Alla fine l’esperta ha fatto marcia indietro, sottolineando che si riferiva solo “a un set di dati”. “Sappiamo - ha detto - che alcuni asintomatici possono trasmettere il virus e ciò che dobbiamo chiarire è quanti sono gli asintomatici e quanti di questi trasmettono l’infezione”. La tesi è più o meno quella riportata pure da Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Oms: “Il problema è che molti di quelli che consideriamo asintomatici in realtà sono paucisintomatici, gli asintomatici veri non sono molti”. È come se ci fossero "diverse tipologie di asintomatici" (Matteo Bassetti dixit) con una "diversa possibilità di infettare". I tempi della scienza non sono quelli della politica e dei media. Dunque per avere una risposta definitiva occorrerà forse attendere ancora un po’. Ma c’è una ragione se dall’Italia si sono sollevate così tante voci di protesta. Il motivo si chiama “Abolizione dell'epidemia di COVID-19 nel comune di Vo'”, cioè il titolo dello studio redatto da 36 studiosi italiani guidati da Crisanti. Come noto, nel piccolo paese sui Colli Euganei gli scienziati hanno potuto sottoporre per due volte a test tutti i residenti a distanza di 15 giorni, all’inizio e alla fine della zona rossa. Tra le tante informazioni che lo studio è stato in grado di fornire, c’è proprio il ruolo degli asintomatici nella trasmissione del virus. "La traccia dei contatti dei nuovi casi infetti e la ricostruzione della catena di trasmissione - si legge infatti - hanno rivelato che la maggior parte delle nuove infezioni nella secondo rilevazione sono state provocate nella comunità prima del blocco o da infetti asintomatici che vivono nella stessa famiglia". Una conclusione che sembra smentire quanto detto ieri dall’esponente dell’Oms. Gli studiosi hanno condotto un’analisi approfondita su otto “nuove infezioni” trovate nel secondo giro di tamponi, andando a scandagliare i loro incontri passati e scoprendo che alcuni di loro avevano avuto interazioni con individui asintomatici. “Il soggetto 2 aveva contatti con quattro parenti infetti che non presentavano alcun sintomo al momento del contatto”, si legge nel documento. “Il soggetto 5 ha riferito di aver incontrato un individuo infetto asintomatico prima del blocco” mentre “il soggetto 8 ha condiviso lo stesso appartamento con due parenti asintomatici”. Crisanti&co. ne hanno dedotto che “le infezioni asintomatiche possono svolgere un ruolo chiave nella trasmissione di SARS-CoV-2”. “Abbiamo anche trovato prove che la trasmissione può avvenire prima dell'inizio dei sintomi, come di seguito dettagliato per un gruppo familiare - si legge - Il soggetto A è stata la prima infezione da SARS-CoV-2 confermata in famiglia, rilevata il 22 febbraio: il soggetto ha mostrato sintomi lievi della malattia il 22 febbraio, è stato ammesso all'unità Malattie Infettive il 25 febbraio e successivamente dimesso il 29 febbraio, con restrizioni di quarantena. Il partner (soggetto B) e i bambini (soggetti C e D) sono risultati positivi il 23 febbraio ma hanno mostrato solo sintomi lievi e non hanno richiesto il ricovero in ospedale. Il soggetto A ha riferito di aver partecipato a una riunione di famiglia tre o quattro giorni prima dell'insorgenza dei sintomi, insieme a un genitore (soggetto E) e altri tre fratelli (soggetti F, G e H). A quel tempo, erano tutti sani. I tamponi nasali e della gola hanno confermato la presenza di RNA virale in tutti i contatti familiari”. Tradotto: “Le dinamiche di trasmissione all'interno di questa famiglia mostrano chiaramente che lo spargimento virale di SARS-CoV-2 si è verificato nelle prime fasi dell'infezione e in assenza di sintomi”. A conferma dello studio, infine, ci sarebbe il fatto che “la carica virale” negli sintomatici “non differisce significativamente” da quelle dei sintomatici. Parola di Crisanti.

Tutti contro l'Oms. Gli asintomatici? Eccome se contagiano. Pubblicato mercoledì, 10 giugno 2020 da La Repubblica.it. Una bufera prevedibile, quella che si è scagliata contro l'Oms, l'Organizzazione mondiale della Sanità. Solo qualche giorno fa il capo del team tecnico anti-Covid-19 dell'Oms, Maria Van Kerkhove, si lascia scappare in un briefing che gli asintomatici non trasmettono il Coronavirus. Come se la stessa Oms soltanto ad aprile non avesse raccomandato - invece - di tracciarli per prevenire la diffusione di Sars-Cov-2. E di fare test a tappeto. La notizia rimbalza dappertutto e piovono perplessità da tutto il mondo degli infettivologi. Gli scienziati dell'Harvard Global Health Institute rispondono subito con una nota in cui scrivono che tutte le dimostrazioni più quotate suggeriscono che le persone senza sintomi possono e diffondono prontamente il Sars-Cov-2. Poi, la smentita della Van Kerkhove: è stato un misunderstanding e "le stime della trasmissione da persone senza sintomi provengono principalmente da modelli che potrebbero non fornire una rappresentazione accurata. Questa è, e rimane, una grande incognita". Già. ma allora perché comunicare a mezzo mondo, senza alcuna evidenza e anzi in presenza di evidenze contrarie, che gli asintomatici non sono contagiosi?  Una figuraccia che è difficile giustificare con l'imbarazzato commento di Ranieri Guerra, l'italiano direttore vicario dell'Oms che, in una intervista a "Radio uno giorno per giorno", si lascia andare a un diplomatico "Noi - bisogna ammettere - non siamo dei fenomeni in ambito comunicativo, ci esprimiamo spesso in maniera tecnica o tecnicistica poco chiara". In realtà l'Oms è stata accusata sin dall'inizio di aver gestito male la questione Coronavirus, di aver dichiarato troppo tardi la pandemia, di essersi esposta a favore della Cina, di aver dato informazioni contraddittorie e poco chiare, nella migliore delle ipotesi fuorvianti. E quest'ultima uscita non ha certo giovato a rasserenare gli animi. Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Medicina molecolare e virologia all'Università di Padova, chiede di definire il ruolo dell'Oms che - ai microfoni di 24 mattino su Radio 24 - definisce "un baraccone che va smontato e rifatto da capo perché finanziato in gran parte da industrie private e pochi Stati e invece dovrebbe fare gli interessi della comunità mondiale". E parla di risposta "inaccurata e sbagliata" sugli asintomatici che non trasmettono il nuovo coronavirus anche Walter Ricciardi, rappresentante italiano presso l'Oms e consigliere del ministro della Salute, Speranza: "La trasmissione da asintomatici - ha precisato ad Agorà su Rai 3 - è, invece, tipica di questo virus e proprio ciò lo differenzia da Sars e Mers. L'Oms, tuttavia, va criticata ma sostenuta". E parla di dichiarazioni "tanto ardite quanto pericolose" Nino Cartabellotta, presidente di Fondazione Gimbe, che ricorda come le migliori evidenze disponibili sull'infezione asintomatica siano state pubblicate ai primi di giurno da Daniele Horan ed Eric Topol sugli Annals of internal medicine. Bastava leggersele, insomma. Ancora più netto Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell'Istituto nazionale Malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma che, nel corso di un'audizione in Commissione Affari Sociali della Camera, ha definito l'Oms "come in precedenti esperienze, non precisa, non indicativa e, soprattutto, senza una solida base clinica". La Diamond Princess Entra ancora più nel merito, spiegando bene a Timeline su SkyTg24 Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità e componente del Comitato tecnico scientifico per l'emergenza coronavirus. "I cosiddetti asintomatici possono essere pre-sintomatici e paucisintomatici in una fase prima di sviluppare sintomi. Poi ci sono gli asintomatici veri e propri. Abbiamo delle pubblicazioni scientifiche che documentano come anche un asintomatico può avere carica virale significativamente elevata" e dunque "i soggetti asintomatici hanno la possibilità di infettare". E' ovvio e intuitivo che il carico virale è più alto in chi i sintomi ce li ha "e quindi ha una maggiore capacità di trasmettere l'infezione - ha aggiunto Locatelli - ma il caso della Diamond Princess dimostra che c'è stata diffusione del contagio anche da parte degli asintomatici". E da Oltreoceano anche Anthony Fauci, il virologo americano più noto e criticato, ha ammesso che la dichiarazione sugli asintomatici non è corretta e che l'Oms è tornata sui suoi passi perché non solo non ci sono evidenze a sostegno di quanto dicharato dalla sua rappresentante. Ma - al contrario - l'evidenza che abbiamo è che tra il 25 e il 45 per cento del totale degli infetti non ha sintomi. E che sappiamo dagli studi epidemiologici che queste persone possono trasmettere il coronavirus ai sani, anche se non hanno sintomi. Insomma, l'Oms ha davvero toppato.

Oms, appello di 238 scienziati. "Contagio aereo sottovalutato". La lettera prova a mettere in guardia sul comportamento del virus: "Anche le particelle più piccole sono pericolose". Manila Alfano, Martedì 07/07/2020 su Il Giornale. Una lettera aperta all'Organizzazione mondiale della Sanità, 239 scienziati uniti per dire attenzione a sottovalutare. «Il covid viaggia nell'aria più di quanto si pensava». Più di quanto credeva l'Oms. Attenzione alle particelle virali che rimangono nell'aria che sono infettive. È uno dei temi più dibattuti nel mondo scientifico dall'inizio dell'epidemia di Coronavirus. Secondo quanto riporta il New York Times 239 scienziati di 32 Paesi hanno inviato una lettera aperta all'Oms, indicando le prove che dimostrerebbero come anche le particelle più piccole, quelle che rimangono per più tempo nell'aria, possono infettare le persone. Gli esperti chiedono all'Organizzazione di rivedere quindi le sue raccomandazioni. I ricercatori hanno in programma di pubblicare la loro lettera su una rivista scientifica la prossima settimana. Dal canto suo, l'Oms sostiene da tempo che il Coronavirus si diffonde principalmente attraverso grandi goccioline respiratorie che, una volta espulse da persone infette in tosse e starnuti, cadono rapidamente sul pavimento. La dottoressa Benedetta Allegranzi, riporta il New York Times, responsabile tecnico dell'OMS sul controllo delle infezioni, ha affermato che le prove che il virus che si diffonde nell'aria non sono convincenti: «Soprattutto negli ultimi due mesi, abbiamo affermato diverse volte che consideriamo la trasmissione aerea possibile, ma certamente non supportata da prove solide o addirittura chiare», ha detto, sottolineando come ci sia «un forte dibattito su questo». Eppure, all'interno dell'Oms i pareri non sono unanimi. Diversi consulenti e membri dell'agenzia hanno osservato come il Comitato per la prevenzione e il controllo delle infezioni sia vincolato da una visione rigida e eccessivamente medicalizzata delle prove scientifiche, oltre ad essere lento e avverso al rischio nell'aggiornamento della sua guida. Nelle linee guida dettate il 6 aprile l'Oms sosteneva che le mascherine sono utili per non diffondere il virus se indossate da persone malate e sono indispensabili per gli operatori sanitari, ma invitava alla cautela rispetto all'uso generalizzato, sottolineando che non esistono sufficienti prove scientifiche del fatto che le mascherine aiutino una persona sana a evitare l'infezione. Anzi nella stessa informativa ammoniva sul falso senso di sicurezza che potrebbero infondere. «Sono molto scossa dalle questioni relative alla trasmissione aerea del virus», ha affermato al Times Mary-Louise McLaws, membro del comitato ed epidemiologa dell'Università del New South Wales a Sydney. «Se iniziassimo a riconsiderare il flusso d'aria, dovremmo essere pronti a cambiare molto di ciò che facciamo». Il dibattito era partito all'inizio di aprile, quando un gruppo di 36 esperti in materia di qualità dell'aria e aerosol esortava l'Oms a considerare le prove crescenti sulla trasmissione aerea del Coronavirus. L'agenzia aveva risposto chiamando Lidia Morawska, leader del gruppo e consulente dell'Oms di lunga data. Ma dalla discussione sarebbe emersa la solita raccomandazione (senza dubbio fondamentale) del lavaggio delle mani. La dottoressa Morawska e altri avevano segnalato diversi episodi in cui indicano la trasmissione aerea del virus, in particolare negli spazi interni scarsamente ventilati e affollati. Secondo loro l'OMS stava facendo una distinzione artificiale tra piccoli aerosol e goccioline più grandi, anche se le persone infette sono in grado di produrle entrambi.

Paolo Russo per ''la Stampa'' il 7 luglio 2020. Gli esperti italiani invitano alla prudenza e aspettano la pubblicazione dello studio prima di tirare le somme, ma quella lanciata da 239 scienziati di tutto il mondo è a suo modo una bomba: il Covid non si trasmetterebbe soltanto con colpi di tosse, starnuti e contatti ravvicinati, ma anche semplicemente respirando l'aria in una stanza dove ha sostato una persona infetta. Un rischio che, se confermato, costringerebbe a dover dare una bella stretta alle misure di sicurezza che molti hanno già deciso invece per proprio conto di allentare. «È ora di occuparsi della trasmissione area del Covid-19» scrivono in una lettera aperta all'Oms e alle altre autorità sanitarie del pianeta gli oltre 200 esperti di 32 Paesi, anticipando le conclusioni di uno studio multicentrico in via di pubblicazione nella rivista "Clinical Infectious Diseases". Finora l'Organizzazione mondiale della sanità ha continuato a ripetere che la trasmissione del virus avviene da persona a persona, attraverso il cosiddetto «droplet», le goccioline di dimensioni comunque rilevanti emesse quando si parla, si tossisce o emette uno starnuto. Ma in 239 chiedono ora all'Oms di rivedere le sue posizioni, perché «esiste un potenziale ma significativo rischio di inalare il virus contenuto nelle microscopiche goccioline respiratorie», che si propagherebbero a breve e media distanza, fino a diversi metri». Da qui la necessità di ventilare meglio luoghi di lavoro, scuole, ospedali e case di riposo. O installare strumenti di controllo delle infezioni, come filtri d'aria di alto livello, e speciali raggi ultravioletti in grado di uccidere i microbi. Anche se poi precisano che quella aerea «non è certamente la principale modalità di trasmissione del coronavirus». Secondo un altro studio dell'Università di Nicosia, precauzioni andrebbero però prese anche all'aria aperta, quando tira il "venticello". Con uno strumento in grado di replicare i colpi di tosse i ricercatori ciprioti hanno dimostrato infatti che con un vento tra i 4 e i 14 chilometri orari le goccioline possono viaggiare fino a 6 metri in una manciata di secondi. Ma sul fatto che ci si possa contagiare soltanto respirando l'aria che ci circonda i nostri scienziati ci vanno cauti. «Che la trasmissione possa avvenire anche con micro-goccioline di aerosol è ancora da dimostrare. Abbiamo visto che questo è stato possibile nelle terapie intensive, ma li la concentrazione del virus era elevata», afferma il virologo dell'Università di Milano, Fabrizio Pregliasco. «Prima di trarre conclusioni aspettiamo la pubblicazione dello studio. Certo è -aggiunge- che se fosse vero dovremmo adottare misure più stringenti, come l'obbligo della mascherina in tutti i luoghi chiusi o la presenza di non più di due persone per 10 metri quadri quando non si è all'aria aperta». Alla cautela invita anche il direttore sanitario dello Spallanzani, Francesco Vaia. «Se lo studio dimostrerà una sua validità scientifica anche l'Oms finirà per cambiare la strategia di prevenzione, aumentando a oltre un metro il distanziamento nei luoghi chiusi, vietando l'uso dei ventilatori e dei condizionatori senza sistemi di ricambio dell'aria. Come Spallanzani -anticipa- stiamo già per pubblicare il decalogo dell'areazione corretta nei luoghi chiusi». Chi nello studio internazionale ci vede poco di nuovo è invece il consigliere del ministro Speranza, Walter Ricciardi. «Che il virus si potesse trasmettere anche con il vapore acqueo generato dalla respirazione lo sapevamo già. La strategia non cambia: al chiuso mantenere il distanziamento, lavare le mani, indossare la mascherina e dove possibile far entrare il sole, che è il più potente disinfettante in natura».

«Ricambio d’aria e tono di voce basso. Covid, come combattere le goccioline infette». Laura Cuppini su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2020. L’Oms ha ammesso, dopo la lettera di 239 scienziati, che il problema della trasmissione aerea esiste. Buonanno: «I luoghi critici sono gli ambienti chiusi di dimensioni ridotte e con limitata ventilazione». E le mascherine chirurgiche non bastano. La trasmissione aerea di Sars-CoV-2, attraverso le particelle emesse da soggetti positivi che rimangono sospese nell’aria, potrebbe diventare una delle frontiere della lotta alla pandemia. Dopo la lettera di 239 scienziati di 32 Paesi, anticipata dal New York Times e pubblicata su Clinical Infectious Diseases, l’Organizzazione mondiale della sanità ha ammesso che il problema esiste. «Stiamo collaborando con molti dei firmatari della lettera. Ci sono evidenze su questo tema e crediamo di dover essere aperti e studiare per comprenderne le implicazioni sulle modalità di trasmissione e sulle precauzioni da prendere. Ci sono alcune specifiche condizioni in cui non si può escludere la trasmissione aerea, soprattutto in luoghi molto affollati, chiusi. Ma le evidenze vanno raccolte e studiate» ha sottolineato Benedetta Allegranzi, responsabile tecnico dell’Oms per il controllo delle infezioni. «Gli esperti che hanno firmato la missiva ci potranno aiutare per esempio nel comprendere l’importanza della ventilazione negli ambienti. Stiamo studiando e tenendo in considerazione ogni possibile via di contagio» ha precisato Maria Van Kerkhove, a capo del gruppo tecnico per il coronavirus dell’Oms.

I 239 scienziati, tra cui l’italiano Giorgio Buonanno, professore ordinario di Fisica tecnica ambientale all’Università degli Studi di Cassino e alla Queensland University of Technology di Brisbane (Australia), chiedono di rivedere o integrare le linee guida: «L’Oms ha ribadito che il coronavirus si diffonde soprattutto per droplet di dimensioni rilevanti che, una volta emesse dalle persone infette attraverso tosse e starnuti ma anche durante la semplice respirazione o mentre il soggetto parla, cadono rapidamente a terra» scrivono. Ma anche le particelle più piccole possono infettare le persone e dunque una corretta ventilazione degli ambienti e i cosiddetti “filtri facciali” (mascherine N95, FFP2, FFP3) sarebbero essenziali negli ambienti chiusi.

Professor Buonanno, come avviene la trasmissione aerea?

«La trasmissione aerea del contagio avviene per inalazione dell’aerosol emesso da un soggetto infetto (goccioline di diametro inferiore a 10 micron). Per avere il contagio è però necessario inalare un’adeguata quantità di carica virale, ovvero una dose infettante. Inoltre questo virus ha un tempo di dimezzamento della carica virale di circa un’ora».

Quali sono le differenze tra goccioline “grandi”, che cadono a terra per la forza di gravità, e goccioline piccole, che rimangono sospese nell’aria?

«Sulle goccioline grandi (droplet, diametro superiore ai 10 micron) la gravità agisce in modo importante, portandole di fatto al suolo in pochi secondi. Le goccioline più piccole (aerosol) sono invece soggette ai fenomeni di evaporazione e rimangono in sospensione in aria per tempi molto lunghi: hanno quindi la possibilità di muoversi per tratti molto più lunghi rispetto ai droplet».

Le goccioline di piccole dimensioni possono trasmettere il contagio?

«I principi che spiegano teoricamente la dinamica dell’aerosol sono noti da tempo e sono validi per molti altri virus. Durante il corso di una epidemia è sempre difficile trovare dei casi che provino il contagio per via aerea: questa analisi retrospettiva viene svolta solitamente a fine epidemia (come nel caso della Sars). Abbiamo però numerosi casi ed evidenze che dimostrano chiaramente come questo virus possa contagiare per via aerea».

Il rischio esiste anche se la persona che le produce ha una bassa carica virale (come sta emergendo da numerosi studi sui tamponi)?

«Il rischio esiste anche in questo caso, ma notevolmente ridotto. Il soggetto infetto emetterà una minore carica virale e, quindi, in condizioni di buona ventilazione e ridotti tempi di esposizione, il rischio sarebbe basso».

Quali sono i luoghi in cui potrebbe avvenire più facilmente la trasmissione aerea di Sars-CoV-2?

«I luoghi critici sono gli ambienti chiusi di dimensioni ridotte e con limitata ventilazione».

Ci può descrivere il modello che ha messo a punto per calcolare il livello di rischio nei vari ambienti e quali sono i fattori che entrano in gioco, oltre naturalmente alla presenza di uno o più soggetti positivi?

«Il modello teorico messo a punto permette di valutare il rischio individuale di infezione di un soggetto sano sulla base del carico virale emesso dal soggetto infetto (quanta, dove un quantum rappresenta una dose infettante), il numero di ricambi orari dell’aria (ventilazione), la volumetria del locale, i tempi di esposizione. Bisogna specificare che i quanta emessi dipendono dall’attività del soggetto: un soggetto che parla ad alta voce può emettere 100 volte più carico virale rispetto allo stesso soggetto in silenzio».

Facciamo qualche esempio pratico: cosa si può fare per rendere sicuri scuole, ospedali, residenze per anziani, uffici?

«La ventilazione gioca un ruolo fondamentale nella gestione del rischio. Purtroppo in Italia la cura della qualità dell’aria degli ambienti indoor non è mai stata affrontata, delegando alla semplice ventilazione naturale (aria che passa attraverso porte e finestre) il compito di “ripulire” l’aria negli ambienti. Questo è un problema più generale, che riguarda la qualità dell’aria in presenza di qualsiasi sorgente indoor (inquinante). Potrebbe essere questa l’occasione per mettere in sicurezza i nostri ambienti, ma sarebbero necessari investimenti importanti».

Uso corretto delle mascherine e ricambio frequente dell’aria sono criteri sufficienti per proteggersi?

«Il rischio zero non esiste, ma accanto alla ventilazione e alla riduzione dell’emissione (evitando di parlare ad alta voce, per esempio) l’uso corretto delle mascherine chirurgiche può ridurre ulteriormente le possibilità di contagio da aerosol, anche se non in modo rilevante. Questo perché le mascherine chirurgiche nascono per particelle di dimensioni maggiori di 10 micron».

Va bene qualunque tipo di mascherina?

«A differenza delle mascherine chirurgiche, i filtri facciali (FFP2, FFP3, N95) hanno un’efficienza di filtrazione molto elevata, anche per le tipiche dimensioni dell’aerosol».

Il distanziamento di almeno un metro è comunque utile?

«Il distanziamento è condizione necessaria ma non sufficiente per non avere contagi per via aerea negli ambienti chiusi. Con il distanziamento si evita di entrare in contatto con i droplet, le goccioline più grandi, che cadono in prossimità del soggetto infetto».

Lo smog può essere un fattore che facilita la diffusione di Sars-CoV-2?

«Non c’è alcuna relazione tra la diffusione del contagio da Sars-CoV-2 e il particolato atmosferico. In ambienti aperti il contagio non può trasmettersi per via aerea a causa dell’elevata “diluizione” della carica virale: è impossibile, per il soggetto sano, inalare una sufficiente dose infettante».

L’aria condizionata può avere un ruolo?

«L’aria condizionata non ha alcun ruolo nella trasmissione del contagio per via aerea».

Come si è svolta la discussione con l’Oms?

«La prima petizione firmata da 36 scienziati nei primi giorni di aprile è stata discussa con l’Organizzazione mondiale della sanità, ma senza risultato. Abbiamo quindi inviato una lettera-articolo, sottoscritta da 239 esperti internazionali, sullo stesso tema. Il 6 luglio abbiamo inviato una nuova petizione all’Oms per il riconoscimento della possibilità di questa modalità di contagio. In realtà, tra le raccomandazioni internazionali, compare da tempo la ventilazione negli ambienti chiusi che, ovviamente, non sarebbe necessaria in assenza di trasmissione aerea».

Virus, Guardian accusa: «Oms e governi hanno agito sui dati taroccati di un'azienda sconosciuta». Ilmessaggero.it Mercoledì 3 Giugno 2020. Covid-19, il Guardian in un'inchiesta esclusiva punta i riflettori sulla Surgisphere, azienda Usa nel cui staff figurano anche «uno scrittore di fantascienza e una modella di riviste per adulti», che ha fornito i dati necessari alla compilazione di diversi studi sul Covid-19 pubblicati anche su 'Lancet' e sul 'New England journal of medicinè, ma che «fino ad ora non ha fornito spiegazioni sui dati o sulla metodologia» applicata. L'Organizzazione mondiale della sanità e vari governi nazionali hanno modificato le loro politiche di risposta al Covid-19 e le terapie, quindi, sulla base di dati «imperfetti» provenienti da una semisconosciuta azienda statunitense che si occupa di analisi sanitaria. I dati che la Surgisphere sostiene di avere acquisito legittimamente da oltre un migliaio di ospedali nel mondo, scrive il Guardian, sono stati alla base di articoli scientifici che hanno portato ad una modifica delle terapie per il Covid-19 nei Paesi dell'America Latina. Gli stessi dati sono stati utilizzati dall'Oms e dagli istituti di ricerca di tutto il mondo per fermare i test sull'uso dell'idrossicolorochina, farmaco sul quale si è a lungo dibattuto per il trattamento del coronavirus. Due delle maggiori riviste scientifiche mondiali come Lancet e il New England journal of medicine, sottolinea il Guardian, hanno pubblicato studi basati sui dati della Surgispehere. Co-autore di questi studi è l'amministratore delegato dell'azienda Usa, Sapan Desai. Dopo essere state contattate dai giornalisti del Guardian, che le hanno informate sui risultati dell'inchiesta, le due riviste hanno espresso «preoccupazione». Gli altri autori degli studi pubblicati, non affiliati alla Surgisphere di Desai, hanno ora commissionato un'indagine indipendente a seguito dei dubbi sollevati sull'«affidabilità del database» utilizzato. Il Guardian sottolinea che, a seguito delle ricerche effettuate sull materiale disponibile pubblicamente, numerosi dipendenti della Surgispehere hanno scarsa o nessuna esperienza scientifica. Uno dei dipendenti, indicato come caporedattore scientifico, è in realtà uno scrittore di fantascienza, mentre la 'dirigente marketing' risulat in realtà essere una modella di riviste per adulti e hostess per fiere e congressi. La pagina Linkedn dell'azienda ha meno di 100 follower e la scorsa settimana, riporta ancora il Guardian, indicava un organico composto da sei persone, poi diventate nelle ultime ore tre. Surgisphere, che sostiene di gestire «una delle più vaste e veloci banche dati ospedaliere del mondo», rileva il Guardian, non ha praticamente alcuna presenza online. L'account Twitter presenta meno di 170 follower, senza alcun post tra l'ottobre 2017 e il marzo 2020.

Disorganizzazione mondiale. Report Rai PUNTATA DEL 11/05/2020 di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella.

DISORGANIZZAZIONE MONDIALE. Di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella Collaborazione: Alessia Marzi e Alessia Pelagaggi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Perché di briciole alla fine si tratta. Quel fondo era stato istituito dopo l’epidemia ebola perché bisognava dotare l'OMS di risorse necessarie da investire in caso di una emergenza sanitaria, per la prima risposta, quella che serve forte, immediata, con determinazione per evitare che un’epidemia diventi poi una pandemia. Ecco hanno contribuito dal 2015 a oggi solamente 18 dei 194 stati membri che fanno parte dell'OMS. E hanno donato solamente 114 milioni. E da quel fondo l'OMS ha destinato in queste settimane 9 milioni a quei sistemi sanitari più deboli per fronteggiare l’emergenza del coronavirus. Ecco proprio sull’esperienza di ebola nel 2015 Bill Gates aveva riunito a Seattle la crema degli scienziati avendo alle spalle un virus che evocava in maniera incredibile il Covid19, annunciava quella che era la pandemia più annunciata della storia. Però se la prendeva con gli Stati, noi ne avevamo già parlato, ma poi ci siamo chiesti ma con chi ce l’aveva in particolare? E soprattutto è un sincero filantropo, Bill Gates?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Giusto ma chi è che deve pagare? Il viceministro alla Salute Sileri ammette onestamente che il piano pandemico del 2010 non è mai stato attuato né aggiornato. Ma io sono arrivato da poco, ho chiesto spiegazioni all’interno del ministero ma non mi rispondono. Chi avrebbe potuto rispondere invece è l’ex direttore generale dimissionario da dicembre, poi andato recentemente via, Claudio D’Amario, e anche chi c’era prima di lui fino al 2017, Ranieri Guerra. Due illustri professionisti per carità, ma disattenti in questa vicenda. E Ranieri Guerra anche un po’ smemorato, perché sapeva benissimo che il piano pandemico doveva essere attuato e non è stato fatto. Sapeva benissimo come ha lasciato le cose. E poi noi abbiamo scoperto che l’unica cosa che girava che somigliasse a un piano pandemico era una bozza del 2016. Poi abbiamo anche provato a chiedere un’intervista a Tedros e il suo ufficio stampa però ci ha risposto criticando Report: dice “visto il vostro stile giornalistico, non vediamo l’utilità di partecipare”. Non gli piace il nostro modo di fare le domande. Ora ci verrebbe facile rispondere che neanche noi non siamo così entusiasti della loro gestione della pandemia. Tuttavia insomma noi non cerchiamo colpevoli, né responsabili, cerchiamo solo di capire dove si è sbagliato per non ricommettere gli stessi errori. E poi anche perché crediamo nell’OMS, crediamo nell’istituzione purché sia indipendente dalla politica e dalle pressioni delle lobby farmaceutiche. Ecco perché la storia ci dice che non è sempre stata così indipendente.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel 2009 il mondo era in allarme per un altro virus: l’H1N1.

TG AMERICANO GIORNALISTA La nuova influenza suina che infierisce in Messico ha potenziale pandemico, dice l'OMS.

TG AMERICANO GIORNALISTA L'influenza suina è in Europa. C'è un caso confermato.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Iniziata in Messico, l'influenza H1N1 in pochi mesi ha contagiato il mondo. L'11 giugno, per la prima volta in 40 anni, l'OMS dichiara la pandemia.

MARGARET CHAN - DIRETTRICE GENERALE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ 2006 - 2017 Ho deciso di aumentare il livello di allerta all'influenza pandemica da fase cinque a sei.

JEAN PIERRE DOOR - RAPPORTEUR COMMISSIONE D’INCHIESTA PARLAMENTARE FRANCESE SULLA CAMPAGNA DI VACCINAZIONE Dall'attivazione del livello sei, si è innescato in effetti l'acquisto di vaccini. Bisognava contestare e non accettare? La Francia non poteva permetterselo, gli altri paesi hanno fatto la stessa cosa.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La dichiarazione di stato di pandemia presa dal comitato di esperti dell’OMS fece scattare gli obblighi di acquisto dei vaccini di tutti i paesi, Italia compresa.

EDUARDO MISSONI - EX CONSULENTE DIREZIONE GENERALE COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO MINISTERO ESTERI I componenti erano segreti, nell'ipotesi che mantenerli segreti li proteggeva dall'influenza dell'industria.

GIULIO VALESINI Quindi sostanzialmente l'accusa fu che l'Oms dichiarò …

EDUARDO MISSONI - EX CONSULENTE DIREZIONE GENERALE COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO MINISTERO ESTERI Dichiari pandemia e fai partire i contratti.

EDUARDO MISSONI - EX CONSULENTE DIREZIONE GENERALE COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO MINISTERO ESTERI L’Italia era vincolata da un contratto con aziende farmaceutiche multinazionali ad un acquisto di vaccini, solo nel caso di una pandemia. Ha comprato mi sembra 24 milioni di dosi di vaccino…

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO German Velasquez per più di 20 anni è stato un alto dirigente dell’OMS: dirigeva proprio il programma sui farmaci. E oggi rivela alcuni particolari di ciò che accadde in quei giorni dentro l’OMS.

GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER All’epoca fu creata una Task Force di circa 20 persone, di cui facevo parte. Ma alla riunione con le industrie farmaceutiche che avrebbero prodotto i vaccini non potei partecipare. Quando arrivai l’usciere mi fermò sulla soglia, e disse “No. Lei non può entrare”. Io ero contrario alla dichiarazione di pandemia, il contagio avveniva molto velocemente, ma la mortalità era molto bassa. E dissi che se fosse stata dichiarata si sarebbe dovuto stabilire che i farmaci e i vaccini sarebbero stati di dominio pubblico. Questo approccio non è piaciuto. GIULIO VALESINI Secondo lei la dichiarazione di pandemia dell'Organizzazione mondiale della sanità favorì le grandi industrie farmaceutiche in quell'occasione?

GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Chiaramente, è stato il business del secolo.

GIULIO VALESINI Chi si vaccinò per il virus H1N1V, dentro l’OMS?

GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Io personalmente non mi vaccinai. E dei 2500 colleghi che lavoravano presso la sede dell’OMS a Ginevra non conosco nessuno che l'abbia fatto. E ti dirò di più: quattro mesi dopo l'uscita del vaccino in una conferenza stampa chiesero a Margaret Chan: "Signora direttore generale, lei si è vaccinata?" e lei rispose: "Beh, sono stata troppo impegnata, non ho avuto tempo”.

VOCE TG FRANCESE È un classico nelle campagne di vaccinazione, la Ministra della salute fa la puntura in diretta.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A conti fatti si vaccinarono pochi milioni di persone in Europa. Ma l'operazione costò ai paesi centinaia di milioni di euro. L’Italia pagò 24 milioni di dosi 184 milioni. Furono usate appena 900 mila dosi. Alla fine l'H1N1 fa meno morti di un'influenza stagionale. Il rischio pandemico si rileva infondato.

GIULIO VALESINI Rimanemmo con le scorte di vaccino che non servirono a niente.

EDUARDO MISSONI - EX CONSULENTE DIREZIONE GENERALE COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO MINISTERO ESTERI Si, ma non si che fine abbiano fatto. Credo che l'abbiamo poi donate a qualche paese in via di sviluppo che non so cosa se ne potesse fare.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche in Germania la campagna contro l'H1N1 fallì. Si vaccinò solo il 5% della popolazione. Dal 2009, Wolfgang Wodarg denuncia una pandemia contraffatta. Allora era presidente della Commissione per la salute europea. Secondo lui, gli esperti sapevano del basso rischio ma hanno scelto di favorire le finanze dei laboratori farmaceutici.

WOLFGANG WODARG - PRESIDENTE COMMISSIONE SALUTE CONSIGLIO D’EUROPA 2009 Nel 2009, non avevamo dati che dimostrassero la morbilità e la mortalità associata a una pandemia di fase sei e dichiarare questo livello di allerta. Quindi l'OMS aveva il dito sul grilletto, l'operazione era stata preparata a monte. L'OMS doveva dichiarare la pandemia, così gli stati impegnati ad assumere una certa quantità di farmaci in determinate condizioni, sarebbero andati avanti.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Alla fine l'OMS ha fatto mea culpa. Ma non sono mai emersi reati. NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION IN PRACTICE Perché alcuni dei componenti del gruppo dell'Oms si scoprì che aveva anche un conflitto di interesse.

GIULIO VALESINI Quanto è presente la presenza e il conflitto di interesse di aziende farmaceutiche dentro l'OMS.

NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION AND PRACTICE L'OMS riflette le debolezze, le contraddizioni le incongruenze degli Stati che la compongono.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Viene il dubbio che rifletta le debolezze, perché quando un ente è molle è più facile penetrarlo da chi sa fare lobby. Nel caso della suina, dopo 40 anni viene dichiarata lo stato di pandemia. Si è scoperto che solo successivamente che quella dichiarazione era legata alla necessità di far rispettare i contratti che gli stati avevano con le case farmaceutiche. Quelle che riguardavano l’acquisto di un vaccino che poi si è rivelato una specie di flop, anche perché poi gli stessi membri dell’ OMS che avevano votato quella dichiarazione di pandemia non si erano vaccinati. Ecco, uno può alla fine, questo sa un po’ di ridicolo, può dire un osservatore, se questa è l’organizzazione vale la pena chiudere tutto. Noi non arriviamo a questo, anzi crediamo, continuiamo a credere nell’istituzione purchè si impari dagli errori del passato.

VOCE TG CNN L'OMS lavora per contenere la diffusione del temibile virus ebola diffuso in tre, forse quattro, paesi africani.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dopo l’H1N1 un altro virus ha colto l'OMS di sorpresa. Nel dicembre del 2013 emerge un nuovo ceppo di ebola. Si scatena il panico nell'Africa dell'ovest e in Canada. Una unità di crisi si riunisce più volte al giorno. Keiji Fukuda, vicedirettore generale dell'OMS partecipa alla riunione. Il dottor Hugonnet fa rapporto al rientro dalla Guinea Conakry, dove è iniziata l'epidemia.

STÉPHANE HUGONNET - ESPERTO SCIENTIFICO OMS. Tre aree hanno trasmissioni attive e generano casi. Il messaggio è che l'epidemia non è finita. Coinvolge tutto il paese, più di 1000 km coinvolti. È un'epidemia internazionale. Servono delle risorse straordinarie per comprendere e dominare questa epidemia.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È la prima volta che un caso di trasmissione avviene in una megalopoli di milioni di abitanti. Sul campo, l'OMS guida le attività di decine di esperti arrivati d'urgenza, tra cui Manuguerra dell’Istituto Pasteur.

JEAN-CLAUDE MANUGUERRA - VIROLOGO ISTITUTO PASTEUR Dobbiamo sbrigarci perché l'epidemia può sfuggire, Bisogna sbrigarsi perché la reazione a catena può travolgere il sistema.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A Conakry, Medici senza frontiere hanno costruito un centro separato dall'ospedale. Il villaggio ebola.

DONNA Chiamate se vi serve aiuto, io resto qui.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Senza vaccini né cure, i medici possono solo alleviare i malati e assistere i moribondi. Si devono anche isolare tutti i contagi sospetti. Si fanno prelievi per stabilire una diagnosi. Un laboratorio francese di Lione procedeva con l'analisi. Bisognava essere veloci per evitare il degrado dei campioni di sangue.

JEAN-CLAUDE MANUGUERRA - VIROLOGO ISTITUTO PASTEUR Ora prenderemo una parte del campione del virus. Usiamo una parte per le analisi, prima lo disattiviamo, così possiamo estrarlo da qui. È un test sofisticato ma che funziona in modo semplice, con un risultato che si legge facilmente, vedete due campioni giallo fosforescente che indica la presenza di tracce di ebola.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Due casi confermati, uno negativo, il numero di test da fare diminuisce. A un mese dall'inizio, l'epidemia è in declino.

JEAN-CLAUDE MANUGUERRA - VIROLOGO ISTITUTO PASTEUR A posteriori è facile dire: "Ci sono meno di 200 casi, "meno di 100 morti", non si sa mai come può evolvere la situazione.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dopo una stasi primaverile, l'ebola è ripartita a giugno. Senza capire come, Oularé Bakary, è uscito indenne.

OULARE BAKARY Vedevo i cadaveri quindi facevo domande, chiedevo da quanto fossero lì i malati. Erano venuti con me? Ero veramente preoccupato. Sarei morto, per me era finita. Ho visto un altro malato bagnarsi, perdere sangue, aveva la diarrea, vomitava sangue. C'erano i cadaveri pronti alla sepoltura. Aspettavo la mia ora, per me era finita. Mi hanno fatto un primo test, poi un secondo test, mi hanno detto che era negativo. Ero felice. Non sono più malato!

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’accusa all’OMS, nel caso dell’Ebola fu quella di essersi mossa in colpevole ritardo. Sul campo per mesi a lavorare c’erano gli operatori di medici senza frontiere”.

NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION IN PRACTICE Ebola è stato l'altra vicenda dove l'OMS ha rivelato molte debolezze per sua stessa ammissione. Dopo Ebola si creò nel 2015 questo fondo, questo Contingency Fund che dal 2015 a oggi, finanziato da 18 dei 194 Governi che finanziano, che partecipano e sono parte dell'OMS, ha raccolto 114 milioni di dollari.

GIULIO VALESINI In cinque anni. NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION AND PRACTICE In cinque anni quindi praticamente niente, briciole.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Perché di briciole alla fine si tratta. Quel fondo era stato istituito dopo l’epidemia ebola perché bisognava dotare l'OMS di risorse necessarie da investire in caso di una emergenza sanitaria, per la prima risposta, quella che serve forte, immediata, con determinazione per evitare che un’epidemia diventi poi una pandemia. Ecco hanno contribuito dal 2015 a oggi solamente 18 dei 194 stati membri che fanno parte dell'OMS. E hanno donato solamente 114 milioni. E da quel fondo l'OMS ha destinato in queste settimane 9 milioni a quei sistemi sanitari più deboli per fronteggiare l’emergenza del coronavirus. Ecco proprio sull’esperienza di ebola nel 2015 Bill Gates aveva riunito a Seattle la crema degli scienziati avendo alle spalle un virus che evocava in maniera incredibile il Covid19, annunciava quella che era la pandemia più annunciata della storia. Però se la prendeva con gli Stati, noi ne avevamo già parlato, ma poi ci siamo chiesti ma con chi ce l’aveva in particolare? E soprattutto è un sincero filantropo, Bill Gates?

BILL GATES – TED TALK, MARZO 2015 Quando ero ragazzo la catastrofe che più ci preoccupava era la guerra nucleare, ecco perché avevamo un barile come questo in cantina, pieni di cibo e acqua. Partito l’attacco nucleare dovevamo scendere, accovacciarci e mangiare dal barattolo. Oggi il rischio di catastrofe globale non è più questo. Invece è più simile a questo. Se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone nei prossimi decenni, è più probabile che sia un virus altamente contagioso, piuttosto che una guerra. Questo perché abbiamo investito cifre enormi in deterrenti nucleari, pochissimo invece su un sistema che possa fermare un epidemia. Non siamo pronti per la prossima epidemia. Prendiamo l’ebola, il problema non era che il sistema non funzionava, il problema è l’assenza totale di un sistema. Non c’erano epidemiologi pronti a partire, per controllare la diffusione del virus. Le notizie sui contagi arrivavano solo tramite i giornali, messi online con ritardo ed erano anche imprecisi. Nessuno analizzava terapie e diagnosi. Un fallimento globale. Ma potrebbe anche andarci peggio: l’ebola è un virus che non si diffonde per via aerea, e quando i malati diventano contagiosi, non girano, stanno così male da essere costretti a letto e per pura coincidenza non è arrivato nelle aree urbane. La prossima volta potremmo non essere così fortunati e trovarci di fronte a un virus in cui si sta bene anche quando si è contagiosi, tanto da salire su un aereo o andare al mercato. Come l’influenza spagnola del 1918 che ha provocato la morte di più di 30 milioni di persone. Oggi abbiamo la tecnologia per contrastare un’epidemia. Con i cellulari possiamo raccogliere informazioni e trasmetterle, con le mappe satellitari possiamo vedere come la gente si muove. Gli strumenti li abbiamo, ma devono essere inseriti in un sistema sanitario globale. La banca mondiale stima che se ci fosse una pandemia di influenza la ricchezza globale si ridurrebbe di circa tre trilioni di dollari e ci sarebbero milioni e milioni di morti. Per questo bisogna essere pronti.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Chissà con chi ce l’aveva Bill Gates, perchè se parlava dell’impreparazione dell’OMS e di chi fa le scelte sulle politiche da adottare, allora bisogna anche vedere chi è che la condiziona, chi è che contribuisce alle sue entrate. Il suo bilancio ha totalizzato 5,6 miliardi di dollari lo scorso biennio. Ma nemmeno il 20% sono le quote fisse pagate dagli stati.

NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION IN PRACTICE Oggi un'organizzazione che controlla più o meno il 20% del proprio budget è, come si può capire, un'organizzazione che è ingestibile. L'OMS si è trasformata in una specie di service provider.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’80% del budget è versato da stati e privati su base volontaria. Mettono i soldi e decidono per cosa si spendono.

GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER L’OMS negli ultimi 20 anni è stata privatizzata, l’operazione l’ha completata la direttrice Margaret Chan durante il suo mandato triennale.

GIULIO VALESINI Ma a chi ha fatto comodo trasformare la OMS di fatto in una agenzia privata?

GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Principalmente all'industria farmaceutica. E la verità, volendo essere un po' cinici è che i Paesi industrializzati fino a quattro mesi fa volevano un OMS senza molti poteri, per non danneggiare la propria industria.

GIULIO VALESINI Qual è il peso secondo lei, obiettivamente il peso delle aziende farmaceutiche dentro l'organizzazione mondiale della sanità, oggi?

GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER É molto, molto, molto, molto forte, perché oltre ad essere donatori si dà il caso che siano totalmente protetti dai paesi in cui si trovano. Non oggi, da diversi anni.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il primo donatore, gli USA, hanno annunciato pochi giorni fa di ritirare i fondi.

DONALD TRUMP PRESIDENTE STATI UNITI - CONFERENZA STAMPA 14 APRILE 2020 Oggi ho detto alla mia amministrazione di fermare i finanziamenti all’Organizzazione Mondiale della sanità. Mentre si sta facendo un report che valuterà il ruolo dell’Organizzazione mondiale della sanità nel gestire male e coprire la diffusione del coronavirus. I contribuenti americani stanno pagando tra i 400 e i 500 milioni di dollari all’organizzazione mondiale della sanità ogni anno. La Cina contribuisce circa 40 milioni di dollari e forse anche meno.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma dopo gli Usa, il secondo donatore al mondo non è uno stato, ma Bill Gates. La sua fondazione versa più mezzo miliardo di dollari all’OMS ogni biennio. Di fatto stabilisce lui quali sono le priorità dell’organizzazione. Ad esempio investire sulla cura della polio, invece che della malaria. I fondi provengono dal trust di famiglia dove ci sono i proventi dei suoi investimenti nel campo sanitario: ha investimenti nelle industrie farmaceutiche. Report ha scoperto che il Trust di Gates ha investito in azioni nel campo sanitario per circa 320 milioni di dollari. E se Gates condizionasse da donatore su cosa l’OMS deve investire il conflitto di interessi sarebbe enorme.

ALFONSO SCARANO - ANALISTA INDIPENDENTE Il trust fa soldi, investe e genera la massa di soldi che poi passa alla fondazione. Si tratta di cifre importanti, cioè oltre 5 miliardi di dollari. La fondazione a questo punto elargisce questi soldi.

GIULIO VALESINI Praticamente non è uno stato ma come se fosse una superpotenza. Come se fosse in realtà il 195esimo membro dell’Oms.

ALFONSO SCARANO - ANALISTA INDIPENDENTE Ma in realtà forse il concetto di stato qui è addirittura superato. Quindi fa quello che vuole.

GIULIO VALESINI Quindi dice lei Bill Gates di fatto è diventato il proprietario dell'organizzazione mondiale della sanità.

GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Le faccio un esempio di qualcosa di molto scioccante che ho visto quando ero all'OMS. All'assemblea mondiale della salute Bill Gates è stato invitato dalla direttrice. Ha avuto 40 minuti per parlare con i ministri della salute. Nessun Ministro della sanità di qualsiasi paese del mondo, che si tratti di Francia, Italia o Inghilterra, ha più di cinque minuti per parlare all'Assemblea Mondiale. Quest’uomo può avere un sacco di soldi ma non è un esperto di salute pubblica. Bill Gates Sta uccidendo l'OMS e cerca di dimostrare al mondo che è un grande filantropo che si preoccupa della salute dell’umanità.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Gates sta dando un contributo decisivo alla ricerca del vaccino e ha promesso che sarà accessibile a tutti. Ma visti i suoi investimenti sull’industria farmaceutica riuscirà a imporre un brevetto per così dire aperto?

ALFONSO SCARANO - ANALISTA INDIPENDENTE Bill Gates nasce con in testa il concetto di brevetto cioè lui ha fatto un patrimonio con la logica del brevetto e soprattutto con la logica di protezione delle capacità e delle invenzioni.

GIULIO VALESINI Secondo lei l'OMS può imporre alle case farmaceutiche un vaccino con una proprietà intellettuale allentata, per rendere il farmaco disponibile a tutti, a prezzi accettabili?

GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Legalmente l’OMS non può revocare un brevetto, ma potrebbe raccomandare fortemente a tutti i paesi di optare per la licenza obbligatoria, strumento grazie al quale ogni singolo stato paga una quota simbolica per avvalersi di un brevetto altrui. Ma questa cosa non la sta facendo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO German Velasquez però porta avanti però una proposta ancora più coraggiosa e radicale.

GERMAN VELASQUEZ - CONSULENTE POLITICHE DI SALUTE PUBBLICA SOUTH CENTER Noi chiediamo che il direttore dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, il direttore dell'OMS Tedros, il direttore dell'Ufficio della Proprietà Intellettuale Mondiale, facciano una dichiarazione in tempi di pandemia davanti al mondo intero che dica “nulla di quello che sarà scoperto deve essere brevettabile”.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Magari. E invece chi produrrà il primo vaccino potrà sedersi al tavolo internazionale con la forza, con la moral suasion di avrà vinto una guerra. E invece il vaccino dovrà essere accessibile a tutti, per quantità di dosi e per accessibilità del prezzo. Ma quale è la strada da seguire? Una che potremmo percorrere è quella della GAVI, un’alleanza finanziata, che si occupa di vaccinazione e immunizzazione per l’intero pianeta ed è finanziata tra gli altri paesi, da Norvegia, Italia, Giappone, Gran Bretagna e anche da Bill Gates. Dovrebbe occuparsi di distribuire il vaccino nelle parti povere del paese, tra i governi più poveri, però non si è espressa sul brevetto del vaccino per il Covid19. Così come non si è espressa l’OMS. Che è guidata da Tedros. Tedros che è a capo di un’agenzia che è diventata sostanzialmente privata. Perché gli stati l’hanno voluta più debole per tutelare le proprie aziende farmaceutiche. E così l’80% dei suoi finanziamenti sono donazioni private, o di natura vincolata. Il numero uno, il finanziatore più importante privato è Bill Gates. Nell’ultimo biennio ha finanziato con circa mezzo miliardo di dollari, è il secondo in assoluto dell’OMS. Più di uno stato, più degli altri stati. È lui decide anche le politiche, le strategie dell’OMS, decide se investire su una campagna di vaccinazione per la poliomelite piuttosto che sulla malaria che provoca anche più morti. Ora lui ha detto mi sto impegnando nella produzione del vaccino per il Covid 19 e sarà accessibile a tutti. Sì, ma a quale prezzo? E poi brevetto, sarà un brevetto libero? Proprio lui che sui brevetti ha costruito la sua fortuna? Ecco lui i soldi li prende dal suo trust di famiglia e li mette nella fondazione, e dalla fondazione finiscono nell’OMS, ma i soldi che arrivano al trust, abbiamo scoperto noi di Report, arrivano anche da investimenti sul mondo sanitario. E parliamo di circa 323 milioni di dollari nel 2018 che avrebbe anche investito in case farmaceutiche tra quelle importanti, anche quelle che producono i vaccini, Novartis, Pfizer, Merck, Medtronic. E poi di questi 237 milioni invece li aveva investiti, almeno fino a un anno fa nella Walgreen Boots Alliance, la società che distribuisce farmaci all’ingrosso e al dettaglio in mezzo mondo. Poi tra l’altro Bill Gates aveva anche fatto un accordo attraverso Microsoft per costruire e gestire la rete informatica di questa società. Ecco, serve anche per accaparrare dati sanitari sulle prescrizioni? Per sapere quali farmaci vengono più venduti e di conseguenza per investire su quei farmaci? Ecco, il cerchio si chiude. Più soldi nel suo Trust, che poi soldi che partono nella sua fondazione, veste i panni da filantropo, li dona, risparmiando tasse, all’OMS. Determina quelle politiche sanitarie, le campagne di vaccinazione, o quelle cure farmaceutiche, magari prodotte da quelle multinazionali dove lui ha investito. Ecco insomma più che un conflitto, sembra una visione di un mondo. Chapeau Mister Gates. Però crediamo che la salute della popolazione mondiale meriti qualcosa di meglio.    

Coronavirus e plasma iperimmune: il mondo ne parla, in Italia fioccano le polemiche. Le Iene News il 13 maggio 2020. Alessandro Politi e Marco Fubini tornano a parlarci della possibile terapia con il plasma iperimunne, affrontando le critiche che vengono mosse da molti esperti in Italia. Mentre nel resto del mondo il protocollo su cui si lavora a Pavia, Mantova e ora anche Padova viene studiato con interesse. E intanto il governatore del Veneto Zaia si porta avanti. Alcide ha 81 anni, e ha rischiato di morire per il coronavirus. Oggi, dopo esser stato trattato con il plasma iperimmune, sta meglio: “Ero un mezzo cadavere”, dice ad Alessandro Politi. Ma dopo il plasma “ho sentito questa spinta interna, il corpo ce la fa. Quando si comincia a mangiare e aver voglia di vivere è una cosa meravigliosa”. Alessandro Politi e Marco Fubini ci hanno portato a conoscere la possibile terapia con il plasma iperimmune per combattere il coronavirus, che gli ospedali di Mantova, Pavia e adesso anche Padova stanno testando con risultati finora incoraggianti. E la notizia della sperimentazione ha fatto il giro del mondo. Negli Stati Uniti la terapia viene adesso testata in 116 università. In Italia però molti esperti sono scettici, sostenendo che “i plasmi non sono un farmaco ideale, sono difficili e costosissimi da preparare”. E’ davvero così? “Tutti i servizi trasfusionali sono attrezzati per la raccolta del plasma, non è difficile da preparare”, ci dice la dottoressa Giustina De Silvestro, dell’azienda ospedaliera di Padova. “Una sacca di plasma costa intorno agli 80 euro”, aggiunge il professore di pneumologia a Padova Andrea Vianello. “Con tre somministrazioni siamo intorno ai 300 euro complessivi. I farmaci antivirali possono arrivare a costare anche 4, 5 o 6 volte di più”. “Al momento non c’è nessuna evidenza, né per i farmaci né per il plasma”, specifica Giustina De Silvestro. “Le consideriamo tutte terapie che possono contribuire all’evoluzione benigna delle malattie”. Ma il plasma iperimmune è sicuro? “Una delle caratteristiche è la sicurezza”, ci spiega Andrea Vianello. “Non è noto per causare importanti effetti collaterali. Lo possono ricevere tutti, salvo che non ci siano controindicazioni specificatamente legate al soggetto”. C’è anche un’altra critica mossa da molti esperti, tra cui il professor Burioni: “Questi plasmi si basano sulla disponibilità di persone guarite che abbiano questi anticorpi, che non sono tantissime”. I guariti in Italia oggi sono oltre 100mila, i malati ospedalizzati poco più di 13mila di cui mille in terapia intensiva. A conti fatti, ci sono quasi dieci potenziali donatori per ogni paziente in ospedale. Non tutti comunque hanno un plasma con alti livelli di anticorpi, solo un 60/80% ha un plasma utile: un numero comunque elevato. Negli Stati Uniti da poche settimane è partita una sperimentazione con il plasma, che coinvolge 7mila malati trattati in 2.178 ospedali.  “Sono tutti pazienti trattati in forme severe o gravi, che hanno bisogno di ossigeno o intubati“, ci dice il professor Alessandro Santin dell’università di Yale. E il dipartimento della Salute “ha contattato la Croce rossa americana chiedendo la raccolta e la distribuzione del plasma iperimmune e renderlo disponibile a tutti gli ospedali americani”. E sentendo le parole del professor Santin verrebbe da pensare che il problema della disponibilità del plasma dipende dalla raccolta, non dal numero dei donatori. E gli Stati Uniti, dove essenzialmente  non c’è un sistema sanitario pubblico, hanno deciso di investire soldi pubblici in questa ricerca. “Quello che abbiamo visto fino a oggi  è estremamente confortante”, ci dice ancora Santin. “Ma è solo quando riusciremo a confrontare tutti i pazienti con quelli che hanno ricevuto solo le terapie di supporto” che si riuscirà a capire “quanto il plasma aggiunge in termine di efficacia terapeutica”. Intanto, dopo la messa in onda del primo servizio sul plasma iperimmune, qualcuno fa una segnalazione ai Nas che intervengono per verificare come viene fatta la sperimentazione. Il professor Giuseppe De Donno viene attacca da molti esperti, e nel frattempo lui stesso oscura le sue pagine. Dopo qualche giorno riappare e dice: “Non sono disponibile in questo momento a risse televisive, a zuffe mediatiche con questo o quello collega, atteso che essendo noi tutti medici lavoriamo per una causa unica: la lotta al coronavirus”. E ci tiene a ricordare che il protocollo di ricerca “è stato preso come esempio da molti Stati europei e americani”. Mentre ci si azzuffa sull’efficacia e convenienza della terapia con il plasma iperimmune, c’è chi porta avanti: il governatore del Veneto Luca Zaia. “Se verrà confermato che il plasma funziona, tutti si gireranno verso le emoteche e diranno: il sangue dov’è? Noi quindi ci portiamo avanti”. Il Veneto ha infatti deciso di creare la più grande banca del sangue per raccogliere il plasma dei guariti dal coronavirus. Potete ascoltare le parole del governatore Zaia nel servizio qui sopra. “Dico a tutti i colleghi: accumulate sacche di sangue. Anche se dimostrassero che il plasma non funziona, si può utilizzare per altro”. E pochi giorni fa, su Nature, è uscito questo articolo: “Plasma di convalescenti, trattamento di prima scelta per il coronavirus”. Da tutta Italia ci hanno scritto persone guarite che vorrebbero donare, ma nelle loro regioni non ci sono ancora i centri per la raccolta del plasma iperimmune: cosa stiamo aspettando?

Plasma-terapia: così il salentino De Donno ha curato a Mantova 80 pazienti. Trnews.it il 4 Maggio 2020. Impiegando il plasma dei soggetti affetti da Covid ormai guariti, ha trattato più di 80 dei suoi pazienti con gravi problemi respiratori, evitando loro la morte. Giuseppe De donno, medico originario di Maglie, è alla guida del Reparto di Pneumologia dell’Ospedale Carlo Poma di Mantova. Questa terapia sperimentale, sulla quale parte del mondo scientifico invita ad andarci cauti, è stata messa in pratica proprio da lui, partendo dalla scoperta dei direttori di Immunologia e Medicina Trasfusionale di Pavia e Mantova: i primi ad accorgersi che il sangue dei guariti avrebbe potuto aiutare il resto degli ammalati alle prese, ancora, con il coronavirus. Risultato: i pazienti con più sintomi, in poche ore, si sono ritrovati senza febbre, tosse e difficoltà respiratorie. La sperimentazione è stata già avviata al Policlinico di Bari. Oltre al plauso del sindaco di Maglie, il primario salentino nelle scorse ore è stato contattato anche dall’ONU: “Da parte della comunità scientifica internazionale -ha detto De Donno – è stato manifestato grande interesse a conoscere i risultati del nostro studio”. Non solo. Una seconda chiamata è arrivata direttamente da un consigliere del Sottosegretario alla Salute, che ha spiegato come anche negli Stati Uniti si guardi con molto interesse alla terapia e ferve l’attesa per i risultati della sperimentazione condotta, appunto, a Mantova e Pavia. A dimostrazione dell’interesse degli Usa verso la terapia del plasma ci sono le decine di sperimentazioni avviate nell’ultimo mese. Addirittura si sta percorrendo la via del plasma anche come profilassi per le persone più esposte al virus, come i sanitari. In Italia, invece, le cose non filano proprio così lisce. Nei giorni scorsi, ad esempio, il primario salentino è stato contattato telefonicamente dai Nas, venuti a conoscenza della terapia al plasma applicata, eccezionalmente, su una donna incinta che, viceversa, avrebbe rischiato la sua vita e quella del bambino. Sebbene quotidianamente alle prese con diffidenza e lungaggini burocratiche, il primario salentino rassicura: “Non ci lasceremo sfiduciare”.

Covid, primario salentino a Mantova: “Il plasma dei guariti funziona”. Giuseppe De Donno, 53enne pneumologo di Morigino di Maglie: “A Mantova abbiamo creato una banca del plasma. Creandone altre in giro per l’Italia riusciremo ad arginare un’eventuale seconda ondata”. Il Gallo il 4 Maggio 2020.  La terapia basata sul plasma iperimmune prelevato dai pazienti con Covid-19 si sta rivelando efficace. Lo ha spiegato primario del Reparto Pneumologia dell’Ospedale Carlo Poma, Giuseppe De Donno, che, per inciso è salentino, originario di Morigino di Maglie. Tra Mantova e Pavia sono stati trattati quasi 80 pazienti con gravi problemi respiratori, nessuno dei quali è deceduto. “La mortalità del nostro protocollo finora è zero”, ha sottolineato il 53enne pneumologo magliese, “a Mantova abbiamo creato una banca del plasma. Creandone altre in giro per l’Italia riusciremo ad arginare un’eventuale seconda ondata”.

“La richiesta di autorizzazione al comitato etico ci fa perdere tempo prezioso”. Sono stati arruolati dei volontari donatori di plasma tra persone già guarite dal coronavirus (per accertare la guarigione, gli esperti li hanno sottoposti a due tamponi sequenziali): “I donatori guariti”, ha spiegato in un’intervista radiofonica il dott. De Donno, “donano 600ml di sangue. Tratteniamo quindi il liquido che ha come caratteristica fondamentale la concentrazione di anticorpi, tra cui quelli contro il coronavirus”, ha aggiunto De Donno. Prima di procedere, però, gli esperti devono chiedere ogni volta l’autorizzazione al Comitato etico. “Si tratta di un impedimento enorme, perché ci fa perdere tempo prezioso per salvare le persone”, ha commentato il luminare salentino, “il plasma può essere congelato e durare fino a sei mesi in stoccaggio: questo ci ha portato a creare una banca del plasma a Mantova. Riusciamo anche ad aiutare altri ospedali che ci stanno chiedendo aiuto”. Per illustrare meglio quanto possa essere efficace il trattamento col plasma, De Donno ha raccontato di Francesco, un ragazzo di 28 anni ricoverato in terapia intensiva: “Le sue condizioni si sono aggravate lo scorso venerdì. Dopo aver ricevuto l’autorizzazione del Comitato Etico, l’abbiamo trattato col plasma iperimmune. Dopo 24 ore era già sfebbrato e stava bene. Da poco lo abbiamo svezzato dal ventilatore. È un ragazzo arrivato qui senza altre patologie: doveva essere intubato e invece tra due giorni potremo restituirlo ai suoi genitori”. Francesco non è l’unico: circa un centinaio di pazienti con coronavirus sono guariti grazie alla cura col plasma iperimmune. “Finora non abbiamo avuto decessi tra le persone trattate. E i segni clinici tendono a sparire dalle 2 alle 48 ore dopo il trattamento”, ha concluso De Donno. “abbiamo sottoposto i risultati ottenuti alla comunità scientifica e siamo in attesa di pubblicazione. Senza alimentare false speranze”, ammette infine, “se la malattia ha lavorato a lungo fino a compromettere la funzionalità degli organi, il plasma non è sufficiente a salvare il paziente”.

Congratulazioni da Maglie. Intanto dal Salento, in particolare da Maglie arrivano le congratulazioni del sindaco Ernesto Toma: “Non ho le competenze per giudicare il lavoro che in questo periodo stanno compiendo medici e scienziati”, ha postato il primo cittadino, “voglio però congratularmi da cittadino magliese con il dott. Giuseppe De Donno, originario di Morigino di Maglie, dirigente del reparto di pneumologia di Mantova, in Lombardia epicentro dell’epidemia, che da quasi un mese ha azzerato i morti per Covid. A Mantova hanno utilizzato e testato il plasma iperimmune ricavato dal sangue dei guariti senza tante passerelle e questo potrebbe essere utile anche in altre parti d’Italia. Spero”, ha concluso, “di poter salutare a Morigino, anche quest’estate, insieme ai suoi parenti, il dottor De Donno”.

Plasmaterapia, De Donno contro Burioni: “Lui sta in tv, noi lavoriamo”. Riccardo Castrichini il 04/05/2020 su Notizie.it. De Donno contro Burioni sulla Plasmaterapia sminuita in malo modo dal famoso virologo dei talk show. Il primario di Pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova, Giuseppe De Donno, ha sperimentato con successo la Plasmaterapia per guarire i pazienti Covid gravemente malati. Questa scoperta che potrebbe salvare la vita a molte persone è stata però banalizzata dal virologo Roberto Burioni come “nulla di nuovo”. L’esternazione del virologo più famoso dei talk show ha fatto molto innervosire De Donno che a Radio Cusano Tv Italia, si è così espresso: “Siamo riusciti a realizzare questa sperimentazione che è molto seria anche se qualcuno ha voluto farla passare per una cosa ciarlatanesca. Lui va in tv a parlare, noi lavoriamo 18 ore al giorno al fianco dei nostri pazienti”. Il riferimento a Burioni è presto fatto. La Plasmaterapia per guarire i pazienti Covid consiste nell’infusione di plasma iper immune (o super immune) nell’organismo di pazienti gravemente malati. Per De Donno si tratterebbe di una vera arma magica, che consentirebbe di salvare molte persone. É lo stesso primario a sottolineare tra l’altro la sua volontà di non arrogarsi alcun merito circa l’invenzione di nulla. La sua struttura, insieme al Policlinico di Pavia, avrebbe solo perfezionato un’idea che già esisteva e generato un protocollo ambiziosissimo.

Come funzione la Plasmaterapia. Per rendere possibile questa tecnica, sono stati fondamentali i donatori di sangue dei guariti Covid che devono avere caratteristiche fondamentali e il cui plasma deve essere certificato come contenente di anticorpi iper immuni. Ognuno dei guariti, ha spiegato De Donno, dona poco più di mezzo litro di sangue ma, per usarlo, d’ora in poi, pare stiano sorgendo degli impedimenti: “Adesso ogni volta dobbiamo chiedere l’autorizzazione al Comitato etico e questo ci fa perdere tempo prezioso”, spiega il primario di Pneumologia del Carlo Poma. Certo, il plasma può essere congelato, motivo per cui a Mantova hanno creato una banca del plasma per conservarlo ed eventualmente aiutare gli altri ospedali che ne fanno richiesta. De Donno ha detto che “creando banche plasma in giro per l’Italia riusciremmo ad arginare un’eventuale seconda ondata”.

Coronavirus, il plasma iperimmune e lo scontro tra Burioni e il primario di Mantova. Le Iene News il 02 maggio 2020. All’ospedale di Mantova si lavora a una possibile terapia per il coronavirus usando il plasma dei pazienti già guariti dal COVID-19. In un video sul suo sito il professor Burioni parla dei pro e dei contro di questa cura, ma il primario di pneumologia del Carlo Poma di Mantova lo ha attaccato su Facebook: ecco qual è l’oggetto della contesa. Il plasma dei guariti dal coronavirus può curare i malati di COVID-19? E’ la teoria su cui stanno lavorando al Carlo Poma di Mantova e al policlinico San Matteo di Pavia. I due ospedali lombardi hanno concluso da pochi giorni la sperimentazione e “i risultati visti nei casi singoli sono stati sorprendenti”, dice il responsabile dell'Immunoematologia e Medicina trasfusionale del Poma. Intorno a questa possibile cura per il coronavirus si è scatenata una lotta sui social tra Roberto Burioni e il primario di pneumologia dell’ospedale di Mantova, il dottor Giuseppe De Donno. Ma andiamo con ordine: cos’è la terapia in discussione? Secondo molti ricercatori una possibile cura per i pazienti affetti da una forma severa di COVID-19 sarebbe il trattamento con “plasma iperimmune”, cioè il plasma delle persone guarite dal coronavirus che è ricco di anticorpi contro la malattia. Questi anticorpi, iniettati nel sangue dei malati, aiuterebbero il corpo a combattere il virus. Non esiste ancora certezza assoluta che questa cura possa essere efficace, ma gli ospedali di Pavia e Mantova hanno appena concluso una sperimentazione che avrebbe portato a esiti molto soddisfacenti: "I risultati visti nei casi singoli sono stati sorprendenti”, dice Massimo Franchini, responsabile dell'Immunoematologia e Medicina trasfusionale del Poma di Mantova. “Ora con i colleghi di Pavia stiamo riesaminando tutti i casi, valutando la risposta clinica e strumentale, per trarre delle conclusioni generali su questa che è una terapia specifica contro COVID-19". Una possibile terapia di cui si sta parlando molto in rete, e che ha dato adito anche una bufala secondo cui si rischierebbe di contrarre altre malattie: “Il plasma prodotto in questo modo è sicuro e la possibilità che trasmetta malattie infettive è pari a zero”, specifica Franchini. Che poi aggiunge: "Si tratta di una terapia di emergenza, ma noi non abbiamo realizzato un protocollo d'emergenza: si tratta di un lavoro rigoroso che segue le indicazioni del Centro nazionale sangue. Il risultato è una terapia specifica e mirata, all'insegna della massima sicurezza". In attesa di un vaccino sembra che i risultati ottenuti finora siano molto importanti. Perché allora s’è scatenata una polemica con Roberto Burioni? Il noto virologo il 29 aprile ha pubblicato un video sul suo blog MedicalFacts, in cui ha commentato la terapia col plasma. Tra le varie cose che ha detto Burioni afferma che “è qualcosa di serio e già utilizzato”. Insomma, il professore conferma che non stiamo parlando di una qualche strana terapia. Però poi aggiunge che “non è nulla di nuovo”, perché in passato anche altre malattie sono state trattate in modo simile. Inoltre, racconta Burioni, già in Cina si è sperimentata questa terapia. “Una prospettiva interessante, ma d’emergenza. Non può essere utilizzata ad ampio spettro”, dice. Ricordando poi tutte le necessarie precauzioni e protocolli da rispettare. E poi aggiunge: “(Questa cura) diventa interessantissima nel momento in cui riusciremo a stabilire con certezza che utilizzare i sieri dei guariti fa bene, perché avremo aperta una porta eccezionale per una terapia modernissima: un siero artificiale” prodotto in laboratorio. Parole insomma tutto sommato positive verso gli studi e le sperimentazioni sulle cure con il plasma, che però a qualcuno non sono andate giù. Parliamo del dottor Giuseppe De Donno, primario di pneumologia del Carlo Poma di Mantova. Il medico infatti ha attaccato frontalmente Burioni su Facebook: “Il signor scienziato, quello che nonostante avesse detto che il coronavirus non sarebbe mai arrivato in Italia, si è accorto in ritardo del plasma iperimmune”, scrive in un post. “Forse il prof non sa cosa è il test di neutralizzazione. Forse non conosce le metodiche di controllo del plasma. Visto che noi abbiamo il supporto di AVIS glielo perdono. Io piccolo pneumologo di periferia. Io che non sono mai stato invitato da Fazio o da Vespa. Ora, ci andrà lui a parlare di plasma iperimmune. Ed io e Franchini alzeremo le spalle, perché.... importante è salvare vite! Buona vita, quindi, prof Burioni. Le abbiamo dato modo di discutere un altro po’. I miei pazienti ringraziano”. E poi una postilla, che sembra suonare come un’accusa: “PS: vedo che si sta già arrovellando a come fare per trasformare una donazione democratica e gratuita in una ‘cosa’ sintetizzata da una casa farmaceutica. Non siamo mammalucchi!”, conclude. Non sappiamo a cosa De Donno intendesse alludere: quello che sappiamo per certo è che se il plasma iperimmune sarà confermato come terapia valida, ci sarebbe una nuova e formidabile arma nella lotta contro il coronavirus.

“La plasmaterapia funziona. Pronto alla galera pur di salvare un paziente”. Il Dubbio il 5 maggio 2020. Il professor Giuseppe De Donno dell’ospedale di Mantova: “Abbiamo trattato 48 pazienti e non abbiamo avuto decessi”. “Se dovessi scegliere tra salvare una vita ed andare in carcere non ho dubbio in merito. Anche se non dovessi avere l’autorizzazione del comitato etico per me la vita e’ sacra. Sono un cattolico praticante e la vita è l’obiettivo della mia professione”. Lo ha detto il primario di pneumologia presso l’ospedale Carlo Poma di Mantova, Giuseppe De Donno, a Tv2000 in collegamento con il programma "Il mio medico" in merito alla plasmaterapia da lui inventata per salvare la vita di altri pazienti gravi affetti da coronavirus. “Tra pochi giorni- ha annunciato De Donno a Tv2000- pubblicheremo la nostra produzione scientifica sulla plasmaterapia. Nei 48 pazienti arruolati nel nostro studio non abbiamo avuto alcun decesso anzi sono tutti guariti e ora sono a casa. Chiedo ai nostri legislatori che una volta pubblicato il lavoro ci diano la possibilità di usare il plasma iperimmune come si usano altri farmaci perchè abbiamo in mano un’arma che è l’unica in questo momento che agisce contro il coronavirus”.

“La plasmaterapia - ha proseguito -  è un atto democratico che viene dai pazienti e torna ai pazienti. I pazienti guariti da coronavirus donano il loro plasma ricco di anticorpi che serve per guarire altre persone. Ogni donatore riesce a far guarire due pazienti riceventi”. “L’intuizione della plasmaterapia- ha rivelato De Donno a Tv2000- nasce quando io e il mio infettivolgo il prof. Casari ci siamo trovati una notte a gestire il pronto soccorso con i colleghi che erano disperati perchè erano arrivati 110 pazienti. Anche la nostra direttrice sanitaria, anche lei sull’orlo della disperazione, ci aveva chiamati per chiederci se qualcuno dei nostri medici poteva andare ad aiutare i medici del pronto soccorso. Ci siamo andati noi come gli ultimi degli specializzandi con grande umiltà. Quella notte abbiamo capito che dovevamo inventarci un’arma che ci aiutasse a salvare i pazienti”.

La polemica con Roberto Burioni. Nei giorni scorsi il professore De Donno aveva polemizzato con Roberto Burioni che aveva minimizzato la plasmaterapia. : “Siamo riusciti a realizzare questa sperimentazione che è molto seria – dichiara De Donno – anche se qualcuno ha voluto farla passare per una cosa ciarlatanesca”. Burioni  aveva commentato la terapia di recente ed il suo approccio allo studio di De Donno non è stato in realtà negativo. Ha parlato di un “qualcosa di serio e già utilizzato”. Certo, dal suo punto di vista resta una soluzione “d’emergenza e che non può essere utilizzata ad ampio spettro” ma De Donno non l’ha comunque presa bene: “Lui va in tv a parlare, noi lavoriamo 18 ore al giorno al fianco dei nostri pazienti”.

La terapia del plasma nel mondo. De Donno contattato da Onu e Usa. Affari Italiani Lunedì, 4 maggio 2020. E' il caso lanciato da Affari degli ospedali di Mantova e Pavia. Come far mangiare la frutta ai bambini? I successi dell’ospedale Carlo Poma con la terapia del plasma iperimmune per i malati di covid approdano oltre Atlantico e arrivano alle Nazioni Unite e tra i più stretti collaboratori del Governo Usa. Il caso è quello emerso alla ribalta della cronaca dopo questo articolo di Affaritaliani.it di sabato scorso.  Tutto accade ieri a metà pomeriggio quando il primario della Struttura di Pneumologia del Poma Giuseppe De Donno riceve una telefonata da un alto rappresentante dell’Onu, come si legge su mantovauno.it. “Voleva complimentarsi con il nostro ospedale – spiega De Donno – per la sperimentazione del plasma iperimmune su cui c’è molta attenzione da parte della comunità scientifica internazionale. Mi ha detto che sono molto interessati a conoscere i risultati del nostro studio”. Passa solo mezz’ora e a De Donno arriva una seconda telefonata: questa volta è un consigliere del sottosegretario alla salute. Anche lui si complimenta con il medico mantovano, gli spiega come pure negli Stati Uniti si guardi con molto interesse alla terapia del plasma iperimmune e, come era accaduto per l’alto funzionario Onu, anche lui gli dice che c’è molta attesa per i risultati della sperimentazione conclusa dall’ospedale mantovano insieme a quello di Pavia. A dimostrazione dell’interesse degli Usa verso la terapia del plasma ci sono le decine di sperimentazioni avviate nell’ultimo mese. Addirittura si sta percorrendo la via del plasma anche come profilassi per le persone più esposte al virus, come i sanitari: è al via una sperimentazione su infermieri e medici a cui sarà infuso preventivamente il plasma iperimmune, per aiutare le loro difese nel caso in cui venissero infettati. L’infusione dovrebbe  avere un’efficacia di qualche settimana ma ovviamente, trattandosi di plasma. potrebbe essere ripetuta. E intanto proprio domani De Donno sarà protagonista di una iniziativa a stelle e strisce. Interverrà infatti a un evento promosso da NYCanta (Il Festival della Musica Italiana di New York) e l’Associazione Culturale Italiani di New York, in collaborazione con la Nazionale Italiana Cantanti. Si tratta di un pomeriggio, che prenderà il via alle 15,30, tra parole e musica con tanti big della musica italiana tra cui Fausto Leali, Al Bano, Enrico Ruggeri, Riccardo Fogli, Stefano Fresi, Paolo Vallesi, Massimo di Cataldo. L’intento è quello di promuovere una raccolta fondi a sostegno della creazione di un centro di ricerca etico sul plasma all’ospedale Carlo Poma di Mantova. Un centro, indipendente dalle case farmaceutiche, che in futuro potrebbe poi occuparsi di altre ricerche.

Il professor De Donno: “Quando mi ha chiamato l’Onu ho pianto. In Italia non mi cerca nessuno”. De Donno, il prof della plasmaterapia: “Mi ha chiamato l’Onu, ho pianto”. (Selvaggia Lucarelli – tpi.it 5 maggio 2020) – Il direttore della Pneumologia dell’ospedale Poma di Mantova, Giuseppe De Donno, che sta sperimentando, sembra con risultati incoraggianti, la terapia sui pazienti Covid col plasma dei pazienti guariti, oggi ha rilasciato un’intervista a Radio Bruno in cui è tornato sulle polemiche dei giorni scorsi. In particolare, ha commentato le parole di Roberto Burioni che ospite di Che tempo che fa aveva affermato: “La plasmaterapia è una tecnica già in uso, si vedrà nelle prossime settimane se funziona. Ha dei limiti, perché serve molto plasma di persone guarite e ce ne sono poche. Questi plasmi non sono la soluzione ideale, sono costosissimi e difficilissimi da preparare, si basano sulla disponibilità di persone guarite che non sono tantissime, è un approccio di emergenza, se si dimostra che anticorpi funzionano possiamo riprodurli artificialmente in laboratorio”. De Donno, stamattina in radio si è sfogato con una certa amarezza: “La plasmaterapia è l’unica terapia specifica per il Coronavirus, si destina il plasma solo a pazienti che non abbiano storie di insufficienza respiratoria per più di 10 giorni. Oggi noi a Mantova abbiamo il maggior numero di pazienti nell’ambito di questo protocollo e nella nostra sperimentazione non abbiamo avuto alcun decesso tra 48 pazienti con polmoniti”. E poi: “Leggo corbellerie immani sulla plasmaterapia, oggi ho letto di chissà quali indagini che vanno fatte e di una terapia costosa, noi non abbiamo avuto reazioni avverse e gli indici di infiammazione si sono ridotti, per cui oggi quei 48 pazienti sono tutti a casa con le loro famiglie. Riguardo i costi, tenendo conto di tutti gli elementi, dalla sacca al personale alla macchina e ai reagenti, ogni sacca da 600 ml costa 164 euro. Per un paziente la usiamo da 300 ml, vuol dire che ne costa 82 a terapia, più o meno quanto gli integratori per la palestra. Se sono tanti per salvare una vita non ho capito nulla della medicina”. Il professor De Donno ha poi commentato l’interesse internazionale su questa sperimentazione: “Mi stanno chiamando tutti, ieri il console del Messico, l’Onu, il consigliere del ministro della Salute americana, abbiamo avuto proposte di lavoro nei centri di ricerca stranieri. Ogni volta che mi chiama un istituto straniero e non mi chiama mai il nostro Istituto superiore di sanità o non sento il nostro ministro della Salute sono grandi dolori per un ricercatore come me, che fa il medico ospedaliero e che si è speso, che è stato in prima fila nell’emergenza Covid lavorando di notte in pronto soccorso”. De Donno non nasconde l’amarezza: “Quando mi ha telefonato l’alto funzionario dell’Onu ho pianto dalla commozione, finita la telefonata, però, ho provato un grande senso di amarezza perché questa sperimentazione è una chance che stiamo dando al nostro paese e lo dico a prescindere dal risultato finale, perché magari questa sperimentazione dirà che mi sto sbagliando e nel caso lo ammetterò, ma non credo. Però abbiamo in mano una sperimentazione terapeutica che può cambiare la sorte di questa epidemia e dei pazienti, l’amarezza resta”. Infine, commenta le dichiarazioni di Roberto Burioni sui costi alti e le difficoltà di reperimento del plasma: “Questa per me è la cosa più grave e mi ha fatto più male perché mettere in dubbio la rete trasfusionale italiana, il fatto che il plasma possa essere insicuro e trasmettere malattie mette una grossa ombra rispetto al nostro sistema trasfusionale che è uno dei più sicuri del mondo. È inaccettabile che il presidente di Avis nazionale non sia intervenuto su questo ma sia intervenuto mettendo in dubbio la nostra sperimentazione che è stata fatta con grande serietà e con criteri di arruolamento specifici e stringenti pubblicati per dirimere ogni dubbio”.

Laura Cuppini per il “Corriere della Sera” il 7 maggio 2020. Pavia, Mantova, Lodi, Novara, Padova. In arrivo anche Pisa e un laboratorio in Puglia. La plasmaterapia sta scatenando entusiasmi e polemiche. Ma a vincere è la prudenza, la necessità di avere dati scientifici inconfutabili. «L' uso del plasma da convalescenti come terapia per Covid-19 è oggetto di studio in diversi Paesi del mondo, Italia compresa. Il trattamento non è consolidato perché non sono ancora disponibili evidenze robuste sulla sua efficacia e sicurezza» sintetizza il ministero della Salute. «Perché il governo non chiede nulla e l' Istituto superiore di sanità se ne disinteressa?» chiede polemico il leader della Lega Matteo Salvini in diretta su Facebook. Per chiarirsi le idee bisogna fare un passo indietro. Al Policlinico San Matteo di Pavia e all' Ospedale di Mantova il plasma immune è stato infuso in 52 pazienti con esiti definiti «confortanti». Si attende un bilancio di questa prima fase di sperimentazione. Un progetto internazionale che in Lombardia si avvale anche della collaborazione di Avis per il reclutamento dei donatori. Negli Stati Uniti sul plasma dei guariti scommettono in molti, a partire dalla Food and Drug Administration , l'ente di regolamentazione dei farmaci, che ha messo un annuncio in grande evidenza sul proprio sito: «Donate Covid-19 plasma».

Come funziona la tecnica? Il plasma (parte liquida del sangue) prelevato da persone guarite viene purificato e poi somministrato a pazienti con Covid. L' obiettivo è trasferire gli anticorpi specifici a chi ha l' infezione in atto per sostenerne la risposta immunitaria. Prima di questo passaggio sono necessari dei test di laboratorio per quantificare i livelli di anticorpi in grado di combattere efficacemente il coronavirus. Non solo: le procedure sono volte a garantire la massima sicurezza per il ricevente. Gli anticorpi sono proteine prodotte dai linfociti B: quelli cosiddetti «neutralizzanti» hanno il potere di legarsi all' agente patogeno, rendendolo inoffensivo. Ma esistono anche altri tipi di anticorpi, che possono essere inutili o addirittura dannosi per l' organismo. «Quella del plasma è una risorsa terapeutica nota da oltre 50 anni - ha spiegato Pierluigi Viale, direttore dell' Unità di Malattie infettive al Policlinico Sant' Orsola di Bologna -, ma sarebbe necessario mettere in atto uno studio prospettico randomizzato e soprattutto verificarne l' efficacia in fase più precoce di malattia e in assenza di co-trattamenti». Non solo. Isolare anticorpi dai guariti non è semplice né economico, al contrario di quel che si potrebbe pensare. «La terapia al plasma è interessante e importante, un approccio molto sofisticato. Bisogna saperlo fare e avere grandi tecnologie - ha precisato Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza -. Consente di traferire gli anticorpi naturali da un soggetto a un altro: è una cosa difficile, costosa e complessa. Se questi anticorpi naturali funzionano, la sfida è produrli artificialmente e in larga scala, altrimenti si potrebbero proteggere e curare solo poche persone».

Simone Pierini per leggo.it il 7 maggio 2020. Mentre tutti cercavano Giuseppe De Donno, primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova, ormai paladino del web per la terapia del plasma iperimmune, è passata in secondo piano la precisazione della struttura ospedaliera dove opera: proprio l’ASST di Mantova. Su Leggo.it proviamo a fare chiarezza. «Anche in questa azienda l’effetto letale del virus si è manifestato, avviato uno studio specifico per valutare questa casistica». Una nota apparsa sul sito ufficiale dell’ospedale il 5 maggio che ha sentito la necessità di puntualizzare e calmare le acque di un fenomeno che ha scatenato la “guerra” tra complottisti, virologi e politici (tra cui Matteo Salvini che ha usato tutti i suoi profili puntando il dito contro il governo colpevole secondo lui di voler nascondere la terapia), aprendo un dibattito che aveva assunto toni troppo aspri. Tra l'altro, sempre il 5 maggio, anche il ministero della Salute aveva pubblicato sul sito internet le informazioni sulla terapia al plasma. La prima considerazione è indicativa: la sperimentazione non è partita dal Poma di Mantova e, di conseguenza, non si tratta di una scoperta del dottor De Donno attorno al quale ieri si è creato un giallo. Improvvisamente salito alla ribalta per il suo scontro a distanza con Roberto Burioni, le sue lamentele per non essere ascoltato, da un giorno all’altro i suoi profili social sono “scomparsi”. Si è immediatamente gridato al complotto: «Lo hanno oscurato», hanno gridato in molti su Facebook e Twitter. A quanto pare sembra che sia andata diversamente e che lo pneoumologo si sia chiuso in una sorta di “silenzio stampa”. «L’ASST di Mantova - si legge nella nota apparsa sul sito - ha aderito al progetto per l’utilizzo del plasma iperimmune in collaborazione con il Policlinico San Matteo di Pavia. La collaborazione è proseguita fruttuosamente raggiungendo gli obiettivi previsti dalla sperimentazione». A lanciare la sperimentazione è in effetto stato il laboratorio di virologia molecolare del Policlinico San Matteo di Pavia diretto da Fausto Baldanti che, durante Che tempo che fa, ha parlato di «risultati incoraggianti» specificando però come si trattasse di «un trial che è in fase di completamento», ma «che questa non sia la soluzione del problema» che «arriverà con il vaccino, con farmaci specifici oppure con la sintesi di questi stessi anticorpi in maniera ingegnerizzata, cose che richiedono tempo». Tornando alla precisazione dell’ASST di Mantova, si legge: «Il principal investigator Cesare Perotti, direttore del Servizio Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del San Matteo, sta in queste ore concludendo il report definitivo da sottoporre alla comunità scientifica. Preso atto che i primi dati sono risultati molto incoraggianti si ritiene opportuno, seguendo il metodo scientifico, rimandare al momento della pubblicazione l’esame accurato dei risultati». Poi viene fatta chiarezza sulla richiesta di informazioni dei Nas, letta dal mondo del web come un tentativo di frenare la sperimentazione al punto che lo stesso De Nonno aveva dichiarato: «non mi farò scoraggiare». «Riguardo ad altri temi emersi negli ultimi giorni - ha scritto il Poma di Mantova - si precisa che all’ASST di Mantova sono state semplicemente richieste informazioni generiche sulla natura della sperimentazione, proprio a seguito delle notizie riportate dalla stampa. Non c’è stato però alcun accesso alla struttura da parte dei Nas. La raccolta del plasma prosegue, grazie anche al prezioso contributo di Avis per il reclutamento dei donatori e l’ASST si augura di potere presto aderire ad altri studi in corso di programmazione». Infine il passaggio chiave, sulla necessità di non mettere in contrapposizione l’utilizzo del plasma iperimmune con la ricerca di un vaccino, e un chiarimento sui decessi: «La terapia con il plasma non è una cura miracolosa, ma uno strumento che insieme ad altri potrà consentirci di affrontare nel modo migliore questa epidemia. Mettere in contrapposizione vaccino, test sierologici o virologici, plasma, terapie farmacologiche o terapie di supporto è insensato, poiché dobbiamo disporre di tutte le armi possibili per fare fronte alla minaccia devastante rappresentata dal coronavirus. Per quanto riguarda la mortalità da Covid, si precisa che anche in questa azienda e nella provincia di Mantova l’effetto letale del virus si è manifestato. L’ASST di Mantova ha avviato uno studio specifico per valutare questa casistica».

Pamela, incinta, curata con il plasma. E arrivano i Nas in ospedale. Lo pneumologo De Donno: non mi intimidite. Redazione de Il Secolo d'Italia domenica 3 maggio 2020. Coronavirus, una donna incinta, Pamela, sta bene dopo la cura col plasma iperimmune all’ospedale di Mantova. Ma alle porte dell’ospedale hanno bussato i Nas:  chiedono informazioni sulla cura. La terapia sperimentale è “somministrata fuori protocollo in ambito compassionevole”, precisa il direttore generale dell’Asst di Mantova, Raffaello Stradoni, sulla "Gazzetta di Mantova", che riporta la notizia della richiesta del Nas. La terapia con il plasma iperimmune, utilizzato in pazienti con Covid-19 in condizioni critiche, è diventata molto popolare sui social, suscitando diverse polemiche fra gli addetti ai lavori sulla sua efficacia. “Il plasma iperimmune ci ha permesso di migliorare ancora di più i nostri risultati. È democratico. Del popolo. Per il popolo. Nessun intermediario. Nessun interesse. Solo tanto studio e dedizione. Soprattutto è sicuro. Nessun evento avverso. Nessun effetto collaterale”, rivendica su Facebook Giuseppe De Donno, direttore della Pneumologia del Poma, dove è stata condotta la sperimentazione. Uno studio alla ricerca di una cura per Covid-19 è portato avanti congiuntamente al Policlinico San Matteo di Pavia da marzo. Sul caso della donna incinta trattata con il plasma iperimmune è “tutto in regola” per De Donno, che scrive: “Ho letto su qualche quotidiano che la mia oramai figlioccia, non avrebbe avuto i requisiti per ricevere il plasma. Beh, nei criteri di esclusione non è prevista la gravidanza – sottolinea – quindi amici, tutto ok. Lo dico perché un protocollo va rispettato, ma certo, quando fosse possibile salvare vite, concorderei con la deroga per uso compassionevole”. Lo pneumologo sta utilizzando il plasma su un altro giovane paziente, sottoposto alla seconda infusione. “Il nostro giovane amico, come vi avevo anticipato, sta sorprendentemente bene. Così anche Pamela”, la donna incinta. “Se qualcuno crede di scoraggiarmi – scriveva De Donno sempre su Facebook qualche giorno fa, riferendosi appunto al giovane paziente – non ci riuscirà. Oggi, dopo l’infusione di plasma iperimmune, ormai amico mio, stai molto meglio. La febbre quasi scomparsa. Migliorata l’ossigenazione. Meno ore di ventilazione meccanica. Tutto come da protocollo. Non sempre riusciamo a salvare tutti. Ma il più delle volte sì. E se qualcuno volesse solo provare ad intimidirmi, dovrà risponderne alla sua coscienza. La mia è limpidissima”.

Plasma iperimmune, Giuseppe De Donno costretto al silenzio dai vertici dell’ospedale. Ecco cos’è successo. Manuel Montero il 7 Maggio 2020 su frontedelblog.it. Lo pneumolgo Giuseppe De Donno, che ha portato avanti la sperimentazione sul plasma iperimmune contro il coronavirus a Mantova, ha sospeso i suoi profili social per andare il silenzio stampa. L’Asst: “Si ribadisce che nessun professionista è autorizzato a diffondere a terzi i dati aziendali e/o dati riguardanti le sperimentazioni”. Ma non tutto è chiaro…Cominciano ad essere più chiari i contorni del giallo sulla sparizione del profilo e della pagina Facebook del dottor Giuseppe De Donno, lo pneumologo che per l’ospedale di Mantova ha portato avanti la sperimentazione sul plasma iperimmune contro il coronavirus. Il medico li avrebbe sospesi il giorno dopo la puntata di Porta a Porta in cui era ospite per mettersi in silenzio stampa. Racconta La Voce di Mantova: «A dare l’innesco è stata l’interruzione dell’intervento del dottor Giuseppe De Donno, titolare della pneumologia del “Poma”, cui Bruno Vespa ha tolto la parola durante la puntata di “Porta a porta” di martedì, durante la pausa pubblicitaria, senza più restituirgliela nel corso della puntata». Ecco cos’è accaduto:

A quanto spiegava il medico prima del black out, la sperimentazione del plasma iperimmune a Mantova – condotta unitamente al San Matteo di Pavia – aveva coinvolto 48 pazienti: e nessuno dei 48 pazienti era morto. Tanto che identici programmi sono iniziati altrove, nel mondo, ma nella stessa Lombardia, da Lodi a Crema, come abbiamo avuto modo di raccontarvi. Tra i guariti (con miglioramenti che cominciavano quasi subito, dalle 2 alle 48 ore dall’infusione) c’era anche Pamela Vincenzi, 28enne incinta di sei mesi: unico caso al mondo. Ma un caso che aveva pure indotto i Nas a chiedere chiarimenti all’Asst, non essendo prevista l’infusione in una donna gravida. E c’è anche il caso di un uomo dato per spacciato e salvato a Mantova da De Donno dopo l’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma cos’è successo poi? Il quotidiano mantovano riporta una nota che l’Unità di crisi avrebbe trasmesso alla direzione dell’ospedale di Mantova: «La struttura comunicazione è l’unico canale comunicativo ufficiale dell’Asst. Si ribadisce che nessun professionista è autorizzato a diffondere a terzi i dati aziendali e/o dati riguardanti le sperimentazioni per le quali i risultati non siano ancora stati pubblicati senza l’autorizzazione rilasciata dalla Direzione attraverso coinvolgimento della dottoressa Elena Miglioli come da regolamento vigente». Ma il bollettino n. 52 del team dell’Unità di crisi avverte anche che «l’articolo relativo alla sperimentazione con il plasma convalescente è stato sottoposto al “New England Journal”, siamo in attesa della risposta per la definitiva validazione dei dati che dovrebbero giungere entro la prossima settimana». Il New England è forse la più importante pubblicazione medico scientifica del mondo: evidentemente, per aver deciso di sottoporle la sperimentazione, ci sono stati a Mantova significativi risultati. E forse si è deciso di usare la linea della prudenza. De Donno paventava presunte pressioni sul suo lavoro e sui social si erano diffuse voci, dicono, complottiste. Eppure stiamo parlando di una tecnica collaudatissima che ha cento anni, non di pozioni miracolose, non di bizzarre terapie: semplicemente l’articolazione del protocollo di De Donno starebbe dando risultati eccelsi. De Donno sostiene che abbia funzionato anche dove ha fallito l’ormai noto farmaco contro l’artrite reumatoide tocilizumab. Ma sul sito dell’Asst di Mantova appare ora un messaggio che prova a far chiarezza, ma che si conclude in maniera sibillina: L’ASST di Mantova ha aderito al progetto per l’utilizzo del plasma iperimmune in collaborazione con il Policlinico San Matteo di Pavia. La collaborazione è proseguita fruttuosamente raggiungendo gli obiettivi previsti dalla sperimentazione. Il principal investigator Cesare Perotti, direttore del Servizio Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del San Matteo, sta in queste ore concludendo il report definitivo da sottoporre alla comunità scientifica. Preso atto che i primi dati sono risultati molto incoraggianti si ritiene opportuno, seguendo il metodo scientifico, rimandare al momento della pubblicazione l’esame accurato dei risultati. Riguardo ad altri temi emersi negli ultimi giorni, si precisa che all’ASST di Mantova sono state semplicemente richieste informazioni generiche sulla natura della sperimentazione, proprio a seguito delle notizie riportate dalla stampa. Non c’è stato però alcun accesso alla struttura da parte dei Nas. La raccolta del plasma prosegue, grazie anche al prezioso contributo di Avis per il reclutamento dei donatori e l’ASST si augura di potere presto aderire ad altri studi in corso di programmazione. La terapia con il plasma non è una cura miracolosa, ma uno strumento che insieme ad altri potrà consentirci di affrontare nel modo migliore questa epidemia. Mettere in contrapposizione vaccino, test sierologici o virologici, plasma, terapie farmacologiche o terapie di supporto è insensato, poiché dobbiamo disporre di tutte le armi possibili per fare fronte alla minaccia devastante rappresentata dal coronavirus. Per quanto riguarda la mortalità da Covid, si precisa che anche in questa azienda e nella provincia di Mantova l’effetto letale del virus si è manifestato. L’ASST di Mantova ha avviato uno studio specifico per valutare questa casistica. 

Che cosa significa che anche a Mantova ci sono stati dei morti? Nessuno l’aveva messo in discussione, tantomeno De Donno. Lo pneumologo aveva detto che dei 48 pazienti sottoposti a plasma iperimmune nessuno è morto; non aveva detto che tutti i pazienti di Mantova erano stati sottoposti a plasma iperimmune. Aveva anzi chiarito come il plasma potesse essere infuso solo a determinate condizioni. A cosa serve dunque la nota finale? Perché uno potrebbe intendere che ci siano state vittime anche tra quelle sottoposte a plasma. E dunque che ciò che ha detto il medico non corrispondesse alla realtà. E questo non va bene: per la sua immagine e per quello dell’ospedale. Fatelo parlare, lasciate che sia lui a chiarire eventuali equivoci e che la gente sia informata direttamente dalla fonte di chi sta a contatto coi pazienti 18 ore al giorno. Il silenzio stampa, di fronte a decine di migliaia di morti, non è una bella soluzione. Soprattutto in Lombardia, dove le bare furono portate via con l’esercito due settimane dopo aver sentito i virologi dire in tv che questa era solo una «forte influenza» e che in Italia, per carità, non c’era «alcun pericolo». Persone che, ancora, senza vergogna, discettano di ridicole certezze.

Dal plasma iperimmune al giallo su Facebook: scomparso il profilo di De Donno. Le Iene News il 7 maggio 2020. È il simbolo della possibile terapia che potrebbe curare il coronavirus con il plasma iperimmune. Proprio martedì sera a Le Iene Giuseppe De Donno, primario dell’ospedale di Mantova, ha spiegato come funziona questa possibile terapia. Dopo qualche ora dalla messa in onda del servizio di Alessandro Politi e Marco Fubini i profili Facebook del professore risultano irraggiungibili come se qualcuno li avesse disattivati. Chiusi i profili Facebook di Giuseppe De Donno? Il primario di pneumologia dell’ospedale Poma di Mantova è diventato il simbolo per una possibile cura del coronavirus. Anziché ricorrere al vaccino atteso non prima di un anno, il professore ha avviato la sperimentazione del “plasma iperimmune”, cioè il plasma delle persone guarite dal coronavirus che è ricco di anticorpi contro la malattia. Questi anticorpi, iniettati nel sangue dei malati, aiuterebbero il corpo a combattere il virus. Nel servizio di Alessandro Politi e Marco Fubini che vi riproponiamo qui sopra abbiamo cercato di capire come funziona questa possibile terapia. Proprio dopo la messa in onda su Italia 1 del nostro servizio, De Donno è scomparso dai social. I suoi profili sono irraggiungibili, come se fossero stati chiusi. Cos’è successo? Proviamo a ricostruire questa lunga settimana per tentare di dare una risposta. Proprio Facebook per lui si è trasformato in un campo di battaglia già da sabato scorso. Su iene.it vi abbiamo parlato dello scontro tra De Donno e Roberto Burioni (qui l’articolo). “È qualcosa di serio e già utilizzato”, ha detto il virologo riferendosi alla sperimentazione in corso di De Donno. Parole che a quest’ultimo non sono andate giù: “Il signor scienziato si è accorto in ritardo del plasma iperimmune”, ha replicato il medico. E poco dopo ha rimarcato: “Lui sta in tv, noi lavoriamo”. Passano le ore, De Donno rimane al centro della polemica. “Salvo vite con il plasma iperimmune e da Roma mi mandano i carabinieri”, titola La Verità di martedì riferendosi a una sua dichiarazione. Un titolo che dopo qualche ora viene ridimensionato dallo stesso professore che parla di una “chiamata informativa” da parte dei carabinieri. È possibile che i Nas abbiano voluto verificare che tutti i protocolli siano stati osservati. Come ad esempio se il numero totale delle persone arruolate fosse quello previsto dal protocollo. “Con queste trasfusioni sono in via di guarigione 48 pazienti e ad altri 10 è stato chiesto di fare altrettanto”, dichiara De Donno nella giornata di martedì. Nella puntata di martedì a Le Iene vi abbiamo mostrato questo studio, e il primario ci ha spiegato “che è l’unica terapia mirata in questo momento”. Dopo poche ore la sua scomparsa dai social. I suoi due profili Facebook risultano ancora irraggiungibili. È stato fatto dal social network o forse è una decisione presa dallo stesso De Donno? Qualcuno parla di “silenzio stampa” e quindi di un gesto volontario. E se così fosse, perché è stato fatto?

I poteri forti "censurano" il profilo del dottor De Donno, la bufala cavalcata da Salvini. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Quando si tratta di cavalcare bufale e tesi complottiste, in Italia la Lega e Matteo Salvini sono sempre in prima fila. Non contenti di aver contribuito a diffondere, con tanto di interrogazione parlamentare, il video del Tg Leonardo del 2015 sul Coronavirus, un filmato scientificamente corretto ma strumentalizzato per far passare il messaggio che il Covid-19 fosse stato realizzato in un laboratorio cinese, ora è il turno del dottore Giuseppe De Donno. Il medico pneumologo dell’ospedale Carlo Poma di Mantova è diventato in queste settimane un volto noto al pubblico televisivo per la sua terapia sperimentale col plasma per curare i pazienti affetti da Coronavirus. Ma il medico è anche al centro di diverse teorie complottiste, in parte rilanciate dallo stesso De Donno, tra cui la finta irruzione dei Nas nell’ospedale (in realtà una semplice telefonata per il caso di una donna incinta curata con la terapia) o il complotto di governo, poteri forti e Bill Gates contro la sua terapia per facilitare l’ascesa del vaccino finanziato dal miliardario americano. L’ultima bomba sul medico riguarda il presunto oscuramento della sua pagina personale di Facebook, diventata oggetto di teorie complottiste sui social e cavalcata da Lega e Salvini. La realtà? È stato lo stesso medico a decidere di disattivare il suo account, altro che poteri forti. A rivelarlo è stato un suo “portavoce”, come viene definito da alcuni utenti il profilo di Leonardo M. che nel gruppo Facebook “Io sto con il dott. De Donno” scrive chiaramente che “la pagina l’ha chiusa lui stesso, mi ha detto solo che per ora non può dire niente”. Di silenzio stampa autoimposto parla invece su Twitter l’utente Bonnie379, che aveva provato ad intervistare De Donno: “Sono finalmente riuscita a contattare il Dott De Donno. È in silenzio stampa, quindi annulla l’intervista di domani sera”, riferendo poi di “fonti sicure” che rivelano come il dottore “è molto provato, ha cancellato lui stesso la pagina e per ora non può rilasciare dichiarazioni”.

Quarantena, autopsie e plasma iperimmune: tre domande al ministro della Salute. Le Iene News il 20 maggio 2020. Quarantena, autopsie sulle vittime del coronavirus e plasma iperimmune: Alessandro Politi ci racconta alcune cose che non siamo riusciti a capire nelle decisioni del ministero della Salute in questa crisi. Dopo aver parlato con il professor Giuseppe De Donno della sperimentazione del plasma iperimmune, abbiamo fatto alcune domande al ministro della Salute Roberto Speranza. Perché non avete ancora aggiornato i protocolli per le quarantene? Perché avete sconsigliato di fare le autopsie ai casi conclamati di Covid-19? Perché l’ospedale di Mantova è stato estromesso dalla sperimentazione nazionale del plasma iperimmune? Sono le tre domande che rivolgiamo al ministro della Salute, Roberto Speranza, ora che tutta Italia è entrata nella Fase 2 dell’emergenza coronavirus. Partendo dal primo quesito, Alessandro Politi ci ha raccontato di essere stato positivo per ben 49 giorni e purtroppo non è un caso isolato, nonostante i numeri regionali continuano a consigliare “una quarantena di 14 giorni dalla fine dei sintomi”. Durante l’emergenza sanitaria il ministro ha firmato un decreto in cui scrive che “per l’intero periodo della fase emergenziale non si dovrebbe procedere all’esecuzione di autopsie o riscontri diagnostici nei casi conclamati di Covid-19”. C’è chi ha preferito non seguire queste indicazioni come il professore Paolo Dei Tos, dirigente di anatomia patologica all’Università di Padova: “Una scelta che non aveva senso, noi oggi sappiamo che il virus rimane all’interno dei liquidi biologici per alcuni giorni. Abbiamo compreso che non si tratta semplicemente di una banale polmonite. Probabilmente il ministero ha consigliato di non fare le autopsie per un eccesso di zelo nel non esporre gli operatori a un rischio giudicato da loro non sufficientemente utile”. Il ministero della Salute ha dato il via libera a una sperimentazione sul plasma iperimmune che ha messo a capo l’ospedale di Pisa, nonostante a Mantova ci lavoravano con successo già da due mesi. “Un protocollo preso da esempio da molti stati europei”, dice Giuseppe De Donno, direttore di terapia intensiva al Carlo Poma di Mantova. “Alla fine Speranza con me non si è fatto vivo, nonostante la prima certificazione dello studio sia di Mantova e Pavia”, dice a Le Iene. “Non ci sono motivi scientifici per questo nuovo studio a Pavia, le motivazioni vanno cercate in altro ambito. C’era la volontà di chiudere il plasma in cantina”. Ma nessuno sembra si sia scagliato allo stesso modo contro le sperimentazioni con i farmaci. “In questo paese si usano due pesi e due misure”, sostiene De Donno. Pochi giorni fa l’Emilia-Romagna ha bocciato la plasma-terapia. “Gli esperti in tv creano un effetto negativo sull’opinione pubblica e sarebbe il caso che si assumessero le loro responsabilità, i pazienti guariti così non verranno mai a donare e quelli attualmente malati non potranno ricevere il plasma dai convalescenti”, dice De Donno. “È una cosa gravissima. Abbiamo avuto scienziati che dicevano che per ammalarsi di coronavirus bisognava andare a Wuhan…”. Ora è importante creare le banche del plasma dei guariti che sono in numero maggiore rispetto agli ammalati, ma non sappiamo fino a quando il loro plasma rimane iperimmune. “Dobbiamo essere prontissimi qualora dovesse arrivare una seconda fase, se continuiamo così la Lombardia e il Veneto saranno pronti”. Intanto che il governatore Zaia è partito con la raccolta del plasma due settimane fa, rimangono senza risposta le nostre 3 domande che abbiamo fatto al ministro Speranza. 

Coronavirus, Salvini: “Perché nessuno parla della terapia al plasma?” Marco Alborghetti il 05/05/2020 su Notizie.it. Il leader della Lega Salvini chiede spiegazioni riguardo al presunto silenzio dei media sulla terapia al plasma utilizzata contro il coronavirus. Il leader della Lega Matteo Salvini su Twitter ha parlato della terapia al plasma utilizzata per curare i malati di coronavirus negli Stati Uniti e all’ospedale di Mantova, chiedendo spiegazioni sul silenzio che aleggia intorno alla notizia, nonostante la sua efficacia. Un implicito attacco alle aziende farmaceutiche? Matteo Salvini tuona di volerci vedere chiaro sulla questione della terapia al plasma che negli Usa e all’ospedale di Mantova avrebbe trovato consistenza in termini clinici per la cura del coronavirus, esprimendo con toni polemici la propria opinione a riguardo e attirando non poche polemiche. “Dateci una mano facendo sapere agli italiani quello che molte televisioni nascondono, il fatto che funziona una cura il virus ed è gratis o quasi”. Una terapia che come ricorda lo stesso leader della Lega “è dovuta all’ingegno dei medici, dei ricercatori e dei donatori di plasma”.

Attacco alle aziende farmaceutiche. Il silenzio che si è creato attorno alla notizia ha destato qualche sospetto nell’ex ministro degli Interni: “Perché non sperimentarla a livello nazionale? Perché il silenzio del ministero della Salute, perché il silenzio dell’istituto superiore della sanità?”. “I cittadini – sottolinea con tono sarcastico – a questo punto potrebbero avere il dubbio che siccome il plasma è gratis, siccome non c’è dietro un business di qualche industria farmaceutica, siccome non ci sono appalti e guadagni milionari, allora è meglio occuparsi di altro“.

Cura al plasma, De Donno saluta: mi faccio da parte, per il bene della scienza. Lo hanno costretto? Redazione venerdì 8 maggio su Il Secolo d'Italia. Cura al plasma, il dottore-sponsor Giuseppe De Donno si autocensura. Dopo la sparizione dai social è arrivato il videomessaggio di cinque minuti nel quale il direttore di Pneumologia al Poma di Mantova, il principale paladino della cura al plasma iperimmune per battere il Covid, annuncia che farà un passo indietro. Che non cerca visibilità, che ringrazia le istituzioni e anche i Nas che hanno voluto indagare sui suoi metodi. Dice che non vuole zuffe tra colleghi e che non vuole utilizzare i morti per fare pubblicità. Ringrazia chi lo ha sostenuto e invita i gruppi social in suo sostegno a lanciare solo messaggi di pace e amore.

De Donno si fa da parte, un’imposizione dall’alto?

“Sembra un prigioniero dell’Isis”, ha commentato Selvaggia Lucarelli, facendo intendere che lei propende per l’ipotesi secondo cui a De Donno è stato intimato il silenzio. Troppi interessi in gioco, troppo pericolosa la divaricazione che si era creata tra lo schieramento in favore di De Donno e i suoi detrattori per i quali senza vaccino il virus non è imbattibile. I virologi da talk show lo hanno attaccato, i media lo hanno trascurato fino a quando la pressione dal basso dei social è stata talmente evidente da non poter più ignorare il caso De Donno. Ora lui stesso si fa da parte, ristabilendo equilibri e gerarchie tra poteri e lobby sanitarie che la sua cura “per il popolo” aveva destabilizzato. Ecco cosa ha detto nel suo videomessaggio: “La pressione mediatica è stata tale da non permettermi di operare serenamente. Per questo motivo ho reputato prudente chiuderei miei account social”.

Ha detto poi di voler lanciare un “messaggio di calma e rasserenazione”. “Se ho parlato l’ho fatto per fare informazione ma non come mezzo per azzuffarsi, i miei interventi sui mass media sono stati solo animati da spirito divulgativo su un protocollo che ottiene risultati lusinghieri e incoraggianti”. Un protocollo – ha specificato – che tanti Stati ci invidiano e che ora viene seguito da più centri in Italia.

Lavoriamo tutti per la lotta al virus. “Vi ringrazio per la vicinanza- ha detto poi ai suoi sostenitori – ma non sono disponibile a zuffe mediatiche atteso che tutti noi medici lavoriamo per una causa unica che è la lotta al virus. Non utilizzo i morti per fare pubblicità. Manterrò un profilo basso in attesa che arrivino i risultati sulla sperimentazioni che riguardano l’Italia e il mondo”.

Massimo Finzi per Dagospia l'8 maggio 2020. Un po' di chiarezza a proposito della terapia con plasma iperimmune nella lotta al Covid19. E’ una cura innovativa? No, è stata impiegata per la prima volta su basi scientifiche nella seconda metà del 1800 dal Prof. Paul Ehrlich, uno scienziato ebreo tedesco premio Nobel. In pratica una cura che prevede la somministrazione per via iniettiva di siero prelevato da persone o animali resi immuni da una determinata malattia. Esistono varie forme di sieroterapia: antitossica, antibatterica ecc. Una pratica che in oltre 140 anni ha permesso di affrontare malattie come difterite, tetano, botulino o di neutralizzare il veleno di serpenti, scorpioni ecc. Nel caso del covid19 si tratta di usare il plasma dei soggetti guariti dalla malattia contenente gli anticorpi specifici contro il coronavirus Sars2. Allora tutto risolto? Ci sono alcune criticità.

1) Il prelievo presuppone che ci siano i donatori cioè che ci siano persone che abbiano contratto e superato la malattia.

2) Per una singola infusione sono necessari almeno 2 donatori.

3) La donazione è gratuita ma gli accertamenti di laboratorio, la separazione delle varie frazioni del sangue (plasmaferesi) necessitano di personale altamente specializzato e di apparecchiature costose.

4) I candidati alla donazione non sono numerosi per vari motivi: a) la malattia è molto debilitante. b) la maggior parte dei malati sono molto anziani. c) Non possono donare il sangue i diabetici, gli ipertesi, coloro che assumono cronicamente farmaci ecc.

5) Malgrado gli esami più accurati, l’infusione di emoderivati non è esente dal rischio di trasmissione di malattie infettive specie epatite B/C ( finestra immunologica).

Ovviamente vale sempre la regola: a mali estremi estremi rimedi. Molto promettenti al riguardo sono gli studi condotti in Israele per produrre sinteticamente (clonazione) l’anticorpo specifico verso il covid19 in attesa del vaccino. Quale la differenza tra l’azione dell’anticorpo e quella del vaccino? Sinteticamente: l’anticorpo contrasta la malattia, il vaccino la previene: il primo cura il malato il secondo impedisce al sano di diventare malato.

Il plasma può fermare il Covid-19? La risposta degli esperti. Francesco Boezi su Inside Over l'8 maggio 2020. Il professor Pietro Chiurazzi è un genetista. Si occupa di Dna. E il Dna, in qualche modo, ha a che fare con questa storia del plasma dei guariti dal Covid-19. Vedremo bene perché. Chiurazzi è un professore associato della Università Cattolica, Facoltà Medicina e Chirurgia. All’interno del Policlinico Gemelli, è un dirigente medico dell’Unità operativa complessa di genetica medica. “C’è molta confusione in giro”, esordisce.

Una “confusione” che può però essere “giustificata” per via dello stato di emergenza, che certo non facilita una descrizione chiara del quadro. Chiurazzi ha anche comparato le sequenze del Dna del Sars-Cov2, contribuendo a dimostrare, con buone probabilità, la compatibilità del virus con un’evoluzione naturale. Il Covid-19 nulla dunque avrebbe a che fare con manipolazioni umane da laboratorio. In questo articolo, abbiamo già parlato di quello studio.

L’argomento del giorno, dal punto di vista medico-scientifico, è il plasma dei guariti…

«Un punto mi risulta chiaro: a rigor di logica, questo trattamento ha una sua utilità. In molti casi, specie in situazioni di emergenza, l’uso del plasma dei guariti può essere determinante. Sul lungo periodo, invece, il plasma non è certamente la soluzione migliore. La nostra speranza è che, avendo adesso una maggiore conoscenza della patologia e dell’infezione, non sia più necessario arrivare a rianimare un paziente. Bisogna fare testing a pioggia (tamponi per l’Rna virale ai sintomatici e ricerca degli anticorpi agli asintomatici ed ai guariti), più test possibili e più presto possibile, in modo tale da iniziare a fare prima ciò che deve essere fatto, a seconda del quadro clinico».

Più test possibili, ma il sistema immunitario sembra rispondere in modo diverso da paziente a paziente..

«Se ci sono delle difficoltà respiratorie, possono essere utilizzate coperture cortisoniche importanti. Infatti, apparentemente, una iper-reattività del sistema immunitario innato di alcuni pazienti rappresenta una concausa importante dei problemi respiratori. In alcuni casi, non è tanto il virus che uccide cellule e polmoni, ma è l’eccessiva reazione immunitaria a colpire. La risposta immunitaria, in alcuni soggetti, è esagerata. Questa iper-reattività potrebbe dipendere anche da fattori genetici: il Dna, in alcune circostanze, ordina di rispondere in quel modo. Quindi alcuni pazienti guariscono proprio grazie al sistema immunitario, mentre altri, invece, avendo una reazione esagerata, fanno sì che i polmoni si riempiano di liquido per la troppa infiammazione. Inoltre è importante prevenire una tromboembolia polmonare (e non solo) iniziando tempestivamente, ma sempre sotto controllo medico, una terapia anticoagulante con eparina».

E quindi il plasma dei pazienti guariti? 

«Serve, ma è una scelta di emergenza. Bisogna avere un donatore compatibile con lo stesso gruppo sanguigno e poi le donne non possono donare. Infatti, donne in età fertile o che abbiano avuto delle gravidanze, sviluppano degli anticorpi anti-Hla che possono essere molto pericolosi per il ricevente.  Infine esiste un rischio di reazione allergica (fino a shock anafilattico) per alcuni soggetti che reagiscono a proteine del plasma che differiscono naturalmente tra individuo e individuo o di cui, per motivi genetici, possono essere privi. E questo potrebbe avvenire nel corso di una seconda somministrazione».

Quindi ci sono dei rischi..

«Dei rischi ci sono. Quelli infettivi però sono bassissimi. In Italia c’è un alto grado di controllo sulle donazioni. Ad esempio il rischio di contrarre l’epatite B con l’uso di emoderivati è inferiore ad uno su un milione. Non possiamo escludere mai del tutto ogni rischio, ma in certi casi il gioco può valere la candela».

E i costi della trasfusione del plasma dei guariti? 

«Di per sé i costi non sono enormi».

Ma il plasma è comunque sottoposto a molti attacchi…c’è un pregiudizio ideologico?

«Il costo – come detto – non è eccessivo, ma la preparazione e l’organizzazione dovrebbero essere molto accurate. Noi al Gemelli potremmo in teoria somministrare il plasma dei guariti. Però attenzione: non tutti gli anticorpi di coloro che sono guariti dal Covid-19 sono neutralizzanti, cioè in grado di bloccare la progressione della infezione. Significa che non tutto il plasma di tutti i guariti risulta davvero utile contro il virus. Per valutare il titolo degli anticorpi dei soggetti guariti servirebbe un laboratorio di microbiologia con livelli di sicurezza molto elevati perché bisogna poter maneggiare il virus. E perché è necessario dimostrare su colture cellulari che quegli anticorpi di quello specifico donatore sono capaci di bloccare l’infezione. Però, dagli studi su altri coronavirus, sappiamo che un certo quantitativo degli anticorpi sviluppati è comunque neutralizzante e praticamente tutti i pazienti finora analizzati producono anticorpi a partire da 20 giorni dopo l’inizio dei sintomi».

E quindi? 

«Si può supporre che, al di sopra di un certo titolo anticorpale contro questo nuovo coronavirus, il plasma di un soggetto guarito sia neutralizzante. E’ possibile che in Lombardia, per via della assoluta emergenza, qualche verifica sia stata saltata, senza preoccuparsi insomma se c’erano titoli sufficienti di anticorpi effettivamente “neutralizzanti”. L’alternativa, del resto, era quella di non fare nulla, mentre gli studi dei colleghi cinesi hanno confermato una certa efficacia delle trasfusioni di plasma. Ora attendiamo la pubblicazione dei dati relativi ai trattamenti eseguiti dai colleghi del Nord del Belpaese».

Sembra nascere un derby tra sostenitori del vaccino e sostenitori del plasma…

«Penso che questo sia un contrasto sbagliato e controproducente. Possono servire entrambi gli strumenti in contesti epidemiologici diversi. Sulla linea del fonte, con la medicina di guerra, tutto può essere utile. Il plasma del donatore guarito può essere d’aiuto. Il vaccino, quando l’infezione è avanzata, non serve a niente. Tutti ci auguriamo che il vaccino arrivi ed è possibile che divenga presto realtà con i tanti laboratori impegnati nel suo sviluppo. Alcuni temono che il virus muti troppo rapidamente per ottenere un vaccino valido per tutti i “ceppi” circolanti, ma alcune proteine, come la Spike (le antenne del virus che ne consentono l’ingresso tramite il recettore ACE2) sembrerebbero essere più “costantei”, per cui la speranza di un vaccino è fondata. Certo dovrebbe essere disponibile a costi accessibili e ovviamente proposto su base volontaria ai soggetti più “fragili” ed agli operatori sanitari che sono professionalmente più esposti»

Coronavirus, il plasma umano? Poco "remunerabile", ecco perché nessuno dà retta al dottor De Donno. Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Tiene banco la questione del plasma iperimmune con anticorpi policlonali, quella che ad oggi sarebbe la cura più efficace contro il coronavirus. Tiene banco anche per la denuncia del dottor Giuseppe De Donno, direttore di Pneumologia e Terapia intensiva respiratoria del Carlo Poma: "Non abbiamo un decesso da un mese. I dati sono splendidi. La terapia funziona ma nessuno lo sa". De Donno, in buona sostanza, spiega che governi stranieri si sono rivolti a lui per la cura mentre, in Italia, nessuno gliene ha chiesto conto. Da qui, una teoria un pelo complottista: dato che è una cura su cui è quasi impossibile monetizzare, ovvero fare soldi, non interessa a nessuno. Ragione per la quale De Donno sarebbe sparito. Il punto è che la sieroterapia col plasma iperimmune ha il limite che nessuno può commercializzarla o brevettarla, almeno in Italia. Non è un farmaco perché trattasi di plasma donato dai pazienti ed è una cura antica che si usa da 100 anni.

"Governo e Iss disinteressati, forse perché è gratis". Virus, il dubbio di Salvini sulla cura al plasma: giocano sulla nostra pelle?

Lo spiega Affaritaliani.it, che ricorda come "è stata utilizzata ogni volta che non c'erano altre terapie utili o un vaccino, come contro le epidemie di Spagnola, l'Ebola, la Sars, la Mers. È sicura e controllata come può esserla una trasfusione moderna. Ma non sembra vada bene". Anche il governatore Luca Zaia aveva lanciato un appello a favore della sperimentazione. Ma sempre Affaritaliani.it ha interpellato i direttori del San Matteo e del Carlo Poma, che hanno spiegato che "il plasma iperimmune si basa sull’azione di anticorpi policlonali neutralizzanti per il Sars-Cov-2, prelevati da pazienti già guariti dal Covid. Gli anticorpi policlonali trasfusi nei malati, debellano il virus in tempi rapidi, dalle 2 alle 48 ore, bloccando il danno sugli organi. Le somministrazioni controllate possono avvenire a distanza di 48 ore l’una dall’altra, nel caso un'unica infusione non vada a segno".

"Facile e veloce, così i guariti possono salvare tante vite". Anche la 'iena' Politi dona il sangue per la cura al plasma.

Il sangue umano ancora non si può riprodurre artificialmente nella sua complessità. La sieroterapia funziona con il plasma, una parte del sangue. E l'efficacia della terapia realizzata con plasma artificiale, da realizzare in laboratorio e dunque commercializzabile, è ancora tutta da valutare. "In questo momento il plasma iperimmune che ci viene donato è il più sicuro al mondo", spiega ad Affaritaliani Cesare Perotti, direttore del Servizio Immunoematologia e Medicina Trasfusionale del policlinico San Matteo. E ancora, spiega che "la legislazione italiana ha delle regole stringenti che non ci sono in Europa e in nessun altro Paese al mondo, neanche negli Stati Uniti. Non solo abbiamo gli esami obbligatori di legge sul plasma per essere trasfuso, ma abbiamo degli esami aggiuntivi e il titolo neutralizzante degli anticorpi che è una cosa che facciamo solo noi al policlinico di Pavia. Neanche gli americani sono in grado di farlo in questo momento. Non ha eguali al mondo. Noi sappiamo la potenza, la capacità che ciascun plasma accumulato ha di uccidere il virus. Ogni plasma è fatto in modo diverso perché ogni paziente è diverso, ma noi siamo in grado di sapere quale usare per ogni caso specifico”. Resta un evidenza, però: la sieroterapia da Mantova e Pavia si sta diffondendo in tutto il mondo. Ma è un metodo vecchio, come detto poco remunerabile, si basa sulla solidarietà di chi è guarito. E se non c'è un complotto dietro al suo mancato utilizzo, per certo ci sono delle ragioni che ci devono spingere a fare qualche riflessione.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 10 maggio 2020. È una brutta storia quella del dottor De Donno. Una storia che parte in un modo e diventa altro, una storia luminosa di una sperimentazione col plasma che sembra suggerire risultati incoraggianti e che poi si trasforma in tifo, strumentalizzazioni, complottismo da bar. Con un epilogo – il video di oggi in cui De Donno legge un comunicato con l’aria rigida e innaturale del rapito dall’Isis – che non lascia presagire niente di buono. Partiamo dall’inizio. Giuseppe De Donno è primario di pneumologia presso l’ospedale Carlo Poma di Mantova. In questa struttura e al Policlinico di Pavia, si sperimenta la plasmaterapia per guarire i pazienti Covid che non hanno più di 10 giorni di problemi respiratori pregressi. Oggi la tecnica comincia ad essere sperimentata in diversi ospedali d’Italia tra cui lo Spallanzani, ma in effetti gli ospedali di Pavia e Mantova in Italia sono stati i primi. Nel mondo, invece, la sperimentazione avviene già in numerosi paesi tra cui gli Stati Uniti. La sperimentazione, a Mantova, ha dato buoni risultati: dei 48 pazienti trattati con il plasma, non c’è stato alcun decesso e tutti i pazienti sembrano sulla strada della guarigione. La plasmaterapia, va ricordato, non è un’invenzione di De Donno ma è una tecnica antica che venne utilizzata già nei primi del Novecento per curare la difterite. La complicata storia di De Donno inizia quando il primario fino a quel momento sconosciuto nella costellazione degli esperti sul campo, racconta con enfasi il successo della sperimentazione. De Donno non ha modalità di comunicazione tecniche, non ha il phisique du role del trombone della medicina, non ha fatto il tour dei salotti buoni della tv e lavora in un ospedale di provincia. Insomma, ha tutte le caratteristiche per diventare l’idolo del popolo. Quando inizia a parlare del successo della plasmaterapia sui pazienti trattati, il suo nome e la sua faccia iniziano a circolare. De Donno si concede per interviste, scrive post carichi di entusiasmo sui suoi social, comincia ad essere citato su giornali nazionali e la sua sperimentazione diventa un tema appassionante, sebbene ancora poco mainstream. Il cambio di rotta avviene quando il virologo influencer Roberto Burioni interviene sul tema. È fine aprile e Burioni pubblica un video in cui sottolinea l’importanza della plasmaterapia, aggiungendo che però non è niente di nuovo, che ha le sue criticità relative alla sicurezza del sangue dei donatori e che si potrebbe produrre del plasma artificiale. De Donno ha una reazione molto accesa e in un post su Facebook scrive: “Il signor scienziato, quello che nonostante avesse detto che il Coronavirus non sarebbe mai arrivato in Italia, si è accorto in ritardo del plasma iperimmune. Forse non conosce le metodiche di controllo del plasma. Visto che noi abbiamo il supporto di Avis. Glielo perdono. Io piccolo pneumologo di periferia. Io che non sono mai stato invitato da Fazio o da Vespa. Buona vita, quindi, prof Burioni. Le abbiamo dato modo di discutere un altro po’. I miei pazienti ringraziano. Condividete questo post, amici. Forse arriviamo al prof. E gli potrò chiedere un autografo! PS: vedo che si sta già arrovellando a come fare per trasformare una donazione democratica e gratuita in una ‘cosa’ sintetizzata da una casa farmaceutica. Non siamo mammalucchi!”. Il post, forse scritto con una foga eccessiva ma genuina e di certo senza calcoli sull’effetto che avrebbe potuto generare, conteneva in sé tutti gli elementi per diventare una miccia micidiale. Finalmente un medico delle “retrovie” mediatiche che si oppone alla prosopopea del potente Burioni. Quello che va ospite da Fabio Fazio, a Che tempo che fa. Quello che da vera star, in questa fase ha un contratto d’esclusiva con il programma di Fazio ed è rappresentato da un’agenzia bolognese, Elastica, assieme ad altri personaggi di diversi ambiti, da quello televisivo a quello letterario. Quello che è amico di Renzi e a lui Renzi aveva chiesto di candidarsi. Ed è così che De Donno diventa l’idolo delle masse. Di quelli che detestano la sinistra da salotto, di quelli che combattono i poteri forti coi meme e i gruppi Facebook, di quelli che “dobbiamo sconfiggere la lobby dei farmaci” e quindi di anti-vaccinisti e di una ciurma variegata di personaggi strambi. Oltre che di persone ragionevoli e dalla parte della sperimentazione seria, di persone che amano la discrezione del medico che lavora in corsia e meno le sicurezze di quello che pontifica in tv pur non occupandosi di terapie e pazienti. Insomma, di tutto un po’. Quel “Non siamo mammalucchi!” diventa un tormentone sul web, molti cittadini di Mantova lo ripetono tipo mantra in alcuni video. La situazione precipita dopo l’ultima puntata di Che tempo che fa, in cui si affronta il tema “plasmaterapia”. Roberto Burioni, ve detto, non critica affatto né la tecnica di cui ben conosce l’antica efficacia né la sperimentazione. Tra l’altro in collegamento c’è anche il virologo dell’ospedale di Pavia in cui avviene la stessa sperimentazione, Fausto Baldanti, che Burioni definisce “mio caro amico”, quindi non smonta affatto il suo lavoro. Ribadisce però che la plasmaterapia è molto costosa, che serve molto plasma di persone guarite e ce ne sono poche e che probabilmente la strada è quella di produrre plasma artificiale. E questa è la svolta dell’intera vicenda. La storia che sembra bella diventa un circo triste di partigianeria e recriminazioni, di politica e potere. Il giorno dopo De Donno si lamenta ai microfoni di Radio Bruno: “Burioni ha detto parole inaccettabili. La plasmaterapia non è costosa e il sangue è sicuro. In Italia non mi chiama nessuno, quando mi ha chiamato l’Onu ho pianto”. E poi, altrove, De Donno racconta che i Nas si sono messi a controllare il suo operato, che lui cerca di fare il bene della medicina e gli mettono il bastone tra le ruote. Gli elementi perché la politica se ne approfitti e cavalchi la tifoseria ci sono tutti. E così Salvini si attacca al carrozzone De Donno senza che De Donno gliel’abbia chiesto e scrive che la plasmaterapia funziona ma siccome le lobby farmaceutiche non ci possono speculare sopra, il Ministero della Salute si disinteressa. In pratica Salvini è meglio di Nature: lui decide che la cura funziona. Nascono gruppi Facebook con 40mila fan di De Donno , per esempio “Io sto con il dottor De Donno”. Anche il vecchio gruppo “Gli amici di Gesù” viene ribattezzato “#iostocondedonno”, come a dire che De Donno è il nuovo Messia. Chi osa esprimere anche un velato scetticismo sulla plasmaterapia come svolta definitiva per la cura del Covid viene bersagliato da una valanga di critiche e insulti su Twitter, come accaduto all’immunologa Antonella Viola che ieri, a Piazza Pulita, ha solo detto: “La terapia non sostituisce il vaccino, perché il plasma dei guariti può essere una cura ma non una prevenzione”. Che è una semplice verità, non un giudizio. Ma ormai De Donno è stato eletto, suo malgrado, icona della medicina pura e dura contro i poteri forti e il complottiamo è inarrestabile. Porta a Porta lo invita ma taglia una parte dell’intervista e “chissà cosa aveva detto di scomodo il dottor De Donno”. Spariscono, infine, tutti i profili social di De Donno e questa diventa la conferma definitiva che il coraggioso, piccolo medico di provincia (che poi è un fior di primario in un fior di ospedale) è caduto sotto la scure del Burionesimo. Salvini e i siti della Lega alimentano il sospetto con post insinuanti, circolano voci che De Donno sia stato invitato dalla Direzione sanitaria a stare zitto, sui siti che lo sostengono si respira aria di preoccupazione come se fosse legato e imbavagliato in una cantina sotto la terapia intensiva. Qual è la verità? Indagando sull’accaduto e ascoltando la voce di chi conosce lui e anche alcuni di quelli che non lo amano, l’impressione è che per vedere il fondo del lago si debba stare in quel punto a metà tra la riva e il centro del lago. Da una parte c’è un medico entusiasta, un appassionato che in questo momento si sente un soldato al fronte, per cui il camice è una divisa. Dall’altra, forse, c’è un mondo di rigidi professori disabituati ai post rissosi di un medico fuori da certi circoli di amici e grandi luminari.  Nessuno oserebbe dire a Burioni di non dileggiare la Gismondo o di non fare il bullo sui social, di sicuro qualcuno – probabilmente la Direzione sanitaria, ma non mi stupirei se le lamentele fossero partite da più lontano – ha invitato De Donno e i responsabili della sperimentazione a tacere, a mantenere un atteggiamento sobrio. È però anche vero che De Donno non è stato ostacolato nel suo lavoro, che sebbene Burioni ma anche la Capua o Pierluigi Viale, direttore delle malattie infettive del Sant’Orsola di Bologna, abbiano sottolineato alcune criticità nel metodo, nessuno ha mai detto che la sperimentazione non s’ha da fare. E se è vero che Burioni ha rilasciato affermazioni poco veritiere come quelle secondo le quali la plasmaterapia sarebbe una terapia costosa (De Donno ha obiettato che le sacche da 300 ml costano 82 euro), il “pasionario” della plasmaterapia ha avuto modo di controbattere in più sedi e con la foga desiderata. “La democrazia non è un optional”, è la frase fissata sul profilo di Whatsapp di De Donno. E qui sorge il sospetto che la verità sia nel mezzo: intorno a De Donno c’è un po’ di puzza sotto al naso e De Donno soffre (un po’) della sindrome del perseguitato. Con queste premesse non poteva che diventare un caso di quelli da arruffare i popoli e da smuovere la politica degli avvoltoi. “Si è ridotto tutto a un misero scontro politico. Se voti Pd dileggi De Donno, se voti Salvini De Donno è infallibile, se voti 5 stelle confondi la sperimentazione col vaccino, se ragioni nel merito vedi un’opportunità su cui andare a fondo. Nel mezzo sarebbe il miglior regalo vedere il virus sparire all’improvviso, dissolversi nel nulla e portare via con sé qualche leader politico che vorremmo dimenticare e i più fanatici dei loro fan”, afferma la giornalista Clarissa Martinelli, che De Donno l’ha intervistato nel momento di maggior esposizione. Il tutto si conclude con un epilogo mesto. Oggi, dopo la sparizione dai social, De Donno è apparso in un video di 5 minuti in cui sembra l’ombra di se stesso. L’aria del guerriero del popolo ha lasciato spazio a rigidità e mancanza di naturalezza del rapito dall’Isis. De Donno legge un comunicato scritto da chissà chi, impappinandosi, e con aria poco serena chiede a tutti di rasserenarsi. Dice con un filo di voce: “Il mio era solo spirito divulgativo in cerca di un sereno confronto tra colleghi, non voglio zuffe mediatiche. Non ci sono gare tra colleghi. Manterrò un profilo molto basso, i risultati non sono solo personali ma di tutta la comunità. Ringrazio Mattarella, il Papa, i vescovi, il mio vescovo che mi ha cambiato la vita, Don Cristian, Don Sandro, i Nas”. Insomma, fa pace con quelli che fino a ieri erano i colleghi sboroni, ringrazia le istituzioni e i Nas e tutti quelli che aveva attaccato impavido, e poi già che c’è ringrazia tutta la Chiesa, dalla parrocchia allo stato pontificio. Il che è un peccato, perché il primario eroe un po’ “suo malgrado” un po’ “sua intenzione” sarebbe potuto diventare un riferimento interessante se si fosse opposto con coraggio a strumentalizzazioni da una parte e a snobismi altezzosi dall’altra. E invece è finita così. “Ha esagerato e l’ha capito”, dirà qualcuno”. “Gli hanno messo il bavaglio”, dirà qualcun altro. Certo è che si è passati da De Donno a Padre Maronno, in soli due giorni. E non è la fine che avremmo voluto.

Da adnkronos.com il 16 giugno 2020. Un farmaco economico, costa circa 6 euro a paziente, e ampiamente disponibile da tempo - l'antinfiammatorio steroideo desametasone - potrebbe essere la prima terapia anti-Covid a salvare la vita ai pazienti gravemente colpiti dal coronavirus. E' quanto emerge da uno studio dell'Università di Oxford (Gb). Secondo i ricercatori il desametasone riduce di un terzo il rischio di decesso per i pazienti posti in ventilazione. Questo farmaco, ricorda la “Bbc”, fa parte del più grande studio al mondo che sta testando i trattamenti già esistenti che potrebbero avere una efficacia contro Covid-19. I ricercatori hanno stimato che, se il farmaco fosse stato disponibile nel Regno Unito dall'inizio della pandemia di coronavirus, si sarebbero potuti salvare fino a 5.000 pazienti. Nello studio, condotto da un team dell'Università di Oxford, a 2.000 soggetti ricoverati in ospedale è stato somministrato desametasone. Questi sono messi a confronto con oltre 4.000 che non hanno ricevuto il farmaco. Ebbene, fra quelli in ventilazione, il desametasone ha ridotto il rischio di decesso dal 40% al 28%, mentre nei pazienti trattati con ossigeno è stato in grado di salvare una vita ogni 20-25 persone circa trattate con il medicinale. Secondo Peter Horby, a capo del team, "questo è finora l'unico farmaco che ha dimostrato di ridurre la mortalità e la abbatte in modo significativo. È un grande passo avanti". Il trattamento "dura fino a 10 giorni, il farmaco costa circa 6 euro, in totale si spendono in media meno di 40 euro per salvare una vita", evidenzia Martin Landray, ricercatore dell'Università di Oxford. Il desametasone non sembra aiutare però le persone con Covid-19 con sintomi più lievi e che non hanno bisogno di aiuto per la respirazione.

L’antinfiammatorio da 6 euro che guarisce dal Covid. Il Dubbio il 16 giugno 2020. Un farmaco economico e ampiamente disponibile da tempo, l’antinfiammatorio steroideo desametazone, potrebbe essere la prima terapia anti-Covid a salvare la vita ai pazienti gravemente colpiti dal coronavirus. E’ quanto emerge da uno studio dell’Università di Oxford. Un farmaco economico, costa circa 6 euro a paziente, e ampiamente disponibile da tempo, l’antinfiammatorio steroideo desametazone, potrebbe essere la prima terapia anti-Covid a salvare la vita ai pazienti gravemente colpiti dal coronavirus. E’ quanto emerge da uno studio dell’Università di Oxford (Gb). Secondo i ricercatori il desametazone riduce di un terzo il rischio di decesso per i pazienti posti in ventilazione. Questo farmaco – ricorda la ‘Bbc’ – fa parte del più grande studio al mondo che sta testando i trattamenti già esistenti che potrebbero avere una efficacia contro Covid-19. I ricercatori hanno stimato che, se il farmaco fosse stato disponibile nel Regno Unito dall’inizio della pandemia di coronavirus, si sarebbero potuti salvare fino a 5.000 pazienti. Nello studio, condotto da un team dell’Università di Oxford, a 2.000 soggetti ricoverati in ospedale è stato somministrato desametasone. Questi sono messi a confronto con oltre 4.000 che non hanno ricevuto il farmaco. Ebbene, fra quelli in ventilazione, il desametasone ha ridotto il rischio di decesso dal 40% al 28%, mentre nei pazienti trattati con ossigeno è stato in grado di salvare 1 vita ogni 20-25 persone circa trattate con il medicinale. Secondo Peter Horby, a capo del team, “questo è finora l’unico farmaco che ha dimostrato di ridurre la mortalità e la abbatte in modo significativo. È un grande passo avanti”. Il trattamento “dura fino a 10 giorni, il farmaco costa circa 6 euro, in totale si spendono in media meno di 40 euro per salvare una vita”, evidenzia Martin Landray, ricercatore dell’Università di Oxford. Il desametasone non sembra aiutare però le persone con Covid-19 con sintomi più lievi e che non hanno bisogno di aiuto per la respirazione.

 La cura anti-Covid da 6 euro? Il ministero sapeva, ma non rispose all'appello. Lo studio sul farmaco steroideo desametasone fa sperare. Ma già ad aprile una lettera inviata a Speranza chiedeva di favorire le cure col cortisone. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. La prudenza dice di aspettare che lo studio annunciato a Londra, ma non ancora pubblicato, venga reso fruibile da tutti per poterne valutare numeri e validità scientifica. Tuttavia, la notizia sul farmaco-anti-Covid da 6 euro permette di sfogliare indietro alcune pagine del grande libro del virus in Italia per andare a spolverare dettagli importanti sulla lotta nazionale alla pandemia. Visto che qualcuno aveva già suggerito al ministero della Salute di puntare su questa terapia, senza però ottenere risposta.

Come forse saprete ieri l’Università di Oxford ha annunciato di aver realizzato una ricerca su 2mila pazienti gravemente malati dopo l’infezione da coronavirus e trattati con il desametasone, un antinfiammatorio steroideo cugino del cortisone e del cortisolo. Stando ai dati, pare che il farmaco abbia ridotto fino a un terzo il rischio di morte dei pazienti. Il tutto grazie ad una spesa di circa 6 euro a confezione. Una grossa speranza, molto economica.

"Questa terapia è una cura contro il Covid". Ma il ministro non ha risposto. Ora, la “scoperta” londinese non è proprio un “eureka” di quelli da premio Nobel. Nel senso che molti avevano già intuito che il cortisone potesse essere estremamente utile. Nella forma più grave e spesso letale del Covid-19, infatti, un ruolo fondamentale lo gioca il processo infiammatorio e la sua esasperazione, la cosiddetta tempesta di citochine. In pratica il virus arriva, sedimenta qualche giorno, poi scatena nell’organismo una reazione infiammatoria tale da provocare polmoniti drammatiche e, a volte, la morte. Come aveva rivelato ilGiornale.it, qualcuno si era accorto della bontà del cortisone almeno due mesi fa. Roberta Ricciardi, responsabile del Percorso Miastenia dell'Ospedale Cisanello di Pisa, e Piero Sestili, professore ordinario di Farmacologia a Urbino, insieme ad altri 50 colleghi firmatari avevano addirittura inviato una lettera a Roberto Speranza per invitarlo a cambiare strategia nella lotta al virus. Invece di puntare alle terapie intensive, scrivevano, meglio affidarsi al “caro vecchio” cortisone. La cosa incredibile è che il loro "protocollo" prevedeva proprio l'uso del desametasone, ovvero il farmaco studiato a Londra. La lettera, spedita il 24 aprile, venne consegnata anche a due parlamentari di maggioranza e al viceministro Pierpaolo Sileri. Ma il ministero non rispose mai all’appello.

Quel farmaco da soli 6 euro che salva le vite da Covid-19. Va detto che anche l’Oms sul tema si è sempre mostrata scettica e nelle prime fasi il cortisone era addirittura sconsigliato. Il timore si annidava, e si annida, nell’effetto immunosoppressivo del farmaco: se il virus è attivo, somministrare un medicinale che riduce le difese immunitarie potrebbe apparire un controsenso. "Si tratta di un problema secondario, perché la terapia in questo caso va seguita solo per pochi giorni e non c'è quasi tempo per produrre una consistente immunosoppressione - ci spiegavano Sestili e Ricciardi - Il beneficio nel bloccare la risposta infiammatoria anomala, invece, arriva praticamente subito. E il gioco vale la candela". Il problema è che ad oggi i vertici della sanità nazionale non hanno ancora dato indicazioni precise in merito: “Per ora il cortisone non è vietato, ma nemmeno caldeggiato - diceva Sestili - Direi che è solo tollerato. Eppure molti medici lo stanno utilizzando con effetti positivi". Un esempio su tutti. Matteo Bassetti, direttore della Clinica Malattie Infettive del Policlinico San Martino di Genova, oggi lo dice chiaramente: “Ci eravamo accorti dell'importanza del cortisone e del remdesevir nelle fasi precoci della malattia. Ci avevamo visto lungo". Dopo le notizie arrivate da Londra, i firmatari del protocollo inviato a Speranza naturalmente festeggiano. : “Che soddisfazione! - ci scrive Ricciardi - È quello che dico a tutti da febbraio”. Solo che qualcuno non sembra aver ascoltato.

Coronavirus, Oms esulta: “Desametasone è svolta scientifica”. Notizie.it il 18/06/2020. L’Oms esulta per la nuova scoperta in merito al farmaco a base di steroidi, il desametasone, contro il Coronavirus: rappresenta a tutti gli effetti una svolta scientifica. Difatti, un farmaco steroideo ampiamente disponibile da tempo, l’antinfiammatorio Desametasone – disponibile in farmacia al costo di soli 6 euro -, potrebbe essere un’efficace arma per salvare la vita a pazienti gravi affetti da Coronavirus. La scoperta è stata realizzata dall’Università di Oxford e convincerebbe anche l’Oms. Con questo farmaco si potrebbe ridurre il grado di mortalità del 35% in quei pazienti che hanno avuto bisogno di ventilazione. L’Organizzazione mondiale della Sanità, infatti, ha parlato di ‘svolta scientifica’ in merito al Desametasone, un farmaco a base di steroidi sviluppato da ricercatori britannici per la lotta al Coronavirus. “È il primo trattamento comprovato che riduce la mortalità nei pazienti affetti da Coronavirus con ossigeno o assistenza respiratoria”. Lo ha affermato il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus. Nella nota diffusa dall’Oms in merito alla scoperta degli effetti benefici del farmaco a base di steroidi contro il Coronavirus si evidenza anche come questa sia: “Una buona notizia e mi congratulo con il governo britannico, l’Università di Oxford e i numerosi ospedali e pazienti nel Regno Unito che hanno contribuito a questa svolta scientifica salvavita”, ribadisce Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità. 

"Questa terapia è una cura contro il Covid". Ma il ministro non ha risposto. L'appello di 50 medici e farmacisti per usare il cortisone nelle prime fasi della malattia da coronavirus. La dottoressa: "Nessun mio paziente è morto". Giuseppe De Lorenzo, Martedì 09/06/2020 su Il Giornale. "Ho settemila pazienti affetti da miastenia grave sparsi in tutta Italia ed alcuni si sono ammalati di Covid-19. Molti di loro erano già in terapia con cortisone e ho ritenuto utile trattarli precocemente anche con un incremento della terapia cortisonica. Quasi tutti hanno così sviluppato solo una forma modestissima di malattia, uno soltanto è stato ricoverato e nessuno è morto". Roberta Ricciardi, responsabile del Percorso Miastenia dell'Ospedale Cisanello di Pisa, la sua lotta contro il virus l'ha combattuta soprattutto con un "caro vecchio farmaco", guardato con un po' di diffidenza, ma che "sul campo" sembra aver avuto effetti positivi: "Il cortisone - racconta al Giornale.it - non costa niente, lo conosciamo benissimo ed è da sempre uno storico grande salvatore in numerose condizioni cliniche. Lo è stato probabilmente anche in questa situazione". L’approccio della dottoressa Ricciardi, così come altri in Italia, si basa anche sull'assunto che il coronavirus vada affrontato "subito". Prima cioè che si presentino le complicanze, prima di costringere il paziente al ricovero, prima di dover ricorrere, in ospedale, ad altri presidi terapeutici più complessi come il siero iperimmune. "Il primo effetto del Covid-19 - spiega - è un'iper infiammazione che poi a cascata può produrre tutti i problemi che conosciamo, come soprattutto la fibrosi polmonare, l'insufficienza respiratoria, la trombosi vasale fino alla coagulazione intravasale disseminata (CID)". Il cortisone, che è un potentissimo antinfiammatorio, se somministrato in tempo e a dosi adeguate medio-alte, permetterebbe quindi di "bloccare la malattia a monte", frenando la tanto temuta evoluzione dell'infiammazione. "Ho chiaramente sempre associato alla terapia cortisonica semplicemente una terapia antibiotica di copertura e un trattamento anticoagulante con Enoxaparina, per evitare le eventuali complicanze tromboemboliche possibili in questa condizione", spiega Ricciardi. E i risultati si sono visti. "Uno di miei pazienti aveva già subito un'operazione al torace per un tumore ed era molto grave anche per l’importante insufficienza respiratoria in atto. Quando l'hanno ricoverato, mi hanno subito detto che molto difficilmente si sarebbe potuto salvare. Ho potuto però collaborare con i colleghi locali suggerendo loro di somministrargli, per alcuni giorni, una dose piuttosto elevata di cortisone. Il paziente è subito migliorato ed ora è a casa, dove ha ripreso tranquillamente il suo lavoro".

Coronavirus, Il cardiologo Giampaolo Palma aveva capito tutto: "La polmonite non c'entra". Quello che hanno sempre nascosto. Renato Farina Libero Quotidiano il 05 giugno 2020. Preambolo. Qui non si danno ricette miracolose. Non si candida nessuno al Nobel. Si racconta la storia semplice in questi tempi complicati di Coronavirus. Semplice, e perciò molto istruttiva. Il protagonista, dottor Giampaolo Palma, è un medico che ha intuito e tracciato da pioniere una strada semplice e oggi universalmente accreditata per sfuggire alla presa mortale del Covid-19. C'è un problema. Ha agito senza chiedere il permesso alle lobby di scienziati in coda nei comitati governativi, né garantendosi appoggi mediatici. Mi ero segnato il suo nome il 3 maggio scorso. In un articolo sul Fatto, la professoressa Maria Rita Gismondo, direttore di microbiologia clinica e virologia del Sacco di Milano, scriveva: «Per due mesi abbiamo rincorso i posti letto in rianimazione, abbiamo parlato di polmonite interstiziale, oggi le autopsie ci fanno scoprire ben altro». Ed ecco la citazione di un medico ignoto al grande pubblico, mai visto in tivù: «Questa ipotesi era già stata avanzata dal dottor Palma, cardiologo di Salerno, tra le critiche dei soliti soloni mediatici». Passano le settimane e accade quanto sappiamo. I reparti di terapia intensiva si svuotano. Applicando l'"ipotesi Palma", avversato dai luminari a cui si era fulminata la lampadina, ci sarebbero stati meno morti? Di certo, dopo sono stati molto meno. Mi aspettavo di trovarlo tra i 53 neo-cavalieri indicati dal Quirinale come eroi. Niente. Forse nella dimenticanza avrà pesato un articolo di Le Monde, dove Palma è dileggiato come il solito italiano ciarlatano, che incanta (a milioni) gli ignoranti del Web, ma per gli spiriti parigini è un abusivo da non invitare al ballo in mascherina. Be', il caso si è fatto interessante. Gli telefono. la notte Giampaolo Palma, mi spiega, è cardiologo per stirpe antica (lo era il padre), titolare e direttore di un centro clinico a Salerno accreditato, un'eccellenza campana nel ramo cuore e circolazione. È da 23 anni che esamina, ausculta, diagnostica, prescrive terapie e accompagna nelle difficoltà e negli spaventi quotidiani chi ha problemi cardiaci, vascolari, eccetera. È consapevole di essere diventato famoso, e nello stesso tempo sa di essere stato confinato nei quartieri del web oscurati da lorsignori. Non che sia particolarmente felice di questi strascichi di popolarità planetaria. Non ha strumenti per controllare l'uso del suo nome e del suo volto sul web. Le sue tesi sono state esaltate ma anche deformate. Qui precisa: «Non sono nemico del vaccino. Ma quando mai: magari lo si trovasse. Non ho mai teorizzato l'inutilità dei respiratori. Guai se non ci fossero stati». «Tutto nasce», racconta, «in una certa notte del mese di aprile, dopo ore passate a leggere e rileggere appunti e a non poter prendere sonno». Che gli accadde? Ebbe un'intuizione diagnostica. Uno dei primi Nobel per la medicina, Alexis Carrel, spiegò il fenomeno con parole che sono il sigillo di una scienza empirica qual è la medicina, ma forse anche succo di sapienza esistenziale: «Poca osservazione e molto ragionamento conducono all'errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità». Palma aveva molto osservato. Ed ecco la scoperta elementare. Il Covid-19 non è una polmonite interstiziale doppia. Questo virus non provoca la polmonite, ma coaguli dappertutto. Bisogna fare in modo che appena insorgono i sintomi, ci si curi a casa con anticoagulanti, antinfiammatori eccetera. Può essere che altri clinici abbiano coltivata questa tesi, ma prevedendo alterchi con virologi gelosi del territorio, si siano astenuti dalle controversie onde evitare frecce avvelenate. Nel dottor Palma prevalse la necessità interiore di comunicare. Non aveva il diritto di tacere. Andò al computer, e scrisse sulla sua pagina di Facebook un post. Ha avuto da quel momento milioni di accessi, rimbalzando con la sua faccia nei cinque continenti. Cosa vide quella notte davanti a sé?, gli chiedo alle due di notte, prima non poteva, mentre sta limando l'articolo scientifico che sarà pubblicato a giorni su una rivista di rango internazionale. Risponde: «Quello che vedevamo a fine marzo, nel culmine della tempesta virale, era l'assalto letale di una polmonite dalla carica virale fortissima: tra le prime difficoltà respiratorie in un'ora e mezza i pazienti erano trasferiti in terapia intensiva. Mai esistite polmoniti così. Mi chiedevo: e se fosse altro? Un pomeriggio di inizio aprile, mi sono collegato in conferenza con cardiologi e pneumologi intensivisti del Sacco di Milano e del Giovanni XXIII di Bergamo. Rimasi incantato dai referti anatomo-patologici delle prime autopsie: i tessuti polmonari ma anche quelli cardiaci; e poi il cervello, i reni, l'intestino tenue erano infarciti di coaguli. Ad essere attaccate erano le cellule endoteliali e i pericliti, che rivestono i vasi sanguigni del miocardio e del cervello oltre che quelli polmonari». la morale Da qui il lampo. «Non potevo dormire. Di notte scrissi la mia intuizione su Facebook. Proteggiamo l'apparato vascolare, proposi». Dopo di che? «Nel mondo si diffuse in un battibaleno tra i medici. Tra i soloni smorfie di disappunto. Finché Lancet confermò la giustezza della mia tesi, l'Aifa approvò gli anticoagulanti, la Società europea di cardiologia ha riconosciuto la mia terapia». Il Policlinico di Zurigo dopo aver accettato la tesi di Palma sulla ipercoagulazione ha potuto ridurre di molto gli accessi alla terapia intensiva. «Mi accusano di non aver dato forma rigorosa alla mia ipotesi. Non importa che essa funzioni. Ora, se mi lascia cortesemente lavorare, finisco l'articolo». Prima però gli chiedo l'elenco dei Paesi da cui gli hanno chiesto collaborazione e lo hanno ringraziato. «Vado a senso. In ordine di apparizione. Giappone, Perù, Argentina, Brasile, Belgio, Francia, Senegal». E ancora: che morale trarre? «Credo si debba anche da parte del governo prendere più in considerazione i clinici, che curano i pazienti tutti i giorni, che certi parrucconi sempre in tivù». Il virus è morto? «Non sarei così ottimista».

Lo scontro sui trattamenti covid. “Il plasma non costa nulla, ma Big Pharma ha interesse nel vaccino”. L’accusa di Tarro. Bruno Buonanno su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Non è amato dai colleghi. Anzi. Ma con la lucidità di sempre e l’esperienza maturata in 81 anni dedicati alla virologia, Giulio Tarro va avanti per la sua strada. “Abbiamo fatto la storia. E questo mi basta, perché tutto il resto sono chiacchiere e pettegolezzi provocati probabilmente da invidia nei miei confronti”. Era il 16 aprile quando Giulio Tarro – allievo del professore Sabin e virologo emerito del Cotugno – parlò della sieroterapia utilizzata anche a Wuhan con successo. “Sono stati pubblicati da tempo i dati scientifici delle terapie con plasma iperimmune utilizzate in Cina che confermano – spiegò lo scienziato – l’efficacia della terapia dei convalescenti. La vecchia tecnica della plasmaferesi può mettere fuori gioco il Coronavirus. L’abbiamo usata tanti anni fa intervenendo sulle gammaglobuline del tetano, è una cura antica che non richiede alcun intervento delle aziende farmaceutiche”. Un attimo di pausa. Poi, riprendendo la conversazione telefonica, il professore Tarro chiarì: “Non sono esperimenti, questa è una terapia. Voglio dire che non si guadagna”. Nel Cotugno, ma anche in altre strutture sanitarie italiane, continua a dare risultati positivi quella che in Italia viene individuata come “cura Ascierto”, sperimentazione autorizzata dall’Aifa e realizzata somministrando ai pazienti il tocilizumab, farmaco per il trattamento dell’artrite reumatoide. Aspettando che sulla plasmaferesi si pronunci il comitato etico dell’Azienda dei Colli, anche il Cotugno ritiene utile il ricorso alla sieroterapia che intanto alimenta polemiche fra addetti ai lavori. Dagli Stati Uniti Ilaria Capua e da Milano Roberto Burioni commentano con scetticismo i risultati ottenuti in quattro strutture sanitarie del Nord. Negli ospedali di Pavia, Padova, Bolzano e Mantova i decessi dei pazienti contagiati dal Coronavirus sono stati rallentati e bloccati con la sieroterapia, cioè con trasfusioni di sangue iperimmune donato da altri pazienti contagiati e guariti dal Covid-19. Ma perché l’azienda dei Colli si avvicina alla sieroterapia con un “ni”? Non è una sperimentazione ma una cura antica per la quale l’azienda ha dato un’ampia ma inutile delega al comitato etico che si dovrà pronunciare. Nel frattempo quattro ospedali del Nord hanno bloccato i decessi somministrando ai pazienti contagiati dal Coronavirus il plasma iperimmune. Roberto Burioni – dopo aver toppato ogni previsione sull’arrivo del Covid in Italia – si dimostra molto critico sulla sieroterapia. La considera costosa e “suggerisce” di usare siero artificiale (lavorato quindi da un’azienda farmaceutica) al posto del sangue iperimmune di pazienti contagiati e guariti. Ilaria Capua concorda con Burioni. Quella che quest’ultimo considera una “sperimentazione” col plasma viene smentita da un medico italiano che vive in Africa. “È una cura che i colleghi hanno appreso a Padova decine di anni fa nella clinica pneumologica – spiega Mauro Rango – Non tutti i guariti hanno nel proprio plasma la quantità di anticorpi necessaria a curare un malato: esiste per questo un protocollo di selezione del plasma che viene utilizzato molto bene anche in Italia”. La sieroterapia, dunque, è già utilizzata in diverse strutture del Nord e ora è caldeggiata per la Campania anche da Flora Beneduce, medico e componente della commissione regionale sanità, secondo la quale quella cura deve accompagnarsi con antinfiammatori, anticoagulanti e azitromicina per sei giorni. Si tratta di medicinali già esistenti da usare contro il Coronavirus che nel corpo umano presenta due aspetti: il primo simile alla polmonite interstiziale da microplasma, il secondo simile a una vasculite la cui natura è ancora da definire. Dopo la lunga quarantena, si spera che il ritorno a un’antica terapia sia oggettivamente efficace contro il Covid.

Burioni offende il virologo del colera: “Se lui candidato al Nobel, io a Miss Italia”. Redazione de Il Riformista il 19 Aprile 2020. Si è combattuto su Twitter il duello rusticano della domenica pomeriggio che ha messo uno di fronte all’altro due esperti virologi. Il casus belli è stato un post del deputato Gianfranco Rotondi che ha riportato alcune considerazioni del virologo Giulio Tarro sul coronavirus. Roberto Burioni, virologo dell’università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, non si è però trovato per niente d’accordo e ha risposto senza badare troppo al politically correct. E mettendo piuttosto in discussione l’autorevolezza di Tarro, ex primario dell’Ospedale Cotugno di Napoli e già premiato dal Pnas Usa (Proceedings of the National Academy of Scienses) come miglior virologo dell’anno. Gianfranco Rotondi, deputato di Forza Italia pubblica dunque un post su Twitter. “Il virologo Giulio Tarro, primario emerito del Cotugno (isolò il vibrione del colera), due volte candidato al Nobel, oggi scommette la sua reputazione dicendo che tra un mese il coronavirus ci abbandonerà come tutti i corona influenzali”, ha scritto Rotondi. Il virologo nato a Messina e napoletano d’adozione ha infatti dichiarato in diverse interviste – anche a Il Riformista – che con la stagione estiva, e l’aumento delle temperature, il virus potrebbe scomparire. “Tarro è stato candidato al Nobel quanto io a Miss Italia”, ha replicato a quel punto Burioni, molto attivo sui social, con un tweet.  Sulla risposta di Burioni si è imbastita così una vivace polemica social, che ha coinvolto tra gli altri Giampiero Mughini, intellettuale e scrittore, che ha osservato: “Credo che un po’ di rispetto sia più che dovuto … Non è il depositario della verità”. E il virologo ha risposto ancora: “No, ma siccome ho molto studiato questi argomenti riesco a individuare immediatamente le scemenze”. Rotondo a quel punto ha voluto chiarire la sua posizione: “Io non spalleggio né Tarro né altri. Riporto una tesi che alimenta speranza, punto. Dopodiché ricordo che Tarro da primario del Cotugno piegò il colera del 73, questi fin qui hanno fatto solo interviste”. Una questione di speranza, dunque, e di ottimismo, quella che evidenzia il deputato, che ha trovato d’accordo diversi utenti sul social. “Se lei è convinto allora tutto a posto, possiamo chiudere le terapie intensive e smettere di portare le mascherine”, ha replicato ancora Burioni a qualche utente. Prima che arrivasse la risposta di Tarro: “Su una cosa ha ragione (Burioni, ndr): lui deve fare solo le passerelle come Miss Italia, ma senza aprire bocca”. 

Da adnkronos.com il 20 maggio 2020. Nuovo capitolo della querelle Tarro-Burioni. Il virologo napoletano Giulio Tarro ha infatti incaricato il suo legale, l'avvocato Carlo Taormina di presentare querela nei confronti del professor Roberto Burioni e di due giornalisti per "l’opera di denigrazione continuamente perpetrata a danno del suo prestigio scientifico professionale e personale". Nel dettaglio, "il professor Burioni - si legge in una nota del legale - è entrato volgarmente in polemica con il professor Tarro per recondite ragioni che l’autorità giudiziaria dovrà approfondire", mentre un giornalista ha divulgato notizie false intorno al curriculum universitario del professor Tarro, addirittura accusandolo di manovre truffaldine tendenti a far emergere una immagine di studioso e di scienziato attraverso la contraffazione di titoli e di risultati della ricerca scientifica, e persino di essere stato al centro di mercimonio di riconoscimenti scientifici internazionali". Quanto a un altro giornalista - dettaglia l'avvocato Taormina - "si è addirittura prodotto in un’accusa di falsificazione per avere il professor Tarro anticipato la data di pubblicazione di due suoi lavori scientifici". "Il professor Tarro, rivolgendosi all’autorità giudiziaria romana si è riservato la costituzione di parte civile ponendosi a disposizione della Procura di Roma per essere immediatamente sentito", riferisce Taormina. Tarro, "docente universitario di alto prestigio, primario del reparto di virologia del Cotugno di Napoli e oggi primario emerito, legato a momenti fondamentali della virologia mondiale, quale collaboratore di Sabin nella scoperta del vaccino per la poliomielite - annuncia ancora l'avvocato Taormina - diffida persone fisiche, giuridiche e mass media dal consumare opere di diffamazione e denigrazione, ferma la legittimità di un confronto, anche robusto, sulle questioni scientifiche che oggi suscitano particolare interesse".

Da corrieredellosport.it il 21 maggio 2020. A Radio Marte è intervenuto il professor Giulio Tarro, virologo. "Nuovi contagi nelle regione del Nord? Io vorrei questi dati raffrontati al numero di tamponi che vengono fatti. Psicologicamente abbiamo fatto l'abitudine al virus. Inizialmente c'è stato un problema molto serio e non è dipeso da noi centro-meridionali ma dalla gestione sanitaria del Nord. Non avevano capito di cosa si trattasse. I buoni medici sanno cosa devono fare in pronto soccorso. Andava capito che il problema era legato ai coaguli del sangue invece di trattare il COVID-19 come una polmonite".

Tarro sul ritorno negli stadi e la querelle con Burioni. Tarro ha auspicato anche un ritorno immediato allo stadio e ai palazzetti dello sport: "Rispettando la distanza, si potrebbe fare già da domani". Poi sulla polemica con il collega Roberto Burioni spiega: "Se mi bastano le scuse? No. Non bastano. Siamo buone persone, sì, ma a tutto c'è un limite. Uno può porgere l'altra guancia ma non pure la terza perché una terza non ce l'abbiamo".

Tarro ottimista: "Il Coronavirus soffre il caldo". Si va incontro alla bella stagione e alla domanda se il virus sparirà con l'estate, Tarro risponde: "Dipende dalle famiglie virali. La famiglia Coronavirus soffre il caldo, la salsedine, persino la montagna. Non solo non ce lo troveremo tra i piedi ma abbiamo una popolazione così immunizzata che non sarà più un ospite utile per il virus. Mascherine? Vanno messe dal paziente e dagli operatori sanitari. Ma per il resto è anti-igienico e può portare anche a problemi respiratori. Crisi economica? Ho paura che moriremo di fame. In Svezia non se lo sono posti il problema, fanno una vita normale, non hanno nessun problema di mortalità, probabilmente è frutto di un'altra mentalità".

Il virologo Tarro querela Burioni per «opera di denigrazione continua». Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 da Corriere.it. La querelle tra Giulio Tarro e Roberto Burioni iniziata sui social finisce in tribunale. Il virologo napoletano Giulio Tarro ha infatti incaricato il suo legale, l’avvocato Carlo Taormina, di presentare una querela nei confronti del professor Burioni e di due giornalisti per «l’opera di denigrazione continuamente perpetrata a danno del suo prestigio scientifico professionale e personale». Nel dettaglio, «il professor Burioni — si legge in una nota del legale Taormina — è entrato volgarmente in polemica con il professor Tarro per recondite ragioni che l’autorità giudiziaria dovrà approfondire», mentre un giornalista ha divulgato notizie false intorno al curriculum universitario del professor Tarro, addirittura accusandolo di manovre truffaldine tendenti a far emergere una immagine di studioso e di scienziato attraverso la contraffazione di titoli e di risultati della ricerca scientifica, e persino di essere stato al centro di «mercimonio di riconoscimenti scientifici internazionali». «Quanto a un altro giornalista — dettaglia l’avvocato Taormina — si è addirittura prodotto in un’accusa di falsificazione per avere il professor Tarro anticipato la data di pubblicazione di due suoi lavori scientifici». La discussione (accesa) tra i due esperti di virologia è iniziata su Twitter un mese fa. Il tutto è partito il 17 aprile da un tweet di Gianfranco Rotondi che riportava il pensiero Tarro, l’ex primario di virologia del Cotugno di Napoli, sul Coronavirus che diceva che come tutti i corona influenzali questo virus ci avrebbe abbandonato nel giro di un mese. Il tutto sottolineando come il medico napoletano sia stato candidato al Premio Nobel. La risposta di Burioni non si è fatta attendere: «Tarro è stato candidato al Nobel quanto io a Miss Italia». La replica di Tarro a Burioni su Twitter è stata quasi immediata: «Su una cosa ha ragione: lui deve fare solo le passerelle come Miss Italia, ma senza aprire bocca», animando così un botta e risposta tra i due non proprio lusinghiero. Da questo «carteggio» social ora si passa all’azione legale, come dice l’avvocato Taormina nella nota. «Il professor Tarro, rivolgendosi all’autorità giudiziaria romana si è riservato la costituzione di parte civile ponendosi a disposizione della Procura di Roma per essere immediatamente sentito». Tarro, «docente universitario di alto prestigio, primario del reparto di virologia del Cotugno di Napoli e oggi primario emerito, legato a momenti fondamentali della virologia mondiale, quale collaboratore di Sabin nella scoperta del vaccino per la poliomielite — annuncia ancora l’avvocato Taormina — diffida persone fisiche, giuridiche e mass media dal consumare opere di diffamazione e denigrazione, ferma la legittimità di un confronto, anche robusto, sulle questioni scientifiche che oggi suscitano particolare interesse».

Roberto Burioni querelato dal professor Giulio Tarro. L'avvocato Taormina: "Denigrazione per ragioni recondite". Libero Quotidiano il 20 maggio 2020. Il virologo-star Roberto Burioni trascinato in tribunale dal collega Giulio Tarro. Quella che sembrava una "normale" polemica social tra i due esperti, sull'onda dell'emergenza coronavirus, si trasforma dunque in caso giudiziario clamoroso anche grazie all'intervento del combattivo Carlo Taormina, principe del Foro e avvocato difensore del professor Tarro. Una querela per Burioni e due per altrettanti giornalisti, con l'accusa di aver messo in atto un'opera di "denigrazione continuamente perpetrata a danno del prestigio scientifico professionale e personale" di Tarro. "Il professor Burioni - spiega Taormina in una nota - è entrato volgarmente in polemica con il professor Tarro per recondite ragioni che l’autorità giudiziaria dovrà approfondire". Ci sarebbe poi tutto un corollario a danno dei due giornalisti querelati, accusati di aver divulgato notizie false sul curriculum universitario di Tarro e di aver scritto che fosse stato coinvolto in un "mercimonio di riconoscimenti scientifici internazionali". "Un altro giornalista - conclude Taormina - si è addirittura prodotto in un’accusa di falsificazione per avere il professor Tarro anticipato la data di pubblicazione di due suoi lavori scientifici". Una storiaccia, insomma. E dire che tutto era nato da un'affermazione di Tarro, ex primario di  virologia del Cotugno di Napoli, secondo cui (non era il solo a sostenerlo, per la verità) il coronavirus si sarebbe "estinto" nel giro di un mese. Siccome Gianfranco Rotondi l'aveva rilanciato definendo Tarro "già candidato al Premio Nobel", era intervenuto con la baionetta proprio Burioni: "Tarro è stato candidato al Nobel quanto io a Miss Italia". Si rideva, ora molto meno.

De Donno, pioniere della plasmaterapia: «Sono infuriato, siamo in mano  a scienziati prezzolati». Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it. «Non sono arrabbiato. Sono infuriato». Giuseppe de Donno, lo pneumologo pioniere della plasmaterapia, in una lunga intervista sul settimanale Oggi, in edicola da domani, non ingrana la marcia indietro sulle sue frasi che hanno scatenato tante polemiche nell’ambiente medico-scientifico: «Ho due rimpianti. Dovevo iniziare ad alzare la voce prima, e in maniera più energica. Il mio era un dovere civico. Se tutto resta in mano a scienziati prezzolati non si va da nessuna parte. Quando parlo a un congresso, la prima slide che proietto riguarda il conflitto di interessi. Io non ne ho. Mi piacerebbe che i medici che vanno in tv facessero lo stesso».

A chi lo accusa di essere dalla parte di no-vax e altri complottisti risponde: «Sono per le vaccinazioni. E non avrei nulla in contrario se un giorno il plasma con gli anticorpi contro il Covid fosse elaborato industrialmente. Sono un medico e devo salvare la vita ai pazienti. Il resto non conta». Definisce il presidente Sergio Mattarella «l’unico faro che abbiamo», non rinnega nessuna delle frasi che lo hanno portato a diventare una star dei social perché, dice a Oggi, «se non avessi fatto nulla la plasmaterapia sarebbe finita in cantina» e resta convinto che la scelta di Pisa come capofila della sperimentazione nazionale della plasmaterapia sia stata una scelta politica: «L’ho detto ed Enrico Rossi, il governatore della Toscana, che non ho mai nominato, mi ha già detto che mi querelerà. Probabilmente ha la coda di paglia». Infine una convinzione sul virus: «In Lombardia ci sono quattro ceppi di questo virus, e nessuno è identico a quello cinese. Sappiamo ancora poco… Io ho fatto uno studio sui casi di polmonite del mio reparto. Secondo me, i primi pazienti sono di fine settembre. Una forma aggressiva, che ha avuto uno stranissimo picco tra ottobre e novembre e che colpiva soprattutto gli adolescenti. Sono sicuro fossero riconducibili al coronavirus. Non riusciamo a capire come mai però la grande diffusione sia esplosa mesi dopo. Forse la prima ondata, quella dello scorso autunno, era causata da un ceppo meno contagioso».

 “SE TUTTO RESTA IN MANO A SCIENZIATI PREZZOLATI NON SI VA DA NESSUNA PARTE”. Anticipazione da “Oggi” il 20 maggio 2020. «Non sono arrabbiato. Sono infuriato». Giuseppe de Donno, lo pneumologo pioniere della plasmaterapia, in una lunga intervista sul settimanale OGGI, in edicola da domani, non ingrana la marcia indietro sulle sue frasi che hanno scatenato tante polemiche nell’ambiente medico-scientifico: «Ho due rimpianti. Dovevo iniziare ad alzare la voce prima, e in maniera più energica. Il mio era un dovere civico. Se tutto resta in mano a scienziati prezzolati non si va da nessuna parte. Quando parlo a un congresso, la prima slide che proietto riguarda il conflitto di interessi. Io non ne ho. Mi piacerebbe che i medici che vanno in tv facessero lo stesso». A chi lo accusa di essere dalla parte di no-vax e altri complottisti risponde: «Sono per le vaccinazioni. E non avrei nulla in contrario se un giorno il plasma con gli anticorpi contro il Covid fosse elaborato industrialmente. Sono un medico e devo salvare la vita ai pazienti. Il resto non conta».   Definisce il presidente Sergio Mattarella «l’unico faro che abbiamo», non rinnega nessuna delle frasi che lo hanno portato a diventare una star dei social perché, dice a OGGI, «se non avessi fatto nulla la plasmaterapia sarebbe finita in cantina» e resta convinto che la scelta di Pisa come capofila della sperimentazione nazionale della plasmaterapia sia stata una scelta politica: «L’ho detto ed Enrico Rossi, il governatore della Toscana, che non ho mai nominato, mi ha già detto che mi querelerà. Probabilmente ha la coda di paglia». Infine una convinzione sul virus: «In Lombardia ci sono quattro ceppi di questo virus, e nessuno è identico a quello cinese. Sappiamo ancora poco… Io ho fatto uno studio sui casi di polmonite del mio reparto. Secondo me, i primi pazienti sono di fine settembre. Una forma aggressiva, che ha avuto uno stranissimo picco tra ottobre e novembre e che colpiva soprattutto gli adolescenti. Sono sicuro fossero riconducibili al coronavirus. Non riusciamo a capire come mai però la grande diffusione sia esplosa mesi dopo. Forse la prima ondata, quella dello scorso autunno, era causata da un ceppo meno contagioso».

 Stefano Filippi per la Verità il 15 giugno 2020. Finché non è scoppiata l'epidemia di coronavirus, il dottor Giuseppe De Donno era semplicemente il direttore del reparto di pneumologia e di terapia intensiva dell'ospedale di Mantova. Improvvisamente è diventato uno degli uomini più famosi d'Italia, conteso dalle televisioni e messo in discussione dal mondo medico e dalla politica. Che aveva combinato De Donno? Soltanto quello che ogni clinico dovrebbe avere la libertà di fare: sperimentare una cura che aveva dato buoni risultati in casi che presentavano analogie con il Covid-19. È la terapia del plasma autoimmune: essa utilizza il plasma sanguigno dei pazienti guariti per fornire ai malati gli anticorpi utili a contrastare l'infezione. Da Mantova la sperimentazione si è estesa a Pavia, poi a Padova e altri ospedali e ora è allo studio in tutto il mondo. Ma su De Donno si è scatenata una bufera mediatica. In un momento in cui ogni successo positivo contro un nemico così oscuro andrebbe salutato con sollievo, lui è stato trattato alla stregua di uno stregone. È stato criticato perfino per essere stato per 4 anni vicesindaco di Curtatone, il paese mantovano in cui abita, località finora nota soprattutto per la battaglia del 1848 in cui il generale Radetzky fu fermato da uno scalcinato esercito di studenti volontari. Per De Donno parlano i fatti: oltre il 90% dei pazienti curati con questa metodica sono guariti.

Come sta andando la terapia con il plasma autoimmune?

«In questo momento la terapia con plasma convalescente sta dando risultati molto promettenti non solo a Mantova. Dalla nostra banca del plasma inviamo sacche in tutta Italia, dal Nord al Sud, arrivando anche sulle isole; tutti i pazienti trattati con plasma convalescente hanno un recupero fisico immediato. Due settimane fa è partito il progetto Rescue, curato da me e dal dottor Massimo Franchini, che è il direttore del servizio trasfusionale dell'ospedale di Mantova».

A chi è rivolto il progetto?

«Alla cura dei pazienti delle residenze sanitarie assistenziali. I risultati clinici preliminari, nonostante lo studio abbia, al momento, una scarsa potenza, sono incoraggianti».

Quante persone ha curato, quante sono guarite?

«Se per guarigione si intende la negativizzazione del tampone, il plasma del paziente convalescente, avendo un'importante capacità antivirale, riesce a negativizzare il tampone in oltre il 90% dei casi».

Quanti morti si sarebbero potuti evitare se la plasmaterapia fosse stata applicata in misura più ampia?

«L'analisi statistica del protocollo Mantova-Pavia evidenzia un incremento significativo della sopravvivenza; ogni 10 pazienti si riesce a salvare una vita».

Il tempo ha dato ragione alle sue intuizioni iniziali sulla terapia?

«Direi di sì e i pazienti guariti ne sono la dimostrazione. I centri che utilizzano il plasma sono sempre di più. È notizia di pochi giorni fa che il plasma è stato utilizzato per negativizzare un bambino Covid positivo, in seguito sottoposto a trapianto per una forma leucemica».

Ha dovuto «forzare la mano» per avviare queste cure?

«Ho dovuto espormi in prima persona per riuscire a sdoganare questa terapia rinunciando alla mia privacy a cui, tra l'altro, ho sempre tenuto molto. Ho dovuto concedere molte interviste radio e tv, ho aperto una pagina Facebook, sono stato invitato in commissione al Senato; tutto questo non per animare il mio ego, come qualcuno ha sostenuto e continua a sostenere, ma solo per il bene del paziente e per dare una speranza a questo Paese. Nel segno dell'onestà».

Come spiega l'ostilità verso la sua terapia, quando ogni successo contro il coronavirus dovrebbe essere salutato con favore?

«Eviterei di parlare di ostilità. A volte la paura, o peggio ancora l'ignoranza, nell'accezione di "condizione determinata dalla mancanza di istruzione o conoscenza", può portare a essere fuorviati dalla verità. In ogni ambito della vita, e a maggior ragione in quello medico-clinico, bisogna lasciare spazio ai fatti. Se ci si basasse sui fatti, vivremmo tutti meglio. Ecco quindi che le guarigioni dei miei pazienti, la gioia delle loro famiglie, la grande solidarietà della donazione, tutti questi fatti tangibili parlano da soli del successo di questa terapia. Crede ci sia riconoscimento migliore al mondo? Io credo di no».

Lei ha detto che vogliono zittirla, come mai? Chi ha volontà di nascondere queste cure?

«Non posso sapere di chi è la volontà di nascondere questa cura. Come ho detto più volte, il plasma iperimmune è quanto di più democratico ci possa essere al giorno d'oggi; è dato dal popolo e torna al popolo, è il più grande atto di solidarietà che un paziente guarito possa avere nei confronti di chi ancora sta lottando con la malattia. Cosa non meno importante, il plasma è gratuito. Quindi, come ha detto il grande Enrico Montesano, questa cura ha tre grossi problemi: costa poco, funziona benissimo, non rende miliardario nessuno».

Ci sono interessi della Big Pharma, cioè dei colossi farmaceutici, a screditare questa terapia per puntare sui vaccini, più redditizi?

«Questo non lo deve chiedere a me. Sono un medico di campagna, non un azionista di Big Pharma».

Che accoglienza ha avuto la terapia nel mondo accademico e scientifico?

«Il fatto che questa idea sia partita da un ospedale pubblico, anche se in collaborazione con l'ospedale di Pavia, ha suscitato parecchie diffidenze nel mondo accademico. A questo si aggiungano tutte le diffidenze che si avevano verso un emocomponente, nonostante la terapia del plasma convalescente non sia una novità. A volte il dottor Franchini e io, nei pochi minuti di pausa che abbiamo, ci chiediamo come mai non si sia partiti subito a organizzare una multicentrica che forse oggi qualche risultato definitivo lo avrebbe portato».

Al Senato ha detto che «uno scienziato pagato per divulgare conoscenze scientifiche non è credibile».

Conferma?

«Assolutamente sì. La scienza e la ricerca devono essere libere. La nostra vita deve avere la priorità su qualsiasi interesse politico o economico, altrimenti anche questa diventa merce di mercato data in mano a chi offre di più».

Uno studio cinese uscito nei giorni scorsi sostiene che la terapia al plasma ha un'efficacia limitata per i malati di Covid-19. Che ne pensa?

«Lo studio cinese ha numerosi bias (dati parziali, ndr) e inoltre è stato interrotto per carenza di casistica. Se però lo si analizza bene, nonostante la potenza di questo studio sia ancora più bassa rispetto al nostro, esso dimostra che i pazienti gravi ma non gravissimi si giovano notevolmente di questo trattamento: si riducono sia la mortalità, sia i tempi di ricovero, sia i tempi di svezzamento dalla ventilazione meccanica. Inoltre, si conferma che la negativizzazione dei tamponi, come già detto prima, supera il 90% dei casi».

La politica ha commesso errori nella gestione dell'emergenza sanitaria?

«Posso dire che un errore che la politica deve evitare è non investire nella ricerca o consentire ad aderenze politiche di gestire, per interesse economico, la ricerca stessa. Nessuno poteva prevedere ciò che è accaduto. Il lockdown è stato uno strumento buono per ridurre la circolazione del virus, ma mi limito a questo perché sono un medico, non un politico. Gli errori della politica saranno evidenziati dalla storia».

Ora a chi state somministrando il plasma? Lo fornite anche ad altri ospedali? Anche all'estero?

«Il plasma è somministrato in quasi tutta la nostra penisola, e, come detto, la nostra banca del plasma lo fornisce anche alle altre strutture che lo richiedono. All'estero abbiamo collaborato, attraverso call conference, con molti Paesi tra cui Brasile, Perù, Cile, Uruguay, Kenya, ai quali abbiamo inviato il nostro protocollo operativo. Molti di questi Paesi sono partiti con la raccolta del plasma».

Lei è stato tanto apprezzato quanto contestato: che esperienza sono stati per lei questi mesi?

«Purtroppo non posso piacere a tutti. L'unico mio interesse era sdoganare la terapia al plasma convalescente e, con il mio espormi, ci sono riuscito. Certo, sono stato criticato, insultato e deriso, ma poco mi importa. La cosa importante è che tutto questo ha permesso di aiutare molti pazienti che, come noi medici, non vedevano la luce in fondo al tunnel».

Che cosa non dimenticherà?

«Nessuno mai potrà cancellare dalla mia mente gli sguardi di terrore di chi moriva senza aver vicino nessuno. Ma anche questo mi ha dato la forza di combattere per quella che era l'unica arma a nostra disposizione contro questa pandemia. In tutto questo sono stato supportato da colleghi meravigliosi con i quali si è instaurato un rapporto umano e professionale molto forte. Ne cito uno per tutti, il dottor Franchini, che è diventato per me come un fratello. Devo inoltre dire che le persone che mi hanno appoggiato, incoraggiato, sostenuto sono di gran lunga superiori a quei pochi che mi hanno criticato. Il nostro Paese non va sottovalutato».

"La Banda delle Quattro: ecco chi gode con la sanità privata". Fabio Pavesi su Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2020. La ricetta è di una semplicità disarmante. Basta tenere sotto controllo i costi e i profitti, spesso plurimilionari, sono assicurati. Non si può sbagliare. Del resto la domanda è in crescita e i ricavi sono di fatto garantiti in buona parte dalla mano pubblica. È il business della sanità privata, dagli ospedali iper-tecnologici alle case di riposo per anziani fino alla diagnostica complessa, che ha visto decollare attori e numeri negli ultimi anni. Un business ricco e in cui la politica ha un ruolo determinante. Il segreto per gli operatori privati è accreditare le strutture al Servizio sanitario nazionale che così, a fronte delle prestazioni rese, paga a piè di lista garantendo gran parte degli introiti. In questo sistema, di cui il rapporto con la politica è una delle architravi, prosperano nomi importanti: si va dalla famiglia Rotelli, che col marchio Gruppo San Donato è di fatto il primo operatore per fatturato, alla famiglia dei potenti industriali Rocca, che affiancano il loro Humanitas al business dei tubi per l’industria petrolifera con Tenaris, per finire con gli Angelucci e i De Benedetti, che hanno fatto delle residenze per anziani il perno dei loro affari sanitari.

I Rotelli. Dei Rotelli e del loro brand sotto l’egida di Gruppo San Donato il grande pubblico sa ben poco. La notorietà la famiglia la raggiunse quando divenne azionista forte di Rcs. Abituati a lavorare lontano dai riflettori, il gruppo San Donato è gestito oggi dai figli, Paolo in particolare, dopo la scomparsa nel 2013 del fondatore Giuseppe Rotelli. La società conta oggi su 18 grandi ospedali, oltre 5mila posti letto accreditati col Servizio sanitario e quasi 3 milioni di pazienti che ogni anno usufruiscono delle sue cure.

Forte in Lombardia, dove conta da solo il 14% di tutti i posti letto accreditati dalla Regione. Il colpo da maestro è stata l’acquisizione del San Raffaele di Milano, il prestigioso ospedale, simbolo del “privato di qualità” che Don Verzè aveva portato sull’orlo del crac oberato da un miliardo di debiti. Il salvataggio del San Raffaele è stato gioco facile per i Rotelli che hanno accumulato liquidità impressionante negli anni. In cima alla catena societaria della famiglia c’è la Papiniano Spa che consolida tutte le attività: ha un attivo di bilancio di 2,1 miliardi; i ricavi consolidati sono di ben 1,65 miliardi, il patrimonio netto è di 426 milioni e il gruppo che raccoglie i 18 ospedali dei Rotelli ha cassa per ben 431 milioni. Un mare di liquidità figlia della gestione oculata del gruppo. Il solo Policlinico San Donato, l’ospedale alle porte di Milano che dà il nome all’impero dei Rotelli, ha fatturato nell’ultimo anno oltre 160 milioni con un utile netto di 26 milioni. Una profittabilità netta del 16% che la dice lunga sulla redditività dell’ospedale. L’ospedale che ha 780 dipendenti aveva cassa liquida nel 2018 per ben 97 milioni. Dai ricoveri pagati a piè di lista dalla Regione il San Donato incassa 102 milioni sui 162 di fatturato complessivo. E che la politica e le buone relazioni contino lo dice il fatto che la famiglia Rotelli ha da poco nominato presidente del gruppo Angelino Alfano, che di sanità sa ben poco, ma che i palazzi del potere li ha ben frequentati. Nel cda del gruppo e in quelli dei vari ospedali ecco comparire nomi di peso. C’è l’ex ad di UniCredit e oggi a capo di Rothschild Italia, Federico Ghizzoni, poi l’ex McKinsey Vittorio Terzi e Andrea Faragalli Zenobi ex presidente di Italo.

I Rocca. La sponda con la politica e il mondo che conta è vitale anche per Humanitas, il gruppo ospedaliero della famiglia Rocca. Nel Cda di Humanitas presieduto da Gianfelice Rocca figurano l’imprenditrice farmaceutica ed ex esponente di punta di Assolombarda, Diana Bracco ma anche Paolo Scaroni ex Eni; Rosario Bifulco, Massimo Capuano ex Borsa italiana. L’amministratore delegato l’uomo operativo dei Rocca è Ivan Colombo, esponente di punta di Cl, un lasciapassare essenziale in una Regione come la Lombardia. Humanitas è una macchina da soldi. Nel 2018 il fatturato consolidato del gruppo è arrivato a quota 920 milioni, raddoppiato in pochi anni. I margini industriali valgono 156 milioni di euro e l’utile nel 2018 è stato di 68 milioni. Più della metà dei ricavi arrivano dalle prestazioni rimborsate dal Ssn. La catena societaria dei Rocca vede in cima al gruppo Humanitas la spa Teur che ha il 93% delle quote. La catena però non si ferma in Italia: finisce (insieme ai dividendi) nella holding lussemburghese San Faustin della famiglia Rocca. Se i Rocca e i Rotelli gestiscono strutture ospedaliere complesse e sofisticate da un punto di vista tecnologico, sia i De Benedetti che gli Angelucci hanno preferito puntare le loro carte sulle residenze per anziani: più comodo e meno oneroso. Non ci sono grandi investimenti in capitale e tecnologie, il grosso dei costi è rappresentato dal personale e, soprattutto, il business delle case di riposo vede il pubblico fornire un supporto importante. Lo Stato contribuisce a coprire i costi sanitari delle degenze e così, a fronte di rette pagate dai pazienti per la quota “alberghiera” che viaggiano in media sui 90-120 euro al giorno, i gestori delle Rsa incassano altri 40-50 euro al giorno dal Ssn. Tanto per dare un’idea solo la Lombardia nel 2019 ha speso per le Rsa 872 milioni: soldi incassati dalle oltre 500 case di riposo convenzionate con la Regione.

I De Benedetti. La creatura della famiglia De Benedetti si chiama Kos, è nata nel lontano 2002 e opera con vari marchi tra cui il brand “Anni Azzurri” e “Santo Stefano”. Il Gruppo Kos è diventata una realtà tentacolare. Presente ormai in 13 regioni italiane e 3 stati esteri, per un totale di oltre 12.800 posti letto. Kos gestisce 92 strutture in Italia e 48 in Germania. In Italia sono quasi 8700 i posti letto gestiti in: 53 residenze per anziani; 16 centri di riabilitazione; 13 comunità terapeutiche psichiatriche e 7 cliniche psichiatriche; 2 ospedali. Kos è inoltre attivo con 25 centri ambulatoriali di riabilitazione e diagnostica e 29 sedi di service per diagnostica e terapia (di cui 12 in Italia, 14 in India e 3 in UK). Sono oltre 13.700 i collaboratori di cui circa 8.900 in Italia, 6.900 dei quali sono dipendenti del gruppo. Kos ogni anno macina fior di utili. Nel 2019 ha portato a casa ricavi totali per 595 milioni di euro. Dal 2016 al 2019 i ricavi sono cresciuti del 30%. Gestendo bene i costi del lavoro che non superano il 40% dei ricavi, il margine lordo di Kos supera ampiamente il 20% del fatturato. Gli utili netti sono stati nel 2019 di 31 milioni. E negli ultimi 4 anni il gruppo ha cumulato oltre 130 milioni di profitti netti. Un business florido tanto che ci ha messo gli occhi anche il Fondo italiano d’investimento. F2i che ha come soci le fondazioni bancarie, le casse di previdenza e dulcis in fundo la Cdp, ha acquisito il 40% del capitale di Kos. I De Benedetti comandano e Cdp con altri finisce per fare il socio di minoranza. Che ci faccia lo Stato, via Cdp, nella gestione delle cliniche per anziani non si comprende.

Gli Angelucci. Anche per loro, col capostipite Antonio parlamentare di Forza Italia, il business delle Rsa con il marchio San Raffaele, produce ricchezza. Nel 2018 le cliniche degli Angelucci hanno prodotto ricavi per 105 milioni con un utile netto di 11 milioni. Su quei 105 milioni di ricavi ben 81 milioni arrivano dal Servizio sanitario nazionale, in virtù dell’accreditamento. La San Raffaele Spa vanta anche crediti con le singole Asl per 143 milioni. Un business florido per la famiglia che possiede anche Libero e Il Tempo, che compensa ampiamente le perdite nell’editoria. Gli utili che gli Angelucci fanno con le cliniche prendono la via dell’estero. La San Raffaele Spa è posseduta al 98% da una società lussemburghese la Three Sa. Ma non finisce qui perché sopra la Three ci sono altre due scatole basate in Lussemburgo. La Lantigos e la Spa di Lantigos. Due casseforti della famiglia. La stessa Three sa ha distribuito alle controllanti ben 153 milioni di riserve. Un fiume di denaro che dalle cliniche private finisce tutto all'estero.

·        Gli Sciacalli della Sanità.

Vaccini, chi ci guadagna (davvero)? «Una delle obiezioni avanzate da chi è ostile ai vaccini riguarda gli interessi delle case farmaceutiche, che però non sono necessariamente in conflitto con quelli dei cittadini, scrive Roberta Villa il 27 gennaio 2016 su "Il Corriere della Sera”.

È vero che Big Pharma guadagna sui vaccini? Assolutamente sì. Nessuno può pensare che le aziende farmaceutiche siano enti di beneficenza. L’industria guadagna sui vaccini proprio come su tutti gli altri farmaci, come d’altra parte fa chi vende computer o automobili. La pasticceria non regala la torta di compleanno, né il supermercato il pane o altri generi di prima necessità. Se non ci fosse alcun profitto sui vaccini, nessuno li produrrebbe più, proprio come è capitato negli ultimi decenni con l’abbandono del settore degli antibiotici e della ricerca in questo campo, un fenomeno che ha contribuito alla diffusione delle gravissime infezioni resistenti che attualmente preoccupano le autorità sanitarie.

Ma quanto guadagnano le industrie grazie ai vaccini? Sicuramente molto meno che con altre categorie di farmaci. Secondo il Rapporto nazionale OSMED 2014 dell’AIFA sull’uso dei farmaci in Italia, il costo complessivo di tutti i vaccini rappresenta l’1,4 per cento della spesa totale del Sistema Sanitario Nazionale, pari a 291 milioni di euro, contro più di un miliardo speso rispettivamente per proteggere lo stomaco o tenere bassa la pressione agli italiani. Meno della metà del fatturato della più famosa azienda produttrice di rimedi omeopatici, insomma. Un mercato poco redditizio, a livello di singolo prodotto, è compensato dall’enorme scala in cui viene distribuito. Il ritorno economico deve comunque essere sufficiente a sostenere il ramo vaccini delle pochissime multinazionali che continuano a dividersi la torta a livello globale. In questa logica, per poter vendere i classici tradizionali vaccini salvavita dell’infanzia, come l’antipolio, a meno di un euro a dose, la logica aziendale ricarica i costi sui prodotti più innovativi, spingendoli anche con sapienti e insistenti azioni di marketing.

I vaccini sono ancora necessari, con il miglioramento delle condizioni igieniche? Per questo ha suscitato polemiche il nuovo Piano Nazionale di Prevenzione vaccinale proposto dal Ministero della salute, che estende, raccomanda e offre gratuitamente ulteriori vaccinazioni oltre a quelle già esistenti. Questo sicuramente aumenterà la spesa e porterà maggiori introiti alle aziende. Ma il punto è: queste scelte sono a vantaggio o a discapito dei cittadini? La possibilità (non l’obbligo) che anche i meno abbienti possano usufruire di questi strumenti di prevenzione è un torto che si fa loro o un’opportunità che gli si offre? Si è parlato di pressioni da parte delle Società scientifiche, a loro volta sponsorizzate dalle aziende. Al momento non si può escludere che pressioni di questo tipo siano entrate in gioco in passato, o ancora oggi abbiano un ruolo, nelle scelte di sanità pubblica: questo va assolutamente evitato. È essenziale mettere in luce eventuali conflitti di interessi dei decisori, e, attraverso un sistema rigoroso e trasparente, far sì che non possano influire sulle decisioni prese a favore della collettività.

Per evitare di prendere fischi per fiaschi occorre tuttavia distinguere con attenzione due piani completamente diversi, che nel dibattito vengono invece continuamente confusi. Fermo restando l’interesse delle case farmaceutiche, che è innegabile ma lecito, gli altri due attori in gioco sono il pubblico e chi tiene i cordoni della borsa della sanità. Le valutazioni da fare sono quindi di duplice natura: uno è il rapporto tra il costo di ogni singolo vaccino e i benefici (economici e di salute) che ci si può aspettare di trarne; l’altro è il rapporto tra questi stessi benefici e il rischio di effetti indesiderati. Ai decisori spetta valutare bene, in tempi di vacche magre che impongono necessariamente degli aut aut, se valga la pena usare il denaro pubblico per offrire gratuitamente un vaccino a tutta la popolazione, o a un gruppo a rischio, oppure se non sia meglio privilegiare altri tipi di interventi sul territorio. Su questo si può discutere di caso in caso. Ma, anche quando non si condividessero le scelte di sanità pubblica, è importante ricordare che queste non incidono sull’altro piano, quello che più preoccupa i genitori: per quanto se ne possano amplificare i benefici, i rischi di effetti collaterali di qualunque vaccino sono molto inferiori a quelli del paracetamolo, dello sciroppo contro la tosse o di altri medicinali che diamo ogni giorno ai nostri figli. Rinunciare a proteggerli «perché le case farmaceutiche ci guadagnano» sarebbe come smettere di mangiare per non finanziare l’industria alimentare.

Mario Giordano: "Virus, salute e soldi. Gli sciacalli che hanno speculato sull'epidemia". Mario Giordano su Libero Quotidiano il 06 maggio 2020. Per gentile concessione dell'editore Mondadori pubblichiamo un capitolo del libro "Sciacalli" di Mario Giordano, in libreria da oggi.

Diverse società scientifiche nel mondo per calcolare la predisposizione al rischio di fratture ossee usano un algoritmo, che si chiama Frax. Tu inserisci i dati nella tabella e ti esce il responso: sei a rischio o non sei a rischio. Soltanto che, è stato calcolato, sulla base di quell' algoritmo andrebbe trattato con farmaci il 72 per cento delle persone oltre i 65 anni e il 93 per cento di quelle oltre i 75. Numeri esagerati, ovvio. Che hanno un unico obiettivo: allargare il mercato e vendere più farmaci. Ma più farmaci servono davvero a ridurre il rischio? Certo, dicono gli esperti pubblicando ricerche trionfanti: riducono il rischio del 50 per cento. Percentuale che fa impressione. E, numericamente, è pure vera: prendendo certi medicinali, infatti, il rischio di fratture al femore scende dal 2,1 all' 1,1 per cento. Si dimezza, per l' appunto. Ma in pratica che significa? Significa che se 100 anziani non prendono il farmaco, c' è la probabilità che si rompano il femore in due. Se tutti quei 100 anziani lo prendono, invece, c' è la probabilità che si rompa il femore uno solo. () Ci fa piacere per quella frattura evitata, si capisce. Ma conviene davvero? E a chi? E quella strombazzata riduzione delle fratture del 50 per cento, per quanto vera, non è un po' una fregatura? criteri diagnostici «La tendenza ad aumentare il mercato dei malati è irresistibile» sostiene Marco Bobbio, già primario di cardiologia a Cuneo e autore di Troppa medicina. E cita il caso di una contea norvegese, dove sulla base dei nuovi parametri di rischio per pressione e colesterolo, il 90 per cento delle persone oltre i 50 anni è risultato bisognoso di trattamento farmacologico. Il 90 per cento! «Del resto,» conclude Bobbio «si è osservato che su quattordici linee guida riguardanti malattie comuni, dieci propongono l' ampliamento dei criteri diagnostici (creazione della condizione di premalattia, riduzione del valore di soglia, ecc.). Inoltre «il 75 per cento degli estensori ha dichiarato legami economici con le industrie, con la media di sette industrie per estensore». () Questa irresistibile tendenza ad allargare il mercato dei malati non si manifesta soltanto nella modifica dei parametri di patologie esistenti. Macché. Si inventano anche patologie che non ci sono. O che non sono mai state considerate tali. Perché, come diceva un medico diventato famoso per le sue canzoni, Enzo Jannacci, «la medicina moderna ha fatto davvero un sacco di progressi. Per esempio, ha saputo inventare un sacco di malattie nuove». () Nei primi anni Cinquanta, per esempio, quando fu elaborato, il Dsm, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, cioè la bibbia della psichiatria, contava 80 disturbi. Oggi sono più di 300. Guarda caso è stato calcolato (nel 2006 da Lisa Cosgrove della University of Massachusetts di Boston) che il 56 per cento degli psichiatri che hanno lavorato all' estensione dell' ultimo manuale avevano interessi finanziari o rapporti stretti con l' industria farmaceutica.() Non a caso gli psicofarmaci sono i medicinali per cui gli italiani spendono di più di tasca loro: 357 milioni di euro nel 2018. Risultato? Per comprare le pillole, le tasche si svuotano. Le tasche vuote generano ansia. E l' ansia fa correre tutti in farmacia a comprare le pillole a costo di rimanere con le tasche vuote. Un circolo vizioso insomma. Che rende dura la vita a noi. E la lastrica d' oro per Xanax e Lexotan.

Al terzo posto (classifica Aifa) dei medicinali per cui spendiamo di più ci sono il Viagra e i suoi fratelli, cioè quelli contro la disfunzione erettile: 219 milioni di euro nel 2018. () In vent' anni la Pfizer ha incassato soltanto dalla vendita di Viagra oltre 30 miliardi di dollari, con il record di 2 miliardi nel 2012, quando fu calcolato che ogni 6 secondi c' era un uomo che ingoiava una di quelle pasticche. Un risultato insuperabile. Ma non solitario: le campagne pubblicitarie basate sui nostri disturbi sessuali sono uno dei punti di forza del mercato delle malattie. Forse qualcuno ricorderà una serie di spot, qualche anno fa, sull' eiaculazione precoce. Si vedeva un fiammifero che si incendiava troppo in fretta, il solito messaggio allarmistico: «Un italiano su 5 ne soffre», l' invito a rivolgersi a un medico. La campagna fu martellante, ben riuscita. Colpiva assai. Sulla parte bassa dello schermo, piccola piccola, la scritta «con il supporto di» e il marchio del gruppo farmaceutico Menarini. Il quale aveva appena lanciato sul mercato la pillola contro l' eiaculazione precoce Priligy. Pensa un po' la combinazione. Semplice no? Non puoi fare lo spot al farmaco, perché si tratta di un farmaco di fascia A (necessitano di prescrizione e vengono rimborsati, perciò la legge ne vieta la pubblicità). E allora fai lo spot direttamente alla malattia. Campagna pubblicitaria, spot, convegni. Ci sentiamo tutti malati di eiaculazione precoce, come ci sentivamo tutti malati di stitichezza, come ci sentiamo tutti malati di insonnia o di calvizie o di cellulite o di impotenza o di qualsiasi problema che immediatamente rimanda a una soluzione chimica. Siamo diventati così: talmente ansiosi di star bene che finiamo per star male. Per sentirci malati anche quando non lo siamo. E dunque torniamo a dove siamo partiti, a quel fiorire di giornate mondiali che sembrano non avere un senso, ma forse un senso ce l' hanno proprio. A questo punto dovrebbe essere chiaro, no? Anche dove non c' è il disturbo in primo piano, alla fine si cade sempre lì: la giornata del sonno? Serve a ricordare quanti italiani dormono male, un rimedio in farmacia ci sarà. La giornata della stanchezza? Serve a ricordare quante volte ci sentiamo un po' giù, un rimedio in farmacia ci sarà. E la giornata dell' orgasmo? Serve a ricordare che se la giornata dell' orgasmo viene una volta sola all' anno, può essere un problema. Bisogna provvedere. Ovviamente con la pillola. E se qualcuno, in questo modo, ci guadagna fino a 2 miliardi di euro l' anno, noi che ci possiamo fare?

MARIO GIORDANO: «GLI SCIACALLI DELLA NOSTRA SANITA'». Panorama.it mercoledì 6 maggio 2020. Gli sprechi in corsia e i guadagni stellari delle compagnie farmaceutiche, le attese infinite per le visite, i tagli ai servizi essenziali e il cinico business intorno ai pazienti. Il giornalista anticipa, in esclusiva a Panorama, il suo nuovo libro «Sciacalli». Ecco chi si arricchisce sulla nostra pelle. «Mi sono trovato un dossier sul tavolo, me lo aveva lasciato il ministro per chiedere un parere». Su cosa? «Dovevamo pagare 20 milioni di euro a due aziende farmaceutiche». Venti milioni? «Sì». Per avere che? «Il diritto di prelazione su un vaccino in caso di pandemia». Cioè per l'acquisto? «No, non per l'acquisto. Solo per il diritto di prelazione». Cioè 20 milioni per il diritto ad avere vaccini nell'eventualità di una pandemia? «Esatto». Senza sapere di che pandemia stessimo parlando? «Esatto». Dunque senza sapere di che vaccino stessimo parlando? «Esatto». Solo per avere, nell'eventualità, il diritto di comprare? «Capisco il suo stupore». Quando il dottor Armando Bartolazzi, medico assai quotato e ex sottosegretario alla Salute nel primo governo di Giuseppe Conte, mi ha raccontato questo episodio, era l'autunno 2019 e il coronavirus non sapevo nemmeno che cosa fosse. Però mi aveva colpito scoprire che c'erano rappresentanti di aziende farmaceutiche che andavano in giro a offrire, al modico prezzo di 20 milioni di euro, una specie di prelazione per comprare il vaccino in caso di pandemia. Sia chiaro: non penso che sapessero qualcosa in anticipo. Niente complottismi, per carità. Ma mi domando: è giusto chiedere 20 milioni al buio per una prelazione sui vaccini in caso di pandemia? E questo vuol dire che in giro per il mondo c'è qualcuno che ha già pagato quella cifra? E quindi costui, quando finalmente il vaccino sarà pronto, passerà davanti agli altri? In virtù della prelazione? Dei 20 milioni sborsati? E che prezzo avrà quel vaccino? Se lo potranno permettere tutti? Domande lecite, mi auguro. Anzi, domande che dovremmo farci con una certa urgenza. Il rapporto tra soldi e salute, infatti, sarà il vero nodo cruciale dei prossimi anni. E non solo per i virus. «Per ogni malato di cancro ai polmoni» mi disse in quell'occasione il dottor Bartolazzi «oggi spendiamo, con le terapie innovative, l'equivalente di due Ferrari. Ma tra un po' le Ferrari diventeranno quattro. Fino a quando potremo permettercele? Arriveremo al punto di cui si dirà: tu hai 40 anni, ti possiamo curare. Tu ne hai 41, troppo vecchio, non ti cureremo più». Pensavo, allora, che stesse esagerando. Abbiamo capito, nella ultime settimane, che non siamo troppo lontani da lì. La sanità ci salva la vita, ma poi chi salva la sanità dagli sciacalli? Per anni abbiamo trascurato questo tema. Sembrava irrilevante. Intanto lasciavamo che fossero dragati soldi al settore: non c'è stato Consiglio dei ministri degli ultimi decenni in cui non si discutesse di come risparmiare sulla salute dei cittadini. Ai medici (che oggi tutti chiamano eroi) sono stati tolti 37 miliardi di euro in dieci anni, altri denari sono stati sprecati in ospedali mai aperti e padiglioni fantasma. È noto. Ma c'è anche altro, di cui si parla meno. Per esempio: la sanità pubblica non potrebbe risparmiare sull'acquisto dei farmaci? Nel dicembre 2018 la Regione Piemonte è riuscita a comprare un medicinale contro il cancro (imatinib) con un risparmio del 99 per cento: è bastato passare dal principio originale al similare, organizzando regolare gara. Lo stesso ha fatto con un altro farmaco (trastuzumab) risparmiando il 71 per cento (da 565 a 163 euro). Benissimo, penserete voi. Lo faranno tutti. Macché: mesi dopo in Umbria quello stesso farmaco trastuzumab veniva pagato non 163 ma 762 euro. Cinque volte di più. E perché? Mistero della fede farmacologica. Infatti: forse pochi lo sanno ma il prezzo a cui lo Stato acquista le medicine è un segreto, più segreto del segreto di Fatima. Farmindustria parla di «riservatezza che serve a tutelare l'accordo raggiunto». Sarà, ma è un po' strano, no? È come se al mercato fossero tolti i cartellini alla frutta e alla verdura: il prezzo viene sussurrato dal venditore all'orecchio dell'acquirente. «Se non riveli la cifra a nessuno, ti faccio uno sconto speciale». Alla fine ognuno è convinto di avere spuntato il prezzo più basso. Ma è evidente che non è così. Luca Li Bassi, fino a ottobre direttore generale dell'Aifa, ci scherza su: «Quando ci troviamo alle riunioni dei vari enti nazionali, io italiano con quello tedesco, verrebbe naturale da chiedere: tu quanto l'hai pagato quel farmaco? E quell'altro? Ma non possiamo farlo per le clausole di riservatezza. C'è da ridere: a tutti noi è stato detto che abbiamo pagato il prezzo più basso e tutti sappiamo che non può essere vero…». Proprio come nel nostro ipotetico mercatino, tra pere, mere e figure da cachi.Il prezzo dei farmaci deve essere trasparente: lo prevede una direttiva europea del 1989, che però non è mai stata applicata. Peccato perché su questo punto si gioca una partita fondamentale, come ha dimostrato anche l'emergenza coronavirus. Viviamo infatti in uno strano paradosso: abbiamo a disposizione medicine sempre più sofisticate, poi mancano i respiratori all'ospedale di Bergamo. Produciamo farmaci da due milioni di dollari, ma non ci sono posti in terapia intensiva a Cremona. I medici non hanno camici a norma e il prezzo di una pillola contro il cancro aumenta del 1.540 per cento in un giorno, solo perché l'azienda ha cambiato proprietà. Quello dei farmaci è l'unico settore dove il progresso ha fatto aumentare i costi. Pensate ai trasporti: nel 1953 per andare da Roma a New York ci volevano 10 giorni in nave e 5.300 dollari. Oggi 9 ore di aereo e 225 dollari. Migliora la tecnologia, si riduce il prezzo. Al contrario di quello che succede con i farmaci. Qualcuno dice: sì, ma questi ultimi spesso sono l'unica chance per sopravvivere. Perfetto: ma allora quanto dovrebbe costare un salvagente? Anche la ricerca: oggi scopriamo quanto sia importante. Non sarebbe giusto che gli Stati ci investissero di più? Perché l'abbiamo lasciata per anni nelle mani dei privati? La Glaxo è stata condannata per aver nascosto i danni di un antidepressivo usato anche per i bambini. In Francia è in corso il processo alla Servier: avrebbe provocato duemila morti tacendo i rischi della pillola per i diabetici. Negli Stati Uniti ci sono 22 aziende farmaceutiche sotto accusa per aver spinto antidolorifici capaci di creare dipendenza e 400 mila morti in dieci anni. C'è da fidarsi? Fra l'altro soltanto il 40 per cento dei risultati degli studi farmaceutici oggi viene pubblicato. Ed è un danno incalcolabile perché la ricerca avrebbe bisogno di tutti i dati: dipendiamo dai dati, come si è visto anche in questi giorni. Perché nasconderli? Nel giugno 2019 il Washington Post ha rivelato che Pfizer aveva scoperto un farmaco capace di avere risultati nel 64 per cento dei casi sui malati di Alzheimer. Non ha ritenuto di pubblicarli. Suo legittimo diritto, si capisce. Ma è giusto? Questo bisogna chiedersi: è giusto il sistema che abbiamo costruito? Giovanni Battista Gaeta, infettivologo di fama e docente all'Università Luigi Vanvitelli, è stato incaricato di scrivere le linee guida della Regione Campania sull'uso dei farmaci. Abbiamo scoperto che lo stesso dottor Gaeta risulta aver ricevuto un contributo in denaro dalla multinazionale Merck. Sono pochi soldi, certo. Ma bastano per far venire il sospetto: non sarebbe meglio se chi dà indicazioni ufficiali sull'uso dei farmaci non prendesse soldi da chi i farmaci li produce? Glielo chiediamo. E lui risponde: «Il sistema è questo. Buono o cattivo che sia, nessuno ne ha trovato uno migliore». E poi aggiunge: «Se le linee guida dovesse scriverle chi non prende soldi dalle case farmaceutiche, le dovrebbe scrivere l'usciere». Con buona pace dell'usciere, dopo il ciclone coronavirus, forse possiamo chiederci se per caso non sia possibile trovare un sistema migliore. Perché forse non ci sarà niente di male, ma a noi non sembra normale che prendano soldi dalle multinazionali non solo i dottori, non solo le società mediche, non solo le associazioni dei malati, ma anche le istituzioni pubbliche, le Asl e persino l'Istituto Superiore di Sanità, che in tre anni ha incassato 323 mila euro dalla Glaxo. Non tanti, ma forse troppi per quello che dovrebbe essere l'arbitro supremo e imparziale, non vi pare? L'Agenzia europea per il farmaco, poi, sta messa peggio ancora: l'84 per cento del suo bilancio dipende delle aziende farmaceutiche. Gli esperti lamentano che, in generale, i servizi sanitari nazionali spendono troppo per i medicinali e sarebbe meglio usare quei denari altrimenti. Ma come stupirsi se ciò accade? L'impressione è che molti farmaci non servano per curare le persone. Servono per curare i bilanci. E, in quello, va detto, funzionano benissimo. «La metà dei farmaci è inutile» dice il più esperto e autorevole dei farmacologi, Silvio Garattini. E le ricerche confermano le sue parole. Nel luglio 2019, per esempio, una dottoressa dell'Istituto pubblico della sanità - Beate Wiesler - ha scoperto che su 216 farmaci nuovi messi sul mercato solo 54, cioè uno su quattro, ha portato reale beneficio. Ciò significa che tre su quattro sono stati sostanzialmente inutili. La rivista medica francese Prescrire ha pubblicato un elenco di 105 farmaci che provocano più danni che benefici. Tutto ciò fa tornare in mente quel presidente di azienda farmaceutica che diceva: «Il nostro obiettivo? Vendere medicine alle persone sane». Obiettivo centrato, si direbbe: basti pensare all'eccesso nell'uso di antibiotici (vera emergenza mondiale), allo spreco della vitamina D (320 milioni di euro buttati ogni anno in Italia), per non dire del proliferare di esami inutili (10 miliardi di euro buttati ogni anno in Italia) che per lo più servono a creare malati anche quando non ci sono. Perché pure in quello siamo stati bravissimi: nel creare malattie che non esistono, salvo poi non avere i mezzi per contenere quelle che ci distruggono davvero… Se vogliamo ricostruire la sanità bisogna tenere presente tutto questo. Bisogna metterci più soldi, certo: ma bisogna anche metterli bene. Capire dove vanno a finire. Negli ultimi dieci anni, per dire, in Italia i consulenti della Kpmg hanno incassato 100 milioni di euro per fare un lavoro che poteva fare tranquillamente lo Stato. Una delle Regioni dove gli esperti sono stati più presenti è stata la Calabria. I risultati? Debito esploso e ospedali fatiscenti. I dati, in ogni caso, sono impietosi: dal 2009 al 2017 la spesa pubblica sanitaria italiana è cresciuta meno che in qualsiasi Paese Ocse (esclusi Grecia, Portogallo e Lussemburgo). Il nostro Stato investe per la salute di ogni cittadino 2.545 dollari, cioè 500 in meno della media Ocse (3.038). In compenso i cittadini italiani spendono di tasca loro 791 dollari, cioè più della media Ocse (716).Un italiano su tre ormai paga le cure sanitarie essenziali di tasca sua, facendo così esplodere i guadagni della Salute Spa le aziende del settore hanno avuto negli ultimi anni crescite di fatturato fino al 40 per cento. Il motivo? Lo spiega uno studio Cergas Bocconi: «La domanda insoddisfatta del Servizio Sanitario Nazionale diviene area strategica». Perfetto, no? L'insoddisfazione dei malati è strategica per i bilanci aziendali. Vi siete mai chiesti perché in certi ospedali ci vogliano 550 giorni per una mammografia? E perché in generale i tempi di attesa per una visita si allunghino sempre di più? Ecco: è l'insoddisfazione che diventa strategica. E di strategia in strategia sulla sanità si stanno già avventando anche altri soggetti interessati al grande business del presente e del futuro, dalle assicurazioni, che s'inventano nuove formule sempre più aggressive, ai giganti del web, disposti a investire montagne di dollari anche per acquisire i dati dei malati. Tutto legittimo, per carità. Ma bisogna stare in guardia. Evitare abusi. E soprusi. «La salute è la cosa più importante» ci ripetiamo da sempre. Eppure per anni ci siamo dimenticati di investire, di controllare, di conoscere, e abbiamo lasciato via libera agli sciacalli, quelli che di fronte ai pazienti non pensano a curarli ma a farli rendere. Chissà se lo choc del coronavirus ci darà la forza per cambiare strada. Quando un libro contiene tanti numeri è spesso respingente Sciacalli. Virus, salute e soldi. Chi si arricchisce sulla nostra pelle di Mario Giordano (Mondadori, pp. 204, euro 19) ha l'effetto opposto. A ogni cifra che aggiunge fa crescere la rabbia e proseguire nella lettura. Inchiesta coraggiosa su sprechi pubblici, arbitri della classe medica, interessi di gruppi privati del settore, rivolta come un calzino i 114 miliardi che il bilancio statale destina, ogni anno, alla Sanità. Emergono così i costi abnormi (che dire dei circa 2 miliardi di euro di risparmi immediati se si facessero pagare lo stesso prezzo in tutta Italia siringhe e altri semplici dispositivi?). Soprattutto fanno arrabbiare i guadagni stellari delle case farmaceutiche su forniture ospedaliere (un prodotto contro l'ipertensione fatto pagare circa 2.200 euro e che dovrebbe costarne 27). Pagine che fanno ancor più riflettere mentre l'Italia combatte Il coronavirus, con spunti preziosi per immaginare una Sanità più giusta. Sempre che ci sia una classe politica capace di raccoglierli.

"Ammazza il virus", "È falso". Battaglia sull'arma anti-Covid. La cura del plasma iperimmune per i pazienti Covid divide gli esperti: "Non è una pozione magica" dice il virologo Burioni. Dal Cts nessun interessamento, Salvini: "Approfondite il lavoro di questi medici". Rosa Scognamiglio, Giovedì 07/05/2020 su Il Giornale. "Funziona", "Non è una pozione magica". La cura del plasma iperimmune per gli ammalati di Covid-19 diventa terreno di scontro tra gli esperti ingenerando una polemica senza precedenti. Se da un lato, infatti, c'è chi sostiene la validità della terapia saggiata all'ospedale San Matteo Pavia, dall'altro qualcuno ne mette indiscussione l'efficacia lamentando l'assenza di risultati inconfutabili.

La polemica. La pubblicazione scientifica relativa all'esito della "cura pavese", sperimentata anche al Carlo Poma di Mantova e all'Ospedale Cotugno di Napoli a partire da metà maggio, sarà disponibile nelle prossime settimane. Nell'attesa che i dati possano fugare ogni eventuale dubbio sull'adeguatezza del trattamento, il numero dei pazienti immunizzati raggiunge una quota a dir poco significativa: 48 guariti e neanche un decesso. Tuttavia, sono ancora molti i virologi che sostengono l'impraticabilità della terapia manifestando scetticismo e, talvolta, beffante disappunto. "La nuova pozione magica", commenta con tono vagamente irridente il virologo Roberto Burioni lanciando una frecciatina piccata al collega Giuseppe De Donno, primario presso il Reparto di Pneumologia dell'Ospedale Carlo Poma di Mantova e fautore della cura. Resta in silenzio, invece, il Comitato tecnico scientifico mentre il leader della Lega Matteo Salvini non fa mistero delle sue posizioni chiedendo l'intervento del Governo: "Nessuno ne parla. Approfondite quello che questi medici stanno facendo". A sedare gli animi ci pensa Cesare Perotti, dirigente di Immunoematologia del Policlinico San Matteo di Pavia, coautore dello studio insieme al collega del centro trasfusionale Massimo Franchini, l'infettivologo Salvatore Casari e lo pneumologo Giuseppe De Donno. "Il trattamento dà esiti incoraggianti, - afferma l'esperto - ma è necessario terminare l' analisi di tutti i parametri biologici e clinici relativi ai 50 pazienti trattati, analisi tuttora in corso, e superare il vaglio della comunità scientifica, prima di poter affermare se e quanto funziona". Secondo fonti del Fatto Quotidiano, il gruppo di studiosi avrebbe scritto fin da marzo al ministero della Salute per chiedere un coordinamento della raccolta del sangue dei guariti ma non avrebbe mai ricevuto alcuna risposta. E anche l'Istituto superiore di sanità (Iss) non avrebbe manifestato grande interesse. Insomma, si brancola nel buio o, meglio ancora, nel silenzio. Alla luce dei riscontri ottenuti, la cura sembrerebbe sortire risultati incoraggianti. Tuttavia, per poterne convalidare l'efficacia bisognerà attendere l'esito relativo parametro della viremia, cioè la quantità di virus presente nell'organismo dei pazienti prima e dopo l' infusione di anticorpi. Fatto sta che, se la sperimentazione fosse messa a protocollo nazionale, richiederebbe un investimento economico piuttosto contenuto - 90 euro per paziente a carico del Servizio sanitario nazionale - dettaglio non trascurabile in tempi di ristrettezze. "Il plasma non è commerciabile in Italia - spiega Casari -Al massimo si può cederlo a un' altra struttura sanitaria, con rimborso del costo vivo".

I risultati dello studio. Intanto, i risultati di ben tre ricerche condotte a Wuhan confermano la validità del trattamento anche nei pazienti con sintomatologia Covid acuta. Perotti e i suoi colleghi chiedono, pertanto, che la cura venga testata nell' ambito di studi più ampi e randomizzati, cioè dove sia previsto anche un gruppo di pazienti cosiddetti 'di controllo', che abbiano sintomi molto più lievi dei primi o siano trattati con un altro farmaco, per poter confrontare la reale superiorità, in termini di efficacia, della terapia. Indagine che finora nessuno ha ancora svolto. "Senza studi randomizzati, non si può essere sapere se i pazienti sono guariti a causa di una terapia sperimentale o nonostante essa", si legge il 7 aprile sulla rivista medica Jama in merito alla terapia del plasma iperimmune. Il protocollo di Pavia e Mantova è stato chiesto da molti altri Paesi nel mondo. Inclusi gli Usa. Lì ora sono già pronti 2.089 ospedali, 4.600 medici, 10 mila pazienti arruolati e 5 mila sono stati già trattati con il plasma iperimmune, pur essendo partiti ben dopo l' Italia. Il gruppo ha ceduto parte del plasma anche a molti altri ospedali italiani per trattare altri 50 malati gravi, fuori dal protocollo di sperimentazione. "Anche da lì stanno emergendo risultati interessanti, che presto verranno pubblicati", ha detto Perotti.

La testimonianza. "Sono un medico di famiglia, e capisco che cosa si prova a stare nei panni del malato, perché anch' io ho dovuto lottare con tutte le mie forze contro questo Coronavirus. Mi considero fortunato per essere stato preso in cura in Lombardia e trattato con il plasma ricco di anticorpi neutralizzanti ricavati dal sangue di donatori convalescenti". A raccontarlo è Mario Scali, medico di base residente a Parma, risultato positivo al Covid-19 lo scorso aprile. In una lunga intervista rilasciata al Quotidiano Nazionale, il dottore racconta la sua esperienza da paziente esprimendo riconoscenza incondizionata nei confronti dei colleghi che lo hanno trattato con la cura del plasma iperimmune. "Sono stato ricoverato 19 giorni all' Ospedale di Mantova, dove lavora anche mia moglie immunologa, nel reparto malattie infettive. - racconta - Mi era venuta la febbre, l' affanno, altri segni caratteristici, insomma ai primi sintomi ho capito che mi ero beccato l' infezione da Coronavirus. Ora sono guarito, finalmente posso dirlo. Lo hanno provato anche le analisi sierologiche e molecolari cui sono stato sottoposto, un doppio tampone negativo, le immunoglobuline G positive, e IgM negative, segno che ho affrontato una malattia impegnativa che mi toglieva le forze e che avrebbe potuto prendere una brutta piega se non avessi avuto la fortuna di essere sottoposto alla terapia con plasma iperimmune, ricco di anticorpi neutralizzanti contro il virus Sars-Cov-2". La terapia sperimentale sembra aver sortito ottimi risultati e il dottor Scali ne è la prova evidente. Cionostante, il Ministero continua a mostrare reticenza circa il protocollo sperimentato a Pavia e Mantova invitando alla prudenza. "L'invito alla prudenza è legato al fatto che questa è una malattia ancora poco conosciuta, ma la terapia con le immunoglobuline ha una lunga storia. - spiega - ho seguito i corsi di evidence based medicine della Fondazione Gimbe, concordo pienamente sul fatto che devono esserci delle prove di efficacia robuste perché una terapia possa entrare in un protocollo condiviso. Però sono meravigliato, e anche deluso da certe affermazioni che ho letto nella mia Regione". Tanto, forse troppo, lo scettismo da parte delle istituzioni che potrebbero, al contrario, favorire il trattamento sperimentale accellerando il processo di guarigione per molti pazienti Covid. "Non credo che il plasma possa essere una terapia da utilizzare subito e per tutti i pazienti. -continua il dottore - Ma ritengo che sia una terapia che merita di essere sperimentata e valutata, e che potrebbe aiutare qualche paziente. C' è chi l' ha definita un tormentone, avvicinandola alla terapia Di Bella e al siero Bonifacio". La vicenda appare piuttosto controversa e intricata, tale da alimentare una polemica senza precedenti: "Dico, anche la Fda americana ha preso in considerazione il plasma. In Italia si sta sperimentando a Mantova, Pavia, Pisa, Padova, mi resta oscuro il motivo per cui da altre parti si sollevano resistenze e perplessità", conclude Scali. 

Angela Marino per "fanpage.it" il 6 maggio 2020. Era sul punto di fare "scoperte molto significative": un professore dell'Università di Pittsburgh impegnato nella ricerca medica contro il Covid-19 è stato ucciso a colpi di pistola in un apparente dinamica omicidio-suicidio. Il corpo di un secondo uomo – identificato martedì dall'ufficio del medico legale della Contea di Allegheny come Hao Gu, 46 anni – è stato trovato in un'auto parcheggiata vicino alla scena della prima morte. Bing Liu presentava ferite da arma da fuoco alla testa, al collo, al busto e agli arti. Gli investigatori credono che si stato ucciso dall'uomo trovato morto a pochi passa da casa, me le indagini sono ancora in corso. L'università ha rilasciato una dichiarazione affermando che "è profondamente rattristata dalla tragica morte di Bing Liu, un prolifico ricercatore e ammirato collega di Pitt. L'Università estende le nostre più sentite simpatie alla famiglia, agli amici e ai colleghi di Liu in questo momento difficile". Liu ha conseguito il dottorato presso l'Università di Singapore nel 2012. Si è trasferito negli Stati Uniti e ha lavorato come borsista presso la Carnegie Mellon University con il famoso scienziato informatico Edmund M. Clarke, vincitore del Turing Award 2007. "Bing era sul punto di fare scoperte molto significative per comprendere i meccanismi cellulari che sono alla base dell'infezione da SARS-CoV-2", hanno detto i suoi colleghi del Dipartimento di Biologia Computazionale e dei Sistemi dell'Università. I membri della School of Medicine dell'Università descrivono il loro ex collega come ricercatore e mentore eccezionale, e si sono impegnati a portare avanti il lavoro fatto da Liu "nel tentativo di rendere omaggio alla sua eccellenza scientifica".

Il giallo del ricercatore cinese assassinato in America. Davide Bartoccini su Inside Over il 6 maggio 2020. La ricerca sul Covid-19 e la sua cura si macchiano di sangue, e adesso è giallo sull’assassinio di un professore cinese dell’università americana di Pittsburgh che è stato freddato con un colpo di pistola alla testa. Era vicino a fare “scoperte molto significative” sul virus che ha scatenato la pandemia globale e rischia di cambiare per sempre le nostre vite. E sebbene gli inquirenti non possano collegare il movente dell’omicidio alle ricerche avanzate campo scientifico su un tema così delicato, un velo di mistero sta già avvolgendo il caso sotto indagine. A freddare Bing Liu, 37 anni, sarebbe stato un altro uomo, Hao Gu, 46 anni, anche lui di Pittsburgh, trovato morto lo stesso giorno, sabato 2 maggio, a poca distanza dal luogo del delitto. Dopo aver sparato diversi colpi di pistola sul ricercatore che si trovata nel patio della sua abitazione, quest’ultimo si sarebbe tolto la vita nella propria auto. Secondo gli inquirenti non si tratterebbe di un rapina, anzi, i due uomini si conoscevano, e l’assassino avrebbe agito mentre la moglie della vittima era fuori casa. Sarebbe da escludere, secondo la polizia di Pittsburgh, la “pista cinese“: ossia un omicidio legato alle origini asiatiche dell’uomo; ma non si può allo stesso tempo non considerare la possibile implicazione delle sue ricerche sul Sars-Cov-2. Fonti interne all’università statunitense dove la vittima lavorava da sei anni hanno dichiarato: “Bing era sul punto di fare scoperte molto significative per comprendere i meccanismi cellulari che sono alla base dell’infezione da Sars-CoV-2 e le basi cellulari delle seguenti complicazioni”. I suoi colleghi del Dipartimento di Biologia Computazionale e dei Sistemi della School of Medicine lo hanno descritto come “ricercatore e mentore eccezionale”, affermando che si impegneranno a “rendere omaggio alla sua eccellenza scientifica” completando le ricerche che stava portando avanti con dedizione. Bing Liu, originario della Cina, aveva conseguito la laurea e il dottorato di ricerca in informatica presso la National University di Singapore per poi stabilirsi negli Stati Uniti, e proseguire la sua carriera accademica prima nella prestigiosa Carnegie Mellon University, dove collabora con il professor Edmund Clarke, e poi all’University of Pittsburgh School of Medicine. La stessa dove Andrea Gambotto e Louis Falo sono attualmente impegnati nel coordinamento di un gruppo di ricercatori che lavora senza sosta alla creazione di un vaccino efficace per fermare il nuovo coronavirus Sars-Cov-2. Secondo quanto riportato dallo scienziato italiano, il vaccino – una sorta di un cerotto che viene applicato sulla cute delle cavie e che potrebbe essere il primo ad essere approvato dalla Food and Drug Administration – ha superato la fase di sperimentazione animale, producendo la quantità di anticorpi specifici sufficienti a neutralizzare il virus. Un obiettivo molto ambito in questo momento di competizione scientifica che vede una vera e propria corsa al vaccino che “salverà il mondo”. In ballo infatti non c’è solo la salvaguardia dell’umanità, ma anche interessi economici e politici. Per questo motivo, e per le “scoperte molto significative” ottenute dalla vittima riguardo il misterioso “virus cinese” – che gran parte dell’opinione pubblica ritiene essere, senza alcuna prova che possa suffragare la tesi, un’arma biologica creata in qualche laboratorio segreto per generare il caos e sovvertire gli assetti geopolitici – si sta cercando un collegamento tra la ricerca sul Covid-19 e questa brutale esecuzione. Per adesso ciò che è certo, è che un giovane e promettente ricercatore ha perso la vita. Lascia una moglie e i suoi genitori, che ancora vivono in Cina.

La verità dietro la morte di Bing Liu, il ricercatore che studiava il Covid-19 al centro delle teorie del complotto. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Stava studiando la “comprensione del meccanismo cellulare alla base dell’infezione da SARS-CoV-2”, e per questo il ritrovamento del suo cadavere ha dato il via ad una serie di teorie complottiste, secondo cui la vittima aveva scoperto che il Coronavirus era stato creato in laboratorio negli Stati Uniti. È il giallo dietro la morte di Bing Liu, 37 anni, medico cinese dell’Università di Pittsburgh in Pennsylvania (Stati Uniti), trovato privo di vita nella sua abitazione lo scorso sabato ucciso da alcuni colpi di arma da fuoco. Sui social, in particolare sul cinese Weibo, sono subito iniziate a circolare teorie sulle sue presunte scoperte di un ruolo americano dietro la diffusione del Covid-19. Ad amplificare la divulgazione di queste teorie anche le parole di alcuni colleghi del ricercatore 37enne: “Bing era sul punto di fare scoperte molto significative per comprendere i meccanismi cellulari che sono alla base dell’infezione da SARS-CoV-2″, hanno dichiarato i suoi colleghi del Dipartimento di Biologia Computazionale e dei Sistemi dell’Università. In realtà le autorità americane hanno chiarito i dettagli della vicenda delittuosa: ad uccidere il ricercatore cinese, laureato all’Università di Singapore dove aveva anche conseguito un Phd in scienze informatiche, è stato il 46enne Hao Gu. Quest’ultimo è stato trovato morto a sua volta nella sua auto, non molto distante dall’appartamento di Bing Liu: il movente sarebbe sentimentale, perché i due si sarebbero innamorati della stessa donna. Per questo sarebbe nato una violenta lite culminata nell’omicidio-suicidio perpetrato da Hao Gu.

·         La Dittatura Sanitaria.

“Quanto guadagnano i 26 esperti di Speranza?”. Donzelli fa la domanda sul Cts che nessuno osava fare. Penelope Corrado martedì 17 Novembre 2020 su Il Secolo D'Italia. La domanda circola negli ambienti della Sanità pubblica in maniera insistente. La pongono a mezza bocca molti addetti ai lavori. Oggi Giovanni Donzelli l’ha formulata in modo schietto. “Quanto guadagnano i membri del Cts (Comitato tecnico scientifico)?”. Formalmente, infatti, i saggi scelti dal ministro Speranza, lavorano gratis. L’ormai famoso Cts è infatti un organismo che non comporta alcun costo aggiuntivo per le casse dello Stato. Tuttavia, come osserva il deputato di Fratelli d’Italia, c’è un margine di ambiguità. «I virologi – dice Donzelli da Klaus Davi per il web talk KlausCondicio – con un atto di trasparenza dovrebbero rendere pubblici i dati sia delle consulenze che dei rimborsi spese. Perché se è vero che dicono di lavorare a titolo gratuito, in realtà sarebbe opportuno anche fare una verifica sui rimborsi spese perché da lì si potrebbe capire quanto guadagnano. Contestualmente andrebbero anche resi pubblici i dati del CTS, che vengono pubblicati solo dopo 75 giorni. Ma quale utilità potrebbero avere dopo 75 giorni quando nel frattempo negozi e aziende saranno chiusi?». «Per la partecipazione al Comitato non sono dovuti compensi, gettoni di presenza o altri emolumenti. Eventuali oneri di missione, derivanti dalla partecipazione alle riunioni del Comitato sono a totale carico dei partecipanti o delle Amministrazioni e strutture di appartenenza». Cosi recita l’articolo 3 dell’ordinanza n.663 del 18 aprile 2020. L’ordinanza porta la firma del capo dipartimento della Protezione civile, Angelo Borrelli. Insomma, il fatto che gli “eventuali oneri di missione” siano a carico delle strutture di appartenenza, può creare un meccanismo di scatole cinesi. E qui, il termine “cinese” è più appropriato che mai. Insomma, rendere trasparenti anche gli eventuali rimborsi dei 26 consulenti di Speranza sarebbe cosa buona e giusta, come chiede appunto il deputato di FdI. Ma chi sono i componenti del Comitato tecnico scientifico? Ecco l’elenco aggiornato.

Il Comitato tecnico scientifico è composto da:

Agostino Miozzo, Coordinatore dell’Ufficio Promozione e integrazione del Servizio nazionale della protezione civile del Dipartimento della protezione civile – con funzioni di coordinatore del Comitato

Silvio Brusaferro, Presidente dell’lstituto superiore di sanità

Claudio D’Amario, Direttore Generale della prevenzione sanitaria del Ministero della salute

Mauro Dionisio, Direttore dell’Ufficio di coordinamento degli Uffici di sanità marittima-aerea e di frontiera del Ministero della salute

Achille Iachino, Direttore Generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico del Ministero della salute

Sergio Iavicoli, Direttore Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale dell’INAIL

Giuseppe Ippolito, Direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani”

Franco Locatelli, Presidente del Consiglio Superiore di Sanità del Ministero della salute

Nicola Magrini, Direttore Generale dell’Agenzia Italiana del Farmaco

Giuseppe Ruocco, Segretario Generale del Ministero della salute

Nicola Sebastiani, Ispettore Generale della sanità militare del Ministero della difesa

Andrea Urbani, Direttore Generale della programmazione sanitaria del Ministero della salute

Alberto Zoli, rappresentante della Commissione salute designato dal Presidente della Conferenza delle Regioni e Province autonome.

Fanno parte del Comitato i seguenti esperti:

Massimo Antonelli, Direttore del Dipartimento emergenze, anestesiologia e rianimazione del Policlinico Universitario “A. Gemelli”

Roberto Bernabei, Direttore del Dipartimento Scienze dell’invecchiamento, neurologiche, ortopediche e della testa – collo del Policlinico Universitario “A. Gemelli”

Fabio Ciciliano, dirigente medico della Polizia di Stato, esperto di medicina delle catastrofi – con compiti di segreteria del Comitato

Ranieri Guerra, rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità

Francesco Maraglino, Direttore dell’Ufficio prevenzione delle malattie trasmissibili e profilassi internazionale del Ministero della salute

Luca Richeldi, Presidente della Società italiana di pneumologia

Alberto Villani, Presidente della Società italiana di pediatria.

Inoltre, ordinanza del Capo Dipartimento della Protezione civile n. 673 del 15 maggio 2020, il Comitato è integrato con i seguenti componenti:

Giovannella Baggio, Presidente del Centro studi Nazionale su Salute e Medicina di Genere

Elisabetta Dejana, Membro del Consiglio Superiore di Sanità del Ministero della salute

Rosa Marina Melillo, Professore Patologia Generale presso l’Universita’ “Federico II” di Napoli

Nausicaa Orlandi, Presidente della Federazione Nazionale degli ordini dei chimici e dei fisici

Flavia Petrini, Professore Settore Scientifico Disciplinare – Anestesiologia – Dipartimento di Scienze Mediche Orali e Biotecnologiche dell’Università degli Studi G.d’Annunzio (Ud’A) di Chieti-Pescara

Kyriakoula Petropulacos, Direttore Generale Cura della Persona e Welfare della Regione Emilia-Romagna.

I tecnici che ci mancano. La pandemia è affare di virologi e medici, ma non solo. Al tavolo delle decisioni mancano i sociologi quantitativi. Pier Luigi Del Viscovo, Mercoledì 04/11/2020 su Il Giornale. La pandemia è affare di virologi e medici, ma non solo. Al tavolo delle decisioni mancano i sociologi quantitativi. Intendiamoci, per un Paese che ha portato nelle stanze dei bottoni degli ignoranti qualsiasi al grido di «questo lo dice lei», aver messo in cattedra persone che per tutta la vita hanno studiato virus e rianimato pazienti è già un bel passo avanti. Questi scienziati stanno dando un ottimo contributo, pur nelle posizioni a volte divergenti. Cosa comprensibile, essendo molto aiutati a divergere dai professionisti della notizia. La domanda è se basti oppure serva altro. No, non basta e sì, serve ben altro. Se il virus e la cura degli infetti competono ai medici, la circolazione dell'infezione no. Il Covid cammina sulle gambe della gente e la società è una bestia complessa, multiforme. Come sa bene chi per mestiere la studia da anni. I medici che siedono al tavolo leggono la realtà dalla sala rianimazione: se è sgombra potete muovervi, quando si riempie fermi tutti e state a casa. È la soluzione più efficace, ma pure la meno sostenibile nel medio termine. Purtroppo, ora siamo costretti a ricorrervi nuovamente, visto che quando abbiamo ripreso ad andare in giro e incontrarci l'abbiamo fatto nei modi sbagliati e poco sicuri. Fuori dagli ospedali c'è il virus e c'è una popolazione che con i suoi comportamenti determina la curva dei contagi. Capire cosa orienta tali comportamenti aiuta ad agevolare quelli virtuosi con provvedimenti e comunicazione. Questa analisi di merito è fondamentale, e ancora manca. Durante il lock-down, abbiamo imparato che per ottenere il distanziamento non bisognava chiudere i supermercati ma tenerli aperti h24. I sociologi lo sapevano già, visto che studiano le statistiche tutti i giorni. Ora si parla di ridurre l'occupazione degli autobus al 50%. Come si può, senza aumentare l'offerta? Davvero c'è chi crede che i passeggeri possano restare a terra? Non certo i sociologi. Monopattini e biciclette sarebbero una soluzione? Ma non scherziamo. Milano si sta facendo ridere dietro, perché riduce la viabilità quando ne serve di più, visto che più persone vogliono usare la macchina. La mobilità delle grandi masse è fenomeno di quantità e gli statistici della società devono essere interrogati e ascoltati. Da mesi ripetiamo che il goal non è chiudere la gente in casa, ma farla circolare e incontrare senza scambiarsi il virus. Per questo, non bastano i provvedimenti, nazionali o regionali che siano. In questa partita si vince o si perde in 60 milioni. Per sintonizzarci e fare squadra, in democrazia serve un'abile e sottile comunicazione. Quali tasti suonare è materia per chi nella vita studia la formazione delle opinioni, oggi soprattutto sui social media. Senza, noi chiuderemo adesso e i positivi scenderanno. Poi riapriremo a dicembre solo per scoprire, a metà gennaio, che i contagi staranno risalendo di nuovo. Tempo febbraio e si richiude tutto. Come sappiamo, è pura follia aspettarsi risultati diversi facendo e rifacendo la stessa cosa.

"Da Pechino solo bugie. Covid nato a settembre. Basta coi finti virologi". L'esperto: "Artificiale? Non lo escludo, è così umanizzato che non infetta più i pipistrelli". Felice Manti e Edoardo Montolli, Domenica 08/11/2020 su Il Giornale. Da quasi un anno combattiamo contro un virus, il Sars-Cov2, del quale non sappiamo ancora un granché. Né quando sia nato, né come sia nato: la mitologia dell'origine al mercato di animali vivi di Wuhan è ormai ampiamente superata (nel libro Wuhan - virus, esperimenti e traffici oscuri: nella città dei misteri già in allegato a Il Giornale, era stato raccontato come questo fosse impossibile). È d'accordo anche Giorgio Palù, professore emerito dell'Università di Padova e past-president della Società italiana ed europea di Virologia.

Lo scorso marzo la Società Italiana di Virologia, denunciò che nel Cts, l'organismo che affianca il governo, non sieda nemmeno un virologo. Lei conferma?

«Lo confermo. Certo che almeno un virologo avrebbe dovuto esserci fin dall'inizio, pur riconoscendo che va dato spazio anche a esperti di varie discipline della biomedicina rilevanti per una malattia di natura pandemica. Va segnalato che voi giornalisti avete definito virologi tutti gli esperti intervistati, anche professionisti che nulla hanno a che vedere con la virologia. Questa non è stata una corretta informazione per la popolazione che incolpa proprio questi virologi di idee contraddittorie e di battibecchi sui media che confondono e disorientano. La virologia è una scienza esatta, che studia la genetica e la riproduzione dei virus, l'interazione tra virus, ospite e sistema immunitario, i meccanismi di malattia, i bersagli di nuovi farmaci, il disegno di vaccini innovativi oltre che occuparsi di diagnosi e monitoraggio terapeutico. L'importanza della virologia è dimostrata dai numerosi premi Nobel per la fisiologia o la medicina assegnati ai virologi per scoperte fondamentali; vorrei ricordare tra questi anche gli Italiani Salvador Luria e Renato Dulbecco e i tre vincitori del Nobel di quest'anno».

Lei non esclude che il Sars-Cov2 sia un virus artificiale?

«Non si può dire che lo sia e non si può escludere che non lo sia. Se i cinesi collaborassero potremmo saperne di più, ma dai virologi di Wuhan non sono arrivate informazioni sui Coronavirus del pipistrello che in quel laboratorio erano da tempo studiati e tenuti in coltura. Certo è che questo virus, che discende da un virus del pipistrello per il 96% del suo genoma, ha acquisito delle sequenze affatto peculiari che lo hanno reso adatto ad infettare l'uomo che è ora diventato il suo ospite naturale. Tale acquisizione sembra essersi verificata in un unico evento, e le sequenze neo-acquisite non hanno subito modificazioni nonostante Sars-Cov2 abbia infettato milioni di persone al mondo. Il virus è oggi così umanizzato da non essere più in grado di infettare le cellule di pipistrello».

Uno studio del Mario Negri di metà ottobre ha rivelato come a Bergamo il 38,5% della popolazione abbia sviluppato gli anticorpi al virus, ovvero il doppio di quella di New York, e oltre il triplo di Madrid, seconda per letalità al mondo dopo Bergamo. Com'è possibile?

«È dipeso dall'elevata circolazione del virus nella bergamasca. Sars-Cov2 ha infettato e immunizzato un numero elevato di soggetti che hanno sviluppato anticorpi neutralizzanti, tanto che oggi quelle zone sono le meno colpite dal Covid-19. Il virus è circolato diffusamente in Lombardia, la prima regione interessata dall'epidemia, per varie ragioni: elevata densità abitativa, intasamento dei pronto soccorso, eccesso di ricoveri ospedalieri in mancanza di un filtro territoriale, conseguente diffusione nosocomiale del contagio anche per assenza di adeguati dispositivi di protezione e successiva esplosione in comunità. Più aumentava l'incidenza cumulativa dei nuovi casi più aumentavano i casi gravi e quelli letali, soprattutto perché in Lombardia era stata ampiamente superata la disponibilità di posti letto nelle rianimazioni».

Ma le mancate autopsie e gli intasamenti delle terapie intensive non bastano a spiegare cosa sia accaduto a Bergamo: migliaia di persone sono morte a casa, in tre giorni...

«Credo che quanto accaduto sia in larga misura conseguenza di come è stata gestita la pandemia, più come problema assistenziale in una competizione pubblico-privato che come emergenza di sanità pubblica. Il nostro sistema sanitario era impreparato, si trattava comunque di patologia causata da un nuovo virus, il primo Coronavirus pandemico, della cui insorgenza i cinesi avevano dato informazione molto tardiva. Sembra infatti dall'analisi del genoma, che come un orologio traccia il percorso evolutivo del virus, Sars-Cov2 circolasse da uomo a uomo sin da settembre 2019, ma l'Occidente lo ha saputo solo a gennaio 2020».

Qualcuno parla già di terza ondata, Lei sostiene che invece solitamente pandemie di questo tipo come in passato durino due anni al massimo...

«L'Italia non è mai uscita dalla prima ondata, come invece ha fatto la Cina, con una curva del contagio completamente azzerata ed un andamento perfettamente speculare della fase ascendente e discendente a tracciare una perfetta gaussiana. Anche se a un tasso ridotto, il virus in Italia ha continuato a circolare anche d'estate. E la popolazione del Sud, che era stata risparmiata dalla pandemia che invece aveva colpito di più il Nord, non ha ancora gli anticorpi per resistere al virus. Avremo quindi diffusioni non uniformi e asincrone del contagio non solo in Italia ma nel resto del globo».

E quanto durerà ancora?

«Trattandosi del primo Coronavirus pandemico è difficile fare delle previsioni e per lo meno fantasioso prospettare ondate in successione. È doveroso ammettere di non sapere. Nel prospettare la durata nel tempo di Covid-19 mi baso sull'esperienza di quanto avvenuto in passato con virus pandemici appartenenti ad altre famiglie, in particolare ai virus influenzali che sono accomunabili ai coronavirus per modalità di diffusione e per letalità».

Striscia la Notizia, attacco estremo a Roberto Speranza: le "figure di merda multiple" di un ministro da cacciare. Libero Quotidiano il 09 novembre 2020. In un governo disastroso, in cui Giuseppe Conte è massima espressione del disastro, forse c'è anche chi riesce a fare peggio: Roberto Speranza. Gaffe e scivoloni l'uno dietro l'altro. Tanto che anche Striscia la Notizia cannoneggia contro l'improbabile ministro alla Salute. Lo fa con un tagliente servizio trasmesso nell'edizione del tg satirico in onda su Canale 5 lunedì 9 novembre, in cui vengono ripercorse le ultime due "prodezze", in rigoroso ordine cronologico, in cui è incappato Speranza. Spiega Striscia: "Tra il libro Perché guariremo, recentemente ritirato dal mercato, e lo scandalo del commissario della Sanità in Calabria Cotticelli, sostituito da un altrettanto discusso Zuccatelli, per il ministro della Salute Roberto Speranza non è certo un bel momento - premettono -. Anzi, come direbbe Emilio Fede, quelle accumulate dal ministro sarebbero delle figure di merda multiple", concludono da Striscia. Il messaggio è chiarissimo: Speranza farebbe meglio a farsi da parte.

Bruno Vespa a Quarta Repubblica: "Ho ripensato a Mussolini e a piazza Venezia piena". Il paragone col Covid: lo insultano in diretta. Libero Quotidiano il 10 novembre 2020. "Questo virus è un dittatore cruento", Bruno Vespa lascia per una sera Porta a porta e Raiuno per un "blitz" a Mediaset, ospite di Nicola Porro a Quarta repubblica. Si parla anche  di coronavirus, seconda ondata, Dpcm e zone rosse, e Vespa espone una teoria suggestiva che sorprende i presenti in studio e molti telespettatori a casa: "Sono andato a Piazza Venezia alla fine del lockdown ed era deserta e ho ripensato a quando c'era il Duce e la piazza era gremita, quindi anche il virus è un dittatore, uno la riempie la piazza e l'altro la svuota". Un paragone spiazzante, quello tra Covid e Benito Mussolini, che trova anche qualche contestazione un po' troppo "vivace" sui social. E c'è come sempre chi passa direttamente agli insulti.

Gianluigi Paragone, i sospetti su Roberto Speranza: "Ranieri Guerra dal ministero alla direzione dell'Oms. Chi lo protegge?" Libero Quotidiano il 09 novembre 2020. "I burocrati durano perché non si fanno vedere". Parola di Gianluigi Paragone che porta ai lettori un esempio non solo concreto, ma anche attuale. Il caso ormai noto è quello di Saverio Cotticelli, l'ex commissario per la Sanità della Calabria. L'uomo, con un lungo passato nell'Arma dei carabinieri, è stato beccato da Titolo V. La trasmissione di Rai 3 lo ha preso alla sprovvista e alla domanda sul perché mancasse un piano Covid, Cotticelli ha detto che non lo sapeva. O meglio, non sapeva che il compito spettasse a lui e l'ha scoperto davanti alle telecamere. "L'ex generale - verga al vetriolo sul Tempo il leader di Italexit - si dichiara vittima di un agguato mediatico. Ovviamente non ci sono stati agguati di nessun tipo, basta guardare quel servizio per accorgersi del degrado operativo in capo a questo signore messo li dal primo governo Conte e confermato sostanzialmente con il recente decreto Calabria di pochi giorni fa". Immediato il licenziamento dopo la trasmissione. Al suo posto è arrivato niente di meno di Giuseppe Zuccatelli o, come lo chiama Paragone, "un genio". Anche su di lui è piombata la polemica dopo alla diffusione di un video in cui diceva che per trasmettere il virus da positivi bisogna baciarsi per quindici minuti. Ma Cotticelli e Zuccatelli sono solo i primi di una lunga serie. "L'ultima puntata di Report - ricorda l'ex grillino -, per esempio, ha raccontato di un rapporto stilato da un gruppo di ricercatori Oms, visionato e vistato dai piani alti e poi fatto misteriosamente sparire perché inchiodava pesantemente il governo italiano e alcuni suoi ex alti dirigenti al ministero della salute. Come mai è sparito? Chi ne ha chiesto la rimozione nonostante la fondatezza delle tesi? Chi protegge Ranieri Guerra, ieri al ministero e oggi direttore aggiunto all'Oms?". La domanda sorge spontanea: "Perché tanta segretezza e tanti silenzi da parte del ministro nonché scrittore di libri ritirati, Roberto Speranza?", si chiede Paragone senza ricevere alcuna risposta.

Il Bianco e il Nero, Veneziani: "Conte parolaio del nulla". Fini: "Siamo alla dittatura sanitaria". L'ultimo Dpcm, le rivolte sociali, il Covid e le misure di contrasto. Ecco cosa ne pensano Massimo Fini e Marcello Veneziani. Francesco Curridori e Domenico Ferrara, Lunedì 26/10/2020 su Il Giornale. Le ultime misure varate dal governo Conte hanno fatto sorgere tensioni sociali in varie città e hanno gettato nel panico e nello sconforto intere categorie produttive. Le contraddizioni dell'ultimo Dpcm sono tante e la luce in fondo al tunnel sembra lontana. Ecco cosa ne pensano gli scrittori Massimo Fini e Marcello Veneziani per la rubrica Il Bianco e il Nero.

Cosa pensa dell'ultimo DPCM? Stiamo entrando in una "dittatura sanitaria"?

Fini: "Assolutamente sì, nel senso che nessun dittatore, nemmeno Mussolini, nemmeno Hitler, nemmeno Caucescu aveva sequestrato la gente in casa come invece oggi sta avvenendo. È una dittatura particolarmente fastidiosa perché viene sotto il nome di democrazia, se deve essere così, meglio un dittatore e la facciamo finita con questa ipocrisia".

Veneziani: "Siamo entrati in una dittatura sanitaria globale da marzo scorso e non ne siamo usciti. Una dittatura attenuata dall’incoerenza e dall’inefficienza. Il regime instaurato è la paurarchia, potere fondato sul terrore della malattia. Peraltro il modello cinese di riferimento inquieta".

Le proteste di Roma e di Napoli contro lockdown che valore hanno? Lei le condivide?

Fini: "Condivido e siccome ritengo questa una dittatura al dittatore si può rispondere in maniera violenta, è vero che in mezzo ci saranno mafiosi, camorristi etc etc, però credo che ci siano anche cittadini del tutto normali".

Veneziani: "Hanno valore di sintomi di un più vasto e comprensibile malessere. A parte le infiltrazioni violente, sono spie indicative del malessere popolare. Detto questo, nessuna ribellione di piazza, nessun masaniello produce cambiamenti che migliorano il quadro generale".

De Luca ha detto che in quella piazza c'erano pezzi di camorra, pezzi di centri sociali, pezzi di fascisti e pezzi di m... Non le pare un'analisi un po' riduttiva?

Fini: "È una lettura riduttiva perché sicuramente questi elementi ci sono ma ci sono anche persone esasperata, normali che non fanno parte né della camorra né della mafia e in quanto ai centri sociali mi pare che siano legittimi in quanto tali".

Veneziani: "De luca si è bevuto il cervello, ha fatto il guappo e’cartone quando il covid colpiva a nord, vantando la Salute Campana. Poi alla prova dei fatti ha mostrato che era tutta apparenza e guapparia".

Quali sono le colpe, le mancanze o le responsabilità del governo e delle Regioni?

Fini: "L'errore sta in partenza e cioè l'aver voluto contenere a tutti i costi il virus, è ovvio, io l'avevo previsto dall'inizio, che appena allenti un attimo la pressione, la molla ti scatta e ti porta verso dove eri prima, quindi c'è questo continuo stop and go, se vogliamo semplicemente pensare ai ristoratori, ma vale per tutti gli imprenditori, tu rimetti in sesto le cose perché ti dicono che riapriranno, poi effettivamente riaprono ma poco dopo richiudono, e quindi tutti i soldi che hai speso per metterti a norma te li puoi ficcare nel culo in sostanza".

Veneziani: "La colpa principale è aver generato allarme, facendo ricadere ogni responsabilità sulla condotta dei cittadini, senza aver attrezzato nulla a livello sanitario e strutturale in questi mesi. E continuano ad addossare tutto il contagio alle scelte private (movida, bar, ristoranti) non vedendo le più gravi carenze pubbliche (trasporti, scuola, infrastrutture, medicina territoriale). Stanno dando una lettura etica anziché una risposta pratica efficace".

Conte ha detto che se fosse dall'altra parte sarebbe arrabbiato pure lui, cos'è una presa in giro o una velata ammissione di colpevolezza?

Fini: "No, non è una presa in giro. Conte, avendo seguito questa linea di contenimento del Covid, va avanti di conseguenza solo che la risposta in generale è totalmente sproporzionata al pericolo perché i morti per Covid sono lo 0,15% della popolazione italiana, poniamo pure che se non avessi fatto il contenimento fossero stati il doppio. Le faccio il parallelo con i morti di tumore all'anno che sono 193mila. Bene, se tu non contenevi il Covid i morti sarebbero stati quintuplicati e sare100mila? Sempre al di sotto di quelli per tumore. Se ogni giorno pubblicassimo quelli morti per tumore avremmo lo stesso effetto devastante sulla psicologia delle persone. Vede, noi nel '57-60 abbiamo avuto l'asiatica che era aggressiva quanto il Covid eppure mon solo non abbiamo fatto il coprifuoco, ma nessuna delle misure messe in atto adesso. Secondo me c'è un impazzimento generale che non riguarda il governo Conte, ma il cambiamento di mentalità dei cittadini per cui la morte, anche ipotetica come questa, non viene accettata. Noi eravamo abituati all'idea che prima o poi si muore".

Veneziani: "Rientra nel suo piacionismo avvocatesco, demagogia ruffiana di un parolaio del nulla".

La superbia del regime sanitario. Corrado Ocone, 14 agosto 2020 su Nicolaporro.it. La scienza è potere. O meglio non è immune, in uscita come in entrata, da logiche che intaccano la sua presunta “neutralità”, oggettività, imparzialità. In uscita, perché gli scienziati spesso “prostituiscono”, o semplicemente adattano, le loro ricerche agli interessi del potere, anche in vista dei finanziamenti per i laboratori ove operano; in entrata, perché il potere spesso a loro chiede proprio questo e cioè un alibi “scientifico” e deresponsabilizzante per decisioni che sono state prese altrove. E come la monaca di Monza, gli sciagurati rispondono. Perché se la scienza è l’ultimo, e il più sofisticato, mito che ha accompagnato la storia umana, e noi generalmente la viviamo in modo sacrale e poco laico (altro che “mentalità antiscientifica”!), gli scienziati sono uomini come tutti noi, non immuni dai vizi e i difetti propri della nostra mala pianta: la vanità, l’arrivismo, il potere, il denaro, la ricerca della visibilità. L’epidemia di Covid-19 ci ha dato, e continua a darci, numerosi esempi di quanto andiamo argomentando. Basti solo pensare un attimo al teatrino di casa nostra con gli scienziati che adattano le loro previsioni, fra l’altro basate su elementi opinabilissimi non conoscendosi l’eziologia del virus, ai desiderata del governo o delle Regioni e che in tv si accusano reciprocamente di incompetenza e inettitudine. E che, pur non azzeccandone molte, hanno la tracotanza e la superbia di chi si sente messo su un piedistallo. Posizione che qualcuno, tipo l’epidemiologo Lo Palco, ha subito capitalizzato presentandosi come candidato per il Pd nelle elezioni regionali pugliesi (Ilaria Capua lo aveva già fatto in passato, ma, azzoppata per uno dei tanti scandali montati ad arte, memore forse di essere cugina di una ex miss italia, si è prontamente riciclata nel settore “fashion” della virologia come testimonia un servizio fotografico e la copertina di un recente numero dell’inserto settimanale del Corriere della sera). Come si fa allora ad inveire contro gli italiani accusati di fidarsi poco della scienza, dando addosso ai populisti che cavalcherebbero, secondo la vulgata mainstream, questo sentimento? Lo scambio è chiaro in Italia: visibilità e carriera in cambio di pezze d’appoggio politiche e sacrificio eventuale da capro espiatorio. Ma se nel nostro Paese ci si muove fra controllo biopolitico e deresponsabilizzazione di chi ci governa, altrettanto interessante è l’intreccio perverso fra scienza e potere che è dato verificare nella battaglia geopolitica globale. Non è dubbio che, dopo aver tenuto nascosto per motivi economici e di affidabilità politica il virus per più settimane, servendosi dell’Organizzazione mondiale per la sanità (che come altre agenzie sovranazionali è finita nelle mani di regimi non liberali), e in qualche modo alleato con la stampa politically correct antitrumpiana, il governo cinese, partendo per così dire avvantaggiato sui tempi, cerca ora di vincere con tutte le armi, dalla propaganda al ricatto economico, la battaglia del postepidemia. In questo contesto è da inserirsi lo studio farlocco pubblicato, e poi ritirato, da The lancet, e avallato  dall’Oms, sulla dannosità della clorochina, un po’ improvvidamente indicata dal presidente americano come sicura cura per il male. La (un tempo) prestigiosa rivista scientifica lo aveva pubblicato in fretta e furia e senza verifiche, salvo poi scoprire che era stato confezionato, senza prove scientifiche, da una società composta da uno scrittore di fantascienza, un attrice porno e una hostess (sic!). In verità, l’ “ordigno nucleare” di cui le potenze mondiali sono alla ricerca per vincere non una battaglia, ma la guerra, è il vaccino. La cui successiva diffusione a livello globale sarà, per chi raggiungerà per primo il traguardo, un fattore di successo economico e di potere politico molto rilevante. Ecco allora che, fra i due pretendenti alla leadership mondiale, non poteva non inserirsi il terzo incomodo, la Russia di Putin, all’eterna ricerca di un suo spazio geopolitico e della passata potenza. L’annuncio solenne, fatto l’altro giorno dall’autoproclamatosi presidente a vita (o quasi) di averne registrato uno e di averlo fatto tastare direttamente dalla figlia, ha lasciato quanto meno perplessa la comunità scientifica seria e l’opinione pubblica mondiale. Cosi come l’annuncio del sanguinario leader filippino Duterte, alleato di Mosca, di volerlo sperimentare direttamente su di sé, in una sorta di populistica assunzione sul proprio corpo del benessere sanitario di tutta la comunità. Sembra che tutte le speculazioni filosofiche sul biopotere, e sul nuovo regime sanitario che per Foucault e i suoi allievi si preannunciava, siano di colpo diventate realtà cogente e quotidiana. Corrado Ocone, 14 agosto 2020

Sono sì consulenti, ma guai a non attenersi alle loro linee guida. Gli esperti scientifici e gli enti nazionali ed internazionali di Sanità hanno dimostrato la loro inaffidabilità. Eppure a sviare dalle loro voglie si paga dazio con la magistratura, la quale alla politica deviante affibbierà le colpe di un disastro.

Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

In che mani stiamo. Un Governo che non è stato votato dal Popolo, si impegna a non rappresentarlo. Questo Governo non decide, ma per pararsi il culo per le stragi, si tiene buoni scienziati, pubblici ministeri e giornalisti. A loro fa decidere sulla carcerazione domiciliare dei cittadini e sulla scarcerazione dei detenuti. Ed ai giornalisti ha dato l'incarico di vigilanza sulle fake news (sic).

LA STOCCATA - Quella mascherina a prova di Sgarbi. Angela Rizzica su Il Quotidiano del Sud il 16 giugno 2020. Forse alla radice di tutto, di tutti i nostri mali, c’è la convinzione geneticamente stampata nell’italiano medio di essere più furbo o più intelligente del prossimo. In effetti proprio questi sono stati i termini del rimprovero pervenuto a Vittorio Sgarbi dalla Vicepresidente alla Camera Mara Carfagna in occasione di una seduta nell’emiciclo più celebre d’Italia. Vittorio Sgarbi si era infatti rifiutato a più riprese di indossare la mascherina durante i lavori d’aula e solo l’ennesimo intervento della deputata di Forza Italia è riuscito a convincerlo. Non che il critico d’arte non avesse spiegato le motivazioni alla base della sua condotta: la mascherina gli faceva male e se Borrelli (capo della Protezione civile, n.d.r.) ha ammesso non indossarla quando si trova a distanza di sicurezza, Sgarbi non voleva essere da meno. Nulla di nuovo in effetti dal momento che Sgarbi è un convinto “controcorrentista” nella vita eppure, forse, qualcosa di rilevante c’è. Con il suo gesto ha, almeno in parte, spiegato anche la ratio di molte pagine nate su Facebook con il preciso intento di mettere in contatto genitori contrari all’uso della mascherina in classe. Le mamme e i papà, così raccolti, non ritengono giusto che i pargoli siano costretti a subire una tale limitazione in così tenera età; sono preoccupati per la salute mentale dei bambini, i quali non potranno più passarsi la merenda col compagno di banco; non dormono la notte pensando alla violenza psicologica che la carne della loro carne si troverà ad affrontare una volta indossato nuovamente il grembiule. In tanti cadono nell’errore sistematico di additare questi genitori come persone poco informate se non, addirittura, poco istruite. Ebbene, il gesto di Vittorio Sgarbi dimostra invece come, spesso, le spiegazioni che forniamo a determinati comportamenti sono, per comodità, finanche troppo semplicistiche: è certamente più semplice pensare che quel “qualcuno” non si sia informato abbastanza piuttosto che accettare si tratti di un “qualcuno” che ha deciso, con scienza e coscienza, di non curarsi dell’altro per dare priorità ai propri bisogni. Un “qualcuno” che, banalmente, si reputa più furbo degli altri, in qualche misura superiore, e che considera il benessere del prossimo un fattore del tutto trascurabile. La mamma che intende battersi perché il figlio possa passarsi tranquillamente la merenda col compagno di giochi non è una donna che ha saltato a piè pari tutte le dirette di Conte così come Vittorio Sgarbi non è di certo un uomo che non legge le indicazioni dell’OMS: entrambi scelgono consapevolmente di contravvenire a delle precise indicazioni per un proprio tornaconto personale, che sia preservare la vita sociale del figlio o evitare il (condivisibile e conosciuto a tutti) fastidio della mascherina. Quello che, però, a queste persone sfugge è che il benessere e l’integrità del prossimo è, indirettamente, anche la loro: evitare o almeno arginare il più possibile la diffusione di questo virus, pure a costo di adottare misure percepite come “draconiane”, sta permettendo a me che scrivo, a voi che leggete e anche a loro che sono “controcorrentisti” di tornare gradualmente a una parvenza di normalità dopo mesi di pura alienazione. Le piccole costrizioni che quotidianamente affrontiamo permettono a tutti noi, giorno dopo giorno, di tornare ad essere sempre più liberi. Ai furbi, insomma, sfugge un concetto che a noi “stupidi” non sfugge affatto, quello di male necessario.

LA LETTERA - Le bombe le sgancia chi esegue gli ordini. Il Quotidiano del Sud il 16 giugno 2020. LA LETTERA DI VITTORIO SGARBI AL QUOTIDIANO DEL SUD – L’ALTRAVOCE DELL’ITALIA DOPO L’ARTICOLO DI ANGELA RIZZICA. Gentile Angela Rizzica, le rispondo volentieri per la civiltà del suo tono, diversamente da quello della Onorevole Carfagna. La premessa è che io non credo, e mi pare che i fatti mi diano ragione , alle pretese verità scientifiche che vengono diffuse da medici e virologi, fino al Comitato tecnico-scientifico che, proprio nella mia prima ribellione all’imposizione delle mascherine, stavamo ascoltando in commissione parlamentare attraverso le parole del suo coordinatore Agostino Miozzi. Questi, a un piccolo gruppo di deputati distribuiti a distanza di ben più di un metro (ecco la prescrizione del capo della protezione civile Borrelli il 3 aprile: “io non porto la mascherina, rispetto le distanze”, molto eloquente), stava dicendo che il Comitato tecnico-scientifico non impone regole ma dà suggerimenti, offre consulenze. E io gli stavo rispondendo che ,a mia scienza ( penso in particolare al Ministro dei Beni Culturali) ,ogni decisione del governo era subordinata alle indicazioni del Cts. Ora ,è del tutto controversa, anche rispetto ai protocolli covid, la funzione delle mascherine, che , come le allego, nelle affissioni diffuse in sedi pubbliche, è sempre subordinata alla distanza inferiore a 1 metro. Non si ravvisava questa condizione né nella commissione parlamentare né nell’aula dove la Carfagna accarezzava i 629 intelligenti, in realtà poco più di 400, che indossavano la mascherina, secondo prescrizioni intervenute soltanto il 22 aprile. Ha letto bene: nel pieno della crisi, fino al 20 aprile, nessun deputato portava la mascherina, e i soli due che, alternatim, l’avevano indossata, fin dalla fine di Febbraio, erano stati guardati con sufficienza. Voglio ricordarle una considerazione molto eloquente dell’artista più sintonizzato con la sensibilità contemporanea, Banksy: «I più grandi crimini del mondo non sono commessi da persone che infrangono le regole, ma da persone che seguono le regole . Sono le persone che eseguono gli ordini che sganciano le bombe e massacrano i villaggi». Si potrebbe aggiungere : «sono i soldati che hanno deportato gli ebrei». È proprio perché sono un legislatore ,e non mi piacciono le finzioni e le maschere, credo che la funzione politica debba portare a valutare e interpretare i suggerimenti dei comitati tecnico-scientifici, anche con l’obiettivo di evitare, per la salute e per l’economia, guai peggiori del male. E, mentre nessuna fonte ci garantisce della utilità delle mascherine fuori degli ambienti sanitari e delle case di riposo, o, in difesa del medico, nei rapporti con i malati accertati, da molte fonti arrivano indicazioni sugli effetti negativi della mascherina rispetto alla diffusione dei batteri, in contrasto con l’ossigeno e l’aria libera. E intanto: coloro che le portano dovrebbero sapere che la mascherina andrebbe cambiata ogni 4 ore. Nessun parlamentare lo fa. Da innumerevoli fonti, a partire da Borrelli fino ad Alberto Zangrillo, in giudizio è unanime. Alcune mascherine sono un presidio medico chirurgico e possono essere considerate a tutti gli effetti un trattamento medico sanitario. Al di là della qualificazione della mascherina, c’è un’interferenza con le attività biologiche e fisiologiche più naturali, a partire dalla respirazione. Questa interferenza è conclamata dalle stesse fonti ufficiali governative. Non lo dicono in modo esplicito ma causa un limitato apporto di ossigeno e una maggiorazione di anidride carbonica che viene espulsa e poi reintrodotta. Perfino nelle linee guida inizialmente diffuse raccomandavano di non portare la mascherina, se non malati. Si può quindi affermare che è un trattamento sanitario poiché interferisce con la fisiologia e va a modificare e alterare un funzionamento normale. L’utilizzo della mascherina è sconsigliabile, o addirittura da evitare, con persone disabili, con alcune malattie, o in diverse fasce d’età. Si fa quindi un’altra ammissione implicitamente: usare la mascherina non è sicuro a priori, è necessaria una valutazione medica pregressa per determinare se il soggetto sia compatibile. Tutto questo è riassunto in un documento dell’avvocato Prisco e del dottor Mastrangelo: «smascheriamo le mascherine», che affermano opportunamente: «Quindi si va a sancire un obbligo, senza sapere se una persona è malata e senza sapere se quell’obbligo sia compatibile con una condizione che una persona può non sapere di avere. Questo è un trattamento sanitario in quanto passibile di inficiare la salute e persino la vita di una persona. Allora come TSO deve attenersi alle norme vigenti in materia di TSO: deve essere disposto dall’autorità locale, cioè il sindaco, su richiesta e proposta di un medico che deve visitare la persona. Se l’obbligo della mascherina è un TSO ,allora solo il sindaco può ordinare a un individuo, con un ordine di autorità, di usare la mascherina, sulla base di una valutazione di un medico che fa la proposta. In questo senso è pure illegale perché non rispetta la normativa vigente in tema di TSO”. Tutte queste considerazioni culminano nella battuta di Zangrillo: “Non c’è nessuna prova scientifica sulla distanza, sulle mascherine siamo al ridicolo”. E io devo prenderle sul serio ? Lo lascio fare alla Carfagna nel rito di ipocrisia cui il Parlamento si è voluto piegare. Ma un indizio inquietante sulle mascherine viene da quelle allegate ,in gran numero, al “Corriere”, il 30 Aprile. Nella confezione che le conteneva si leggeva, a riprova dell’universale incertezza sulla loro utilità ( e pensiamo a quanti tipi e varietà non comprovate ne sono circolate): «Ad uso esclusivo della collettività. Non adatta per uso sanitario o sui luoghi di lavoro. Non costituisce dispositivo medico e/o dispositivo di protezione individuale». E dunque ,in questo mare di dubbi e in queste difformi prescrizioni, dove stanno le non certificate ,e alluse da Angela Rizzica, indicazioni dell’OMS? Mi sembrano più importanti i tentativi di buon senso delle madri, che cercano di salvaguardare l’integrità fisica e psicologica dei loro bambini ,soprattutto dopo la certificazione medica che «l’uso prolungato della mascherina porta a respirare la stessa anidride carbonica emessa dai polmoni. Si chiama ipercapnia. La sintomatologia progredisce verso il disorientamento, panico, iperventilazione, convulsioni, perdita di coscienza e può portare fino alla morte». La fonte? L’Istituto Superiore di Sanità, nel raccomandare l’uso delle mascherine soltanto in ambito sanitario. Mi fido della ragione , non di un Parlamento lobotomizzato. Grazie.

Coronavirus, l'Istituto superiore di sanità in piena emergenza? Record di assenteismo: le cifre. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 27 maggio 2020. Un consiglio a tutti coloro (e sono tanti, tra i Cinque Stelle e a sinistra) che vogliono usare i morti in Lombardia come pretesto per togliere la sanità alle Regioni e portarla sotto il controllo del ministero, cioè nelle mani loro e dei loro amici: prima di parlare, guardate cosa succede a Roma, in casa vostra. Dentro all'Istituto superiore di Sanità, sottoposto alla vigilanza del dicastero guidato da Roberto Speranza. Nato nel 1934 come Istituto di sanità pubblica (una delle «cose giuste» fatte da Benito Mussolini, si presume), oggi si presenta come un posto nel quale «circa 2.500 persone», 1.997 in qualità di dipendenti, «lavorano quotidianamente con l'obiettivo di tutelare la salute dei cittadini». Si fregia di essere «il principale centro di ricerca, controllo e consulenza tecnico-scientifica in materia di sanità pubblica in Italia», nel quale hanno lavorato fior di premi Nobel, pure stranieri.

SOLDI PUBBLICI. Un gioiello della sanità di Stato, insomma. Anche per il prezzo: nel 2020 l'Istituto superiore di sanità prevede di costare 341.168.904 euro, soldi quasi tutti provenienti da finanziamenti pubblici. Una quota di questa somma, di regola, se ne va per i «premi collegati alla performance» che settanta dirigenti si dividono ogni anno: 145.064 euro complessivi nel 2018, ultimo dato disponibile. Tanta roba, ma si sa: per la salute, questo e altro. Domanda: che servizio ha reso all'Italia, durante l'epidemia, questo miracolo dell'efficienza statale? Certo, si è visto Silvio Brusaferro, il medico che per 130.000 euro lordi l'anno lo guida assieme al direttore generale Andrea Piccioli (177.000 euro per lui). Ambedue messi lì dal ministro pentastellato Giulia Grillo un anno fa. Brusaferro ha fama di bravo accademico, come deve essere il presidente dell'Iss secondo statuto: «Scelto tra personalità appartenenti alla comunità scientifica, dotato di alta e riconosciuta professionalità» eccetera. Guidare un ente simile avendo sul collo il fiato dei politici, però, è non è proprio come fare lo scienziato.

BRUTTE FIGURE. Brusaferro e i suoi colleghi si sono accorti in ritardo di ciò che stava avvenendo, e quando hanno fatto parlare di sé è stato soprattutto per le brutte figure rimediate e le indicazioni contraddittorie fornite. Tipo quelle date dallo stesso presidente il 1 febbraio: «L'uso delle mascherine in una persona sana non ha particolare utilità» (adesso, ovviamente, l'Iss raccomanda a tutti di usarle, «anche in ambienti aperti»). Era sempre lui, il 3 febbraio, che rassicurava gli italiani: «Qualsiasi tipo di sospetto viene immediatamente segnalato e controllato, così il rischio di trasmissione è da molto basso a moderato». L'Iss è l'ente che si è distinto per la lentezza nella certificazione delle mascherine protettive, ritardandone la distribuzione in Lombardia, e che ha contribuito alla confusione sugli indici di contagio e sui morti (secondo i suoi numeri, i deceduti per Covid nelle case di riposo del Veneto sarebbero stati più delle vittime complessive nell'intera regione). Ma il dato che più impressiona è quello delle assenze dei dipendenti dell'istituto, la cui pubblicazione è obbligatoria per le regole di «trasparenza» a cui devono sottostare gli enti pubblici introdotte anni fa da Renato Brunetta. Si scopre infatti che tra gennaio e marzo del 2020 il tasso medio di assenze dentro all'Iss è stato del 25 per cento: più che doppio rispetto a quello degli stessi tre mesi del 2019, quando fu pari al 10%. (Nelle imprese private, secondo Confindustria, di norma è assente il 6% dei dipendenti, ma quello è un altro mondo).

UNO SU DUE. La spiegazione è una sola: nel gioiello pubblico creato e finanziato per salvare la pelle degli italiani, scoppiata l'epidemia è iniziato il fuggi-fuggi. Impensabile, infatti, che professionisti simili siano stati messi in ferie forzate nel momento in cui più sarebbero stati utili. E siccome il morbo si è diffuso a metà del trimestre (l'Iss non fornisce dati mensili sulle assenze), questo significa che a marzo, nel periodo più nero dell'epidemia, in certi uffici dell'Iss si è visto al lavoro un dipendente su due, o anche meno. Chissà che ne pensa Roberto Speranza, "ministro vigilante" che pare vigilare assai poco.

Sandro Iacometti per “Libero quotidiano” il 25 maggio 2020. Se andate sul sito del ministero dell'Innovazione con un po' di fatica potete trovare le relazioni conclusive degli otto sottogruppi che compongono la task force di 74 componenti istituita dalla ministra dell' Innovazione Paola Pisano per l' utilizzo dei dati contro l' emergenza Covid-19. Non si tratta di opere monumentali, poche paginette nella maggior parte dei casi, ma i lavori messi nero su bianco sono una delle rare prove dell' esistenza in vita dell' esercito di esperti e consulenti arruolato dal governo per fronteggiare la pandemia. C' è chi parla di 18 comitati e oltre 500 incarichi, ma tenere il conto è impossibile. Anche perché, tranne pochissime eccezioni, nei luoghi deputati alla comunicazione istituzionale dei gruppi di lavoro e della loro attività non vi è alcuna traccia. Certo, abbiamo sentito tanto parlare dell' ex manager Vodafone Vittorio Colao e del suo Comitato di esperti per la Fase 2, un gruppo lievitato fino a 24 membri per rispettare le quote rosa. Abbiamo letto delle interviste e orecchiato i contenuti di qualche riunione, tutte rigorosamente in videoconferenza. Però sul sito del governo oltre ai nomi dei componenti null' altro è dato sapere. Non uno straccio di relazione, né un brogliaccio. Nessun calendario delle riunioni, niente argomenti trattati. Buio assoluto. Si vocifera, tuttavia, che la task force nata per consentire agli italiani di uscire dal lockdown abbia consegnato al premier Giuseppe Conte un documento di ben quattro pagine (una per ogni sei esperti). Stesso discorso per la creatura affidata al capo di Invitalia Domenico Arcuri. In questo caso, trattandosi del Commissario straordinario per l' emergenza Covid-19, sul web è possibile consultare una manciata di ordinanze, comprese quelle famose sul prezzo politico delle mascherine (che stiamo ancora aspettando). Niente però si sa sul lavoro della sua squadra di "supporto", a parte il fatto che è costituita da 40 componenti divisi in nove differenti uffici, di cui viene fornita anche una dettagliata, quanto inutile, infografica ad albero.

Bioeconomia. In fondo è già molto. Delle due task force create dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, una di 40 componenti per le carceri e una di 20 componenti sulla giustizia non si conoscono neanche i nomi dei partecipanti. Non ha lesinato informazioni sul suo comitato personale, invece, il ministro dell' Ambiente, Sergio Costa. Sforzo che, ahinoi, non è bastato a far capire di cosa si occupi il suo Gruppo di studio su economia e sviluppo sostenibile formato da 9 professori. La mission ufficiale è quella di supportare il Comitato per la bioeconomia e la fiscalità sostenibile. In particolare sui sistemi di rating e di valutazione della finanza verde, sull' economia comportamentale e sugli acquisti verdi per la Pa. Per chi ancora non avesse compreso, lo stesso ministro ha precisato che "lo scopo del gruppo è quello di implementare e dare maggiore efficacia alle norme e agli strumenti che già esistono, con uno spirito di condivisione e innovatività negli approcci".

Chiarissimo. Ben altre le dimensioni scelte dalla ministra Lucia Azzolina per farsi aiutare nel difficile compito di tenere chiusa la scuola. La sua task force per gestire l' emergenza nella Fase 1 è formata da 123 membri. La struttura, di cui si sa pochissimo, è nata sulle ceneri di un comitato preesistente al ministero dell' Istruzione e si è occupata prevalentemente di didattica a distanza. Discorso a parte la Fase 2. Non potendo pretendere più di tanto dai suoi 123 collaboratori, la Azzolina ha deciso di creare un altro gruppo, questa volta di soli 18 componenti, per organizzare la riapertura. Anche qui non ci sono documenti. Ma qualcosa è trapelato. Avete presente le notizie che hanno gettato nel panico le famiglie sulle classi divise a metà, sulle lezioni nel fine settimana o all' aperto, sul proseguimento dell' insegnamento via web? È opera loro.

Rinascimento. Non è stata da meno la ministra della Famiglia, Elena Bonetti. In piena pandemia l' idea è stata quella di creare una task force Donne per un nuovo rinascimento, con il compito, si legge nel decreto istitutivo, di sviluppare «analisi ed approfondimenti dei dati ed evidenze scientifiche relative all' impatto nei diversi settori provocato dall' epidemia».

Inutile cercare materiale. Il comitato, composto da dodici donne, ha una durata annuale. Al termine del periodo sarà realizzato «un documento programmatico». Mettiamoci comodi, insomma. Nel frattempo, però, la Bonetti ha fatto scendere in campo un' altra squadra di 20 componenti. L' obiettivo, questa volta, è di elaborare azioni, strategie e politiche a favore della tutela e della promozione dei diritti dell' infanzia e dell' adolescenza nel quadro del contrasto alle conseguenze dell' emergenza epidemiologica. Compito nobile che, però, è già affidato all' Osservatorio nazionale sull' infanzia e l' adolescenza, organismo istituzionale di 50 membri che il nuovo comitato dovrà affiancare. Bizzarro? Non più della task force di 11 componenti istituita dal Dipartimento per l' editoria per combattere le fake news o del gruppo di coordinamento di 35 componenti creato dal ministero dell' Economia per l' efficiente e rapido utilizzo delle misure di supporto alla liquidità. Avete avuto la sensazione che negli ultimi mesi non siamo stati sommersi da notizie completamente inventate o che le imprese abbiano ricevuto con solerzia e tempestività i quattrini promessi? Qualche sciocco, con l' esplodere della pandemia, aveva pensato che la task force del ministero della Salute, istituita il 22 gennaio, e il Comitato tecnico scientifico, nato il 5 febbraio, fossero più che sufficienti a fronteggiare l' emergenza. Poi ci siamo ritrovati con 18 gruppi di lavoro e 500 esperti. La verità è che l' occasione era troppo ghiotta: un evento catastrofico mai visto nella storia moderna unito all' impossibilità di presenziare fisicamente a qualsiasi tipo di riunione. A ministri, sottosegretari e commissari è bastato firmare un paio di scartoffie e organizzare qualche videoconferenza per trasformare centinaia di emeriti sconosciuti in superconsulenti del governo. Regalare un po' di visibilità, qualche riga di curriculum e una medaglietta da appuntare sul petto non è mai stato così facile. 

Il caos dei dati: 1.390 morti “spariti” dal monitoraggio del governo. Gli errori sugli indici che decidono gli spostamenti. Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Nel monitoraggio del ministero della Salute sull’epidemia da coronavirus sono stati conteggiati 1.390 deceduti in meno di quelli reali. Un’omissione clamorosa anche perché per scoprirla basta confrontare le tabelle allegate al report settimanale con quelle diramate dalla Protezione civile sulla base dei dati forniti dallo stesso ministero della Salute. Da due settimane il ministero dirama ogni venerdì il monitoraggio che sulla base di 21 punti elaborati da due algoritmi fotografa l’andamento del virus. I dati vengono trasmessi dalle Regioni e poi assemblati dai tecnici ministeriali. In questi giorni ci sono state numerose critiche e polemiche sulla raccolta dei numeri da parte delle Regioni, anche ritenendo che in alcuni casi ci possano essere omissioni rispetto ad alcuni punti. In particolare ogni Regione deve comunicare la tenuta delle strutture sanitarie, il numero dei tamponi effettuati, il numero di malati e di positivi asintomatici, il numero dei posti in terapia intensiva. Sulla base di questi parametri viene assegnata una valutazione di rischio e questo «giudizio» servirà a decidere nuove aperture, eventuali chiusure o «zone rosse», ma anche a stabilire come consentire lo spostamento da una Regione all’altra. Nella tabella del monitoraggio relativa ai decessi e aggiornata al 21 maggio il numero dei morti ( divisi per età) è: 31.096. Nella tabella diramata dalla protezione civile relativa al 21 maggio il numero dei morti è: 32.486. Come è possibile una simile differenza? Ci sono Regioni che hanno comunicato un numero inferiore? Quali uffici trasmettono i dati? E chi li elabora? A tutte queste domande bisogna trovare al più presto risposta perché è evidente che questa circostanza potrebbe essere sufficiente e dimostrare l’inattendibilità del monitoraggio. Le conseguenze potrebbero essere gravissime visto che proprio su questo il governo ha deciso di basare le sue prossime scelte.

Il caos del monitoraggio delle Regioni. Dati molto in ritardo e criteri diversi. Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su Corriere.it. Una montagna di dati, forniti spesso con criteri diversi, talvolta in ritardo di due o tre settimane, senza un adeguato campionamento statistico. Su questa base, il monitoraggio settimanale fornito dalle Regioni secondo il decreto del 30 aprile, lavorano il ministero della Salute e l’Istituto superiore della Sanità per valutare la riapertura delle «frontiere» tra le Regioni e il progressivo, e ancora incerto, ritorno alla normalità. Negli ultimi giorni sono molte le segnalazioni di anomalie nei report delle Regioni, che mettono a rischio l’intero sistema. Come in un falso sillogismo, se le premesse sono sbagliate, errate saranno le conclusioni. Errori frutto di semplice inaccuratezza, incapacità strutturale del sistema oppure risultato di sviamenti programmatici? Per il professor Nino Caltabellotta, presidente della Fondazione Gimbe che analizza sistematicamente le relazioni, «il fatto che la Regione sia titolare del monitoraggio espone a comportamenti di tipo opportunistico». Lo dice in termini ancora più netti il biologo Enrico Bucci: «È ovvio che se chiedi alle Regioni di fornirti dati decisivi su aperture o chiusure, saranno loro a determinare quali e come darteli seguendo logiche politiche interne». Al di là di eventuali mistificazioni, ci sono errori emersi platealmente negli ultimi giorni. La Fondazione Gimbe ha rilevato come nei report lombardi si comunichino i dimessi dagli ospedali, con una sovrastima dei guariti. Sempre in Lombardia, secondo il Fatto Quotidiano, dall’11 maggio sarebbero spariti dal grafico dei contagi di Milano i casi confermati e sintomatici. Il Trentino è improvvisamente passato da una media di rapporto contagi/tamponi superiore al 4% il 28 aprile, con gravi preoccupazioni, a quella ultra rassicurante dell’11 maggio, dello 0,14%. Non un miracolo, ma un calcolo di contagi più bassi per errore. Nelle Marche da un giorno all’altro si è cominciato a contare solo i casi sintomatici. Dalle Regioni arrivano foglietti excel, quando va bene, che dicono poco o niente per analisi serie. Il sottosegretario Pierpaolo Sileri chiede «più accuratezza». Ma è un deficit strutturale. Perché, per esempio, si sa il numero complessivo dei tamponi, ma non si sa fatti a chi e come, se è il primo o il secondo di conferma, se è fatto a sintomatici o no. Questo impedisce di stabilire priorità nelle politiche dei tamponi successivi. Il tracking dovrebbe basarsi anche sui test degli anticorpi. La Lombardia sconsiglia quelli rapidi, nonostante diversi studi scientifici nel frattempo ne abbiano stabilita l’attendibilità. Non è chiaro quanti ne siano stati fatti e a chi. Non sono noti, per asserite ragioni di privacy, i dati della mortalità dei singoli comuni. Nel conteggio complessivo finiscono solo i decessi negli ospedali, a conferma della prospettiva «ospedalocentrica» della Lombardia. Michele Usuelli, medico e consigliere regionale in corsa per diventare presidente della Commissione d’inchiesta, spiega: «Anche la strategia comunicativa della Regione Lombardia deve entrare in Fase 2. Mi piacerebbe un dibattito pubblico per decidere, sentendo il parere della Commissione sanità e del Consiglio regionale, quali siano i numeri che è utile fornire adesso». Sarebbe utile anche capire cosa succeda quando diminuisce la cifra dei ricoverati nelle terapie intensive: si tratta di decessi o di estubati? Non si sa. Quanto al famoso Rt, l’indice che misura la riproduzione del virus dopo le misure di contenimento, si basa su dati vecchi, a lockdown in vigore, e non parametrati: da qui il caso dell’Umbria che, per un aumento da 11 a soli 24 contagiati, ha subito un’impennata dell’alert, perché il dato non è proporzionato al numero complessivo dei casi. In Lazio le Asl e le aziende ospedaliere trasmettono i dati al Seresmi dello Spallanzani a cadenze diverse, ogni 24 ore oppure ogni settimana. Altro bug dei report: per stabilire correttamente l’Rt, le Regioni dovrebbero fornire la data di insorgenza dei sintomi. In media, perché i numeri siano attendibili, servirebbe almeno il 50 per cento dei dati. Ma in almeno nove Regioni quella cifra non si raggiunge. E così si è deciso di abbassare la soglia di attendibilità al 30%. Per Caltabellotta «secondo gli standard internazionali, bisognerebbe fare 200/250 tamponi al giorno per 100 mila abitanti. Ma pochissime Regioni hanno aumentato i tamponi diagnostici, solo Val d’Aosta e Trentino. Se la curva peggiora, verranno in superfice solo i casi di chi si aggraverà in maniera tale da dover andare in ospedale. E questo potrebbe accadere all’improvviso con tutte le gravi conseguenze che abbiamo già visto». Aggiunge Bucci: «Servirebbe anche un campionamento dei dati: a chi sono stati fatti i tamponi? E dove?». La sua conclusione è drastica: «Non abbiamo dati attendibili. E li usiamo con parametri sbagliati».

Coronavirus, anche un documento parla di “casi sovrastimati” in Italia. Rec News 21/05/2020. Articolo scritto l’11/03/20 e aggiornato il 21/05/20. Il caso emblematico di Vo: mentre il mainstream gridava alla tragedia, i dati (reali) parlavano di qualche decina di “contagi” e dieci ricoveri. A marzo c’è stato il caso di Treviso, quando i dati di Iss e Prociv avevano dato conto di “diciassette casi”, poi smentiti. A stretto giro sono arrivati i 60 medici di base di Cosenza “tutti in quarantena”, ennesima costruzione allarmistica per far passare – soprattutto all’estero – l’immagine di un’Italia piegata dal Coronavirus “profetizzato da Bill Gates. Per quale motivo Conte, Colao, Borrelli  e gli altri si sono prestati a inscenare l’epidemia dimensionata dagli stessi dati dell’ISS? Abbiamo provato a spiegare quali sono le poste in gioco, settore per settore. A gettare ulteriore luce su quella che assume sempre più i contorni di una grossa costruzione mediatica per danneggiare il Belpaese e per lucrare sulla presunta emergenza, è arrivato il 5 marzo uno studio del NCBI che spiega come l’80,33% dei tamponi fatti a chi era entrato in contatto con malati di Covid-19 e che avevano rilevato il coronavirus, avessero in realtà generato dei “falsi positivi”. L’altra Vo: 84 casi e dieci ospedalizzati. Per restare in ambito nazionale, l’otto marzo del 2020 il presidente della Regione Veneto Luca Zaia scriveva al premier Giuseppe Conte e al ministro della Salute Roberto Speranza per domandare “quali motivazioni scientifiche” fossero alla base dell’inserimento delle province di Venezia, Padova e Treviso nelle cosiddette “zone rosse”. Il governatore allegava la relazione del Comitato Tecnico Scientifico a supporto dell’Unità di Crisi della Regione Veneto, che in pratica per zone considerate ad alto rischio e repentinamente isolate come Vo, ha riscontrato appena 84 casi, 10 dei quali ospedalizzati. (Covid-19 Veneto prot. 109448)

Fiumi di tamponi. Nell’ambito dello stesso documento, a mettere i puntini sulle “i” arrivava inoltre l’Azienda Zero della Regione Veneto, che metteva a disposizione dati dettagliati sui tamponi effettuati. In pratica quello che la stampa commerciale ha definito il più grande studio collettivo (che ha riguardato quasi la totalità degli abitanti di Vo Euganeo) per acquisire dati sul coronavirus, è stato in realtà il più grande laboratorio d’Italia per generare falsi positivi. Un “modello” che a detta di personaggi come il virologo Andrea Crisanti, andrebbe esteso a tutta Italia. Il modesto costo di somministrare 60 milioni di tamponi circa lo spiega lo stesso Crisanti: 30 euro a tampone “appena” che come abbiamo visto generano più falsi positivi che tutto il resto. Quanti posti di terapia intensiva e strumentazioni per gli ospedali che possono servire anche passata la (presunta) emergenza italiana di coronavirus si acquisterebbero con gli stessi soldi?

Il nuovo business da trenta euro a testa. I tamponi sono poi davvero stati effettuati secondo necessità? Stando a quanto reso noto dall’ISS, dovevano essere destinati unicamente a chi mostrava sintomi, ma in realtà si è presto palesato l’esercito di impavidi vip che faceva la fila davanti ai nosocomi. E a Vo? Per accertare qualche decina di casi, sono stati fatti 2778 tamponi. Il 29 febbraio si è raggiunto il picco di 728 tamponi in un giorno, il 2 marzo (appena due giorni dopo) il numero di tamponi era uguale a zero (!!!). In Italia alla loro produzione tramite la tecnica della stampa 3D potrebbe provvedere nei prossimi mesi lo stabilimento novarese di Protolabs, azienda tedesca che ieri ha annunciato investimenti per 12 milioni, anche nel settore dei dispositivi medici.

Errore rosso? I calcoli del Comitato tecnico scientifico che hanno convinto Conte a farci restare a casa forse sono sbagliati. Linkiesta il 29 Aprile 2020. Secondo l’analisi statistico-matematica di Carisma, per raggiungere il picco di 150mila pazienti in terapia intensiva, come detto dagli esperti del governo, dovrebbero esserci 150 milioni di italiani con più di 20 anni. Ma siamo in tutto 60 milioni. Il documento allarmante del Comitato tecnico scientifico, quello che avrebbe frenato la fase 2 ipotizzando il rischio di 151mila pazienti in terapia intensiva nel caso una ripartenza totale, sarebbe sbagliato. O quantomeno conterrebbe un grave errore di calcolo. Tant’è che, date le ipotesi considerate, si arriverebbe a conteggiare una popolazione di 260 e non di 60 milioni di cittadini come quella italiana. A dirlo è un’analisi fatta dalla holding Carisma presieduta da Giovanni Cagnoli, secondo cui in 45 dei 46 scenari esaminati dal Comitato le previsioni di picco della terapia intensiva sarebbero invece ben inferiori alla capacità nazionale di circa 9mila posti. E quindi molto lontane dai 151mila del risultato finale. Il problema del documento, dicono, è di tipo statistico-matematico. Nel testo si ipotizza un tasso di letalità dei contagi (Ifr) pari allo 0,657%, arrivando poi a calcolare la probabilità per età che ogni infezione necessiti di terapia intensiva. Pertanto, calcolando il numero di decessi ufficiali (8.311) in Lombardia al momento del picco della terapia intensiva, il 3 aprile, si arriva 1.385.000 contagiati. Ora, poiché i casi di terapia intensiva in Lombardia al momento del picco sono stati 1.381, si desume quindi che l’incidenza tra casi di terapia intensiva e infezione sarebbe mediamente dello 0,1%. Si presuppone quindi un’incidenza per fascia di età che, anche se stimata a zero fino a 60 anni di età, arriverebbe a circa 0,3% mediamente oltre i 60 anni di età. Nel grafico presentato subito dopo però, quello da cui deriva lo stop alla ripartenza, questa incidenza oscilla tra 1% e 6% (mediamente 3,5%) con un errore di almeno dieci volte. Anche ipotizzando che il fabbisogno di letti terapia intensiva in Lombardia sia stato 2.000 e non 1.381 l’errore resta superiore a 6 volte. Ecco che con lo scenario A, cioè quello di una totale apertura, nelle ipotesi del comitato tecnico scientifico si arriva a 151.231 casi di terapia intensiva l’8 giugno e oltre 440mila casi totali cumulati al 31 dicembre. Applicando l’incidenza della terapia intensiva calcolata sulla Lombardia, si arriverebbe quindi a sostenere che esisterebbero in Italia 150 milioni di cittadini con età superiore ai 20 anni, perché come noto sotto questa età l’incidenza della terapia intensiva è trascurabile. Ci sarebbero insomma oltre 100 milioni di connazionali circa in più di quelli reali. Calcolando poi il dato complessivo al 31 dicembre e stimando che le persone che sono state in terapia intensiva in Lombardia siano finora circa 3.500 in totale con una incidenza di 0,17% sul totale casi nella regione, si arriva a una stima di popolazione italiana di 260 milioni di abitanti. Anche in questo caso ci sarebbero 200 milioni di italiani ignoti. Qualcosa non torna. Nel modello sviluppato dal Comitato «apparentemente tutte gli scenari conseguenti sono coerenti con quello che dalla lettura attenta appare un errore di calcolo», scrivono da Carisma. Conclusione: «Anche accettando quelli che appaiono errori di calcolo – scrivono – notiamo che il modello in 45 dei 46 scenari esaminati conclude che le previsioni di picco della terapia intensiva sono significativamente inferiori alla capacità nazionale (circa 9.000 posti)». Salvo poi raccomandare uno scenario di apertura molto lento, come quello comunicato dal governo il 26 aprile.

Uno, nessuno e centocinquantunomila. La gran confusione intorno ai numeri dati dal comitato tecnico scientifico. Lidia Baratta e Pietro Mecarozzi su linkiesta.it il 30 Aprile 2020. L’Istituto Superiore di Sanità, nella conferenza stampa delle 12, oggi dovrebbe chiarire i dubbi statistici sul paper che ha portato il governo ad adottare una fase due rallentata. Il documento scritto dal Comitato tecnico scientifico, quello che avrebbe convinto Giuseppe Conte alla fase due “rallentata”, contiene errori di calcolo? Il paper di 21 pagine titolato “Valutazione di politiche di riapertura utilizzando contatti sociali e rischio di esposizione professionale”, divide gli esperti di numeri e statistiche. Tra i grafici, diagrammi e tabelle che riempiono le pagine, il dato che più fa discutere è l’ipotesi del rischio di oltre 151mila pazienti in terapia intensiva nel caso di una ripartenza totale. Quello che più ha spaventato il governo. Nel testo si sostiene che con la riapertura di manifattura, edilizia, commercio, ristorazione e alberghi, con le scuole chiuse e senza telelavoro, si potrebbe arrivare l’8 giugno a 151.231 ricoverati in terapia intensiva, con un picco di 430.866 casi a fine anno. Dati che, secondo molti sarebbero più che sovrastimati. Considerando che dal 24 febbraio, quando sono iniziate le rilevazioni della Protezione civile, al 29 aprile, i casi di terapia intensiva sono stati in media poco più di 2.200, con il picco massimo di 4.068 casi del 3 aprile. Il dato del Comitato tecnico scientifico è oltre 37 volte di più. E infine c’è la contestualizzazione dei calcoli: nel documento non si spiega mai come si arriva alle stime finali, uniformando previsioni fatte per la Lombardia all’intero Paese e – commentano i più critici – tenendo inoltre poco in considerazione l’impatto delle attuali dotazioni di protezione individuali sull’evolversi del virus. A sollevare i primi dubbi è stata un’analisi fatta dalla holding Carisma presieduta da Giovanni Cagnoli pubblicata ieri da Linkiesta secondo cui, in 45 dei 46 scenari esaminati dal Comitato, le previsioni di picco della terapia intensiva sarebbero invece ben inferiori alla capacità nazionale di circa 9mila posti. E quindi molto lontane dai 151mila del risultato finale. Il problema del documento è di tipo statistico. Quello che sappiamo è che il Covid 19 ha un’incubazione media di circa 5-7 giorni e che dalla manifestazione dei sintomi all’ingresso in terapia intensiva passano in media dieci giorni. Nel testo del Comitato, si ipotizza un tasso di letalità dei contagi (Ifr) pari allo 0,657%, arrivando poi a calcolare la probabilità per età che ogni infezione necessiti di terapia intensiva. Quindi, calcolando il numero di decessi ufficiali (8.311) in Lombardia al momento del picco della terapia intensiva, il 3 aprile, si arriverebbe a 1.385.000 contagiati. Poiché i casi di terapia intensiva in Lombardia al momento del picco sono stati 1.381, si desume quindi che l’incidenza tra casi di terapia intensiva e infezione sarebbe mediamente dello 0,1%. Si presuppone quindi un’incidenza per fascia di età che, anche se stimata a zero fino a 60 anni di età, arriverebbe a circa 0,3% mediamente oltre i 60 anni di età, scrivono gli analisti di Carisma. L’imprecisione emergerebbe però quando il testo del Comitato stima che questa incidenza oscilla tra 1% e 6% (mediamente 3,5%), con un errore di almeno dieci volte. Tramite il calcolo di queste incidenze sull’intero territorio, sottolinea la ricerca, si arriverebbe a una stima della popolazione italiana di 260 milioni di abitanti. Duecento milioni in più della reale popolazione italiana. Ma anche lo studio della holding di Giovanni Cagnoli ha ricevuto critiche da parte di matematici. Questi rilievi sono di due tipi: il peso statistico nei calcoli del flusso che si è verificato nelle terapie intensive degli ospedali (ovvero le persone guarite uscite e quelle decedute) e la stima del livello di criticità delle terapia intensive che il governo fa includendo anche tutti i morti da Covid, anche quando non sono in terapia intensiva. «Nel primo caso, anche con questi dati in più cambia molto poco, ce ne sarebbero state 3-4 mila in più in terapia intensiva, non certo il numero stimato dal Comitato», spiega a Linkiesta lo stesso Giovanni Cagnoli. «Mentre per la seconda considerazione si tratta di un ragionamento logico errato. Il Comitato che fa i calcoli di quanti letti ha a disposizione non può dire che anche tutti i decessi, anche quelli avvenuti tra le mura domestiche, vanno a saturare quei posti. Altrimenti il calcolo perde la sua funzionalità». Dove sarebbero quindi gli errori del Comitato tecnico scientifico? «Non essendo un testo scientifico, certamente nel documento del Comitato mancano dettagli rilevanti che andrebbero considerati, ma evidentemente ci sono assunzioni incompatibili», spiega Alessio Farcomeni, esperto di statistica epidemiologica e professore ordinario all’Università Tor Vergata di Roma. «I tassi di mancata diagnosi e i rischi di ricovero sono in contraddizione». Secondo il professore, il calcolo che ha portato il Comitato tecnico scientifico al rischio di 151mila pazienti nel caso di una riapertura totale potrebbe essere quindi frutto di un errore nella lettura delle percentuale del tasso di letalità dei contagi ipotizzata, pari allo 0,657%. Questo numero, inserito nel codice insieme alle altre variabili da considerare, a guardare il risultato potrebbe essere stato moltiplicato per dieci arrivando al 6,57% e alterando così il risultato finale. «Purtroppo errori materiali sono molto comuni, specie nel codice. È plausibile che in questo caso ci sia stata da qualche parte una svista di fattore dieci», spiega Farcomeni. «L’altra ipotesi è che, nelle microsimulazioni, potrebbero essere state considerate popolazioni infinite anziché finite senza un tetto massimo» che quindi farebbero crescere via via sempre di più il numero di potenziali pazienti di terapia intensiva andando avanti nel tempo. In ogni caso, aggiunge, «sarebbe utile avere maggiori dettagli sul modello stocastico utilizzato, che nella forma più semplice assume che due residenti a Milano abbiano la stessa probabilità di entrare in contatto di un residente di Milano e uno di Sassari». Ma, spiega il professore di Tor Vergata, «quello che mi lascia basito è che, nonostante il Comitato abbia a disposizione i dati individuali dei contagiati italiani registrati dall’Istituto superiore di sanità, faccia microsimulazioni basate sulla letteratura anziché stime dirette e più attendibili del numero di soggetti non diagnosticati, del network di contagio eccetera». Il Comitato sembra anche molto cauto sull’efficacia dell’uso diffuso delle mascherine: «Nel documento si scrive che se tutti portassimo le mascherine ci sarebbe una riduzione del contagio del 25%, mentre gli studi scientifici convergono su un’efficacia maggiore, almeno del 70%», spiega Farcomeni. «Uno studio pubblicato da poco su Nature dice addirittura che se l’80% della popolazione che si trova al chiuso con altre persone utilizza la mascherina, già questo è sufficiente a contenere l’epidemia con un’efficacia del 90%». Inoltre, «perché non considerare la possibilità, in aggiunta ai dispositivi di protezione e a fronte di un minor distanziamento sociale, di interventi caldeggiati come l’accesso ampio ai test diagnostici e il tracciamento dei contatti recenti di ciascun soggetto diagnosticato?», si chiede lo statistico. «Un articolo apparso su Science calcola che se entro 48 dalla diagnosi siamo in grado di tracciare tutti i contatti degli ultimi cinque giorni, da sola questa cosa può contenere l’epidemia». Queste ipotesi nel documento non si trovano. E non è un caso che neanche Conte ne abbia anche solo accennato nella conferenza stampa di annuncio della fase 2 “rallentata”. Le differenze nei numeri di contagi tra le regioni spingono poi alcuni economisti a chiedersi perché l’apertura differenziata su base regionale sia stata esclusa a priori. Nel testo del Comitato non compare nemmeno come oggetto di valutazione, mentre lo schema lombardo, cioè quello più grave, è uniformato sui vari territori. Le perplessità sono molte, e su questi temi l’Istituto Superiore di Sanità replicherà oggi, nella conferenza stampa delle 12.

Chi sbugiarda le previsioni allarmistiche del Cts sui ricoveri. Carlo Terzano su startmag.it l'1 maggio 2020. Il documento del Comitato tecnico-scientifico (Cts) difeso da Brusaferro dell’Iss e contestato da analisti ed esperti. C’è un documento, a cura del Comitato tecnico scientifico (di qui in poi Cts), che sta provocando dibattito. Quel documento, con ogni probabilità, è stato diffuso appena Palazzo Chigi ha iniziato a subire attacchi da ogni parte (dal mondo dell’industria, del commercio, dell’artigianato, persino dalla Cei e dalla stessa maggioranza), così da giustificare la scelta di misure tanto restrittive da rendere la ventura Fase 2 la copia in cartacarbone della Fase 1. Quel documento riporta un numero capace di far sobbalzare tutti: 150mila possibili pazienti in terapia intensiva laddove si optasse per il “liberi tutti”. Numero, però, che dopo un iniziale, comprensibile, sbigottimento, ha iniziato a sollevare più di una perplessità (di quelle di Gianfranco Polillo abbiamo già dato conto qua).

LO STRANO CASO DEL DOCUMENTO MAI ARRIVATO AL PARLAMENTO. Poco prima dell’informativa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte alla Camera del 30 aprile, l’ex ministro Maurizio Lupi ha notato: “La Fase 2 annunciata domenica sera si basa su un dossier riservatissimo e segretissimo con 92 scenari e 151mila possibili ricoveri in terapia intensiva: credo che il presidente della Camera dovrebbe chiedere al premier di depositarlo in Parlamento prima dell’inizio del dibattito per darci modo di studiarlo così da intervenire sul suo preciso contenuto e comprendere le scelte del Governo”. La richiesta non è pretestuosa: com’è possibile che le Camere, in una Repubblica parlamentare, non abbiano accesso ad atti tanto importanti?

IL CONTRO-STUDIO DI CARISMA (DI GIOVANNI CAGNOLI). Venendo invece ai numeri dati dal Cts, ha provato a confutarli un’analisi fatta dalla holding Carisma presieduta da Giovanni Cagnoli. Quello stesso Cagnoli che, poco più di un mese fa, era stato proposto da Carlo Calenda come possibile esperto cui affidare l’aspetto organizzativo e sanitario della ripartenza, senza però essere ascoltato dall’esecutivo di Conte il quale, come sappiamo, pur nel fiorire di task force, ha preferito altri nomi.

I TWEET DI CAGNOLI. Del resto, aprendo una breve parentesi, dal tenore dei tweet di Cagnoli sulla Fase 2 così come è stata disegnata dall’attuale Cts cui si è affidato Conte, si comprende che avrebbe avuto difficoltà a conformarsi alle attuali scelte dell’esecutivo:

In una serata che definirei simile a Caporetto ( o forse il 25 luglio sarebbe più consono… ) almeno un po’ di realismo e buon senso. Proclamano di salvarci e ci stanno condannando senza appello, senza Parlamento , senza coraggio, senza competenza. BASTA CAMBIAMO. SUBITO . — Giovanni Cagnoli (@GiovanniCagnol1) April 26, 2020

151k casi di terapia intensiva 8 giugno e 440k casi nell’anno presuppongono almeno 200 o 300 milioni di italiani. il documento del comitato tecnico scientifico…. è STRABILIANTE in tutti i sensi. spero tanto da cittadino italiano che non sia vero. che figura davanti al mondo.— Giovanni Cagnoli (@GiovanniCagnol1) April 28, 2020

COSA DICE CARISMA. Il contro-studio, ripreso anche da Linkiesta, parla apertamente di un errore di calcolo alla base del documento del Cts. Per la precisione, nell’estratto in sei punti (qui l’integrale di 22 pagine), si legge:

1. Si dice che si utilizza un ifr (uguale tasso di fatalità) su contagi pari 0,657% (Pagina 2): Pertanto calcolando il numero di decessi ufficiali (8.311) in Lombardia al momento del picco della terapia intensiva (3 Aprile – come noto inferiore ai dati Istat differenziali rispetto all’anno scorso e quindi stima chiaramente per difetto) si tratta di 1.385.000 contagiati.

2. Si dice (figura 1) che il tasso di incidenza di “caso critico” su infezioni (quindi i 1,3 milioni di casi in Lombardia) sia stato stimato partendo dal tasso di infezione e letalità di cui sopra. Pagina 2.

3.Poiché i casi di terapia intensiva in Lombardia sono stati al picco 1.381 e attualmente circa 724, si desume che l’incidenza tra casi terapia intensiva e infezione (il grafico di figura 1) è mediamente 0,1% (divisione semplice fatta secondo i metodi del comitato tecnico scientifico). Il grafico presuppone un’incidenza per fascia di età, che anche stimando a zero fino a 60 anni di età, arriverebbe per semplicità a circa 0,3% mediamente oltre i 60 anni di età. Nel grafico di Figura 1 (CHE È LA BASE DI TUTTO IL RAGIONAMENTO PRO CONTINUAZIONE LOCKDOWN E DEL MODELLO DEL COMITATO TECNICO SCIENTIFICO) tale incidenza oscilla tra 1% e 6% (mediamente 3,5%) con un errore di almeno 10 volte (10x)!!! Anche ipotizzando che il fabbisogno di letti terapia intensiva in Lombardia sia stato 2.000 e non 1.381 l’errore resta superiore a 6x. Analizzando la situazione del Veneto, dove non c’è stata scarsità di letti di terapia intensiva, l’errore resta di 6x.

4. Proseguendo nell’analisi, il caso di Scenario A (tab 2 – pag. 11), cioè tutto aperto sempre nelle ipotesi del comitato tecnico scientifico, si arriva a 150k casi di terapia intensiva l’8 giugno e 440k casi totali cumulati al 31 dicembre: –> applicando l’esperienza di incidenza della terapia intensiva in Lombardia di cui sopra, e utilizzando i parametri molto conservativi del cts, si arriva a sostenere che partendo dal dato consuntivo in Lombardia (0,1% al picco) esisterebbero in Italia 150 milioni di cittadini (151k/0,1%) ndr con età superiore a 20 anni perché come noto sotto tale età l’incidenza della terapia intensiva è trascurabile. Vorremmo conoscere subito i 100 milioni di connazionali a noi ignoti.

5. Calcolando il dato complessivo e stimando che le persone che sono stati in terapia intensiva in Lombardia siano finora a circa 3.500 in totale (dato non comunicato ma probabilmente sovrastimato) con una incidenza di 0,17% sul totale casi in Lombardia si arriva a una stima di popolazione italiana di di 260 milioni di abitanti (440k/0,17% – calcolato sempre con i parametri cts). Anche in questo caso vorremmo conoscere i 200 milioni di connazionali a noi ignoti.

6. Nel modello sviluppato dal cts apparentemente tutte gli scenari conseguenti sono coerenti con quello che dalla lettura attenta appare un errore di calcolo (sempre che nel documento non siano riportate assunzioni non comunicate). Non essendo scienziati e virologi e non lavorando per il governo ci siamo sicuramente sbagliati. Vorremmo però che qualcuno correggesse la nostra semplice matematica, basata su parametri di ifr (0,657%) che potrebbero essere anche inferiori sulla base esperienza internazionale (New York, Singapore, Diamond Princess, Qatar, Islanda) e su una serie di altre assunzioni del modello, in particolare quella relativa alla chiusura scuole. Anche accettando quelli che appaiono errori di calcolo, notiamo che il modello in 45 dei 46 scenari esaminati conclude che le previsioni di picco della terapia intensiva sono significativamente inferiori alla capacità nazionale (ca. 9.000 posti), salvo poi raccomandare uno scenario di apertura molto lento comunicato dal Governo in data domenica 26 aprile.

IL COMMENTO DEL PROFESSOR MARRUCCI. Pare rilevante, per tenere in considerazione anche le voci dissonanti, il commento di Lorenzo Marrucci, professore del dipartimento di Fisica “Ettore Pancini” dell’Università degli Studi di Napoli Federico II (citato anche dal debunker David Puente su Open), che in merito in pochi tweet spiega:

Apprezzo linkiesta, ma temo che in questo caso prendete una cantonata. La discrepanza di cui si parla è in realtà dovuta al fatto che il com. tecnico stima la prob. di criticità (fig.1) includendo anche tutti i morti da covid, anche quando non sono finiti in terapia intensiva. — Lorenzo Marrucci (@Lormarrucci) April 29, 2020

Vede, le funzioni con andamento esponenziale hanno questa caratteristica, crescono piuttosto rapidamente. La propagazione del virus ha un andamento esponenziale a condizioni costanti. Quindi, se R0>1, in pochi mesi si potrebbe arrivare a numeri incredibili di casi critici. — Lorenzo Marrucci (@Lormarrucci) April 29, 2020

Tuttavia il punto è che il rapporto discusso non usa SOLO le persone che sono state in TI per stimare la probabilità di essere critico, ma include anche tutti i morti che in TI non ci sono mai finiti. @GiovanniCagnol1 invece basa le sue analisi sui numeri effettivi di TI — Lorenzo Marrucci (@Lormarrucci) April 29, 2020

Questo è il motivo per cui sostiene che il rapporto commetta un errore di calcolo, che non c’è. Con questo non voglio affermare che la scelta del governo di riaprire così lentamente sia giusta (ho i miei dubbi al riguardo), ma solo chiarire questo specifico punto tecnico. — Lorenzo Marrucci (@Lormarrucci) April 29, 2020

LE CRITICHE DI REMUZZI. Particolarmente duro anche il professor Giuseppe Remuzzi direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche «Mario Negri» che, intervistato dal Corriere della Sera del 30 aprile, dichiara: «Questo dossier prende in considerazione 92 scenari possibili. Ma tra 92 e zero, è uguale. Significa non avere idea di quello che succederà. Che è la pura verità, e andrebbe detta. Non lo sa nessuno». E alla domanda se rischiamo davvero 151.000 ricoveri in terapia intensiva, replica: «Se prevedi che tutto, ma proprio tutto vada male, si avrà un numero importante. Ma non quello, al quale si arriva solo sovrastimando in modo abnorme la popolazione anziana in Italia. Lo scenario peggiore non è impossibile, maanche a livello statistico è molto improbabile».

RENZI: NUMERO FOLLE. Tra i primi a criticare il documento segreto del Cts era stato Matteo Renzi, stampella ‘molleggiata’ di Conte, che pure è arrivato a Palazzo Chigi per volontà proprio del senatore di Rignano. E proprio in Senato è atteso quello che ambienti di Italia viva definiscono “l’ultimo appello” al premier affinché alleggerisca le misure in vista della Fase 2. Nel momento di massima emergenza l’Italia ha avuto 4MILA pazienti in terapia intensiva per COVID. Oggi sono 1.863. Dire che a giugno potrebbero esserci bisogno addirittura di 151MILA posti in terapia intensiva è FOLLE. C’è chi vuole seminare il panico. Noi manteniamo lucidità — Matteo Renzi (@matteorenzi) April 28, 2020

Renzi da diverse settimane sta provando a intercettare i favori di quel mondo produttivo, sempre più vasto (da Confindustria a Confcommercio, passando per Confesercenti fino ad arrivare alla Serie A e alla Figc per lo sport) che scalpita per ripartire il prima possibile e che fatica a trovare sponda politica persino nell’opposizione. Dietro la sua decisione di contestare il Cts, quindi, più che un ragionamento scientifico o matematico, c’è un mero calcolo politico. Nel caso di Renzi, però, sappiamo almeno l’operazione logica che giustifica le sue azioni. Nel caso di Conte e del documento del Cts, invece, no. E questo è preoccupante.

LA VERSIONE DI BRUSAFERRO. Il documento sugli scenari dell’evoluzione di Covid-19 in base alle diverse possibili misure allo studio per la fase 2 “non è stato secretato, ma era allegato ai verbali del Cts. Ed stato trasmesso al ministro della Salute”. Lo ha precisato il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, durante la conferenza stampa di approfondimento all’Iss. Brusaferro ha spiegato che le finalità del documento “sono abbastanza semplici intuitivamente. Sono quelle di mettere a disposizione, sulla base dei dati disponibili (evidenze scientifiche e stime, ndr) la simulazione dell’andamento di un’epidemia. In una logica in cui si vuole aprire il Paese”. Altro obiettivo, continua il presidente Iss, “è quello di categorizzare le variabili che determinano la circolazione del virus. Il lavoro è sicuramente una di queste variabili, la vita di comunità è un’altra, i trasporti un’altra ancora. Abbiamo cercato di capire qual è il peso di ognuna rispetto alla forza della circolazione del virus”. Lo studio, ha aggiunto Brusaferro, ha una sua organizzazione: nasce come studio nazionale quindi, successivamente, “dovrà essere declinato, articolato e modulato sulla base di dati regionali, considerando che gli Rt sono differenti, seppure fortunatamente tutti sotto l’1”. Lo studio, infine, “è finalizzato alla riapertura. Quindi parliamo di un dato di adesso. E’ evidente che,sulla base dei dati, questi modelli vanno aggiornati e vanno tarati sulla base dei risultati in evoluzione”. Brusaferro ha tenuto a precisare la genesi "pratica" del documento nato “dalla richiesta, nell’ambito dei lavori che vengono fatti quotidianamente all’interno della Cts, del ministero e di tutte le articolazioni dello Stato, di valutare come fare evolvere il sistema una volta che la curva della pandemia abbia raggiunto livelli come quelli che stiamo raggiungendo”. “Questo studio – ha ricordato – è stato realizzato dall’Iss insieme all’Inail dalla Fondazione Bruno Kessler di Trento e dal ministero della Salute. I lavori sono stati poi al centro del confronto con il Cts presso la Protezione civile che lo ha analizzato, discusso, lo ha fatto proprio ed è diventato, così, un allegato del verbale”. Quindi nessuna segretezza.

Coronavirus, Pierpaolo Sileri contro il Comitato tecnico scientifico: «Mi nascondono i documenti». Pubblicato lunedì, 18 maggio 2020 su Corriere.it da Alessandro Trocino. Lo strano caso di un sottosegretario alla Salute che non ha accesso ai verbali del Comitato tecnico scientifico, relazioni e dati sulle quali si sono costruiti, e si costruiscono, i piani politici di contenimento del contagio. Lo racconta Pierpaolo Sileri al quotidiano la Verità. Non uno sfogo estemporaneo, visto che il medico e politico indicato dai 5 Stelle ribadisce le sue accuse in televisione, a «Non è l’Arena». Che qualcosa non vada al ministero della Salute è chiaro. La forza della pandemia ha messo a dura prova le risorse e la struttura. Dietro lo sfogo di Sileri, spiegano alcune fonti all’interno del dicastero, ci sono anche ragioni personali, di potere. Il politico dei 5 Stelle non è formalmente viceministro, carica che deve venire assegnata ufficialmente da Palazzo Chigi. Come sottosegretario ha alcune deleghe, anche pesanti, alla Ricerca e alle Professioni sanitarie, ma sono competenze molto sulla carta, senza potere di firma. Nella sua denuncia, Silveri spiega che i verbali del Cts non erano secretati, ma non gli venivano comunicati. Nonostante le insistenze. In realtà i verbali, spiegano dal ministero, non vengono mai consegnati, ma si possono leggere. Sileri sostiene che «non si tratta di un problema personale ma operativo» e che le informazioni venivano negate anche al sottosegretari dem Sandra Zampa. Tanto che a un certo punto hanno dovuto insistere per poter inserire una persona di fiducia all’interno del Comitato, per assistere alle riunioni. Senza potere di voto. Una sorta di infiltrato che passava le informazioni scientifiche a chi, in teoria, sarebbe stato tra i primi a doverli avere. Non solo. Secondo Sileri c’è un problema più generale di comunicazione all’interno del ministero. Indubitabile che ci sia, se è vero quel che dice: «E’ accaduto che io scoprissi da circolari emanate dal ministero in via amministrativa che si decideva anche su temi di cui mi sto occupando». Un imbuto, così lo definisce il viceministro, che non è stato possibile rimuovere e che risente anche delle difficoltà dovute allo smart working e al periodo di isolamento che ha dovuto trascorrere il sottosegretario, dopo essere risultato positivo. Sileri punta il dito contro il segretario generale del suo ministero, Giuseppe Ruocco: «È sparito dal comitato scientifico. Lui doveva fare da trait d-unione. Sa come ho saputo dei due pazienti cinesi ricoverati a Roma? Dal telegiornale. Sono tornato a casa e mia moglie me l’ha detto. Lei mi ha detto: ci sono due infetti e non mi dici nulla? Ma io non sapevo nulla. Le informazioni sulla mia scrivania non arrivano. Le devo inseguire. Il plasma e quant’altro. Non è una cosa normale». Alla Verità dice altro, parlando di autopsie: «Se io da medico leggo quel testo sulle autopsie, non capisco nulla. Il 7 maggio a Bergamo hanno fatto le analisi contro il parere del ministero. Da medico, mi sento di dire che abbiamo commesso un reato». Nessun accenno a un’interlocuzione con il diretto superiore, ovvero il ministro della Salute Roberto Speranza.

La guerra tra il viceministro e il comitato: ecco le mail del duro scontro tra Sileri e tecnici. Documenti mai inviati, lettere senza risposta, persone escluse dalle riunioni: L'Espresso pubblica la corrispondenza tra il viceministro della Salute Pierpalo Sileri e il Comitato tecnico-scientifico che, a suo dire, lo avrebbe tenuto all'oscuro di ogni decisione. «Sono basito dal comportamento dei funzionari dello Stato». Floriana Bulfon l'08 giugno 2020 su L'Espresso. «Questa grave omissione nei verbali, rivelatrice di scarsa trasparenza nel processo decisionale, certamente non aiuta in un momento di emergenza come quello che stiamo vivendo». Di cosa si è discusso durante le riunioni del Comitato tecnico-scientifico che consigliava le scelte del governo durante l'epidemia? Quali informazioni erano realmente a disposizione sull'evoluzione del virus e come sono state gestite? Non dovrebbero essere documenti segreti. Eppure persino il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri non riesce a ottenere l'accesso a quei resoconti. Scrive di rimanere «basito del comportamento dei funzionari dello Stato». E denuncia che la sua collaboratrice è stata esclusa dal tavolo del Comitato con motivazioni discutibili: «Il 24 febbraio una componente del mio ufficio, la cui presenza (unica donna) era stata da me chiesta per avere informazioni in tempo reale fu allontanata dopo dichiarazioni del tipo: “ci sono troppe donne qui”». La tensione tra Sileri e il Comitato è sempre più alta: la corrispondenza che l'Espresso pubblica in esclusiva mostra un vero braccio di ferro per potere esaminare i carteggi del pool che ha guidato le scelte chiave della pandemia. Il chirurgo romano, eletto al Senato con il M5S e nominato vice di Roberto Speranza nel governo Conte Bis, sostiene che quei documenti gli siano negati. Il coordinatore del Comitato Agostino Miozzo replica invece “con viva sorpresa”. «È stata celermente assicurata la presenza di un suo rappresentante che prende regolarmente visione dei verbali». Non solo: «Di fronte a una sua specifica richiesta – non intervenuta nel caso di specie - sarà mia cura fornirle un'informativa quanto più possibile completa, pur tenendo conto che i verbali costituiscono informazioni “non classificate controllate”». Ossia il livello più blando di riservatezza, senza una formale secretazione. Ma Sileri non ci sta e risponde con un lungo elenco di negligenze: «Dall'inizio dell'emergenza ho rappresentato in più occasioni l'urgenza di acquisire la documentazione in quanto ritengo mio preciso dovere conoscere tempestivamente i pareri espressi dall'organo tecnico… Ho più volte lamentato la mancanza di un collegamento tra il Comitato e il mio ufficio, che per la parte ministeriale, avrebbe dovuto essere garantito dal Segretario generale del ministero della Salute, che ha invece ampiamente disertato le sedute… Non è vero che la presenza di un rappresentante è stata celermente assicurata».

Fino all'11 aprile non gli è stato trasmesso alcun documento né i verbali delle riunioni. Allega anche una mail spedita il 21 marzo, mentre si trovava isolato per avere contratto il virus: «Vorrei, quanto meno, poter rispondere alle tantissime richieste che mi giungono come membro del governo oltre che come medico.  È mio dovere partecipare all'individuazione dell'indirizzo politico dell'esecutivo per il quale ho giurato. Non riesco ad aver riscontro, non mi è concesso leggere, nonostante svariate richieste, i verbali». In particolare, evidenzia come gli siano stati negati i documenti sulle riunioni di marzo. Sono le settimane cruciali, quando il virus dilaga e vengono prese le decisioni più difficili: come la mancata zona rossa di Nembro, mai decretata nonostante le indicazioni dell'Istituto Superiore di Sanità. Omissioni che sembrano far calare un velo di mistero sulle discussioni del Comitato.

Dossier svizzero demolisce il lockdown: “Misura medievale, ha salvato poche vite”. Laura Ferrari lunedì 18 maggio 2020 sul Il Secolo d'Italia. Che cosa sarebbe successo senza il lockdown? Se l’Italia avesse adottato il modello svedese quanti morti in più avremmo avuto? A questa domanda ha risposto il Politecnico federale di Zurigo (ETHZ). Ecco i calcoli, riportati dal sito Swissinfo.

Lo studio del team di ricercatori di Zurigo. “Il lockdown – o quarantena – dei Paesi europei ha prodotto un risultato che siamo stati in grado di quantificare. Calcoliamo una riduzione dei decessi nell’ordine di cinquanta persone per milione di abitanti”. Secondo i calcoli del team guidato dal professore Didier Sornette, esperto di rischi presso il Politecnico federale di Zurigo (ETHZ), il confinamento ha avuto effetti relativamente bassi sulla mortalità della popolazione. In Italia, secondo questo studio, avremmo avuto circa tremila morti in più. Per avere un raffronto obiettivo, dovremmo capire quanti morti in più abbiamo invece avuto per le conseguenze del lockdown. Mancate diagnosi, cure non effettuate su malati gravi, femminicidi, suicidi. Questo, al momento, non è dato saperlo.

“Il lockdown?  Misura brutale e inefficace”. Nell’articolo pubblicato sul sito svizzero, lo scienziato francese demolisce il modello del confinamento: “Uno strumento brutale, medievale, a cui far capo in ultimo ricorso quando si è disarmati o in uno stato di massima incertezza”. Inoltre, sapendo che forse la Covid-19 era già presente in Svizzera all’inizio dell’anno, il confinamento tardivo – sostiene Sornette – avrebbe avuto un effetto molto limitato”.

Gestione incompetente dell’emergenza. Il professor Sornette è inoltre convinto che il processo sia stato già mal gestito in termini di prevenzione. Usa inoltre una metafora automobilistica. “Ci siamo addormentati al volante. Così abbiamo dapprima assistito a una negazione dell’importanza di questa pandemia che si stava sviluppando in Cina, poi a una critica della Cina che confinava in modo eccessivo”. Per lo scienziato dell’università di Zurigo, “in alcuni Paesi europei (il riferimento è all’Italia?) c’è stato il panico e molti hanno cominciato ad imitare la Cina, ma meno bene. Non si sarebbero dovute attuare misure di confinamento così brutali, bensì focalizzarsi sulle zone calde e gli epicentri”. Una sonora bocciatura per Conte e i suoi “esperti”.

 Giancarlo Dotto per Dagospia il 18 maggio 2020. Sconfitte utili. La sconfitta è tale solo quando non genera una lezione. La sconfitta dei giorni nostri è quella della scienza che si sostituisce alla politica con la debolezza arrogante del suo sapere parziale. Un peccato che Giuseppe Conte non abbia avuto come consulente un Johann Wolfgang Goethe di oggi. Ospite da Fazio, avrebbe citato il suo “Faust” come una gentile ma inesorabile scimitarra: “capire e descrivere una realtà vivente a partire dalla somma dei suoi frammenti inerti, significa mancare il nesso stesso della vita”. Detto altrimenti e attualizzato: se un malato di virus lo tratti solo per quello che capita o può capitare nei suoi polmoni ti ritrovi alla  fine un malato globale e un disadattato potenziale. Il professor Francesco Le Foche, clinico, immuno-infettivologo, ha cercato dall’inizio un approccio globale al tema coronavirus. Proviamo a tracciare con lui un punto, che sia anche l’occasione di sezionare il fenomeno in tutti i suoi aspetti. Qualunque fase sia questa (conviene immaginarla come una fase zero), serve una combinazione goethiana di lucidità e di lirismo. “Bisogna intanto distinguere tra scienza e scientismo. La scienza deve fornire dati, trarre deduzioni, porre dubbi, indicare proposte. Lo scientismo è quando la scienza si sostituisce alla politica, come si è visto in certi regimi dove, in nome del diktat della scienza, si sono avallate cose orrende”.

Dal punto di vista della scienza: come si affronta una pandemia? 

“Va affrontata su quattro livelli, scientifico, politico, etico individuale ed etico di società”.

Aspettando l’eventuale vaccino, come e quando termina una pandemia?

“La pandemia termina quando la coscienza sociale delle persone si ribella e inizia la fase della convivenza con il virus”.

È quanto sta accadendo da noi oggi?

“Esattamente.  Di là delle formule dettate dalla politica e dalla scienza la convivenza con il virus è un processo di rivolta sociale che parte da una collettività esausta, segnata dalle restrizioni subite, dal discomfort fisico, economico e psichico. Un tam tam collettivo che si trasmette per vie misteriose”.

Detto così, somiglia a una storia di liberazione.  

“Il piccolo dittatore, seicento volte più piccolo del diametro di un capello, viene messo all’angolo da una società che raccoglie la sfida e decide di conviverci”.

Più che un esercito di ribelli, sembriamo animali scappati da un recinto protetto. Smarriti e confusi. Andiamo in mille direzioni, non sappiamo bene dove.

“Devono essere date delle linee guida. Primo punto, l’educazione civica, il rispetto del prossimo e della comunità. Linee guida che sono il vettore illuminante dell’umanità, prescindendo da regionalismi e nazionalismi”.

Andando nel dettaglio?

“Decidere se gli ombrelloni devono stare a due metri o a cinque non è alla base di una rinascita sociale. La pandemia è quasi sempre la conseguenza di un abbrutimento sociale, di una deregulation spacciata per normalità”.

E invece cos’era?

“Un malsano delirio di onnipotenza. Ci ritenevamo i padroni dell’universo, è bastato un nemico invisibile, infinitamente più piccolo di una pulce a metterci al muro. Abbiamo scoperto di colpo la nostra vulnerabilità assoluta”.

Con questo nemico dobbiamo misurarci, nudi e fragili, senza più nemmeno l’armatura del crederci padroni.

“Il sistema immunitario è la nostra armatura. Siamo ancora lontani dal conoscerlo bene ma, se attivato in modo congruo, ha le risorse intrinseche per difenderci da tutto. Un esercito straordinario, altamente specializzato”.

Cosa ci manca ancora?

“Non abbiamo il joystick, la possibilità di gestire il sistema. Il segreto cui dobbiamo attingere non è solo il vaccino. Siamo ancora nella fase primitiva della scoperta del sistema immunitario, che è particolarmente complesso, ma ha in sé tutti i possibili fattori di difesa utili al nostro organismo”.

Possiamo farcela anche senza vaccino?

“Il vaccino equivale a una forma d’immunità attiva che stimola il sistema immunitario a produrre anticorpi. Al di là del vaccino, nel prossimo futuro potremmo arrivare allo stesso risultato attivando il nostro sistema immunitario con modalità diverse.”

Il sistema immunitario, dunque, è il cuore della nostra difesa.

“Pensate che l’organizzazione del sistema immunitario ha ispirato il concetto dello scudo spaziale, che fu alla base della guerra fredda. Bloccare qualunque aggressione dall’esterno con una barriera di anticorpi. Mancano ancora i canoni scientifici che ci consentano di sfruttarlo al massimo”.

Questo spiega, ad esempio, perché si muore ancora di cancro?

“Se riuscissimo ad attivare il sistema adeguatamente, potremmo pensare di  sconfiggere anche il cancro. Purtroppo siamo ancora così fragili che basta un organello come questo coronavirus per affondarci”.

Come si rafforza il sistema immunitario?

“Non solo con la ricerca scientifica. Dobbiamo ricreare condizioni che ci favoriscano biologicamente. Rinunciare a considerare il pianeta come una nostra risorsa illimitata da saccheggiare. L’onnipotenza è un nemico da combattere”.

C’è anche una ribellione della natura?

“Gli ecosistemi sono le nicchie biologiche che mantengono virus e batteri inoffensivi. Se li distruggi, scatta una ribellione della natura, scatenando avversità. Da dittatori del pianeta, non abbiamo un futuro. Basta guardare la storia delle dittature”.

A proposito del “piccolo dittatore”, perché dovrebbe arretrare invece di fare un sol boccone del nemico?

“Le attenzioni giuste, i comportamenti responsabili, la distanza fisica, ma non sociale, renderanno la convivenza innocua”.

Che significa distanza fisica, ma non sociale?

“Significa coesione sociale ma distanza individuale. Come gli spartani reagiremo con un’aggregazione a testuggine. Questa ribellione sarà la fine della pandemia”.

Cosa vuol dire nello specifico convivere con il virus? Diamo una bussola a quest’umanità smarrita.

“Significa accettare mentalmente un minimo di rischio. Lo stesso che accade quando affrontiamo il quotidiano, quando andiamo in macchina, attraversiamo una strada pericolosa o andiamo di notte in un quartiere a rischio”.

Quali sono le strisce pedonali contro il virus?

“Vale la pena ripeterlo: la distanza giusta all’aperto e la protezione con mascherina in ambienti chiusi particolarmente frequentati, forte tasso d’umidità e pochi scambi d’aria”.

Esempi?

“I mercati rionali chiusi, i supermercati, i teatri, i cinema, ristoranti al chiuso, ecc. Il più alto indice di contagio al mondo c’è stato nelle macellerie del Texas, dove il rumore degli attrezzi che segano le ossa degli animali induce le persone ad alzare la voce, facendo partire milioni di particelle virali”.

Se cammino sulle rive del Tevere, del Po o dell’Arno, posso fare a meno delle mascherine?

“Niente mascherine nei luoghi aperti dove è possibile mantenere la distanza di sicurezza. Fondamentale, insisto, è il rispetto per gli altri”.

Vengono a trovarci parenti e amici. Come so che, da asintomatici, non mi portano in casa il virus?

“Quando c’è un dubbio vale la regola del distanziamento. Siamo appena usciti da una fase pandemica, dobbiamo pensare che le case e i luoghi di lavoro sono quelle più a rischio di contagio”.

Comunicazione angosciante. Come faccio a saperlo se il contagiato mi contagia, viaggiando il tutto su una traccia asintomatica?

“Se è asintomatico o pre-sintomatico e rispetta i canoni di attenzione, è molto improbabile che possa contagiare”.

In assenza di sintomi?

“In linea di massima dopo trenta o quaranta giorni avviene l’epurazione del virus.  Tuttavia, possiamo sempre contare sui tamponi o sui test sierologici sempre più affidabili cui sottoporre le persone venute in contatto”.

Nessun allarme dunque?

“Oggi sappiamo che possiamo affrontare prevenzione e l’eventuale terapia con grande efficacia, intervenendo nella prima settimana. Se si interviene tempestivamente, le persone tendono alla guarigione evitando, a volte, l’ospedalizzazione”.

Non erano dignitosi gli affollamenti sconsiderati d’un tempo, ma è dignitoso cenare in un ristorante con il partner o un amico divisi da una barriera di plexiglas?

“È una sconfitta. Ritengo sia sufficiente la distanza di un metro. Ogni tavolo deve avere un metro quadro di sana privacy, che vuol dire salute pubblica ma anche discrezione personale”.

Si può immaginare dunque una nuova normalità?

“Dobbiamo farlo. Andrebbe ipotizzato un rimodellamento architettonico degli spazi urbani, al fine di evitare situazioni di promiscuità eccessiva”.

Addio per sempre alle ammucchiate euforiche? Addio alle folle negli stadi e nei concerti?

“Temo di sì. Ci sono tifoserie già culturalmente inclini a farlo, penso ai tifosi del Chelsea. Dobbiamo abituarci a una condivisione della fede sportiva che tenga conto della salute pubblica”.

Diventa difficile immaginarlo e accettarlo.

“È la nuova normalità. Dobbiamo immaginare stadi con una capacità ridotta della metà. Trentamila tifosi in stadi che oggi ne prevedono sessantamila. Una sanificazione puntuale e almeno un metro di distanza tra una persona e l’altra. Vale anche per i concerti e per le file agli ingressi”.

Dovremo assistere a uno show di Springsteen come fosse un concerto da camera?

“Soprattutto al chiuso, questo sarà inevitabile. In generale, dobbiamo ripensare tutta l’architettura delle città che tenda a un’urbanizzazione da esterno. Saranno favoriti gli attici e i ristoranti terrazzati o con giardino”.

Anche questo farà parte della nuova normalità?

Una normalità che riveda gli eccessi di quello che sembrava il giusto ma non lo era. Gli indigeni dell’Amazzonia contestavano i grandi assembramenti delle città. Quello che per noi era progresso, per loro era regresso”.

Si torna al concetto di rapporto equilibrato con l’ambiente.

“Dobbiamo uscire dalla caosressia sociale”.

Neologismo?

“Parola che invento qui per definire contesti in cui i contatti sociali non tengono conto della misura”.

L’aria condizionata aiuta o è nociva?

“I nuovi impianti di condizionamento d’aria prevedono flussi di aria pulita dall’esterno verso l’interno e viceversa. Tale virtuoso ricambio comporta la netta riduzione della carica virale in un ambiente.”.

Accettare un minimo rischio, convivere con il virus. Vale anche per lo sport professionistico dove i parametri di sicurezza sono altissimi?

“Assolutamente sì. Il nuovo concetto di ritorno alla normalità non può non prevedere lo sport professionistico”.

Se l’è spiegata alla fine l’anomalia Lombardia?

“Decisiva la concentrazione di quattro fattori: l’alto coefficiente demografico, il livello d’industrializzazione, la condizione aero-ambientale e le abitudini sociali.

Che differenza tra clinico, virologo ed epidemiologo?

“Il clinico osserva il fenomeno attraverso il paziente, il virologo studia il virus, l’epidemiologo studia la rilevanza della malattia nella popolazione. E’ il lavoro d’insieme che porta al risultato: “la sconfitta della pandemia”.

 Giordano Bruno Guerri per ''il Giornale'' il 20 maggio 2020. Di solito capita nel mondo dello spettacolo. D'improvviso c'è il cantante, o l'attore, che da totale sconosciuto ha immenso successo con una canzone o un film: tutti lo conoscono, molti lo amano, qualcuno lo detesta, comunque sembra che non debba mai più uscire da sotto i riflettori e dalle nostre vite. Invece, per motivi imponderabili, da un giorno all' altro ha sempre meno successo, fino a scomparire  rapidamente, dimenticato. Senza voler mancare loro di rispetto ci mancherebbe è quanto sta accadendo e accadrà a epidemiologi e virologi. Quasi nessuno conosceva la loro esistenza, e quei pochi soltanto per sentito dire. In fondo, capita più spesso di avere bisogno di un dentista che di uno studioso dei microbi, e di un commercialista più che di uno studioso della diffusione delle malattie. Finché, un giorno, bum, eccoti un virus nuovo di zecca che dalla lontana Cina in quattro e quattr'otto stabilisce il suo impero mondiale, detto Pandemia. Li ricordiamo, i primi epidemio/virologi, in febbraio, faticosamente rintracciati attraverso affannose ricerche nelle redazioni di giornali, radio, televisioni: scoperti, stanati e intervistati, spesso erano timidi, impacciati come capita a chi d' improvviso si trova alla ribalta. Poi hanno preso il potere, senza neanche volerlo né chiederlo, sui media e nei comitati. Di epidemie e pandemie, anche recenti e ben più gravi di questa, è piena la storia. Ma stavolta è accaduto qualcosa mai accaduto prima: in nome del diritto alla salute (un concetto finora più teorico che reale), gli Stati invece di lasciar morire qualche decina o centinaia di milioni di persone, hanno interrotto i capisaldi della loro vita, che sono l' economia, il lavoro, la ricchezza, i diritti, gli scambi, le comunicazioni. E ci sono riusciti proprio per i suggerimenti di quegli studiosi fino a ieri ignorati, il cui potere è diventato di colpo immane. Non si limitavano a dettare l' agenda politica e il da farsi. Come potentissimi opinionisti - con un potere che mai nessun opinionista ha avuto influenzavano umori e sentimenti, originavano schieramenti, dividevano e univano. Anche indossando la mascherina, venivano riconosciuti per strada e festeggiati dai pochi e sfuggenti che non si sarebbero accostati a altri che a loro. Poi, d' improvviso, il declino imminente, dopo neanche tre mesi di regno. Fosse per loro, si capisce, continuerebbero a tenere tutto chiuso, non per vanità o libidine di potere, ma per prudenza e sicurezza. La politica però non li ascolta più, né a destra, né a sinistra, né al centro. La politica sa (per fortuna) che incombe l' altro virus, ancora più micidiale del Covid-19, che rischia di far cadere tutto il castello costruito in 75 anni di pace e lavoro e invenzioni e scoperte. La politica ha deciso che adesso è il momento di rischiare, di ascoltare gli scienziati con un orecchio solo. E loro, i bravi saggi, scuotono più o meno lievemente la testa in televisione e in tutti i comitati. Ma il loro momento è passato, e se dovesse tornare sarebbe il disastro, moriremmo per l' altro virus. Sono sicuro che, da uomini di scienza, anche loro non vedono l'ora di tornare al silenzio dei loro studi. Intanto, grazie, davvero.

Dagospia il 18 maggio 2020. GLI ESIMI VIROLOGI SPERNACCHIATI DALLA SCIENZA: LE MASCHERINE RIDUCONO I CONTAGI DI OLTRE IL 50%. QUANTE MORTI CI SAREMMO EVITATI SE NON AVESSIMO ASCOLTATO I VARI PREGLIASCO, LOPALCO, ARLOTTI, PER NON PARLARE DEI CAPOCCIONI DELL'OMS, CHE DICEVANO ''NON USATELA, SERVE SOLO AI MALATI, CREA UNA FALSA SENSAZIONE DI SICUREZZA''. NO, CREAVA UNA VERA SICUREZZA E VOI DOVRESTE ANDARE A NASCONDERVI.

ECCO COSA DICEVANO NEI PRIMI MESI DELL'EPIDEMIA MOLTI VIROLOGI:

CORONAVIRUS, L'IMMUNOLOGO ARLOTTI: «LA MASCHERINA? EFFETTO CARNEVALE, SERVE SOLO PER I MALATI». 1 febbraio su ilmessaggero.it.

PREGLIASCO: NON SERVE USARE LE MASCHERINE. 22 Febbraio 2020 su scienze.fanpage.it. "Ad oggi non è cambiato ancora nulla, non c'è necessità di utilizzare le mascherine" ha spiegato a Fanpage.it il professor Fabrizio Pregliasco, virologo presso il Dipartimento Scienze biomediche per la salute dell’Università degli Studi di Milano. "Per ora le indicazioni sono solo quelle relative al territorio coinvolto, ma non esagererei a dire tutti con le mascherine. Comunque anche nelle aree colpite [dalla recente diffusione] non ce n'è bisogno, è una precauzione ma la diffusione al momento non è così devastante".

CORONAVIRUS, IL VIROLOGO FABRIZIO PREGLIASCO: "LA MASCHERINA È UN ECCESSO DI PRUDENZA". 3 marzo  2020 su la7.it/tagada.

LOPALCO: LE MASCHERINE CHIRURGICHE? CHI LE INDOSSA E NON HA SINTOMI POI SI SENTE TROPPO TRANQUILLO. QUINDI NON LE CONSIGLIO. 8 Marzo 2020.

DAGOSPIA 7 aprile 2020: LE MASCHERINE SERVONO, A TUTTI, PIU' SI USANO E MEGLIO E' (INTERVISTA A GARBAGNATI)

Non è l'Arena Alessandro Cecchi Paone inchioda i virologi: "Il vostro errore è stato non dire mai non lo so". Libero Quotidiano il 10 maggio 2020. Alessandro Cecchi Paone, ospite di Massimo Giletti a Non è l'arena su La7, inchioda gli scienziati sul coronavirus davanti alle loro contraddizioni: "A febbraio le indicazioni venivano dall'Oms che diceva che non era pericoloso. Secondo me l'errore che voi avete fatto è stato non dire mai non lo so. Un grande scienziato deve ammettere di non essere sicuro". Quindi il giornalista e divulgatore scientifico dà loro un consiglio: "Imparate a dire almeno non lo sappiamo ancora. E non accettate che la scienza diventi una opinione, una materia di scontro" come purtroppo è diventata durante i talk show, conclude Cecchi Paone.

Che cosa significa «non so»? Il solo vero errore degli scienziati sul coronavirus. Il coefficiente per stimare la propagazione del contagio andrebbe aggiornato e servirebbero dati più «puliti». Intanto in Germania è di nuovo a 1,1, sopra la soglia. Paolo Giordano l'11 maggio 2020 su Il Corriere della Sera. La scienza non sa: e non sa «costitutivamente». Insegna a vivere il dubbio. Il coefficiente per stimare la propagazione del contagio andrebbe aggiornato e servirebbero dati più «puliti». Intanto in Germania è di nuovo a 1,1, sopra la soglia.

Dopo essere stati per settimane in rispettoso ascolto degli esperti, dopo le abbuffate di virologia e immunologia ed epidemiologia, il nostro atteggiamento inizia a cambiare. Mentre noi andiamo avanti, gli scienziati restano indietro e continuano a ripeterci le stesse cose. Continuano, in sostanza, a dirci no no no. Così la scienza si rivela una volta in più per quel che è: un’interdizione al nostro godimento. L’insofferenza che ci suscita si traduce in una svalutazione sommaria: «e poi, parliamoci chiaro, neppure gli scienziati ci hanno capito granché».

È vero, gli scienziati non sanno. I fisici, esperti della materia, ammettono candidamente di non sapere di cosa è fatto il 95% dell’universo. I biotecnologi, esperti di Dna, non sanno a cosa serve più della metà del nostro genoma, o addirittura se serve. E i virologi, ora così in auge, sono messi ancora peggio, perché non sanno nemmeno la percentuale di quello che non conoscono: hanno censito qualche migliaio di virus, ma i virus sul pianeta potrebbero essere miliardi. Non solo è enorme ciò che non sappiamo: è enorme ciò che non sappiamo di non sapere. Ma quell’enormità è proprio la sorgente di vertigine che porta i giovani scienziati alla loro vocazione, e quella vocazione a non estinguersi.

Da quando la pandemia ci ha investito, l’umanità intera vive in un limbo della conoscenza, dove gli indizi non sono prove, dove le cure sono «promettenti» ma non adeguatamente sperimentate, dove gli articoli sul Covid sono pre-print ancora in attesa di validazione. È una condizione esistenziale tipica per gli scienziati, ma alla quale noi non siamo abituati. E non ci piace nemmeno un po’. Così come non ci piace che quegli scienziati farciscano tutte le loro risposte di prudenza: «è ancora presto per», «dobbiamo aspettare che», «ci vorrà tempo prima di», «non sappiamo, non sappiamo, non sappiamo».

Eppure, con un po’ di lucidità in più e un po’ di paura in meno, sapremmo riconoscere le loro schermaglie come l’elemento politico più nuovo e dirompente di questa crisi. In un’epoca dominata dall’assertività gli scienziati hanno riportato il dubbio al centro del discorso, hanno cercato di rispondere alle domande senza ricorrere a slogan, piuttosto con altre domande, e hanno riscoperto per noi la categoria proibita del non-sapere. Si parla tanto dei cambiamenti che saremo in grado o no di fare nel mondo post-Covid che verrà. Bene, eccone uno particolarmente importante: mantenere viva questa tensione verso ciò che non conosciamo. Esiste un modo di educare al non-sapere? D’insegnarlo già ai bambini, sovvertendo il principio dominante che la conoscenza sia un corpo statico di nozioni di cui appropriarsi pezzo a pezzo? Non ne ho idea, ma varrebbe la pena di rifletterci, anche in vista del rientro a scuola.

Se di qualcosa vanno rimproverati gli scienziati non è certo di non-sapere o di trovarsi in disaccordo, semmai del contrario: di non essere stati abbastanza inflessibili, a volte, nel difendere il confine tra sapere e non-sapere. Di essersi lasciati in parte infettare dal bisogno mediatico di «dare speranza». Stremati dalle richieste di rassicurazione, in molti hanno finito per dire quel che la gente voleva sentirsi dire: «sì, arriverà di sicuro il vaccino»; «sì, quella cura funziona alla grande»; «sì, il virus è più debole dell’inizio»; «sì, il caldo ci aiuterà». Sì, andrà tutto bene.

La compiacenza è la deriva peggiore della politica contemporanea, ma ognuno di noi comprende come sia, in una certa misura, ineliminabile dalla politica stessa. Per uno scienziato la compiacenza è invece un peccato capitale. Come lo è ostentare certezze di cui manca ancora la prova, per quanto si tratti di certezze «oneste», corroborate da osservazioni personali ed esperienza e istinto. Il governo viene ora accusato da più parti di un atteggiamento paternalistico nei nostri confronti. Non saprei dirlo. Ma è indubbio che il paternalismo ha caratterizzato la comunicazione scientifica fin dall’inizio della pandemia. Il fatto stesso che l’esposizione dei dati sia stata affidata a un organo non scientifico come la Protezione civile dice molto. Così come dice molto l’impalpabilità del Comitato Tecnico Scientifico, mai portato a spiegare in maniera esaustiva e diretta ai cittadini la solidità delle ragioni dietro questa o quella norma, anche quando le norme — distanziare di tot i tavoli dei ristoranti, non aprire le scuole fino a settembre, sanificare i vestiti nei camerini — hanno ripercussioni gravissime sulle nostre vite.

Altri articoli di Paolo Giordano sul virus.

Nei giorni peggiori ci veniva detto: «aumentano i ricoveri e i decessi, ma aumentano anche i guariti». Come se i guariti, per qualche strana inversione del principio di causalità, potessero anche diminuire. Come se il loro numero potesse smorzare la gravità degli altri dati. Non aveva senso, ma se faceva stare più tranquilla la gente, meglio dirlo. Oppure il famigerato R0, il coefficiente che si è piantato di traverso fra noi e i nostri progetti. Ne parlano tutti. Ma nessuno si è preso la briga, per esempio, di spiegare che parlare di R0 non è più così corretto, che R0 descrive la propagazione del contagio in una popolazione inconsapevole, che non adotta misure, com’eravamo noi a metà febbraio, mentre adesso dovremmo parlare di Rt, di tasso di riproduzione «effettivo», o semplicemente di R. Perché non chiarirlo? E perché non chiarire che per calcolare decentemente R servono flussi di dati costanti e «puliti», cioè corretti dal punto di vista temporale, diversi da quelli della Protezione civile? Perché non spiegare che R è associato a un’incertezza tanto più grande quanti meno sono i casi? Ma no, quelli sono misteri per iniziati. Potrai spostarti di regione quando R sarà inferiore a 0,2. Tanto deve bastarti. (E intanto, ieri in Germania, R veniva stimato di nuovo sopra soglia, a 1,1). La reticenza è stata una costante del nostro rapporto con gli organi decisionali nel corso dell’epidemia. E le mascherine sono state la foglia di fico per nascondere tutto quello che non veniva detto. Peggio: sono state il tessuto non tessuto per coprire tutto quello che non veniva fatto, o comunque non in tempo. Se consideriamo la frase sibillina che compare nel documento del Comitato Tecnico Scientifico che regola la fase 2: «ci sono però delle incertezze sul valore dell’efficacia dell’uso di mascherine per la popolazione generale dovute a una limitata evidenza scientifica, sebbene le stesse siano ampiamente consigliate»; se mettiamo questa frase in relazione alla quantità di parole spese proprio sulle mascherine, abbiamo forse la stima di quanto gran parte del dibattito sia stato divertito, se non sull’irrilevante, almeno sul non-proprio-rilevante. Le «comprovate necessità» per affrontare la riapertura erano altre, ma hanno avuto molta meno attenzione: un esercito di tracciatori in carne e ossa, in grado di ricostruire i contatti dei nuovi positivi, nonché di garantire il follow-up dei soggetti in quarantena, la possibilità di isolare i casi in luoghi separati dal nucleo famigliare e di testare tempestivamente qualunque nuovo sospetto. Se n’è parlato, certo, se ne parla ancora, ma mai come delle mascherine. Delle mascherine parliamo molto più volentieri, perché sono più facili. E loro, gli organi decisionali, lasciano che ne parliamo, perché così diventa più facile anche per loro. «No, aspetti ancora un momento, ascolti ancora solo questa preghiera: dovunque Lei vada, sia sempre consapevole di una cosa, e cioè che qui Lei è nell’ignoranza più totale, e sia prudente». È ciò che l’ostessa dice all’agrimensore K. nel Castello di Kafka, l’agrimensore K. che non capisce nulla di quel che deve fare o lo circonda, perché tutto quel che riguarda il Castello è concepito affinché lui non lo capisca. Sembra l’invito che viene fatto a tutti noi nella fase 2. Separa i tavoli, aspetta che R si abbassi, qualunque cosa sia, per il resto lascia fare a noi. Quando sarai grande capirai. Ah, e se esci, non dimenticarti la mascherina.

COVID-19: LA STRANA EPIDEMIA E LA DITTATURA SANITARIA. Diego Tomassone su nexusedizioni.it. Pubblicato il: 07/05/2020. “Prova a prendermi” è un film del 2002 interpretato da Leonardo Di Caprio con la regia di Steven Spielberg, dove il sedicenne protagonista riesce in poco tempo a truffare in tutti gli Stati Uniti d’America per milioni di dollari. Quel film è nulla in confronto a quanto stiamo vivendo oggi, perché riuscire a mettere in ginocchio una nazione come l’Italia con un virus del raffreddore (e nemmeno il primo, perché i Coronavirus sono solo i secondi virus che causano il raffreddore, dopo i Rinovirus!)), denota sicuramente grande maestria, intelligenza, organizzazione e ottimo uso della comunicazione! Sì perché non è tanto la gravità della “epidemia” o della “pandemia” (tra l’altro mai ufficialmente dichiarata dall’OMS), quanto ciò che di essa viene percepito. “La paura fa 90” ha ormai lasciato il posto a “la paura fa COVID-19”, perché da febbraio a questa parte, pare che non esista più nulla se non questa malattia, che è tutto meno che il “Capitan Trips” che vogliono farci credere: infatti, seppur si parli sempre di virus influenzale anche nel romanzo datato 1978 di Stephen King L’ombra dello scorpione, e seppur il virus pare essere ingegnerizzato, la contagiosità non è del 99% e la letalità non è del 100%, ma siamo a livelli esattamente inversi e opposti, infatti gli ammalati in Italia si attestano sullo 0,26%, con picchi, tra gli ammalati, di una mortalità che non raggiunge il 15%! Quindi è chiaro che realmente non c’è assolutamente nulla di quanto paventato, i numeri lo confermano, e non potrebbe essere altrimenti, perché se davvero fossimo stati di fronte a virus come quello dell’Ebola, che ricordo avere una letalità  che tocca il 90%, ci sarebbe stato poco da fare con gli attuali mezzi a disposizione. La strategia però è proprio questa, creare panico e allarmismo su qualcosa di innocuo, fare credere che un petardo sia una bomba atomica, ed il gioco è fatto, perché toccando “trigger points” ancestrali come la paura del contagio, dei virus e di tutto ciò che ci gira intorno, diventa poi facilissimo far accettare misure drastiche come quelle che stiamo vivendo. Quale altro modo sarebbe stato altrettanto efficace per obbligare tutti a rimanere tappati in casa, addirittura spingendo le persone ad “appostarsi” su balconi e finestre, per additare come pericolosi “untori” i passanti, tacciandoli del “reato” di “contagio aggravato”? Curioso come nessuno ricordi un attimo la storia, e non si sia preso la briga, a maggior ragione avendo tanto tempo libero dato dal “io resto a casa”, di studiare un pochino le epidemie del passato, perché si sarebbe scoperto che MAI nella storia si solo isolati i sani, ma SEMPRE si isolavano i malati ed i soggetti considerati a rischio; e nel passato più remoto ricordo esistevano le “città-stato” con tanto di mura, le quali avevano una densità di popolazione molto alta. 

Quindi perché il “lockdown” totale? Il tutto è partito dalla città cinese di Wuhan, dove la popolazione di 11 milioni supera quella di Bielorussia e della Svezia, dove la densità di popolazione è altissima, quindi considerare tutti potenzialmente a rischio poteva anche avere un senso, soprattutto in una fase iniziale quando il virus era ancora sconosciuto. Parlando dell’ Italia però, il lockdown totale non aveva assolutamente senso, perché oltre a non avere la stessa densità di popolazione che osserviamo in Cina, avevamo già maggiori informazioni sul virus, e sapevamo benissimo che lo stesso non è arrivato a febbraio, ma circolava già liberamente da dicembre se non da novembre 2019 (esperienza personale e confermata da tanti colleghi è proprio quella che i maggiori casi di “polmoniti strane” sono proprio avvenute tra novembre e gennaio), quindi se il virus circola e contagia da dicembre se non addirittura da novembre, e noi chiudiamo tutto a marzo, se la matematica non è un opinione, la quarantena non solo è passata ma è raddoppiata se non triplicata, e se non è successo un disastro significa primo che il virus non è “Capitan Trips”, e secondo che probabilmente si è addirittura raggiunta la immunità di gregge del 60%, con i bambini come primissimi individui immuni!

Quindi cosa facciamo? Chiudiamo la stalla quando orami i buoi sono scappati, e togliamo diritti umani fondamentali costituzionalmente garantiti per quale motivo? Impedire la libera circolazione è un atto gravissimo, perché lede le libertà personali che sono inviolabili. Non mi risulta che nelle regioni della Terra colpite dall’Ebola come da altri virus altrettanto letali, si effettuino lockdown totali ad ogni ondata, eppure le epidemie rimangono confinate e non accade nulla di catastrofico. Come nulla di catastrofico è successo in Bielorussia o in Svezia, due Stati che non hanno seguito la politica del lockdown, e ci ritroviamo a una percentuale di ammalati intorno allo 0,1%.

In casi di emergenza (vera o presunta), ci si mette a sperimentare oppure si usano strategie ben collaudate? Perché non si sono isolati i malati come si è sempre fatto, ma si è scelta la politica sanitaria di isolare tutti, esperimento epidemiologico mai eseguito prima nella storia?

Diego Tomassone su nexusedizioni.it. Pubblicato il: 08/05/2020. Il lockdown totale, a quanto risulta da una analisi storica, non è mai stato effettuato prima d’ora, e infatti “l’esperimento” non solo è miseramente fallito (come era prevedibile), ma risulta anche pesantemente dannoso viste le gravi ripercussioni economiche che ha creato (non tutti possono contare su un vitalizio mensile, e le piccole imprese già in difficoltà da prima, rischiano di chiudere). La salute prima di tutto, su questo non si discute, ma davvero è stata messa la salute al primo posto? Analizzando ancora una volta i dati e ragionando con il buonsenso, parrebbe di no. Innanzitutto il conteggio dei contagiati e dei malati è stato effettuato con l’esecuzione di un testcRT-PCR, il cosiddetto “tampone” rino-faringeo, non idoneo per effettuare diagnosi (2), ma semmai utile solo in ambito di ricerca, e per lo stesso non risultano precise indicazioni della sua sensibilità, della sua specificità, e della relativa curva ROC, fatto gravissimo perché così facendo non è possibile ricavare dati attendibili, ma anzi si può “giocare” sui dati a proprio piacimento. La salute si preserva, soprattutto se si parla di malattie infettive, con adeguate profilassi perlomeno di rinforzo del sistema immunitario, invece su questo fronte non solo non è stato consigliato assolutamente nulla, ma addirittura si sono ridicolizzate scelte come quelle di India e Cuba di usare come profilassi le medicine tradizionali, Omeopatia inclusa (io stesso ho consigliato una profilassi omeopatica e nutriterapica con grande successo!), o ridicolizzato l’uso di integrare la vitamina D, scelta che invece si è poi rivelata di successo e anzi la vitamina D è un parametro di severità e del rischio di ammalarsi. (Unica “profilassi” consigliata (e meno male!), sono stati il lavaggio delle mani e starnutire nel gomito. Sul lavaggio delle mani, così importante come norma igienica, non si può non ricordare il medico ungherese Semmelweis, non tanto per la sua intuizione geniale che permise si salvare migliaia di vite (prevenendo soprattutto la febbre puerperale), quanto per gli atti persecutori che subì, semplicemente perché consigliò di lavarsi le mani passando dalla sala settoria delle autopsie, alla sala operatoria dedicata ai parti! Siamo nel 1840, e il medico ungherese viene addirittura rinchiuso in manicomio come pazzo, e morì prematuramente a soli 47 anni grazie alle persecuzioni subite ed al rifiuto dei colleghi. La sua teoria verrà riconosciuta, assieme al suo scopritore, solo postuma, intorno al 1880. Questa piccola breve parentesi fa ben capire quanto i “dogmi” siano ben radicati in campo medico-scientifico (e non solo), e la ridicolizzazione, la diffamazione e la persecuzione, siano i mezzi da sempre usati per screditare e per demolire psicologicamente e socialmente i “dissidenti”.  Ridicolizzazione anche delle cure di volta in volta presentate, non comprendendo che invece più cure potevano lo stesso funzionare su pazienti diversi, ed era impensabile credere ci potesse essere una unica cura valevole per tutti. La salute non è ulteriormente stata messa al primo posto, perché “grazie” al SARS-CoV-2, ed al relativo lockdown totale, sono state chiuse strutture importanti come i centri riabilitativi per le persone diversamente abili, e soprattutto i poveri bambini, oltre a vedersi negato il sacrosanto e costituzionalmente garantito diritto allo studio, si sono anche viste negate tutte le attività ludiche e sportive, e le varie attività riabilitative, con grande danno sia dal punto di vista della socialità, che come abilità riacquisite e obiettivi raggiunti. Stesso e sovrapponibile discorso vale anche per le persone più fragili come gli anziani, che non solo sono stati i maggiormente colpiti dalla “epidemia”, ma sono anche coloro che hanno avuto le minori attenzioni da una medicina del territorio, o delle stesse strutture per anziani, spesso assenti e inadeguate (molte persone per paura del contagio non hanno chiamato l’ambulanza del 118, e senza intervento tempestivo sono morte di infarto miocardico acuto, o di stroke!) Infatti il grosso problema emerso da questa “epidemia”, è stato proprio l’inadeguatezza di un Sistema Sanitario troppo depotenziato, di una medicina del territorio non efficiente, e di una formazione spesso incompleta del personale ospedaliero, ormai sistematicamente in sotto numero, senza linee guide univoche e precise, non in grado così di gestire gravi emergenze e troppi casi tutti insieme (come già successe per le “epidemie” di polmonite degli anni scorsi, sempre concentrate soprattutto in Lombardia). È necessario quindi non solo “denunciare” che cosa non va, non funziona ed è da cambiare o migliorare, ma rendersi conto che è necessario un vero cambiamento di “approccio epistemologico”.

Diego Tomassone su nexusedizioni.it. Pubblicato il: 10/05/2020.La “pandemia” COVID-19 ha messo in luce tutte le “magagne” della scienza odierna, con i suoi dogmi ormai obsoleti e inadeguati, senza contare il suo approccio comunicativo spesso autoreferenziale, maleducato, poco rispettoso, poco empatico, e che cerca solo consenso mediatico tramite “like” social, consenso che però, come fatto notare anche dal recente articolo di Nature datato febbraio 2020, va sempre più diminuendo, perché le persone si fidano sempre meno sia della scienza(h) che dei suoi “alfieri”. La vera “epidemia” infatti non è tanto dovuta al virus o ai microbi in genere (ricordo che il nostro organismo ospita abitualmente circa 50 mila miliardi di microbi, tra batteri, virus e funghi!), quanto ai “virologi mainstream” i quali hanno “contagiato” la popolazione con la loro ipocondria, il loro narcisismo e dipendenza dalla visibilità mediatica, e dalla loro non sempre pronta conoscenza della medicina clinica (è successo più volte che si contraddicessero da soli!), rifacendosi troppo spesso a una medicina di laboratorio, ai modelli ed alle simulazioni, toccando troppo poco con mano la situazione reale, e purtroppo quasi “sincronizzando” la popolazione su una “frequenza psicotica” pericolosa e sicuramente non curativa. Purtroppo i medici veramente competenti e che non si sono lasciati prendere dal panico ingiustificato, ma anzi hanno cercato di smorzarlo in tutti i modi, sono stati derisi, diffamati, ed è stato messo in dubbio il loro curriculum, quando non sono stati addirittura denunciati. Tutto questo è pericoloso ma fa da “cornice” all’"esperimento anti-democratico” cui stiamo assistendo, dove si arriva addirittura a vietare le passeggiate o il jogging solo per “provare” fin dove ci si può spingere nel limitare i diritti delle persone. Spesso chi ha fatto notare fin dalle prime battute che non c’era nessuna “vera epidemia”, è stato tacciato di “negazionismo”, di minimizzare la situazione, negando che ci fossero le terapie intensive intasate di pazienti COVID (come abbiamo visto già nel 2018 successe in certe zone d'Italia la stessa cosa, ma senza riflettori puntati nessuno se lo ricorda proprio perchè la situazione non ebbe grande ribalta mediatica). Niente di più errato, anzi! Coloro i quali hanno parlato così, hanno semplicemente sempre avuto il polso della situazione, intuendo cosa sarebbe di li a poco successo ed arrivato. In primis una ulteriore vaccinazione di massa estesa, e come abbiamo visto qualche governatore di regione ha già promulgato ordinanze (a quanto pare) illegittime su fantomatici obblighi per la vaccinazione antinfluenzale per le persone over 65 e per il personale sanitario, probabilmente mal consigliato o con qualche lettura in meno all’attivo, perché la letteratura medica scientifica ricorda non solo che non esistono vaccini né per la SARS-1 identificata dal dott. Carlo Urbani nel 2003, né per l’HIV scoperto dal prof. Luc Montagnier, ma ricorda pure che i primi tentativi di vaccino per il SARS-2 sono risultati fallimentari, con addirittura gravi effetti dannosi sulle cavie da laboratorio, come ricorda che il vaccino antinfluenzale aumenta del 36% il rischio di ammalarsi di COVID-19, senza contare quanto già sappiamo sul confronto tra vaccinati e non vaccinati. Curioso quindi come si possa “giocare” sulla credulità popolare, negando che il virus sia stato ingegnerizzato, quindi potenziato nelle sue caratteristiche patogeniche, quando invece tutte le prove portano a questa conclusione, e invece facendo credere che il vaccino sia di qui a poco disponibile (se così fosse perché per SARS-1 non c’è dopo 17 anni?!?), senza peraltro sapere se la malattia dà immunità permanente, ma anzi già sapendo che anche se fosse possibile ottenerlo, probabilmente non servirebbe a nulla. Per un articolo più approfondito e più tecnico sulla questione vaccino, rimando all’articolo scritto con altri amici e liberi pensatori. Epidemia ed emergenza con lockdown totale, corsa al vaccino, manca la questione più importante: il 5G! Sì perché a quanto pare il mantra “tutti a casa” non è valso per le compagnie telefoniche, che oltre a fondersi tra loro in pieno focolaio epidemico, hanno installato antenne a più non posso per il famigerato “internet delle cose”, che fra poco verrà identificato come “il risolutore” dell’epidemia. Da più parti si sente dire che il 5G sarebbe innocuo, che non causerebbe nulla e anzi sarebbe meno dannoso dei precedenti “G”. Diversi studiosi e professionisti però non la pensano così, e oltre 170 scienziati hanno firmato una petizione internazionale per fermare quella che è, in definitiva, una ennesima “sperimentazione”, spesso non autorizzata, perché ricordo che in Italia le antenne vengono installate senza la Valutazione ambientale strategica presentata e approvata, e senza i pareri degli organi competenti, quali ISS, Ministero della Salute. Ministero dello sviluppo economico o dell’ INAIL.

Come finirà quindi questa storia? Andrà veramente “tutte bene”? Sicuramente finirà non prima della primavera del 2021, con pesanti limitazioni dei diritti umani che si manterranno (mascherine e distanza di sicurezza aiutano solo a renderci più schiavi ed a consentire una identificazione tramite scanner termici e da anti-terrorismo), e con sempre maggior “iperconnessione”, dove le “cose” di questo nuovo internet, purtroppo saremo “noi”. Opportuno quindi una nuova presa di coscienza e iniziare ad aprire la mente, perché come diceva il Premio Nobel per la fisica Albert Einstein, “la mente è come un paradute, se non la si apre non funziona”, ed ora più che mai, aggiungo umilmente io, schiantarsi è un attimo! 

L'autore: Il Dottor Diego Tomassone è medico chirurgo, nutrizionista clinico, specialista in Omeopatia hahnemanniana; master in malattie pediatriche complesse, master in PNEI, studente laureando in fisica e bioingegneria.

Michele Arnese per startmag.it il 7 maggio 2020. “Se gli italiani continuano così, il contagio non risale”. Questo il titolo del Fatto Quotidiano all’intervista che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha concesso al giornale diretto da Marco Travaglio. Il concetto è stato espresso ancor più chiaramente dal ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese: “Se continuiamo a rispettare le regole in maniera ordinata possiamo immaginare di riacquistare gradualmente nuovi spazi di movimento”, ha detto il titolare del Viminale al quotidiano La Stampa. Dunque se ci sarà la fase 3 dipende da come e quanto gli italiani rispetteranno regole e indicazioni nella fase 2 (come hanno fatto con diligenza nella fase 1). È così? Vediamo. Walter Ricciardi, massimo consulente del ministro della Salute, Roberto Speranza, due giorni fa ha detto che la fase 2 parte solo “per motivi economici e psicologici”. Come dire: noi esperti eravamo contrari. Cosa manca dunque?, ha chiesto Repubblica. Ha risposto il super consulente del governo: “Ad esempio la app non è pronta e non sono stati ancora rafforzati i dipartimenti di prevenzione. Si tratta dei due strumenti necessari per fare il tracing, cioè per individuare i malati e soprattutto i loro contatti a rischio. E poi non c’è ancora l’uso esteso e mirato dei test. È vero, si fanno più tamponi ma non in tutte le Regioni, in questa attività bisogna crescere (Ricciardi era critico con il Veneto che faceva molti tamponi, ndr). Sui Covid hospital richiesti dal ministro invece mi sembra che le Regioni siano avanti”. Non tutti, quindi, hanno fatto i compiti a casa. Infatti il Sole 24 Ore si è chiesto: l’Italia è attrezzata per tenere a bada il Covid? La risposta di Marzio Bartoloni, uno dei pochi giornalisti in Italia che segue il settore sanità da anni, è stata questa: “Sono quattro le armi messe in campo per sorvegliare il virus, ma alcune sono spuntate perché usate troppo poco o male — come i test sierologici o i tamponi a singhiozzo a seconda delle Regioni — altre invece proprio non ci sono, come la app per tracciare i positivi che si vedrà solo a fine maggio in piena Fase 2”. Entriamo nei dettagli.

Partiamo dai tamponi. Dalla Protezione civile ne sono stati distribuiti 3,637 milioni alle Regioni che ne hanno fatti però 2,1 milioni (solo l’Asl può utilizzarli): quindi ci sono 1,5 milioni di tamponi nei magazzini. Nelle ultimissime settimane molte Regioni hanno aumentato la loro potenza di fuoco, ma non è stato sempre così come ricordano le tante denunce di ritardo nelle diagnosi, con differenze macroscopiche tra regioni, ha scritto il Sole 24 Ore. (Qui l’appello di tre prof. per tamponi di massa pubblicato sul Corriere della Sera).

Passiamo ai test sierologici: “Potevano essere uno strumento prezioso per la Fase 2, ma non sarà così. Se da una parte il governo da ieri ha iniziato l’indagine epidemiologica per 150mila test con l’obiettivo di capire quanto si è diffuso il virus nel Paese, da giorni si è scatenata una corsa a questi test rapidi senza però indicazioni univoche”. (Qui l’approfondimento sul caos dei test in un approfondimento di Start).

La medicina territoriale va meglio? “Si procede a macchia di leopardo anche sul fronte delle cure a casa — ha scritto Huffington Post Italia in un approfondimento — Le “Usca”, Unità speciali istituite col decreto legge 14 del 9 marzo, dovevano essere attivate entro 10 giorni da tutte le Regioni per gestire la sorveglianza dei malati di Covid-19 in isolamento domiciliare. Tredici — Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Campania, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Valle d’Aosta, Sicilia, Toscana, Veneto e Lazio — le Regioni che le hanno attivate “anche se — spiega Massimo Maggi, della segreteria nazionale della Federazione dei Medici di medicina generale — tra quelle che le hanno già messe in campo si registrano molte differenze sulle modalità di gestione e sulle loro funzioni”. In Lazio, per esempio, sono state create delle unità mobili che vanno in giro a effettuare i controlli”. Andrà tutto ok sui Covid hospital, almeno, come ha detto Ricciardi. “Anche su questo fronte il piano è ancora incompiuto”, secondo l’inchiesta di Huffington Post Italia.

Conclusione: se qualcuno dei parametri (3 composti da sottoinsiemi, in tutto 21 parametri, come ha specificato ieri sera in tv il viceministro alla Salute, Pierpaolo Sileri) sballerà nei prossimi giorni, la colpa non potrà essere dei cittadini indisciplinati e refrattari alle regole. E il prof. Luca Ricolfi ha scritto papale papale: “Caro Conte, non sarà colpa dei cittadini se l’epidemia rialzerà la testa”.

L'intervento. Un diritto sapere cosa hanno fatto i comitati. Enzo Palumbo, Andrea Pruiti Ciarello, Rocco Mauro Todero su Il Riformista il 7 Maggio 2020. La fase 1 dell’emergenza Covid-19 è terminata e con la fase 2 dovremmo andare lentamente verso la normalizzazione della vita. Ma il rischio di un nuovo lockdown incombe sempre: se il numero dei contagi dovesse tornare a salire, “chiuderemo il rubinetto delle riaperture”, ha tuonato il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nel corso della sua ultima diretta televisiva.  È un fatto ormai assodato che il popolo italiano ha affrontato con grande compostezza e senso di responsabilità la fase 1, ha sopportato straordinarie limitazioni ai suoi diritti costituzionali, mai verificatesi prima nella storia repubblicana. Le misure emergenziali messe in campo dal Governo hanno limitato: il diritto al lavoro (art. 4 Cost.), la libertà personale (art. 13 Cost.), la libertà di circolazione e di soggiorno (art. 16 Cost.), di riunione (art. 17), di esercitare in pubblico il culto religioso (art. 19), di prestazione personale (art. 23), d’insegnamento (art. 33) e di studio (art. 34), d’iniziativa economica (art. 41 Cost.). Tutti questi diritti, che possono essere incisi, a seconda dei casi, solo per legge o per atto dell’Autorità Giudiziaria, sono stati invece compressi con meri atti amministrativi, per ciò stesso sottratti all’esame del Presidente della Repubblica e del Parlamento, nel dichiarato intento di tutelare un altro diritto parimenti costituzionale come quello alla salute (art. 32 Cost.), e tuttavia dimenticando che, proprio ai sensi di tale norma, nessun trattamento sanitario può essere imposto se non per legge. Superata la fase 1, ci chiediamo se sia giusto che rimangano avvolte nel mistero valutazioni dei vari comitati tecnico-scientifici che hanno indotto il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Governo ad adottare queste misure. Perché di mistero si tratta, non di segreto di Stato! Queste motivazioni, contenute in appositi verbali, non sono state vincolate col segreto di Stato, e quindi dovrebbero essere liberamente accessibili dai cittadini, in virtù del principio di trasparenza, criterio fondamentale per il corretto esercizio della funzione amministrativa, a garanzia del principio di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione, contenuto nell’articolo 97 della Costituzione. Trovando inconcepibile che, in una matura democrazia occidentale come la nostra, ancorché nella fase emergenziale che stiamo ancora vivendo, possano rimanere oscure le motivazioni tecnico-scientifiche di atti governativi che tanto hanno inciso sulle nostre vite, il 16 aprile 2020, abbiamo quindi formulato, ai sensi dell’art. 5, comma 2, del D. Lgs. 33-2013, una richiesta di acceso agli atti, indirizzata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, per ottenere copia dei verbali dei comitati tecnico-scientifici.  A questa richiesta, il Capo della Protezione Civile, dott. Angelo Borrelli, ha opposto un espresso diniego appellandosi all’art.5-bis del D. Lgs n. 33/2013, che consente di vietare l’accesso nei casi previsti dall’art. 24, comma 1, lettera c), della Legge n. 241/1990, quando cioè si tratti di “attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione”. Una motivazione, questa, che non convince, e quindi ricorreremo al Tar Lazio avverso il provvedimento di diniego, e a tal fine abbiamo promosso la formazione di un comitato che sosterrà tutte le necessarie azioni giudiziarie utili a fare luce sull’operato del Presidente del Consiglio e sul Governo, trovando subito l’adesione del prof. avv. Federico Tedeschini, dell’avv. Ezechia Paolo Reale e dell’avv. Nicola Galati, coi quali formeremo il relativo collegio difensivo. Il fatto si è che quella norma è stata formulata in quei termini per il semplice motivo, evidentemente ignorato dal dott. Borrelli, che in tali casi l’Ordinamento già prevede altre forme di pubblicità ancora più pregnanti e garantiste sul fronte della trasparenza, che si sostanziano nella pubblicazione obbligatoria di quegli atti su albi pretori, bollettini e Gazzetta Ufficiale. Nella lettera del dott. Borrelli c’è poi una chicca finale, quando conclude riservando alla sua Amministrazione di “valutare l’ostensibilità, qualora ritenuto opportuno, di tali verbali al termine dello stato di emergenza”, con ciò implicitamente riconoscendo che non esiste alcuna ragione di segretezza, e per ciò stesso di stare agendo senza rispettare il principio di trasparenza, che è tale solo se si accompagna, in tempo reale, ai provvedimenti che siano stati emessi. Al di là della legittimità dei Dpcm, su cui ci riserviamo di tornare in seguito, siamo convinti che i cittadini hanno il diritto di conoscere subito, e non soltanto a emergenza conclusa, quali siano state le motivazioni che hanno giustificato le forti limitazioni di molti dei loro diritti costituzionali, così potendo valutare se la compressione subita sia stata proporzionata al rischio sanitario, sia per quanto riguarda la natura e l’ampiezza delle misure adottate, sia per quanto riguarda la loro durata; non senza considerare che la conoscenza delle motivazioni consentirebbe una maggiore consapevolezza del rischio sanitario e propizierebbe una più attenta osservanza delle restrizioni imposte, in un’ottica di crescente responsabilizzazione. E sin d’ora vogliamo esprimere tutta la nostra preoccupazione per la scelta del dott. Borrelli, ma sostanzialmente del Governo, in un Paese democratico come ancora è il nostro, di oscurare le motivazioni tecnico-scientifiche delle sue decisioni, coprendo gli atti pregressi con un velo di segretezza surrettizia, perché nemmeno dichiarata nelle forme di legge. La nostra Democrazia non consente a nessuno, nemmeno al Presidente del Consiglio dei Ministri, di sottrarsi al giudizio dell’opinione pubblica man mano che va operando nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali.

Come funzionano le task force anti Covid-19 nel resto d’Europa. Federico Giuliani su Inside Over il 3 maggio 2020. In particolari momenti di emergenza i governi si affidano al parere di esperti scientifici. Nel caso della pandemia provocata dal Covid-19, praticamente ogni Stato ha allestito apposite task force, o gabinetti di crisi ristretti e mirati, formate da epidemiologi, virologi, immunologi, ma anche sociologi e psicologi. Il loro obiettivo? Mettere le loro conoscenze tecniche al servizio della classe politica, per aiutare i rappresentanti a prendere le migliori scelte possibili in un momento delicatissimo. Misure di distanziamento sociale, lockdown, chiusura dei negozi e chi più ne ha, più ne metta: praticamente ogni provvedimento sfornato negli ultimi due mesi è nato in seguito a un confronto tra il mondo politico e quello degli esperti. In Italia, ha scritto Il Sole 24 Ore, sono 450 gli esperti che consigliano il governo sul da farsi. In tutto ci sono 15 task force a livello centrale (più una ”informale”). La prima in assoluto, creata il 22 gennaio scorso, è stata quella del ministero della Salute. A queste si aggiungono almeno altri 30 gruppi di lavoro attivi a livello locale. Tra dirigenti, politici, tecnici ed esperti, siamo intorno alle 800 persone complessive. Praticamente un esercito. Un confronto con gli altri Paesi europei. Dal team per la fase due guidato da Vittorio Colao al Comitato tecnico-scientifico, fino alla task force contro le fake news, l’Italia è uno dei Paesi europei con più gruppi di lavoro (e non sempre coordinati tra loro). In Spagna, ad esempio, per uscire dal lockdown, il governo Pedro Sanchez ha dato vita a un gruppo formato da 16 personalità, tutte essenzialmente politiche. A presiedere i lavori, lo stesso premier. Le ultime misure attuate da Madrid sono state stilate da questa task force, definita Comitato tecnico per il de-confinamento. In questa fase, infatti, la neo task force ha preso il posto al vecchio Comitato tecnico di gestione del coronavirus presieduto da Teresa Ribera. In realtà il gruppo spagnolo ha ben poco di ”tecnico”, visto che tra le sua fila trova spazio una sola figura tecnica: Fernando Simòn, responsabile del Centro spagnolo per il coordinamento delle emergenze sanitarie. Gli altri slot sono ricoperti dai 4 ministri principali (Salute, Difesa, Trasporti e Interno), dai 4 vicepresidenti, dal ministro delle Finanze, da quello del Lavoro. E ancora: il capo gabinetto di Sanchez, il segretario generale della presidenza, il segretario di Stato alla comunicazione e il capo gabinetto Julio Rodriguez. Completano il quadro il premier e l’unico esperto, il citato Simòn. La Spagna si è quindi affidata a una task force ”di coalizione” coadiuvata dal premier. Diversa la situazione nel Regno Unito, dove il governo di Boris Johnson può contare sul supporto dello Stage (Scientific Advisory Group for Emergencies). Si tratta di un pool di esperti scientifici, i cui nomi (quasi tutti) sono ancora in gran parte segreti. Pochi giorni fa il governo ha tuttavia lanciato una richiesta alle università per allargare il gruppo: mercoledì i ricercatori degli atenei britannici hanno ricevuto una richiesta di collaborazione e sono stati invitati a manifestare un eventuale interesse. Capitolo Francia: Emmanuel Macron ha puntato su competenze scientifiche e diverse figure esperte. Dall’11 marzo sono stati costituiti due comitati scientifici e si sono insediati un Controllore e un Signor Deconfinamento, due incarichi istituiti ad hoc. Il capo dell’Eliseo ha subito ribadito di voler ”ascoltare quelli che sanno”. Il primo comitato scientifico è stato creato proprio l’11 marzo: è formato da 11 specialisti, medici in infettivologia e immunologia, un sociologo e un’antropologa. Il comitato viene consultato dall’esecutivo francese per aiutarlo a chiarire alcune situazioni e a prendere i necessari provvedimenti. Il governo non è obbligato a seguire le sue raccomandazioni, anche se Macron, fin qui, lo ha sempre fatto. Il 24 marzo il presidente francese ha creato un secondo comitato di scienziati, il Comitato di analisi, ricerca ed expertise (Care): 12 medici e ricercatori che hanno come missione di consigliare il governo su test, cure e innovazioni. Insomma, volendo fare un confronto tra il funzionamento delle task force italiane e i gruppi di lavoro dei principali Paesi Europei, notiamo che ben pochi governi esteri sono costretti a fare i conti con un labirinto come quello presente in Italia.

Antonio Socci e il dubbio sul coronavirus: "Qualcosa non torna, perché non si parla delle cure che stanno diventando sempre più promettenti?" Libero Quotidiano l'1 maggio 2020. "C'è qualcosa che non mi torna". Antonio Socci nutre qualche dubbio su quanto gira attorno al coronavirus. L'editorialista di Libero, in un cinguettio, si interroga: "Perché non si parla delle cure che stanno diventando sempre più promettenti (per esempio questa) e stanno davvero sconfiggendo il Covid_19 ? Perché si vuole creare un'attesa messianica attorno al vaccino? Chiedo per capire". Socci fa riferimento alla cura trovata a Pavia: il plasma. Quest'ultimo, proveniente dagli infetti, farebbe sparire il Covid-19 in 48 ore. Un risultato clamoroso che, come scrive Socci, "sfida il silenzio e gli interessi", ma che nessuno ai piani alti, fino ad ora, ha citato.

Non è l'arena, Massimo Giletti contro Roberto Burioni: "Coronavirus, come faceva a parlare di rischio zero?" Libero Quotidiano il 4 maggio 2020. Una cannonata, quella di Massimo Giletti contro Roberto Burioni. Cannonata sganciata durante l'ultima puntata di Non è l'arena, in onda su La7 domenica 3 maggio. Il conduttore, infatti, a poche ore dal via alla Fase 2, ha rievocato alcune parole del virologo, una previsione sbagliata, ovvero quando a Che tempo che fa lo scorso 2 febbraio disse che il coronavirus in Italia non circolava. "Il rischio in Italia è pari a zero", disse Burioni, anche se erano già noti i due turisti positivi a Roma. Quando Fazio inoltre gli fece notare che in Lombardia già molte persone indossavano la mascherina, Burioni replicava: "Sarà per l'inquinamento". Dunque, l'affondo di Giletti di poche ore fa: "Io sono rimasto stupito quando lo ascoltai perché già sapevamo dei due cinesi ammalati. Come poteva non circolare il virus? Come fa a dire che non c'è rischio?". Un duro attacco che ha diviso i social. Ora, si attendono eventuali repliche firmate Burioni.

Dopo il Tocilizumab via libera al Cotugno alle terapie col plasma. Redazione su Il Riformista il 7 Maggio 2020. “A seguito della riunione del Comitato Etico dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Luigi Vanvitelli e dell’Azienda Ospedaliera dei Colli, presieduto dal professore Liberato Berrino, è stato dato il via libera alla sperimentazione, presso l’Ospedale Cotugno, per il trattamento delle polmoniti da Covid 19 con il plasma iperimmune”. A darne notizia Maurizio di Mauro, direttore generale dell’Azienda Ospedaliera dei Colli (Monaldi – Cotugno – CTO) di Napoli. “Grazie a questo importante atto approvato oggi dal Comitato etico, che ringrazio per la solerzia e la celerità con la quale ha operato – aggiunge di Mauro – siamo pronti a partire anche noi con questo nuovo trattamento sperimentale”. La sperimentazione, guidata da Roberto Parrella, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Malattie infettive ad indirizzo respiratorio dell’ospedale Cotugno, si avvarrà anche della collaborazione del centro trasfusionale dell’Ospedale Monaldi, diretto da Bruno Zuccarelli. La prima fase coinvolgerà tutte le Unità operative complesse del dipartimento di Malattie infettive del Cotugno, guidato da Rodolfo Punzi, e consisterà nel reclutamento dei donatori, ossia di soggetti guariti che presentino un’elevata carica anticorpale disposti a donare il plasma che, una volta trattato, sarà poi utilizzato per il trattamento dei pazienti. “Era per noi estremamente importante intraprendere anche questa strada per offrire agli ammalati colpiti da questo virus tutti i piani terapeutici possibili e per avere un’altra arma importante, che già altrove sembra dare risultati molto confortanti, in questa battaglia che stiamo combattendo quotidianamente ormai da diversi mesi”, conclude di Mauro.

"Ho 400 vaccini umani ma non possono donare il plasma per colpa della Regione Lombardia". Lo dice il sindaco di Robbio, primo comune lombardo a eseguire i test non autorizzati dall'amministrazione. Manuela D'Alessandro si Agi il 5 maggio 2020. Mentre la regione Lombardia apre ai test sierologici nei laboratori privati, Roberto Francese,  sindaco di Robbio, piccolo comune in provincia di Pavia e primo nella regione a effettuare questo tipo di esami ai suoi residenti, fa sapere di avere “400 vaccini umani” pronti a salvare vite attraverso la donazione del loro plasma ma che non possono farlo a causa della burocrazia. Le sue parole sono sassi. “Vogliono uccidere 400 persone perché il protocollo prevede che vadano bene solo i test fatti dalla Diasorin, unica accreditata dalla Regione. Dai nostri test non validati ma con marchio CE, alcuni già autorizzati dall'Emilia Romagna - spiega all’AGI il primo cittadino -  risultano 400 cittadini  con valori altissimi di anticorpi IgG, cioé quelli che indicano un’infezione che si è verificata molto tempo prima. Hanno tutti espresso la volontà di donare il loro plasma al Policlinico San Matteo di Pavia, dove questa cura sta ottenendo eccellenti risultati, ma non possono. Ho scritto all’assessore Gallera chiedendogli perché non approfittiamo di questa opportunità di salvare delle vite. Se poi gli anticorpi diminuiranno di chi sarà la colpa dei morti?. Possiamo salvare delle vite insieme ma bisogna partire subito per rispettare i protocolli”. Francese aggiunge di avere “chiamato personalmente” la Diasorin, la società che produce i test accreditati dalla Regione “ma dicono che non me li vendono, sebbene mi sia offerto di pagarli di tasca mia per avere la conferma dei nostri test. La ragione non la conosco. Vogliono uccidere vite umane per un principio”. “Ora - considera Francese - la Regione dice che farà eseguire i test ai privati, mi fa piacere. Sono stati persi due mesi per fare esattamente quello che noi abbiamo fatto due mesi fa, spero che almeno chieda scusa”.

Nei giorni scorsi, Ats, l’azienda territoriale sanitaria, ha scritto ai sindaci lombardi ribelli, che hanno eseguito di loro iniziativa i test, ribadendo che i loro esami “non risultano al momento validati dalle autorità competenti in materia” e “non sono coerenti con le indicazioni regionali”. Tuttavia, si legge nel documento, “a scopo precauzionale si raccomanda ai sindaci, ai medici competenti e alle aziende  che vengano a conoscenza di un esito positivo a uno di tali test  di porre in isolamento fiduciario la persona e i relativi contatti". 

Tarro: “Il vaccino c’è già, è il plasma dei guariti”. Gioia Locati il 5 maggio su Il Giornale. “Non ci troviamo di fronte a una terapia sperimentale da dover studiare o da concedere in "via compassionevole". È una pratica conosciuta da secoli, utilizzata anche da Pasteur nell’Ottocento: si sono sempre prelevate le gammaglobuline dai guariti per curare i malati”. Così Giulio Tarro, professore e virologo, allievo di Sabin (ha ricevuto nel 2018 il premio americano di miglior virologo dell’anno) noto per aver isolato il vibrione del colera negli anni Settanta oltre che approfondito e curato la polmonite sinciziale nei neonati, interviene sulle infusioni salva vita praticate con successo in alcuni ospedali, a Mantova, Pavia, Lodi e Cremona. Il plasma dei convalescenti è stato usato in passato per trattare i malati di Sars, Mers ed Ebola. Nei mesi scorsi in Cina sui malati di Covid 19 e, recentemente, a Mantova, ha favorito la guarigione in una donna incinta di 28 anni.

Niente di nuovo, dunque?

“Assolutamente. Pratica antica, rodata ed efficace, meno complessa di una trasfusione perché non occorre cercare il gruppo sanguigno affine. Si inietta solo la parte liquida che contiene gli anticorpi e non i globuli rossi”.

Lei ha detto che il virus sparirà con il caldo. 

“Ne sono ancora convinto. I virus respiratori e influenzali d’estate si stemperano. A certe latitudini, penso all’Africa, si sono presentati solo piccoli focolai. Verosimilmente potrebbe accadere o che sparisca come la Sars o che ricompaia come la Mers ma in maniera localizzata o, cosa più probabile, che diventi un virus stagionale”.

Se l’aria aperta, il vento e il sole non favoriscono i contagi perché dobbiamo girare con le mascherine?

“Le mascherine andrebbero indossate quando si hanno incontri ravvicinati o ci si ritrova in un luogo frequentato. Non quando si cammina (o si corre) da soli”.

Qualcuno afferma che il virus Sars-Cov-2 non sia stato isolato (come da procedura protocollata) ma solo sequenziato in alcune parti.

“Mi risulta che in Australia lo abbiano coltivato su colture cellulari e poi, come da protocollo, fotografato al microscopio elettronico”.

Come mai di altri coronavirus e di virus a RNA non si riesce a trovare il vaccino? Non si è trovato per la Sars, né per la Mers. E neppure per l’Aids e l’epatite C.

“Come scrisse Sabin nel 1993, editoriale su Nature del 17 marzo, il virus HIV dell’Aids si nasconde all’interno delle cellule e, sfuggendo agli anticorpi, non si trova. Quello dell’epatite C ha diversi ceppi…”

Anche l’influenza ha tanti ceppi.

“Esatto. Solo l’influenza A ha diversi sottotipi, la Spagnola, l’N1H1, l’Aviaria, la Hong Kong, sono tutte di tipo A…Poi ci sono le influenze B e quelle di tipo C. È importante ricordare che quando la popolazione raggiunge una quota di immunità naturale questi virus smettono di circolare. L’Asiatica del 1957 colpì i giovani e non gli anziani, i quali erano già protetti dallo stesso virus che imperversò nel 1890”.

Tornando a Sars e Mers, come mai di questi coronavirus non si è trovato un vaccino in 18 anni e ora si dice che per il Sars-Cov-2 ce ne siano almeno un paio quasi pronti oltre a diverse decine allo studio?

“Un vaccino non si fabbrica in pochi mesi. Vi sono delle tappe necessarie da percorrere altrimenti si rischia di spendere energie e denaro per un prodotto inutile. Recita il proverbio che la gattina frettolosa fa i gattini ciechi. Sono fondamentali le prove di sicurezza e quelle di efficacia, su campioni ampi e rappresentativi. E poi, come ho detto, abbiamo già un vaccino che è anche curativo, le infusioni di plasma da convalescenti. Si incentivino le donazioni e si promuova questa pratica in tutti gli ospedali”.

Luc Montagnier ha dichiarato che nel virus Sars-Cov-2 vi è una sequenza del virus dell’Aids. Secondo il premio Nobel siamo di fronte a un esperimento di laboratorio ma ci dice anche che con il tempo la presenza del tratto artificiale è destinato a scomparire…

“Parecchi ricercatori hanno cercato questa sequenza senza trovarla. Montagnier ha specificato di averla individuata attraverso un’ipotesi matematica; si tratta di uno studio a tavolino non di una ricerca in laboratorio”.

Cosa pensa delle ultime dichiarazioni di Trump? Il presidente è convinto che il virus sia uscito dal laboratorio cinese di Whuan. Il problema degli esperimenti sui virus pandemici e di una possibile fuga è reale, e segnalato da tempo con preoccupazione da parte del mondo scientifico. Cliccate qui.

“D’altro canto vi sono numerosi studi che attestano la provenienza del Sars-Cov 2  dal pipistrello. Al momento per noi questo è un non problema. Dobbiamo affrontare le conseguenze del virus e gestirle. E, ripeto, perché ancora l’Italia lo ignora: vi è una terapia soddisfacente e a portata di mano, il sangue dei guariti”.

È stato detto che il Covid 19 si può manifestare anche nei bambini con la sindrome di Kawasaki.

“Non si sa ancora nulla di questa malattia, rara, che si presenta come una forma autoimmune ed era presente anche prima del Covid 19. Spero che si faccia chiarezza”.

Cosa pensa della malattia Covid 19? In alcune persone si è manifestata con sorprendente virulenza.

“Sì. Ormai sappiamo che le persone anziane e chi è affetto da co-morbilità rischia di avere gravi complicazioni a livello polmonare e circolatorio. I medici che purtroppo hanno perso la vita a contatto con i malati erano sprovvisti di protezioni, alcuni di loro avevano patologie pregresse. La mortalità da Covid 19 è assai bassa e la diffusione del virus nella popolazione è ben più ampia di quella che appare dai tamponi eseguiti”.

Le messe sono ancora vietate. Se la decisione di proibirle non è stata presa da Conte, arriva dal comitato scientifico?

“Non esiste alcuno studio sulla pericolosità delle celebrazioni rispetto ai ritrovi concessi sui posti di lavoro o sui mezzi pubblici. È stato un provvedimento stupido, creato dal nulla e senza alcuna motivazione. Perché nelle Chiese non dovrebbe essere rispettato il metro di distanza?

Cosa pensa della raccomandazione di sanificare gli ambienti con diversi disinfettanti? Nel periodo gennaio-marzo i centri anti veleni hanno ricevuto più di 45.000 chiamate a seguito delle esposizioni a sostanze disinfettanti. Un aumento del 20% rispetto alla media.

“Le sanificazioni vanno studiate e circostanziate. Il virus è trasmesso per via aerea, ci si contagia attraverso contatti ravvicinati a differenza dei virus influenzali che si trasmettono anche con una distanza di diversi metri. Non è necessario impiegare sostanze tossiche, per sanificare un ambiente si possono utilizzare i raggi ultravioletti, già usati nei laboratori”.

Coronavirus, i dubbi di Mario Giordano sull'Agenzia del farmaco europea: "Chi la finanzia", conflitto di interessi? Libero Quotidiano l'1 maggio 2020. L'emergenza coronavirus dà parecchio da pensare a Mario Giordano. Il conduttore di Fuori dal Coro, nel suo nuovo libro, mette in luce il dietro le quinte dell'epidemia: "C’è da fidarsi dell’OMS? - si interroga su Twitter in merito al vero ruolo dell'Organizzazione mondiale della sanità - E c’è da fidarsi dell’agenzia europea del farmaco che viene finanziata per l’84 per cento dalle aziende farmaceutiche che dovrebbe controllare?". Proprio così, Giordano, visto il notevole aumento dei prezzi dei farmaci, non esclude che qualcuno stia speculando sulla nostra salute. "Gli ultimi rapporti - si legge nella descrizione della sua nuova opera - ci dicono che la spesa medica si trasferisce sempre più sulle spalle delle famiglie. Il Servizio Sanitario Nazionale è alle corde ma nessuno ne parla. Ecco l'elenco, nome per nome, di chi ci sta rubando la vita per riempirsi le tasche: aziende farmaceutiche, assicurazioni, imprenditori senza scrupoli e altri affaristi".

Il Metodo Alessandria. Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 7 maggio 2020. Quando è passata dall' altra parte, da medico a malato, Paola Varese non si è persa d' animo. Con i suoi colleghi della Asl di Alessandria, la provincia più colpita del Piemonte, ha varato un progetto chiaro fin dal nome, «Covi a casa». Come prendere in cura a domicilio le persone con sintomi da coronavirus grazie a un protocollo che si basa soprattutto sulla somministrazione di idrossiclorochina, ovvero il Plaquenil, un farmaco prescritto soprattutto per combattere l' artrite reumatoide. Lei, primario di oncologia a Ovada, aveva scoperto di essere positiva al virus lo scorso 5 marzo. «Avevo un quadro respiratorio importante, stavo male. Ma ho deciso di non ricoverarmi e di iniziare subito la terapia su me stessa». Le cose sono andate meglio, con l' attenuazione della febbre. «Covi a casa» è partito il 18 marzo, e finora può contare 156 pazienti in assistenza domiciliare, dei quali solo tre hanno poi avuto bisogno del ricovero. «Con la sua funzione antinfiammatoria e antivirale, il Plaquenil può bloccare il virus agli inizi, aiutandoci a tenere la gente lontano dagli ospedali». Ci credono in tanti, alle virtù terapeutiche del Plaquenil, che lo scorso 17 marzo ha ricevuto il via libera dell' Aifa, l' Agenzia italiana del farmaco, per l' utilizzo in modalità off label , con condizioni diverse da quelle per cui è stato autorizzato. Qualcuno si era già portato avanti. La primogenitura se la contendono il direttore del reparto di ematologia dell' ospedale di Piacenza Luigi Cavanna, che dalla fine di febbraio a oggi ha curato così 218 pazienti, con la riduzione del 30 per cento dei ricoveri nei giorni di picco dell' epidemia, e il suo collega Pietro Garavelli, che dopo essere diventato nel 1998 il più giovane primario italiano con i suoi 38 anni di allora, non si è mai più mosso dall' infettivologia dell' Ospedale maggiore di Novara. «Non inventiamo nulla» sostiene Garavelli. «Quando abbiamo avuto i primi casi di positività, tutte persone che erano state a contatto con Codogno, una mia collaboratrice che aveva lavorato con i ricercatori italiani che tra il 2002 e il 2003 avevano usato l' idrossiclorochina contro la Sars, ha avuto l' idea. E ha funzionato. Prima in ospedale, poi fuori». Garavelli è diventato un portabandiera del Plaquenil. «Un farmaco prezioso, perché impedisce la replicazione del virus e il suo attacco alle vie respiratorie, infatti è usato anche come anti-malarico, e poi risponde bene all' infiammazione che ne deriva». Il Piemonte orientale è la capitale non dichiarata di questo trattamento, con sconfinamenti anche nella provincia di Varese. A oggi, sono cinque le Asl e quattro gli ospedali che hanno adottato protocolli basati sul Plaquenil, dalle Marche alla Puglia, per un totale di quasi duemila pazienti, un dato che pone l' Italia appena dietro la Francia, capofila del Plaquenil per via dell' auto nominato inventore della cura, Didier Raoult che afferma di aver finora curato nel suo ospedale 3.200 persone positive al Covid-19. Proprio la visita del presidente francese Emmanuel Macron al professore di Marsiglia, avvenuta lo scorso 9 aprile, ha dato una accelerazione alle sperimentazioni in corso ovunque per verificare l' efficacia del Plaquenil. Al momento se ne contano 86, una cifra enorme. I primi tre a essere stati pubblicati all' inizio di maggio sul Journal of American Medical Association , sono stati seguiti da un gruppo di medici di Lione, San Paolo e Boston, pongono seri dubbi sull' efficacia del Plaquenil contro il coronavirus, almeno quando è in fase conclamata, e sottolineano il rischio di «aritmie ventricolari ed eventi cardiovascolari» nelle persone ospedalizzate o in terapia intensiva. I trials fin qui pubblicati non hanno trovato differenze tra i pazienti curati con il placebo e quelli trattati esclusivamente con idrossiclorochina. «Non è stato possibile riscontrare un differenziale terapeutico apprezzabile» conclude ad esempio la sperimentazione americana. Gli studi pubblicati non consentono di valutare l' efficacia del Plaquenil all' inizio della positività. Bassa numerosità dei test, dimensioni del campione di pazienti non adeguato per una casistica ufficiale. A farla breve, la comunità scientifica internazionale non è ancora in grado di dire se la febbre e i sintomi peggiori passano grazie al contributo esclusivo dell' idrossiclorochina, o con l' aiuto di madre natura. L' unica cosa certa è la nocività per i pazienti con patologie cardiache. I medici italiani sostenitori del suo utilizzo hanno in qualche modo preso atto delle controindicazioni, spostando all' indietro tempi e modi di somministrazione. E anche l' orizzonte. Non è più una terapia vera e propria, ma una profilassi, una procedura medica di prevenzione. Garavelli riconosce che il fattore tempo è prezioso. «Prima si inizia la cura, meglio è. Gli effetti collaterali ci sono, certo, ma il farmaco va dato sotto stretto controllo medico». All' Istituto Scientifico Romagnolo per la cura e lo studio dei tumori di Meldola è stato avviato il primo studio europeo (coordinato dagli infettivologi Giovanni Martinelli e Pierluigi Viale) su 2.500 pazienti non colpiti dal virus, ma in contatto passato o presente con persone positive al Covid-19. «L' obiettivo è capire se l' idrossiclorochina può essere una copertura per evitare l' insorgere della patologia oppure per ridurne subito gli effetti» dice Mattia Altini, direttore sanitario dell' Irst. Una ipotesi di partenza diversa da quella degli studi eseguiti finora a livello mondiale. «Infatti le nostre dosi sono quelle classiche da profilassi prima di una vacanza in Kenya». Anche Paola Varese fissa i paletti del suo Covi a casa. «I risultati si hanno nei primi tre giorni dall' inizio del virus o dei suoi sintomi. Se usata tardi, l' idrossiclorochina non può essere efficace». La dottoressa di Ovada è ancora convalescente dopo due mesi di malattia. Mercoledì scorso ha avuto finalmente il primo tampone negativo. Ma il secondo si fa attendere. In provincia di Alessandria hanno finito i reagenti.

Il Metodo Piacenza. Coronavirus, il metodo che evita la strage: "Nessun paziente è morto". Piacenza inondata di contagi. I primi morti. Poi l'idea del dottor Luigi Cavanna: la cura casa per casa. "Così i pazienti guariscono". Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Venerdì 08/05/2020 su Il Giornale. "Ricordo un tardo pomeriggio al pronto soccorso. Parlavo con i miei colleghi. Avevamo le maschere, i caschi, il sibilo dell'ossigeno che arrivava all'orecchio. Sembrava di vedere una cortina di fumo. Faceva paura". Piacenza, febbraio 2020. Se chiudiamo gli occhi e torniamo a quei giorni, i ricordi possono farsi confusi. È tutto così frenetico: i primi contagi, l'allarme coronavirus, la chiusura, le riaperture, gli ospedali pieni, le bare. La morte. Nel marasma della provincia emiliana al confine con la Lombardia, la più colpita in Italia in proporzione agli abitanti, gli operatori sanitari combattono una battaglia ad armi impari. I reparti vengono trasformati in zone Covid, le sale operatorie in terapie intensive. I nosocomi nelle aree periferiche devono essere riconvertiti. I ricoveri si contano a centinaia. Mentre le vittime cadono una dietro l'altra, un medico piacentino ha un’illuminazione: perché continuiamo ad ammassare i pazienti in ospedale, perché li facciamo arrivare in pronto soccorso quando ormai gli manca l’aria, invece di aggredire prima la malattia? Luigi Cavanna, primario di Oncologia, oggi è conosciuto come il padre del "metodo Piacenza". Voce pacata, eloquio ordinato. Riesce a rendere chiaro anche quello che a molti appare oscuro. "All’inizio si pensava fosse una infezione virale, forse più brutta dell’influenza, ma nulla di così rilevante. Poi ci siamo resi conto che invece è una malattia drammaticamente seria". In poche parole il suo rivoluzionario approccio al coronavirus può essere riassunto così: "Il paziente deve essere trattato tempestivamente e questo vuol dire che va curato a casa". Semplice, eppure piuttosto complesso. Soprattutto se devi inventarlo quando, nei primi istanti dell’epidemia, la scienza medica si sta dirigendo in massa nella direzione opposta. "Se torniamo indietro nel tempo, ricorderete che tutte le televisioni, nazionali o locali, facevano questa raccomandazione agli italiani: state a casa e non andate al Pronto soccorso. Il problema è che diverse persone hanno seguito il consiglio assumendo solo tachipirina e alla fine non riuscivano più a respirare, chiamavano il 118 e arrivavano di corsa in ospedale". A quel punto i medici si trovavano di fronte ad un malato ormai quasi irrecuperabile. "Il virus - spiega Cavanna - all'inizio si moltiplica, poi innesca una risposta immunitaria dell'organismo che determina una infiammazione che distrugge gli alveoli dei polmoni". In poco tempo gli organi si lacerano per sempre. "Quando il danno è fatto, è difficilmente recuperabile. È per questo che poi tante persone non ce l’hanno fatta". Di necrologi le pagine dei quotidiani piacentine sono piene. Soprattutto nelle prime due settimane. "Lavoro in oncologia ed ematologia, reparti abituati a confrontarsi con la sofferenza e la morte - racconta Cavanna - Ma in quei giorni ho avuto l'impressione ci trovassimo di fronte a qualcosa mai visto prima. Faceva paura, talmente tanti erano i malati in quei lettini di fortuna. Le ambulanze arrivavano in fila a portare altri pazienti, io mi guardavo intorno, incrociavo gli occhi dei colleghi. Avevamo la percezione di non farcela". È in quello stato di impotenza che sboccia l'idea di cambiare approccio. "Nelle riunioni cercavamo sempre di aumentare i posti nelle emergenze e nelle rianimazioni, ma poi abbiamo capito che questa è una infezione virale che ti lascia del tempo per intervenire. Non è un ictus, un infarto o un arresto cardiaco che colpiscono in pochi minuti o in pochi secondi: ti lascia una settimana o anche 10-15 giorni". C’è quindi spazio per agire prima che il quadro clinico si aggravi. Il ragionamento è logico: se il paziente in ospedale viene sottoposto a un trattamento basato su un antivirale e sull'idrossiclorochina (un antimalarico), tutti farmaci che si assumono per via orale, cosa ci impedisce di iniziare la cura all'insorgere di primi sintomi? "Ci siamo detti: cerchiamo di andare nelle case, non solo per la semplice visita ai malati, ma con tutto l’occorrente per curare la malattia tempestivamente". Così il 1° marzo Cavanna e un infermiere iniziano il loro tour a domicilio. Sono spedizioni diverse da quelle realizzate da altre Unità speciali (Usca) in Italia. Non vanno solo a visitare il paziente a casa o a fare il tampone, sono lì per curarlo come se fossero in ospedale. Con loro portano i Dpi, un termometro, i palmari per realizzare l’ecografia sul posto, un saturimetro, il tampone e un kit di farmaci già pronti all'uso. Compresa l’idrossiclorochina, già usata contro Sars e malaria. "Se l'ecografia toracica è dubbia e mostra polmoniti interstiziali - racconta l'oncologo - dopo aver chiesto il consenso del paziente, consegniamo i farmaci e gli diciamo: 'Lei inizi la terapia, anche in attesa del risultato del tampone'. Alle persone che presentano polmoniti severe lasciamo anche l'ossigeno. Poi ogni giorno i pazienti ci comunicano i dati della propria saturazione, in modo da poterli monitorare dall'ospedale". I primi esperimenti Cavanna li porta avanti (quasi) da solo. Poi dal 15 marzo l'Ausl piacentina si organizza e mette in pieni alcune Usca dedicate allo scopo. "La prima fu una paziente oncologica, una signora che vive da sola", ricorda Cavanna. "Era entrata al pronto soccorso con la febbre, la tac aveva evidenziato una polmonite interstiziale, ma lei aveva atteso lì per dieci ore. Poi aveva firmato la cartella, chiamato un taxi e si era fatta portare indietro. Il giorno dopo mi ha chiamato dicendomi: 'Io sono a qui, da sola, sto male. O mi venite a visitare a casa o io muoio'. Lei cosa avrebbe fatto?". Domanda retorica. "Il dramma di questa infezione è che ha abituato gli italiani a morire da soli. Veder arrivare due sanitari a portare dei farmaci, che lasciano un numero di telefono da chiamare, un saturimetro e ti spiegano cosa fare, per loro era già una mezza salvezza. A me questo ha messo in crisi, perché i malati in un Paese evoluto non dovrebbero mai avere la percezione di sentirsi abbandonati". In Italia, purtroppo, è andata così. La cura "precoce" e "a domicilio" si rivela da subito molto efficace. "Le persone non peggiorano, guariscono prima e soprattutto non muoiono". Presto i risultati degli studi sul "metodo Piacenza" saranno pubblicati su una rivista per dare informazioni alla comunità scientifica. Ma le analisi che a fine aprile Cavanna anticipa al Giornale.it sono straordinarie: "Su 250 pazienti curati a domicilio, le posso dire che nessuno di loro è morto. Né a casa né in ospedale. Di questi, è stato ricoverato meno del 5% e tutti sono tornati a casa, di cui la metà entro pochi giorni". Si tratta di dati "veri", "rilevanti" e "rincuoranti", su cui occorrerà fare delle riflessioni. "Per tanto tempo si è discusso di aumentare i posti in terapia intensiva, una strategia criticabile - dice Cavanna - Ma quando un malato va in rianimazione lo dobbiamo vedere come il fallimento della cura. Dovrebbe essere l'ultima spiaggia: la malattia virale va aggredita precocemente". Solo così si può sconfiggere il Sars-Cov-2, "ridurre gli accessi al pronto soccorso" e "bloccare la storia naturale" del morbo. Evitando un fiume di vittime.

Vittorio Sgarbi, bordata ai 5 Stelle sul vaccino: «Ora sono favorevoli, ricordo che il signor Grillo chiamava Veronesi: "cancronesi"». Libero Quotidiano il 02 maggio 2020. Per Vittorio Sgarbi, alla guida del Paese c'è un gruppo di falsari. “Ricordo che il signor Grillo chiamava Veronesi ‘cancronesi’ per offenderlo. E oggi - ai tempi del coronavirus - abbiamo un gruppo di maggioranza che è totalmente favorevole all’attesa del vaccino, quando sono stati preminentemente no-vax". Ma il critico d'arte a Radio Radio non le manda di certo a dire, soprattutto al Movimento 5 Stelle. "La mia posizione rispetto ai 5 Stelle non è cambiata, è quella di una totale mancanza di considerazione. Non poggiano su niente. Sono la dimostrazione della illegittimità della democrazia rispetto al voto popolare. Nessuno dei grillini è stato eletto direttamente, sono tutti voti andati a Grillo che non era candidato. Come non è stato eletto Conte". Insomma, la considerazione di Sgarbi non può che essere negativa. Sono contro il Mes, oggi sono contro il vaccino… possono cambiare da un momento all’altro. Non hanno principi che li ispirino su cui puoi contare, non conti su nulla. Conti sul capriccio che prende pur di rimanere al Governo il gruppo dirigente”.

«Numeri sbagliati hanno creato terrore»: Sgarbi dice ciò che ormai è chiaro. Pietro Di Martino 28 Aprile 2020 su Oltre.tv. Nel suo ultimo video il critico d’arte Vittorio Sgarbi, parla di “numeri sbagliati che hanno creato terrore”. “Una quantità di studiosi, persone illustri che si occupano di Costituzione, hanno osservato delle contraddizioni rispetto al fatto che non siamo in guerra. È un’emergenza, che non può avere mesi e mesi di sospensione di alcuni diritti fondamentali, come quello di camminare per strada o andare in un bosco“. Cose che Sgarbi sostiene di aver detto più volte. “Abbiamo accettato questi ordini in modo irrazionale come così giusti e così importanti per la salvaguardia della salute per cui fare una passeggiata, camminare nel bosco o in spiaggia, non era possibile”. Poi elenca quelle che considera una serie di contraddizioni del Governo tra cui la data di riapertura per parrucchieri e barbieri, “lanciati verso il primo giugno”. “I numeri sbagliati hanno creato terrore”. Una data evidentemente sbagliata, perché capita di lunedì e il giorno dopo è festivo. Quella giusta infatti è il tre giugno: “Confusione mentale, non sono neanche capaci di guardare il calendario. E poi perché aprire il 3 giungo e non il 20 maggio? Che senso ha?” Per Sgarbi “sono numeri dati a caso” e a proposito del presidente Conte dice che “per paura di sbagliare, ascolta quello che gli dice il Comitato Tecnico Scientifico o l’ISS, i quali non hanno assoluta certezza ma, nell’incertezza, dicono meglio essere prudenti”. La conseguenza – secondo Vittorio – sarebbe quella di dare al potere “una prudenza che si manifesta in ordini. Quella che è una preoccupazione diventa una limitazione, un’azione poliziesca per impedire di vivere”. Il critico invita alla riapertura con prudenza ma con coraggio: “Alla fine anche i più pessimisti non ci hanno detto che il coronavirus è mortale ma che non sanno bene come curarlo”. Conclude: “Quando si attacca a una persona avanti negli anni come me, può peggiorare una malattia preesistente. Il 60% sono persone che hanno più di una patologia grave e poi muoiono ma non di coronavirus, non abbiamo questa certezza. I numeri sbagliati hanno creato terrore, un terrore che continua e il primo terrorizzato è Conte”.

Sgarbi: «Conte ha una task force di “capre” che gli scrive le regole. E noi non siamo dei polli». Liliana Giobbi su secoloditalia.it martedì 28 aprile 2020. Vittorio Sgarbi di nuovo all’attacco di Conte, della sua accozzaglia politica e della farsa chiamata fase 2. «Nella gente», dice, «finalmente prende corpo una reazione razionale sopra l’insensatezza di molte di misure. Perché è evidente che tante si possono ridurre a “raccomandazioni”. Abbiamo preparato una lettera al presidente della Repubblica Mattarella che porterà la firma mia e di altri personaggi come Giorgio Agamben. Fi rifà a quello che ha detto Vargas Llosa e cioè che c’è qualcosa che non funziona!». Il critico d’arte va giù duro. «Il metodo adottato da Conte non cambia perché si basa su una sorta di pressione psicologica data dalla task force di “capre” del Comitato Tecnico Scientifico che decide 0per il Governo. La posizione labile sia dei medici che degli scienziati viene trasmessa al Governo che, non sapendo che fare, preferisce tenere tutti a casa. Manca una testa che metta su alcuni punti fondamentali per far ripartire il Paese». «La popolazione all’inizio ovviamente ha dato il suo consenso perché era una questione di salvezza nazionale. Oggi usa di più la mente», prosegue Sgarbi. «Siamo all’inizio di una caduta del Governo, almeno nei consensi. Credo che se si mettono insieme le misure (per la ‘Fase 2’, ndr) per molti discutibili e il problema dell’economia non risolto, il consenso per il Governo inizierà a vacillare. Quando si renderanno conto che il consenso sta vacillando forse cambieranno atteggiamento.

Coronavirus: Sgarbi, "i morti non sono 25mila, si vuole terrore e dittatura consenso". (Adnkronos - affaritaliani.it 24 aprile 2020) - "Almeno qui diciamo la verità contro l'ipocrisia e le menzogne, contro i falsi numeri che vengono dati per terrorizzare gli italiani. I venticinquemila morti sono morti di infarto, di cancro, non usiamoli per umiliare l'Italia, per dare ai cittadini false notizie. Sono morte in Italia venticinquemila persone di Coronavirus: non è vero, è un modo per terrorizzare gli italiani e imporre una dittatura del consenso. I dati dell'Istituto superiore di sanità dicono che il 96,3 per cento sono morti per altre patologie". Lo ha affermato Vittorio Sgarbi, intervenendo alla Camera prima del voto finale sul decreto legge "Cura Italia".

Basta stato di polizia e paternalismo di Governo. La ribellione è un imperativo. Cristiano Puglisi il 28 aprile 2020 su Il Giornale. Bisogna chiarire subito una cosa: chi qui scrive non ha mai avuto una grande passione per l’ex sindaco di Firenze ed ex premier Matteo Renzi. Però, in questa assurda fase della politica nazionale, gli va riconosciuto il merito di dire le cose più sensate, in seno alla maggioranza. Come la seguente frase: “Non decide lo Stato chi possiamo incontrare”, a commento del pasticciaccio dei “congiunti”, che l’ultimo DPCM varato dall’inquilino di Palazzo Chigi, Giuseppe Conte, ha indicato come le uniche persone che, dal 4 maggio, sarà possibile visitare. Con autocertificazione al seguito, naturalmente. Così, la Fase 2 dell’emergenza Coronavirus, in Italia, finisce per assomigliare tremendamente alla Fase 1. Rimane cioè il desolante scenario di un’intera nazione trasformata in un carcere orwelliano, dove il Governo si permette di decidere chi si può incontrare e, quel che è peggio, chi può lavorare per sfamare i propri figli e le proprie famiglie. Cioè non commercianti, ristoratori, parrucchieri, titolari di centri estetici. Che, per decisione del comitato scientifico che tiene in ostaggio l’esecutivo Conte, potranno tornare a guadagnare solo dal 1 giugno. E quando anche apriranno dovranno comunque fare i conti con la campagna di terrore che il comitato “di salute pubblica” ha scatenato contro di loro e contro le loro attività in questi mesi. Nel frattempo dovranno accontentarsi di una mancia pidocchiosa, quel famoso bonus da poche centinaia di euro che, con il secondo decreto di aprile (anzi no, maggio.. anzi no… boh) potrebbe essere “generosamente” concesso una seconda volta. Nel frattempo, di fronte allo strapotere di virologi e infettivologi di Governo, scompare il ruolo del comitato per le riaperture presieduto dall’ex manager Vodafone Vittorio Colao. Non pervenuto.

IL COMITATO “DI SALUTE PUBBLICA” GIOCA CON LA VITA DEGLI ITALIANI. Nel mentre gli onesti lavoratori italiani continuano a morire di fame, i bambini continuano a essere segregati in casa (loro non possono guidare per andare a trovare “congiunti”), le madri continuano a essere incatenate come schiave alla cura dei figli nella cella domestica. Il tutto condito dall’insopportabile paternalismo di un premier, di ministri ed esperti che seguitano a considerare gli italiani come un branco di bestie incapaci di intendere e di volere, bestie che bisogna trattare come pecore nel recinto, con il bastone e i cani da guardia e che, se liberate, potrebbero fuggire e combinare solo danni. Pazienza, dirà qualcuno. Lo dice la scienza. E invece no, perché la scienza, su questo virus, non è mai stata così divisa. E anche i numeri sembrano molto poco chiari. Già in un precedente articolo su questo blog si notava come, da dati ISTAT interpretati dal professor Paolo Becchi, i decessi per il primo quadrimestre 2020 fossero in linea con gli anni precedenti. Non solo, sempre più sono i sanitari e gli specialisti che sostengono che il Covid-19 sarà combattuto dalla bella stagione. Come tutti i virus influenzali, del resto. “Non ci resta che sperare che il caldo uccida il virus“, dice per esempio, sulla scia di quanto affermato pochi giorni fa dal professor Giulio Tarro, il virologo Andrea Crisanti dell’Università di Padova, per il quale il modo in cui è stata impostata la Fase 2 è “senza criterio scientifico“. “Non vedo il razionale – ha spiegato all’Adnkronos Salute -. Basti pensare a un dato: abbiamo chiuso l’Italia con 1.797 casi al giorno e la riapriamo tutta quanta insieme con 2.200. E’ una cosa senza metrica“. Secondo Matteo Bassetti, direttore di Malattie infettive al Policlinico San Martino di Genova e componente della task force della Regione Liguria, il Governo Conte ha instaurato uno “stato di polizia”, aggiungendo, relativamente agli spazi aperti, “alla dittatura della mascherina non ci sto”. D’altro canto chi ha mai visto un’epidemia influenzale a fine primavera. O a inizio estate. Quando la gente, anziché starsene chiusa in casa o nei locali a scambiarsi germi e batteri trascorre più tempo all’aria aperta. Nessuno. Eppure in Italia circolano assurdi rendering di spiagge con mura di plexiglas…Un orrore cui gli italiani hanno ora il dovere morale di ribellarsi. Perché non si può consentire impunemente che le libertà fondamentali di milioni di cittadini vengano calpestate da un Governo inetto e incapace di reagire al terrorismo diffuso da un manipolo di consulenti, “guidato” da un confuso tiranno con la pochette. Lo stato di polizia (che peraltro riguarda solo i cittadini onesti, molto meno spacciatori, delinquenti et similia) deve finire, ora e subito. Se non finirà vi dovrà essere un unico imperativo categorico: la ribellione.

Silvana De Mari 29 aprile 2020:

Autobus di 40 mq: possono entrare 16 persone.

Negozio di 40 mq: 1 alla volta.

Chiesa di minimo 150 mq: 1 morto e 15 vivi, ma non 15 vivi e basta, ci vuole sempre il morto.

A questo capolavoro di logica hanno lavorato 450 esperti

Daniele Sforza per termometropolitico.it l'1 maggio 2020. È una delle professioni più citate del momento, quella del virologo. In tempi di Coronavirus non poteva essere altrimenti, anche se la figura del virologo è risalita alla ribalta ai tempi delle campagne social del noto Roberto Burioni contro i no-vax, oggi più che mai quella del virologo è una figura molto richiesta nei talk show televisivi. Il loro compito è quello di fornire informazioni vere, senza seminare panico tra la folla e appellarsi ai principi della scienza per dare le giuste indicazioni da seguire. Ma quanto guadagna un virologo? È questa la domanda che alcuni utenti pongono ai motori di ricerca. Proviamo a dare una risposta.

Quanto guadagna un virologo? Ecco il suo stipendio. Come per tutte le professioni, non esiste uno stipendio universale per il virologo. Innanzitutto bisogna capire dove lavora (ospedale, laboratorio), poi bisogna valutare le sue mansioni e la sua esperienza, ovvero gli anni di servizio accumulati alle spalle e la posizione che occupa. Inoltre è opportuno fare anche un’altra distinzione: il virologo può anche essere un medico che non ha frequentato i 6 anni di medicina, ma proviene invece da studi di biologia o biotecnologie. Per capire meglio l’importanza di queste distinzioni possiamo partire da Francesca Colavita, la ricercatrice che ha contribuito a isolare il virus all’ospedale Spallanzani: infatti, ha fatto molto rumore il fatto che la ricercatrice fosse (in quel momento) precaria e guadagnasse molto poco (circa 1.500 euro al mese). Poi possiamo arrivare agli stipendi di figure dirigenziali, che invece arrivano a guadagnare anche oltre 80 mila euro lordi all’anno.

Due percorsi formativi. Resta comunque importante conoscere e approfondire l’intero settore, che rispetto ad altre discipline mediche e scientifiche, è molto ristretto e può avere diverse ramificazioni. Per arrivare a svolgere questa professione, infatti, sono necessari anni di studio a cui segue in buona parte dei casi un periodo di precariato. Ci sono dunque i consueti 6 anni di medicina seguiti da 4 anni di specializzazione in microbiologia e virologia, mentre un’altra strada, come anticipato, può essere anche quella della laurea in biologia e biotecnologia, seguita da una scuola di specializzazione in microbiologia e virologia (il percorso non-medico).

Scienziati italiani bocciati: “Crisi in mano ai più scarsi del mondo”. Redazione de Il Riformista il 3 Maggio 2020. La coincidenza curiosa è che tra quelli meno quotati ci siano diversi virologi tra i più presenti in televisione. Il database di ricerca scientifica Scopus, fondato nel 2004 dalla casa editrice Elsevier di Amsterdam, ha valutato attraverso il punteggio denominato H-Index il prestigio e l’autorevolezza degli scienziati coinvolti nell’emergenza coronavirus. Una valutazione che tiene conto dei titoli, delle pubblicazioni, del numero di citazioni che queste pubblicazioni hanno ottenuto nel tempo, come scrive Franco Bechis su Il Tempo. E per quello che riguarda gli esperti italiani spiccano due aspetti: i professori più presenti nei media raramente hanno un punteggio alto; quelli più in alto nella classifica non sono consulenti del governo e sono poco presenti in televisione.  Scopus è costantemente aggiornato e offre oltre 25.000 articoli provenienti da più di 5.000 editori internazionali e oltre 400 milioni di pagine web a carattere scientifico. Il suo sistema di valutazione contempla una mediocrità che si assesta sui 50 punti e un’autorevolezza solida sopra gli 80. I primi italiani sono: Alberto Mantovani dell’Humanitas con 167 punti, Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri a quota 158, Luciano Gattinoni dell’Università di Gottingen a 84. Tutti e tre compaiono poco (o comunque molto meno di altri) in televisione e non sono consulenti del governo. Mantovani arriva a sfiorare l’eccellenza assoluta, che nella lista è rappresentata da Anthony Fauci, 174 punti. Lo scienziato italo-americano è il consulente della Casa Bianca. Fauci si è spesso scontrato con il presidente Donald Trump che ha spesso sottovalutato la pandemia fino ad affermare la probabile utilità di iniezioni di disinfettante per sconfiggere il virus. A seguire, tra gli italiani, l’oncologo dell’Istituto Pascale di Napoli Paolo Ascierto (63 punti) che con la sua equipe ha sperimentato il farmaco anti-artrite tocilizumab ed è stato nominato coordinatore del gruppo di ricerca della Regione Campania. E poi il direttore scientifico dello Spallanzani Giuseppe Ippolito (61), Giovanni Rezza (59) dell’Iss e Massimo Galli (51) primario infettivologo del Sacco di Milano. Sfiorano la sufficienza Andrea Crisanti (49) virologo consulente della Regione Veneto e Ilaria Capua (48) direttrice dell’One Health Center of Excellence dell’Università della Florida. Molto al di sotto della sufficienza i vari Walter Ricciardi (39) consulente del ministero della Salute; Pier Luigi Lopalco (33) ordinario di Igiene all’Università di Pisa e coordinatore delle emergenze epidemiologiche della Regione Puglia; Roberto Burioni (26) virologo del San Raffaele di Milano e ospite fisso della trasmissione di Fabio Fazio Che Tempo Che Fa; Maria Rita Gismondo (22) virologa del Sacco di Milano. Ancora più in basso nella classifica il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e membro del Comitato Scientifico Silvio Brusaferro (21) e Fabrizio Pregliasco (14) virologo dell’Università degli Studi di Milano. In fondo alla lista Giulio Tarro (10), ex primario del Cotugno di Napoli, secondo molti suoi sostenitori candidato al Nobel, che ha ingaggiato recentemente un duello sull’autorevolezza a colpi di tweet con Burioni. Una sfida da bassa classifica, secondo Scopus.

Bocciati gli esperti virologi che sono sempre in tv. Ricercatori e tecnici riuniti in task force della nostra vita. Ma chi sono e quanto sono competenti i medici che si sostituiscono alla politica. Alessio Buzzelli su iltempo.it l'1 maggio 2020. Con l’epidemia da Covid-19 stiamo assistendo inermi a stravolgimenti della società impensabili, tra i quali quello per cui a governare i destini dell’umanità non sembra essere più la politica ma la scienza. Tra task-force e comitati tecnico-scientifici che spuntano ovunque, dall’inizio dell’emergenza sanitaria le scelte cruciali – e spesso squisitamente politiche – sono state demandate sempre di più a gruppi di esperti, scienziati e tecnici: i così detti «competenti». Ma quanto sono competenti questi «competenti»? Una domanda nient’affatto banale, visto e considerato che i cittadini di tutto il mondo – e quelli italiani soprattutto - in questi giorni stanno rinunciando a grandi porzioni dei propri diritti costituzionali proprio in virtù delle raccomandazioni di questi esperti, brattando alcune libertà fondamentali con la salvaguardia della salute. Di più: è la politica stessa ad essersi privata di pezzi della sua assoluta sovranità decisionale in cambio dei preziosi consigli della scienza, trasformando – si spera in modo provvisorio - la democrazia in una sorta di «scientocrazia». Ora, stabilire il valore e l’autorevolezza di uno scienziato non è affatto cosa semplice. Esiste però un parametro abbastanza affidabile, cui convenzionalmente ricorre la comunità scientifica per stabilire una gerarchia di merito: si chiama «h-index», un indicatore bibliometrico ottenuto facendo la media tra il numero di pubblicazioni scientifiche e il numero delle citazioni ricevute da un dato ricercatore. L’«h-index» è oggi il criterio in assoluto più utilizzato per questo tipo di valutazioni – sebbene non l’unico -, essendo un buon compromesso tra la quantità (pubblicazioni) e la qualità (citazioni) del lavoro di uno scienziato. Una specie di pedigree costruito in base alla carriera di un ricercatore, certamente perfettibile ma comunque affidabile. Nonostante, è il caso di ribadirlo, l’h-index non sia ovviamente l’unico criterio adottabile per stabilire il valore assoluto di uno scienziato. Ebbene, passando in rassegna gli h-index (presenti nel database di Scopus) degli esperti che hanno ricevuto più visibilità durante questa pandemia, ci siamo accorti che in Italia, in alcuni casi, questo parametro non sia esattamente di livello internazionale. Prendiamo come riferimento due tra gli indici più alti in assoluto, quello di Anthony Fauci, virologo della task force di Donald Trump, e quello di Didier Raoult, luminare francese della medicina e direttore dell’Istituto Malattie Infettive dell’Università di Marsiglia. I loro h-index sono rispettivamente 174 e 175. Nel comitato tecnico scientifico del Governo italiano, per fare un paragone, l’h-index di Giuseppe Ippolito, direttore dell’INMI dello Spallanzani, è 61 (abbastanza alto, sebbene non paragonabile a quelli appena citati); mentre quello del presidente dell’ISS Silvio Brusaferro, anche lui membro del CTS, è sensibilmente più basso, fermo a 21. Parliamo di esperti molto vicini al premier Conte e dunque in grado di influenzarne pesantemente le decisioni, come pare sia accaduto durante la preparazione della contestatissima «fase 2» dell’emergenza, plasmata sulla scorta del report stilato proprio dal CTS nominato dal Governo. Rimanendo nei paraggi di coloro che hanno rapporti diretti con Capi di Stato, l’immunologo francese Jean-François Delfraissy, guida del Comité d'Analyse Recherche Expertise e di casa all’Eliseo, può fregiarsi, per esempio, di un h-index di 73. Anche i tedeschi, naturalmente, hanno il proprio virologo di fiducia: si chiama Christian Drosten, ha un h-index di 73 e, anche se non ha ricevuto incarichi ufficiali dal governo di Berlino, è attualmente uno degli esperti più popolari e più ascoltati in Germania. E a proposito di popolarità, nessuno oggi in Italia è più popolare dei medici: alcuni di loro sono diventati dei veri e propri divi del piccolo schermo, dal quale dispensano ammonimenti urbi et orbi ad ogni ora del giorno, collezionando ospitate in ogni tipo di programma, persino in quelli sportivi. Niente di male, sia chiaro - ché un parere specialistico di questi tempi è sempre ben accetto -, ma vedendo gli h-index di alcuni di loro qualche dubbio in più potrebbe sorgere. Walter Ricciardi, super consulente dell’OMS, ha, per dire, un indice di 39; Ilaria Capua, virologa dell’Università della Florida con un passato in politica (nella fu Scelta Civica), ha un h-index di 48; Roberto Burioni, virologo e principale star del nuovo divismo scientifico, ha un h-index di 26; Maria Rita Gismondo (ultimamente molto pessimista) ha, infine, un h-index di 22. Numeri non esattamente altissimi, soprattutto se paragonati a quelli di altri esperti italiani molto meno popolari, come Alberto Mantovani (h-index 167, altissimo), Giuseppe Remuzzi (158) e Luciano Gattinoni (84), solo per citarne qualcuno. Insomma, la scienza non si può certo ridurre a una gara a chi ha il curriculum più lungo, ma se questi indici esistono, dovranno pur significare qualcosa. E gli italiani, il cui destino è oggi nelle mani di medici e scienziati molto più che in quelle dei propri rappresentanti politici, hanno il diritto di saperlo.

LE PAGELLE DELLA SCIENZA. Burioni, Pregliasco e Brusaferro. Gli esperti più scarsi del mondo. Franco Bechis su iltempo.it l'1 maggio 2020. Sono ultimi in classifica mondiale per la bibbia della scienza- Scopus- i virologi che hanno imposto la chiusura dell'Italia  al governo. La sorpresa certo non felice viuene dalla classifica di valutazion e degli esperti che in tutto il mondo stanno affiancando le autorità politiche nella guerra al coronavirus. Scopus valuta con un punteggio- l' H-Index- il prestigio e l'attendibilità di tutti gli scienziati, tenendo conto dei titoli accademici di ciascuno, delle pubblicazioni scientifiche e del numero di citazioni dei loro lavori nel tempo da parte di altre pubblicazioni scientifiche. Il punteggio più alto al mondo in questa classifica della guerra al coronavirus ce l'ha un professore italo-americano, Anthony Fauci (174), che dovrebbe essere il virologo di riferimento del presidente Usa Donald Trump, che pure spesso lo critica e fa di testa sua. In quel sistema di valutazione una suffiuciente mediocrità si raggiunge sopra i 50 punti, una certa autorevolezza al di sopra degli 80, e così salendo fino alla eccellenza. In Italia ne abbiamo solo tre di cui possiamo essere in qualche modo orgoglioso, ma non sono consulenti del governo e anche in tv si fa ricorso a loro raramente. Si tratta di Alberto Mantovani dell'Humanitas (167), Giuseppe Remuzzi dell'Istituto Mario Negri (158), e Luciano Gattinoni (84) che lavora però in Germania, all'università di Gottingen. Discreto prestigio hanno anche Paolo Ascierto (63) dell'Istituto nazionale dei tumori, Giuseppe Ippolito (61) direttore scientifico dello Spallanzani, Giovanni Rezza (59) dell'Iss e Massimo Galli (51) del Sacco di Milano. Vicini alla sufficienza il virologo di fiducia della Regione Veneto, Andrea Crisanti (49) e Ilaria Capua (48) che lavora in Florida. In ogni caso ad anni luce di distanza da un Fauci, da un Mantovani e da un Remuzzi. Tutti gli altri giudicati ampiamente insufficienti dalla comunità degli scienziati. Voti bassini o bassissimi proprio per quelli che vanno per la maggiore nelle trasmissioni televisive come "esperti". Come Walter Ricciardi (39) preso come consulente dal ministero della Salute. O Pier Luigi Lopalco (33) che pure è ospite fisso dei talk show. Bassissimo il giudizio su Roberto Burioni (26), virologo che andò per la maggiore quando si imposero i vaccini a tutti gli italiani e oggi arruolato come ospite fisso da Fabio Fazio nel suo Che tempo fa. In fondo alla classifica Maria Rita Gismondo (22) la virologa che derise le preoccupazioni sul coronavirus ritenendo l'epidemia assai meno distruttiva di una influenza e che non a caso è stata assoldata come "esperta" di riferimento dal Fatto Quotidiano dove scrive Andrea Scanzi che a fine febbraio disse assai di peggio insultando chi aveva paura del virus "che non farà morti" in un video che passerà alla storia come il più clamoroso infortuniuo giornalistico del dopoguerra. Ad avere voti più bassi di Burioni e della Gismondo ci sono però il presidente dell'Iss, Silvio Brusaferro (21) cui il governo ha di fatto affidato la guida delle decisioni sul coronavirus, Fabrizio Pregliasco (14) e Giulio Tarro (10), disprezzato dalla comunità scientifica, ma non privo di fans, visto che qualcuno di loro ancora insiste per candidarlo al premio Nobel.

DAGONOTA il 4 maggio 2020. In queste settimane si è molto parlato del virologo campano Giulio Tarro, già in prima linea contro varie epidemie all'ospedale Cotugno di Napoli, un'eccellenza nel settore, riconosciuta da tutti. Per farla breve, un articolo scritto dall'associazione ''Biologi per la Scienza'' sostiene che alcuni dei suoi titoli sono discutibili, che il suo riconoscimento presso la comunità scientifica internazionale è scarso perché ha pubblicato poco e su riviste altrettanto discutibili. Sorvolando il fatto che si sta parlando di uno scienziato del Novecento al quale vengono applicati i criteri odierni di valutazione (il tremendo sistema del peer review che può distorcere parecchio la realtà), o che tutti i medici ricevono targhe e riconoscimenti di ogni tipo, anche discutibile, si è verificato un simpatico fenomeno. Ovvero che Franco Bechis sul ''Tempo'' ha dedicato lo stesso trattamento ai virologi-star che occupano le nostre tv in questo periodo, scatenando una difesa d'ufficio (giustissima!) dei colleghi, che in questo caso hanno sottolineato come gli indici e le classifiche internazionali non corrispondono sempre al reale talento, preparazione o professionalità del singolo medico. Anzi! Spesso chi più scrive, meno lavora nel mondo reale.

Questa risposta all'articolo di Bechis è illuminante, e veritiera: Chiara Lestuzzi. Marco Honesty Io invece sono un medico, e faccio sia clinica che ricerca. E so benissimo come funziona il mondo delle pubblicazioni in medicina. C'è chi sta chiuso in un laboratorio e lavora solo per produrre articoli, chi lavora sul campo e non ha tanto tempo per scrivere. C'è anche chi lavora molto a procurarsi amici che gli mettono il nome in tutto quello che pubblicano, chi quando è revisore di un lavoro "suggerisce" all'autore di citare i suoi articoli (che magari non c'entrano con l'argomento), chi riesce a dare la scalata a qualche società scientifica e poi infila il suo nome in tutte le linee-guida e "position papers" della società (articoli che ricevono per anni moltissime citazioni)...

Insieme a questa: Daniele Bertolini. Che schifezza di articolo. L'H-index da un idea della rilevanza nel campo, non un fantomatico "giudizio" degli altri scienziati. Ma soprattutto non e' che avere un alto H-index ti rende titolato a suggerire migliori strategie ad un governo. Per esempio, una persona che ha lasciato l'accademia e non pubblica, ma ha speso 20 anni a gestire epidemie in giro per il mondo, mi sembra titolato a consigliare un governo. Ma perche' favorite queste visione semplicistica buoni vs cattivi su tutto? Che delusione. Morale? Il mondo delle pubblicazioni spesso è una mafietta, i grandi scienziati le opere le fanno scrivere ai collaboratori perché non hanno tempo da perdere e chi lavora in ospedale spesso esce dal mondo dei convegni e delle riviste scientifiche perché preferisce operare sul campo. Ma questo ricordatevelo sempre, non solo quando dovete smerdare il povero Tarro (che infatti, sui suoi 50 anni da medico sul campo, non ha ricevuto mezza critica neanche dai famigerati ''Biologi per la scienza''…)

Gli esperti più scarsi del mondo: Burioni, Pregliasco e Brusaferro. Il Corriere del Giorno il 2 Maggio 2020. In fondo alla classifica con appena 22 punti Maria Rita Gismondo la virologa che derise le preoccupazioni sul coronavirus ritenendo l’epidemia assai meno distruttiva di una influenza e che non a caso è stata assoldata come “esperta” di riferimento de il Fatto Quotidiano dove scriveva Andrea Scanzi il quale a fine febbraio disse assai di peggio insultando chi aveva paura del virus “che non farà morti” in un video che passerà alla storia come il più clamoroso infortunio giornalistico del dopoguerra. Secondo Scopus, considerata la bibbia della scienza, i virologi che hanno imposto la chiusura dell’Italia  al Governo Conte sono ultimi nella classifica mondiale. La poco piacevole sorpresa, certamente non felice arriva dalla classifica di valutazione degli esperti che in tutto il mondo stanno affiancando le autorità politiche nella guerra al coronavirus. Scopus è aggiornato periodicamente e offre circa 25.000 articoli provenienti da più di 5.000 editori internazionali che includono: 16.500 giornali sottoposti a processo di peer reviewing in ambito scientifico, tecnico, medico e sociale; 600 pubblicazioni commerciali; 350 edizioni di libri; una copertura estesa delle conferenze mondiali con 3 milioni e mezzo di conference papers. In Scopus sono presenti 435 milioni di pagine web a carattere scientifico; 23 milioni di brevetti depositati nei cinque principali uffici brevetti del mondo (US Patent Office, European Patent Office, World Intellectual Property Organization, Japan Patent Office e UK Intellectual Property Office); oltre 80 fonti selezionate da varie istituzioni che comprendono archivi digitali e collezioni relative a specifici argomenti. Scopus valuta con un punteggio– l’ H–Index– il prestigio e l’attendibilità di tutti gli scienziati, basandosi sui titoli accademici di ognuno, delle pubblicazioni scientifiche e del numero di citazioni dei loro lavori nel tempo da parte di altre pubblicazioni scientifiche. Il punteggio più alto al mondo in questa classifica della guerra al coronavirus ce l’ha un professore italo-americano, Anthony Fauci (174), che è al momento il virologo di riferimento del Presidente Usa Donald Trump, che nonostante lo critica e fa di testa sua, riconosce la sua competenza e la rispetta. In questo sistema di valutazione predisposto da Scopus una sufficiente mediocrità si raggiunge sopra i 50 punti, una certa autorevolezza al di sopra degli 80, e così salendo fino alla eccellenza. In Italia ne abbiamo solo tre di cui possiamo essere in qualche modo orgogliosi, ma non sono consulenti del governo e anche in tv si fa ricorso a loro raramente. Si tratta di Alberto Mantovani dell’Humanitas (167), Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri (158), e Luciano Gattinoni (84) che però lavora in Germania, all’Università di Gottingen. Discreto prestigio hanno anche Paolo Ascierto (63) dell’Istituto Nazionale dei Tumori, Giuseppe Ippolito (61) direttore scientifico dell’ Ospedale Spallanzani di Roma, Giovanni Rezza (59) dell’Istituto Superiore di Sanità e Massimo Galli (51) dell’ Ospedale Sacco di Milano. Vicini alla sufficienza il virologo di fiducia della Regione Veneto, Andrea Crisanti (49) e Ilaria Capua (48) la quale lavora in Florida, virologa diventata celebre ai tempi dell’influenza aviaria per aver isolato il virus e sollecitato il pubblico accesso ai dati a livello internazionale, la quale non ha potuto realizzare in Italia. Nel 2014 la virologa, eletta alla Camera nelle liste di Scelta Civica era stata iscritta nel registro degli indagati per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, abuso di ufficio e traffico illecito di virus. Nel luglio 2016 è stata pienamente prosciolta. “E’ stata una decisione sofferta e ponderata, che ho maturato nel tempo e che si è articolata intorno alla parola ‘rispetto'”, aveva detto nel suo messaggio con il quale rassegnava le proprie dimissioni. La Camera le accettò con 238 “sì” e 179 “no“. L’ Aula si è infiammata contro il giustizialismo e la gogna montata soprattutto online in presenza di un semplice avviso di garanzia; sul “banco degli imputati” il M5S, che ha annunciato il sì alle dimissioni “in coerenza con i precedenti“. In ogni caso ad anni luce di distanza da un Fauci, da un Mantovani e da un Remuzzi. Tutti gli altri giudicati ampiamente insufficienti dalla comunità degli scienziati. Voti bassissimi proprio per quelli che vanno per la maggiore nelle trasmissioni televisive come “esperti“. Come Walter Ricciardi (39) preso come consulente dal Ministero della Salute. O Pier Luigi Lopalco (33) che pure è ospite fisso dei talk show. Bassissimo il giudizio su Roberto Burioni (26), virologo che andò per la maggiore quando si imposero i vaccini a tutti gli italiani e oggi arruolato come ospite fisso da Fabio Fazio nel suo “Che tempo fa“. In fondo alla classifica con appena 22 punti Maria Rita Gismondo  la virologa che derise le preoccupazioni sul coronavirus ritenendo l’epidemia assai meno distruttiva di una influenza e che non a caso è stata assoldata come “esperta” di riferimento de il Fatto Quotidiano dove scriveva  Andrea Scanzi il quale a fine febbraio disse assai di peggio insultando chi aveva paura del virus “che non farà morti” in un video che passerà alla storia come il più clamoroso infortunio giornalistico del dopoguerra. Ad avere voti più bassi di Burioni e della Gismondo ci sono però il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro (21) cui il Governo Conte ha di fatto affidato la guida delle decisioni sul Coronavirus,  Fabrizio Pregliasco (14) e Giulio Tarro (10), disprezzato dalla comunità scientifica, ma non privo di sostenitori, visto che qualcuno di loro ancora insiste per candidarlo al premio Nobel

Da affaritaliani.it il 4 maggio 2020. Mentre l'Italia si avvia verso la "fase 2", il Coronavirus continua a tenere sotto scacco l'intero Paese, l'emergenza non è finita. Ma su quello che ci attende il professor Giuseppe Remuzzi direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, sembra essersi fatto un'idea, bacchettando i suoi colleghi dell'Iss. "Il loro dossier - spiega al Corriere della Sera - prende in considerazione 92 scenari possibili. Ma tra 92 e zero, è uguale. Significa non avere idea di quello che succederà. Che è la pura verità, e andrebbe detta. Non lo sa nessuno. Se prevedi che tutto, ma proprio tutto vada male, si avrà un numero importante di ricoveri in terapia intensiva. Ma non quello (150 mila), al quale si arriva solo sovrastimando in modo abnorme la popolazione anziana in Italia. Lo scenario peggiore non è impossibile, ma anche a livello statistico è molto improbabile". "Per la fase due - prosegue Remuzzi al Corriere - occorre innanzitutto dire la verità. Gli italiani devono avere ben chiaro che riaprire significa avere quasi automaticamente un certo numero di nuovi malati. E non stiamo parlando di poche decine. A giugno è possibile che ci sia una ricaduta, potrebbe succedere. Ma non con lo scenario peggiore. Dovremo gestirla con la capacità di adattare la risposta, soprattutto isolando subito le persone contagiate. Adesso sappiamo come si fa". "Sbagliato tenere chiuse le scuole - conclude Remuzzi - i bambini non si infettano. I loro genitori, più o meno giovani, difficilmente sviluppano malattie importanti. Invece noi lasciamo le nuove generazioni a casa dai nonni. Un altro modo di mescolare. A mio avviso, un grave errore".

Silvio Brusaferro, "fino ad oggi": così ci spiega (involontariamente) la differenza tra scienza e politica. Andrea Tempestini su Libero Quotidiano il 1 maggio 2020. Andrea Tempestini. Milanese convinto, classe 1986, a "Libero" dal 2010, caporedattore e digital editor di Liberoquotidiano.it. Il mio sogno frustrato è l'Nba. Adoro Vespe, gatti, negroni e mr. Panofsky. Scienza vs politica. A Giuseppe Conte rimproverano la prevalenza del virologo: ovvero, la politica non decide e si affida in toto agli esperti (comitati, task-force, consulenti, che-faccio-lascio). Senza volersi avventurare nella polemica, probabilmente una delle meno peregrine tra le molteplici che hanno colpito il premier nelle ultime settimane, il rimprovero relativo alla "prevalenza del virologo" ha solide fondamenta. Quanto accade in altri Paesi - Francia e Germania su tutti - dimostra come sia possibile, in questa fase della pandemia, tentare una conciliazione tra istanza scientifica e istanza politico-economica. Chi sostiene che la conciliazione, stando alla conferenza stampa di domenica scorsa, in Italia non sia stata neppure tentata credo non abbia torto. E che c'entrano le parole di Brusaferro? C'entrano perché arrivano in risposta a una domanda circostanziata, relativa alle regioni con meno contagi: perché non possono ripartire? Già, perché tenere ferme regioni come il Molise (ieri 1 positivo), Basilicata (1 positivo), Sardegna (5 positivi), ma anche le Marche (37 positivi) e forse anche il Lazio (71 positivi)? Insomma, perché tenere fermi tutti e non solo, per dire, Lombardia (598 positivi il 30 aprile), Piemonte (428) ed Emilia Romagna (259)? Sinceramente me lo chiedo anche io, ma non per questo ho la supponenza di pensare di avere una risposta sensata (né in un senso, né nell'altro). Però le parole di Brusaferro ci suggeriscono qualcosa: le teniamo chiuse perché "i buoni risultati raggiunti fino ad oggi li abbiamo ottenuti con misure uguali per tutti" (inoltre, il presidente dell'Iss arricchisce la risposta insistendo sul ruolo della "mobilità tra le regioni molto limitata". Ed è sicuramente vero). Insomma, le parole di Brusaferro - medico, accademico, "scienziato" - fanno riferimento all'immutabilità del metodo-modello scientifico. Già, la scienza è per definizione esatta. Non contestabile. Figurarsi se ci mettiamo a contestarla proprio qui. Eppure, considerato che di coronavirus e pandemie ne sappiamo davvero poco, nella supposta Fase 2 la prevalenza del virologo sul politico dovrebbe affievolirsi: un modello che ha funzionato nella Fase 1 (contenimento del contagio, dunque scienza) non è necessariamente un buon modello per la Fase 2 (tentativi di ripartenza economica e sociale, dunque politica). Non è "colpa" di Brusaferro: lui è scienza. Ma sul quel "fino ad oggi" probabilmente casca l'asino: "fino ad oggi" è ieri e, tecnicamente, staremmo provando ad entrare in un domani in cui l'immutabilità del precedente modello scientifico non decade, ma è fuori contesto. Perché ora tocca alla politica, arte del possibile e non del modello scientifico.

Da liberoquotidiano.it il 4 maggio 2020. Più donne nel comitato tecnico scientifico e nella task force che si occupa della fase 2 dell’emergenza coronavirus. È la decisione di Giuseppe Conte in risposta all’appello sulle quote rosa rivolto da un gruppo di senatrici. Uno studio di Openpolis ha rivelato che sono oltre mille le persone coinvolte nella gestione della crisi sanitaria, l’80% di sesso maschile: addirittura nel comitato tecnico scientifico ci sono esclusivamente uomini. “Oggi stesso chiamerò Vittorio Colao - ha annunciato il premier - per comunicargli l’intenzione di integrare il comitato di esperti che dirige attraverso il coinvolgimento di donne le cui professionalità, sono certo, saranno di decisivo aiuto al Paese”. Inoltre nelle prossime ore Conte sentirà anche Angelo Borelli, capo della Protezione civile, per chiedergli di “integrare il comitato tecnico scientifico con un’adeguata presenza femminile. Analogo invito - ha concluso il premier - rinvolgo anche a tutti i ministri affinché tengano conto dell’equilibrio di genere nella formazione delle rispettive task force e gruppi di lavoro”.

Covid 19, oltre mille al comando tra task force, comitati, istituzioni. Ma non ci sono le donne. Angelo Borrelli, Roberto Speranza e Giuseppe Conte. L'80% degli esperti coinvolti nella complessa catena di gestione della battaglia contro la pandemia sono maschi. Nel comitato tecnico-scientifico sono tutti uomini. Uno studio di Openpolis. Raffaella Menichini il 30 aprile 2020 su La Repubblica. Nel labirinto delle task force governative, regionali, ripartite per fasi e obiettivi, è stato difficile in questi giorni individuare un filo conduttore comune. Eppure ne esiste uno piuttosto evidente: non ci sono donne. Salta all'occhio osservando la composizione del comitato tecnico scientifico che sta coadiuvando il governo da due mesi: 20 su 20, tutti uomini (come si può facilmente evincere anche dalla presenza al tavolo della conferenza stampa delle 18 che fino a un paio di settimane fa ha scandito le giornate degli italiani). Ma ad un esame più approfondito, compiuto dai ricercatori di Openpolis, risulta evidente che il problema è generalizzato: solo il 20% dei ruoli della catena di comando nella battaglia al Covid 19 è ricoperto da donne. Uno sbilanciamento che ha molto a che fare con la mappa generale del potere in Italia: incarichi istituzionali, presidenze di comitati, commissioni, istituti sono ruoli ricoperti in larghissima maggioranza da uomini. Lo sapevamo già, ma la crisi del Covid 19 sta portando alla luce il fenomeno in modo dirompente anche nelle sue modalità di ripercussione sulle scelte politiche, sulle dinamiche comunicative e sulla percezione di quanto la classe dirigente di questa fase sia realmente lo specchio del Paese. Secondo l'analisi di Openpolis - che aveva già compiuto un grosso lavoro di ricerca sulla giungla delle task force anti-Covid ricostruendone dati e ruoli in una mappa del potere definita "atipica" per il coinvolgimento e l'interconnessione di strutture politiche, amministrative, specialistiche, ad hoc, sia nazionali che regionali - sui 1400 incarichi individuati la forbice tra donne e uomini cresce man mano che ci si avvicina al vertice della catena di comando. Vengono prese in considerazione le prefetture (categoria in cui la percentuale di donne è la più alta: 39,05% sono guidate da donne); gli assessorati regionali alla sanità e alla protezione civile; le strutture regionali ad hoc (unità di crisi, task force, soggetti attuatori, comitati); le strutture nazionali chiamate a un ruolo centrale nell'emergenza come l'agenzia per il farmaco (Aifa) e le task force create in queste settimane a coadiuvare il lavoro della Protezione civile e del governo. Ed emerge un dato sconfortante: se nelle istituzioni regionali la presenza femminile ai vertici è bassa (ad esempio 29% di assessori regionali alla sanità e alla protezione civile) i numeri scendono man mano che ci si avvicina al cuore del potere. Fino ad arrivare agli incarichi a livello nazionale dove troviamo una donna su 6 poltrone. E a volte neanche quella. Il già citato Comitato tecnico-scientifico è composto al 100% di maschi, e se si va a osservare uno ad uno i 20 incarichi si capisce che si è scelto giustamente il top degli esperti, messi alla guida di altrettante istituzioni. Dunque il problema è a monte: è che alla guida di Istituto superiore di sanità, Consiglio superiore di Sanità, Protezione civile, Dipartimenti del Ministero della Salute, società di medicina specialistica, Aifa, dipartimenti delle grandi strutture sanitarie specialistiche, insomma alla testa delle massime istituzioni coinvolte siedono solo uomini. Anche nella task force per la "fase 2" (quella diretta da Vittorio Colao), su 19 membri solo 4 sono donne, tutte accademiche.  E nel comitato di Protezione civile a supporto dell'operato di Angelo Borrelli ne contiamo 5, su 18. Due settimane fa, una lettera aperta diretta al premier Giuseppe Conte e allo stesso Colao da gruppi e associazioni di donne della società civile affinché aumenti il numero di donne coinvolte nella task force della "fase 2" ha raccolto oltre 50mila firme. Il 28 aprile la deputata Pd Laura Boldrini ha depositato un'interrogazione al governo, firmata da altre 42 deputate, per chiedere "di rispettare la parità di genere in task force e prossime nomine - ha detto l'ex presidente della Camera dei deputati - Quando toccherà farle in Parlamento se non sarà una significativa presenza femminile non le voterò. E non sarò l'unica". Il 10 aprile, nel centenario della nascita di Nilde Iotti, la ministra per le pari opportunità Elena Bonetti ha lanciato "Donne per un nuovo Rinascimento", task force tutta al femminile "per far ripartire l'Italia" dopo la crisi coronavirus. L'incarico, si legge nel decreto, è mirato alla stesura di un documento programmatico, ma in che modo e fino a che punto il lavoro di queste 12 esperte (tra cui scienziate come Fabiola Gianotti, imprenditrici, giornaliste, accademiche) intercetterà la catena di comando anti Covid19 non è ancora chiaro. Il gruppo di leadership resta saldamente in mani maschili: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il ministro della Salute Roberto Speranza, il capo della Protezione civile Angelo Borrelli, il commissario straordinario Domenico Arcuri, il presidente dell'Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro, il capo della task force per la fase 2 Vittorio Colao, il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli. Nomi e volti che in gran parte sono diventati familiari a tutti gli italiani, scandendo con le loro comunicazioni, consigli, valutazioni la difficile navigazione di questi mesi di lockdown. Ci fossero stati anche volti e voci di donne - che pure sono in prima linea tra gli operatori sanitari nella battaglia quotidiana al virus - è molto probabile che percezione e sostanza della strategia di attacco sarebbero state diverse. Ma è anche vero che non lo sapremo mai.

Cinque donne per Colao, quote rosa da task force. Comitato nel caos ma Conte pensa al politicamente corretto: le esperte arrivano dopo le proteste. Francesco Cramer, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Allora siamo a posto. Arriva una nuova infornata di esperte (che siccome finisce con la «e» e non con la «i» sono più brave, belle ed efficienti) al già corposo esercito di cervelloni che dovrebbero risolvere tutti i problemi. Nella task force guidata da Vittorio Colao entrano cinque nuove donne, che si affiancano alle quattro già nel team di venti esperti totali. Nel Comitato tecnico-scientifico, finora composto di 20 uomini su 20, ne arrivano invece sei. Totale: 11 in più. Nell'equipe di Colao debuttano Enrica Amaturo, professoressa di sociologia; Marina Calloni, professoressa di Filosofia politica che si occupa di contrasto alla violenza domestica; Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell'Istat; Donatella Bianchi, presidente del Wwf Italia; Maurizia Iachino, dirigente di azienda. Fantastico: già 450 cervelloni non stanno aiutando molto a far partorire uno straccio di decreto che infatti rimane impelagato nei torbidi corridoi di palazzo Chigi. Aggiungiamone una dozzina che male non fa. Anzi, siccome portano la gonna, Conte forse pensa che nel giro di poche ore il Dl Rilancio decollerà come un caccia da guerra. Forse pensa che basti la manciata di consulenti in più - purché sia «rosa» - che la burocrazia si scioglierà come neve al sole; e che i dispettucci tra i partiti della sua raffazzonata maggioranza finiranno domani mattina. Illusioni dettate dall'ideologia o dal più bieco boldrinismo. Non che le donne non siano in gamba per questione di genere, per carità. È che il sesso, qui, non c'entra un fico secco. Qui c'è un Paese da aiutare subito; ci sono commercianti e artigiani che non sanno se apriranno; ci sono famiglie che vedono i loro risparmi andare in fumo. E chissenefrega se l'ennesimo inutile carrozzone è più grande e più rosa.

 Francesco Cramer per ilgiornale.it il 13 maggio 2020. Allora siamo a posto. Arriva una nuova infornata di esperte (che siccome finisce con la «e» e non con la «i» sono più brave, belle ed efficienti) al già corposo esercito di cervelloni che dovrebbero risolvere tutti i problemi. Nella task force guidata da Vittorio Colao entrano cinque nuove donne, che si affiancano alle quattro già nel team di venti esperti totali. Nel Comitato tecnico-scientifico, finora composto di 20 uomini su 20, ne arrivano invece sei. Totale: 11 in più. Nell'equipe di Colao debuttano Enrica Amaturo, professoressa di sociologia; Marina Calloni, professoressa di Filosofia politica che si occupa di contrasto alla violenza domestica; Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell'Istat; Donatella Bianchi, presidente del Wwf Italia; Maurizia Iachino, dirigente di azienda. Fantastico: già 450 cervelloni non stanno aiutando molto a far partorire uno straccio di decreto che infatti rimane impelagato nei torbidi corridoi di palazzo Chigi. Aggiungiamone una dozzina che male non fa. Anzi, siccome portano la gonna, Conte forse pensa che nel giro di poche ore il Dl Rilancio decollerà come un caccia da guerra. Forse pensa che basti la manciata di consulenti in più - purché sia «rosa» - che la burocrazia si scioglierà come neve al sole; e che i dispettucci tra i partiti della sua raffazzonata maggioranza finiranno domani mattina. Illusioni dettate dall'ideologia o dal più bieco boldrinismo. Non che le donne non siano in gamba per questione di genere, per carità. È che il sesso, qui, non c'entra un fico secco. Qui c'è un Paese da aiutare subito; ci sono commercianti e artigiani che non sanno se apriranno; ci sono famiglie che vedono i loro risparmi andare in fumo. E chissenefrega se l'ennesimo inutile carrozzone è più grande e più rosa.

Estratto dall'articolo di Stefano Folli per ''la Repubblica'' il 12 maggio 2020. (…) C'è poi il caso di Vittorio Colao, il più noto dei manager chiamati a offrire il loro contributo d'esperienza per definire tempi e modi della "ripartenza". Ieri il suo nome è tornato a circolare perché il presidente del Consiglio, incalzato da Laura Boldrini ed Emma Bonino, ha deciso di arricchire con cinque donne i componenti del comitato guidato dall'ex amministratore della Vodafone. È una mossa a effetto che poteva essere decisa prima e che cambia poco nella sostanza. Infatti la vera domanda è: a cosa serve quel comitato, il più importante dei 15 o 16 che sono stati messi in piedi? Nessuno sa esattamente quali siano i suoi compiti o a che punto sia nell'attuazione del suo programma, se ne esiste uno. Sembra quasi che Conte, dopo averlo insediato, abbia preferito lasciarlo nell'ombra. Forse, nel caso, lo userà come capro espiatorio. Certo, a distanza di qualche settimana risulta ancora più evidente che Colao, per sopravvivere e avere un ruolo, avrebbe dovuto chiedere un profilo politico: ministro senza portafoglio o anche sottosegretario a Palazzo Chigi. Sarebbe stato impossibile per chiunque spingerlo nelle nebbie.

Il Cts decide il destino del Paese, ma tra i 20 esperti nessun virologo. Tra i 20 esperti del Comitato tecnico-scientico, l'unico con una laurea specialistica in Malattie infettive è Giuseppe Ippolito. Ecco chi sono gli altri membri del team che consiglia le azioni del governo. Francesca Bernasconi, Mercoledì 29/04/2020 su Il Giornale. L'Italia, oggi, è nelle loro mani. Sono i 20 componenti esperti del Comitato tecnico-scientifico che consiglia il Governo sulle misure da prendere nel corso delle diverse fasi della pandemia da Covid-19.

Il Comitato tecnico-scientifico. Il Comitato è nato lo scorso 5 febbraio, quando il nuovo coronavirus sembrava ancora lontano dall'Italia, ed è stato ridefinito nella sua composizione, integrandola con "esperti in relazione a specifiche esigenze". L'ultima ridefinizione del team risale al 18 aprile, quando un'ordinanza del Capo del Dipartimento della protezione civile ha stabilito la necessità di rafforzare il Comitato, inserendo ulteriori esperti, "anche in vista della fase di ripresa graduale delle attività sociali, economiche e produttive". Così, il team è arrivato a 20 membri, tutti elencati nel documento di Angelo Borrelli. Ma tra loro non compare nemmeno uno dei virologi noti: da Roberto Burioni a Maria Rita Gismondo, da Fabrizio Pregliasco a Pier Luigi Lopalco, sono tutti assenti dal team che consiglia il premier Giuseppe Conte sugli accorgimenti da prendere per avviare la fase due.

I "nuovi" esperti. A guidare il Comitato tecnico-scientifico c'è Agostino Miozzo, coordinatore dell'Ufficio promozione e integrazione del Servizio nazionale della protezione civile, laureato in Medicina. Lo scorso 18 aprile, nel gruppo sono stati inseriti anche Massimo Antonelli, medico specializzato in Anestesia e rianimazione e direttore del Dipartimento emergenze, anestesiologia e rianimazione del Policlinico Gemelli di Roma, e Roberto Bernabei, Direttore del Dipartimento Scienze dell’invecchiamento, neurologiche, ortopediche e della testa–collo del Policlinico Gemelli. Secondo quanto riporta il Tempo, tra le sue competenze risulta anche quella sui "servizi di assistenza per l'anziano fragile mediante la creazione di modelli che dimostrano il costi-beneficio di un servizio di assistenza domiciliare integrata". Tra gli esperti risultano anche Fabio Ciciliano, dirigente medico della Polizia di Stato, esperto di medicina delle catastrofi, Ranieri Guerra, laureato in Medicina con specializzazione Igiene e sanità pubblica e rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, e Francesco Maraglino, Direttore dell’Ufficio prevenzione delle malattie trasmissibili e profilassi internazionale del Ministero della salute. Infine, dal 18 aprile fanno parte del Comitato anche Luca Richeldi, Presidente della Società italiana di pneumologia e Alberto Villani, Presidente della Società italiana di pediatria.

Gli altri membri. Oltre al coordinatore del Comitato, Miozzo, fanno parte del team anche Silvio Brusaferro, presidente dell’lstituto superiore di sanità, Claudio D’Amario, direttore Generale della prevenzione sanitaria del Ministero della salute, Mario Dionisio, direttore dell’Ufficio di coordinamento degli Uffici di sanità marittima-aerea e di frontiera del Ministero della salute, Achille Iachino, direttore Generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico del Ministero della salute e Sergio Iavicoli, direttore Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale dell’Inail. Nella lista della protezione civile compare anche il nome di Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani, l'unico con una laurea di specializzazione in Malattie infettive. Inoltre, nel Comitato troviamo anche Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità del Ministero della salute, Nicola Magrini, direttore Generale dell’Agenzia Italiana del Farmaco, Giuseppe Ruocco, segretario generale del Ministero della salute, Nicola Sebastiani, ispettore generale della sanità militare del Ministero della difesa, Andrea Urbani, direttore generale della programmazione sanitaria del Ministero della salute e Alberto Zoli, rappresentante della Commissione salute designato dal Presidente della Conferenza delle Regioni e Province autonome.

Vittorio Feltri sul fallimento firmato Giuseppe Conte: "Migliaia di morti per colpa degli asini. Il caos-mascherine lo dimostra". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 29 aprile 2020. La vicenda delle mascherine, paradigmatica della disorganizzazione italiana, è quanto di più grottesco accada da quando il virus ha sconvolto le nostre vite. Da oltre due mesi è in atto una lotta che definirei fratricida fra cittadini allo scopo di procurarsi la mitica protezione per il naso e la bocca. Essa è considerata salvifica. Chi la possiede e la usa pensa di sfuggire al contagio e fa il diavolo a quattro per racimolarne altre. La gente va capita. Ascolta virologi e specialisti vari, ritenendo che si tratti di scienziati infallibili, e si attiene ai loro consigli, spesso contraddittori su tutto, dalla durata dell' infezione ai metodi per contrastarla, e ubbidisce all' ultimo di essi che ha parlato. Le norme fissate dagli scienziati sono note e probabilmente poco efficaci, però in mancanza di certezze la maggioranza le accetta e le adotta. Non potrebbe fare diversamente. Ma torniamo alle benedette o maledette mascherine. C'è chi le trova e chi non le trova. Chi per acquistarne una spende cento euro e chi 5. Il popolo ignaro di certe problematiche non sa più a che santo votarsi per comprare l' oggetto miracoloso che gli garantisca l'immunità. La caccia al quale è diventata una delle principali attività dei compatrioti. Se non ne sei dotato non puoi uscire di casa, guai ad attraversare la strada; il supermercato, l'edicola e il tabaccaio sono inaccessibili. Forse ingenuamente mi domando: se tali mascherine sono tanto importanti, come mai dall' inizio della pandemia è tanto difficile averle a un prezzo ragionevole? Vero che mai nessuno da queste parti, fino a febbraio, aveva sentito l'esigenza di usarle, ma è altrettanto vero che per cucirne alcuni milioni non ci vogliono dei geni della tecnologia, sono sufficienti alcune fabbriche tessili che in una settimana possono sfornarne in quantità tale da sommergerci. Invece siamo qui ancora a tribolare come drogati in crisi di astinenza per impossessarci di questa stupidissima fascetta di tessuto. Il governo si dà tante arie però non è capace di risolvere un problema così semplice, quasi sciocco. Ora non si può che concludere: se le cosiddette autorità centrali e periferiche non sono in grado di munirci di una striscetta di squallida pezza che ci eviti la malattia, come si può sperare che siano in grado di eliminare la minaccia del Covid? Inoltre, durante questa fase drammatica, sono morti di Corona oltre 150 medici, senza contare gli infermieri, poiché sprovvisti di indumenti idonei a salvaguardarli dal contagio. Ho specificato "medici", ossia individui che al virus danno del tu. E sottolineo: se non siamo all'altezza di difendere i dottori nell' esercizio della loro delicata professione, come reputiamo di potere salvare da morte certa muratori e idraulici colpiti dal micidiale morbo? La risposta all' inquietante quesito è scontata: sono andati all' altro mondo migliaia di uomini e donne. Non per caso, bensì per asineria di qualcuno che doveva fare e non ha fatto.

Alessandro Rico per “la Verità” il 27 aprile 2020. Pierluigi Battista, storica firma del Corriere della Sera, si considera un «liberale preoccupato»: «La politica ha ceduto la sovranità a un' oligarchia tecnosanitaria e noi ci stiamo pericolosamente abituando all' illibertà».

Quindici task force, 450 esperti.

Le è chiara la catena di comando?

«C' era una volta l' utopia della Repubblica di Platone, con il re filosofo: non aveva nulla di democratico, ma almeno era un sapiente».

E adesso?

«Questi dell' oligarchia tecnosanitaria non sanno niente».

La democrazia però è salva.

«È sempre più indebolita».

Vede rischi di autoritarismo?

«Almeno nei regimi autoritari si creano sistemi di decisione rapidi ed efficaci, sul presupposto che chi comanda conosca cose che il popolo ignora. La nostra oligarchia tecnosanitaria è incredibilmente popolosa e tutta la sua presunta scienza si condensa in due raccomandazioni».

Quali?

«State a casa e lavatevi le mani».

Che poi, gli esperti, di cantonate ne hanno prese parecchie. C' è chi sostiene che l' errore della Lombardia sia stato di fidarsi dei protocolli nazionali sui tamponi, mentre il Veneto, che ha fatto test a tappeto infischiandosene delle direttive, ha quasi debellato il virus.

«È vero. E non si sono limitati a dire che bisognava limitare i tamponi. Walter Ricciardi, il burocrate delle linee guida dell' Oms, ha attaccato duramente il Veneto per qualcosa su cui era lui ad avere torto».

Come rimediare?

«Bisognava ammettere di aver sbagliato e chiedere scusa. Invece loro fanno finta di niente».

Un' emergenza di questa portata era imprevedibile.

«Quando dicono di essere stati travolti da un' ondata inattesa, mentono. Andrea Crisanti ha cominciato da gennaio a procurarsi i reagenti per fare i tamponi in Veneto. Adesso parlano di piano segreto, ma se c' è un virologo che aveva previsto tutto, significa che gli altri sono come minimo degli imprevidenti».

Pure i politici hanno sbagliato.

«Loro, però, avevano lo spettro delle chiusure, della crisi, il problema del consenso. Certo, con "Milano non si ferma", Beppe Sala ha sbagliato. Giorgio Gori ha sbagliato quando diceva di essere contrario alle zone rosse nella Bergamasca».

Dopo ha rinfacciato ad Attilio Fontana di non averle istituite.

«Anche Fontana ha sbagliato tante cose. Matteo Salvini voleva riaprire tutto subito. Giorgia Meloni s' era fatta un video in inglese per invitare i turisti a venire in Italia, perché era tutto sotto controllo. E Roberto Speranza».

Il ministro della Sanità.

«Andava in tv a dire: "I tamponi sono una fotografia istantanea. Uno risulta negativo e poi magari s' infetta il giorno dopo". Può darsi: ma intanto, per un caso del genere, scoprivi altri nove positivi».

I politici non li condanna?

«Ripeto: hanno ceduto sovranità a un' oligarchia tecnosanitaria - il comitato tecnico-scientifico, le task force - che ha dimostrato di non avere alcuna competenza».

Trincerarsi dietro l' oligarchia degli esperti non è servito?

«Il paradosso è che abbiamo rinunciato a un pezzo di democrazia, ma senza ottenere l' efficienza dei regimi autoritari».

Il primo atto della task force di Vittorio Colao è stato cercare di procurarsi lo scudo penale.

«Assurdo. Se è un organo solo consultivo, che senso ha? Però da un lato è comprensibile questa paura degli interventi della magistratura. Prenda le banche».

A che allude?

«Non erogano i prestiti, vogliono lo scudo penale».

Il problema non è la burocrazia?

«Se devi snellirla e limiti i controlli, poi rischi di prestare soldi a un' impresa in odore di mafia. Dopodiché, come ti difendi?».

Anche la scienza ha dei limiti. Forse il problema vero è che ci avevano convinti che avesse tutte le risposte bell' e pronte.

«Sì, ma questi presunti esperti sono sempre perentori. Nessuno, umilmente, ammette di non saperne un cacchio. Stanno lì a pontificare nei talk show e al massimo si schermiscono dietro il: "Nessuno lo può escludere, non è detto". Ma se non è detto, allora non dirlo!».

Perché si comportano così?

«Perché pur non capendoci nulla, quella di imporre le chiusure è la manifestazione di un potere».

Perciò insistono per prolungare il lockdown?

«No, non sono un complottista. Dico solo che quando finirà tutto, rimarranno senza più una tribuna. Non li vorremo più vedere. Nella clausura generalizzata, invece, loro sono il potere».

Diversi giuristi, intanto, contestano la condotta di Giuseppe Conte: limitare le libertà fondamentali via Dpcm, esautorando il Parlamento e pure il capo dello Stato.

Che ne pensa?

«Non essendo un giurista, non so se questi decreti siano incostituzionali. A occhio, mi pare di sì. Il punto però non è questo».

Qual è?

«L' abitudine all' illibertà. All' emergenza permanente».

Cioè?

«Da due mesi stiamo vivendo un esperimento sociale disumano».

Addirittura?

«Non abbiamo più vita sociale, di lavoro, un contatto con il mondo esterno. Siamo chiusi dentro quelle che a volte sono capsule, perché la stragrande maggioranza della gente non vive in delle regge».

Con quali conseguenze?

«Molta gente comincia a pensare: "Che fortuna che arrivino le forze dell' ordine sul quad a beccare uno che sta prendendo il sole in spiaggia!". "Ah, maledetti runner!". "Ah, maledetti bambini!"."Ah, maledetti cani!"».

Inquietante.

«E sento intellettuali sostenere che da tutto questo dobbiamo imparare una lezione. Ma quale lezione? Stiamo vivendo una condizione disumana».

Lei ha contestato l' idea di segregare gli anziani fino a dicembre.

«Una misura iniqua, inutile, vessatoria, odiosa, discriminatoria, insensata. Questi stessi over 60, che non dovrebbero mettere piede fuori di casa, secondo la legge Fornero, che peraltro io condivido, devono continuare a lavorare. Possono lavorare, ma per il resto sono una specie protetta?».

Un paradosso.

«Dire a queste persone che devono stare chiuse in casa fino a Natale induce alla depressione. Significa trattarle come strumenti».

Anche se è per il loro bene?

«Pure i lager, i gulag, i roghi dell' Inquisizione erano per il bene del popolo. Badi, non voglio fare paragoni del genere. È il principio a restare uguale: ti salvo da te stesso. È questa visione che mi terrorizza».

E l' incertezza sulla durata del cosiddetto distanziamento sociale la turba? Conte dice: «Fino al vaccino». Ma per alcuni il vaccino arriverà verso fine anno, altri parlano addirittura di due o tre anni...

«Infatti: non puoi dire alle persone "forse fino a settembre", "forse fino a Natale" Forse che? Il sessantacinquenne al quale mancano due anni per la pensione, che fa? Lo licenziano? E come campa? Ma con questo torniamo al discorso sulla cessione di sovranità».

Che intende?

«La democrazia presuppone che si decida tenendo conto della complessità della società. Ma se affidi le decisioni a gente che vede solo un pezzetto di realtà, ti ritrovi così».

Così come?

«Con un governo e una maggioranza parlamentare che non corrispondono alla maggioranza degli elettori. Con un' Europa che decide la politica economica a prescindere dalla volontà popolare: il Parlamento europeo, d' altronde, ha eletto la presidente della Commissione senza tener conto degli esiti del voto, visto che sono stati determinanti i consensi dei grillini. E con un' oligarchia che ti impedisce di muoverti da casa».

Alla luce di ciò, viene da chiedersi: la campagna mediatica imbastita sugli elicotteri che sgominavano le arrostate di Pasquetta, allora, serviva a distrarci dagli errori di governo ed esperti?

«Ma certo. Il meccanismo del capro espiatorio: chiunque viola il principio dello "state a casa" è un nemico del popolo. Se le cose vanno male, è colpa di chi va a correre, di chi porta a pisciare il cane, di chi tira fuori un bambino per fargli prendere aria. Pura vessazione. Un' ondata delatoria».

Addirittura?

«Non voglio apparire lassista, ma perché chiudere i parchi? Basta qualche agente che controlla se si creano assembramenti e che, eventualmente, li separa. Invece guardiamo a quei poliziotti come se stessero beccando un delinquente.Tanti posti di blocco con i mitra non si videro nemmeno ai tempi del rapimento di Aldo Moro».

In effetti, ci si potrebbe domandare: perché questi mezzi non si dispiegano nella lotta al crimine?

«Questo però è un discorso che non mi piace. Non mi piace il drone che presidia la città. Non voglio sacrificare la libertà nel nome della sicurezza».

Lo stesso vale per l' app che traccia i contagi?

«Io l' app la scaricherei. Mi sembra una misura ragionevole. Ma a due condizioni».

Quali?

«Che si facciano i test a tappeto. Altrimenti non servirà a nulla».

E poi?

«Il mio timore è che questa roba resti anche a emergenza finita».

Ovvero?

«Lo Stato moderno deve avere poteri limitati. Chi mi dice che tutto questo non sarà usato contro di me? Lo Stato non deve sapere tutto di me. Già sa troppo».

Sa troppo?

«Controlla i conti bancari, gli acquisti effettuati con le carte, con il Telepass può vedere dove sei andato, con le tessere dei supermercati magari può scoprire pure quello che mangi. Gli manca solo questa roba qua: seguirti con il drone e con l' app».

Tanto i dati già ce li sottraggono i big del Web.

«Sono soggetti privati che li usano per la pubblicità. Qui si tratta di potere politico».

Ci garantiscono che il sistema rispetta le norme sulla privacy.

«E ci fidiamo? Nel Paese del trojan?».

Il (non) coraggio della politica. Martino Bertocci su Il Riformista il 28 Aprile 2020. Il nostro Paese è ancora nell’emergenza Corona Virus. Ci troviamo in un momento di estrema difficoltà per tutti. Anche i nostri governanti devono prendere decisioni non facili, dopo vari ragionamenti e interlocuzioni con tutte le task-force e gli esperti. Nessuno di noi, credo, vorrebbe trovarsi attualmente a ricoprire la carica di primo ministro, che tiene in mano le sorti della nazione. Di tutto quello che avverrà dopo la crisi e di come l’Italia, si spera, riuscirà a riprendersi ha la responsabilità un solo uomo: il premier Giuseppe Conte. Ed è proprio lo stesso premier che ha sottolineato più volte questa sua responsabilità, dopo che gli era stata criticata l’istituzione di varie task-force, come se lui, la responsabilità di scegliere, non se la volesse prendere. La sera del 26 aprile è andata in scena l’ennesima conferenza stampa. Dopo i consueti dieci minuti di ritardo il premier si è presentato per spiegarci l’articolazione della “fase 2”. Mentre molti italiani erano in trepida attesa di sapere che cosa contenesse il decreto, il primo ministro ci ha intrattenuti con un lungo giro di parole per poi arrivare, solo in fondo, alla sostanza del nuovo DPCM. Il decreto è stato poi prontamente pubblicato e, rispetto a quelli passati, sembra essere più curato e dettagliato. Conte, come è giusto che fosse, ha ribadito più volte che questa nuova fase non va presa come un “libera tutti”, ma si dovrà continuare a mettere in pratica le misure di precauzione come nella fase 1. Il problema è uno soltanto: è davvero iniziata una nuova fase? Infatti rispetto alla fase uno si è aggiunta l’apertura di alcuni settori manifatturieri e di quello edile, e la possibilità di andare a trovare dei parenti che abitano nella stessa regione. Sicuramente è un primo passo avanti: molto importante la riapertura, almeno promessa a parole, dei cantieri nelle scuole. Investiamo in sicurezza visto che le aule sono vuote. Ma il resto? Il commercio al dettaglio rimane chiuso fino al 18 maggio, bar e ristoranti fino a giugno. La ripresa deve essere graduale e in sicurezza,ma non di questa lentezza. In Spagna e Francia alcuni settori non hanno mai chiuso e hanno continuato a lavorare in sicurezza. Lo stesso poteva essere fatto in Italia. Il governo deve vigilare sulla situazione, ma, al contempo, non si scordi di governare. Quello che sopratutto mi chiedo è il perché non ripartire regione per regione, a seconda del numero di contagi. La ripresa deve essere più decisa, dando in questo caso, più autonomia alle regioni. Sarebbe utile che le regioni coadiuvassero il governo centrale fornendo un programma per la ripartenza per il proprio territorio: così poi il governo, vagliate le proposte, potrebbe costruire un programma dettagliato e diviso regione per regione. Questo perché, ad esempio, la situazione della Toscana e ben diversa rispetto a quella lombarda. E forse sarebbe necessario spendere le risorse stanziate non per molti sussidi ma per mettere nella condizione di lavorare in sicurezza le molte aziende e i tanti negozi, che costituiscono la spina dorsale di questo paese. Il rischio più grave con la scelta di tardare le riaperture è che parte della classe media si ritrovi in quella più povera. Il punto critico è poi quello delle celebrazioni liturgiche. Si permette dal 18 maggio la ripresa degli allenamenti in gruppo e al contempo si ribadisce il divieto di celebrare una funzione religiosa. Come era logico che fosse, è arrivato un comunicato della CEI, intitolato “il disaccordo dei vescovi”. In questo documento viene espressa da parte della chiesa la perplessità di fronte alla decisione del governo, ricordando le parole della ministra Lamorgese che aveva ribadito che il governo era al lavoro per consentire la ripresa delle celebrazioni. Ed è giusto, a mio avviso, sostenere che sia stata violata la libertà religiosa. Si permette di fare sport e di non fare una funzione rispettando le normative di sicurezza? E poi in conferenza stampa si è fatto solamente un minimo accenno alle tematiche della famiglia e della scuola, che dovrebbero essere, come la tutela della salute e del lavoro, priorità per qualsiasi governo. Ribadisco che sia un momento difficile anche per il governo che deve fare delle scelte complicate, ma ieri sembrava, da quanto annunciato, l’inizio di una nuova era. Invece le aspettative di molti sono state deluse. Poca attenzione e chiarezza sul tema dei test seriologici e tamponi. Poi se allora decidono di non far riaprire alcuni settori, che arrivino i soldi direttamente dalle banche alle aziende. l’osservazione migliore è stata fatta dal sindaco di Firenze Nardella, che certo non può essere tacciato di far populismo, come alcuni urlatori seriali. Il Sindaco del capoluogo toscano ha elencato, dopo aver esposto il suo disappunto nei confronti del decreto governativo, i 20 punti che devono seguire imprenditori e lavoratori in piena emergenza covid per ottenere un prestito. Da ciò si deduce che le persone sono state lasciate in balia della burocrazia inestricabile e lenta, e quindi senza soldi. Infine posso dire che serviva più coraggio e visione per impostare la nuova fase. C’è in ballo la tenuta del sistema produttivo e il rischio che interi settori dell’economia perdano quote di mercato a vantaggio di aziende di altri paesi. Senza un piano strutturato, l’Italia non riparte ma rischia una crisi economica, occupazionale e sociale. Non siamo davanti alla fase due, ma alla uno e mezzo scarsa. Quello che è mancato è il coraggio per impostare una nuova fase, quella che ci deve portare ad un nuovo rinascimento.

Fabio Savelli per il “Corriere della Sera” il 29 aprile 2020. Un documento di 22 pagine che calcola fino a 100 scenari diversi partendo dalla data del 4 maggio. La relazione del Comitato tecnico-scientifico - di cui fanno parte Silvio Brusaferro, presidente dell' Istituto superiore di sanità e Ranieri Guerra, rappresentante dell' Organizzazione mondiale della Sanità - finisce sul tavolo del premier Giuseppe Conte alcuni giorni fa ed è un bagno di realtà per chiunque a Palazzo Chigi pensava di allentare in maniera più decisa le misure restrittive. In 46 scenari il fattore R0, che indica il tasso di replicabilità del virus, resta ampiamente sopra l' 1, il parametro di riferimento per tenere a bada la curva epidemica. La tabella decisiva è la 2, che calcola le infinite variabili prese in considerazione per classi di età prendendo in esame «una trasmissibilità ridotta del 15%-25% rispetto a quanto osservato a inizio epidemia» per effetto del maggior uso di mascherine e per una popolazione più attenta al distanziamento sociale. Lo scenario A, quello della riapertura totale che riporterebbe le lancette a febbraio, è solo un caso-scuola. I numeri fanno rabbrividire. Se aprissimo tutto dal 4 maggio avremmo fino a 151 mila persone in terapia intensiva contemporaneamente con il picco previsto per l' 8 giugno. Entro fine anno i pazienti da intubare in insufficienza respiratoria sarebbero oltre 430 mila. Anche solo chiudendo le scuole lasciando gli altri settori aperti e non ragionando sulla mobilità e sul telelavoro oltre 109 mila persone finirebbero in terapia intensiva il prossimo 8 agosto. Un' ecatombe per qualunque sistema sanitario. I risultati elaborati dal Comitato spiegano in maniera inequivocabile le scelte dell' esecutivo. «Riaprire le scuole innescherebbe una nuova e rapida crescita epidemica di Covid-19» portando «allo sforamento del numero di posti letto in terapia intensiva attualmente disponibili». Per il commercio e la ristorazione «un aumento di contatti è da considerarsi un' inevitabile conseguenza dell' apertura di tali settori al pubblico e può potenzialmente innescare nuove epidemie». Così si comprende la scelta di far ripartire soltanto alcune attività: «Gli scenari compatibili con l' R0 sotto la soglia di 1 sono quelli che considerano la riapertura dei settori legati a edilizia e manifattura». Il Comitato mette nero su bianco anche alcuni elementi di incertezza che lasciano spazio a un margine di errore. Come il «valore dell' efficacia dell' uso di mascherine per la popolazione generale dovuto a una limitata evidenza scientifica» oppure variabili non misurabili come il «comportamento delle persone dopo la riapertura in termini di adesione alle norme sul distanziamento e all' efficacia delle disposizioni per ridurre la trasmissione sul trasporto pubblico». Elementi che «suggeriscono di adottare un approccio a passi progressivi» per un arco di tempo «di almeno 14 giorni accompagnata al monitoraggio dell' impatto del rilascio del lockdown sulla trasmissibilità di Sars-CoV-2». Non a caso la durata dell' ultimo dpcm, la cui scadenza è il 17 maggio. Aggiustamenti progressivi, quindi, ogni due settimane.

Fase 2, cosa dice il documento che ha frenato il governo sulla riapertura? Laura Pellegrini il 28/04/2020 su Notizie.it. Il governo ha pianificato la fase 2 sulla base del documento di riapertura presentato dal comitato scientifico: da cosa è stato frenato? Nella conferenza stampa del premier Conte di domenica 26 aprile molti italiani si aspettavano un passo decisivo e fermo del governo di fronte alla possibile riapertura. In troppi, però, sono rimasti delusi dal fatto che nulla o poco sia cambiato rispetto alla fase 1 e – se parrucchieri, estetisti e ristoratori hanno dato il via a una protesta – i cittadini non sono stati da meno. A partire dalla possibilità di incontrare i congiunti, il giorno seguente l’annuncio dell’inizio della fase 2, l’Italia è entrata nel caos. Ma il governo ha pianificato la riapertura basandosi su un documento elaborato dal comitato tecnico scientifico: che cosa potrebbe averlo spinto alla cautela?

Fase 2, il documento sulla riapertura. “Analizzando i dati sull’andamento del contagio appare evidente che lo spazio di manovra sulle riaperture non è molto“. Questa è la premessa che il comitato tecnico scientifico ha posto in calce al documento sulla riapertura in vista della fase 2. Una ripresa – quella dal 4 maggio – che, secondo la task foce guidata da Silvio Brusaferro, deve mantenere “un approccio di massima cautela“. Una relazione di 22 pagine che “presenta la valutazione dei rischi di diffusione epidemica per la malattia Covid-19 associata a diversi scenari di rilascio del lockdown introdotto l’11 marzo sul territorio nazionale”. Potrebbe essere stato questo documento a frenare il premier di fronte alla ripresa. La riapertura porterebbe con sé un inevitabile aumento dei contagi e vi sono in particolare alcuni settori dove la diffusione sarebbe molto semplice. Mentre per il settore edile e manifatturiero – scrivono gli esperti – questo scenario può considerarsi realistico, per il settore commerciale e di ristorazione un aumento di contatti in comunità è da considerarsi un’inevitabile conseguenza dell’apertura di tali settori al pubblico, e può potenzialmente innescare nuove epidemie. Sulla base di grafici e studi epidemiologici, il comitato arriva a definire alcuni punti sui quali prestare particolare attenzione.

I dati da considerare. Esistono, come detto, alcuni particolare settori di produzione e di aggregazione che potrebbero far scoppiare focolai incontrollabili e sui quali occorre prestare attenzione. La riapertura delle scuole – ad esempio – aumenterebbe in modo significativo il rischio di ottenere una nuova grande ondata epidemica in quanto muoverebbe masse di studenti che dai mezzi pubblici si ritroverebbero negli istituti scolastici. Ma un simile discorso, secondo gli esperti, vale per tutti gli scenari di riapertura in cui si prevede un aumento dei contatti in comunità. Un successivo punto riguarda invece la riapertura dei soli settori professionali (mantenendo le scuole chiuse), che provocherebbe un numero di contagi superiore al numero di terapie intensive disponibili a livello nazionale (circa 9000). Altre due ipotesi riguardano invece l’adozione delle protezioni. Nell’ipotesi in cui l’adozione diffusa di dispositivi di protezione individuale riducesse la trasmissibilità del 15%, “gli scenari di ripresa del settore commerciale potrebbe permettere un contenimento sotto la soglia epidemica solo riuscendo a limitare la trasmissione in comunità negli over 60 anni”. Se, invece, l’adozione diffusa di dispositivi di protezione individuale riducesse la trasmissibilità del 25%, “gli scenari di riapertura del settore commerciale e di quello della ristorazione potrebbe permettere un contenimento sotto la soglia solo riuscendo a limitare la trasmissione in comunità negli over 65 anni”. Questo significa che “l’utilizzo diffuso di misure di precauzione, il rafforzamento delle attività di tracciamento del contatto e l’ulteriore aumento di consapevolezza dei rischi epidemici nella popolazione, potrebbero congiuntamente ridurre in modo sufficiente i rischi di trasmissione per la maggior parte degli scenari sin qui considerati”.

Conclusioni. Infine, gli scienziati traggono alcune conclusioni. La prima riguarda un particolare dubbio sull’efficacia dei dispositivi di protezione. “Ci sono delle incertezze sul valore dell’efficacia dell’uso di mascherine per la popolazione generale dovute a una limitata evidenza scientifica oppure variabili non misurabili”. Queste incertezze, quindi, “suggeriscono di adottare un approccio a passi progressivi. Per questa ragione – proseguono – appare raccomandabile la sperimentazione delle misure (magari considerando una riapertura parziale delle attività lavorative) per un arco di tempo di almeno 14 giorni accompagnata al monitoraggio dell’impatto del rilascio del lockdown sulla trasmissibilità di SARS-CoV-2″. Ed è proprio quello che il governo ha deciso di fare: un graduale allentamento delle misure per alcune attività con l’istituzione delle cosiddette soglie sentinella.

Mauro Evangelisti per ilmessaggero.it il 30 aprile 2020. I